Finalmente, diranno molti di voi.
Dopo diciassette mesi, dopo almeno dieci riscritture, dopo impegni lavorativi e universitari, finalmente riesco ad aggiornare. Un soffio di vita-Giorni d’inverno, con questo capitolo, si avvia definitivamente alla sua conclusione. E lo fa con calma; molta, moltissima calma.
Per essere precisi, e per frustrare un po’ di aspettative, in questo capitolo non compariranno affatto Alessandra e Sesshomaru, se non nelle parole e nei ricordi di altri personaggi. Di contro, il prossimo, Lucciole, sarà interamente dedicato a loro, e al loro rapporto. Alla sua evoluzione (o involuzione?).
Quarantasettesimo capitolo, dunque. Neutro, sotto un certo aspetto. Perché non aggiunge,
ne sono consapevole io per prima, molti elementi allo sviluppo immediato della
trama. Al contrario, sembra gettare ancora più interrogativi e non dissipa
alcune zone d’ombra. Al contempo, però, è un capitolo fondamentale. Perché riprende
il tema delle diversità che intercorrono fra youkai e ningen e soprattutto
getta le prime basi per la seconda parte della storia e anche per la terza. Elementi
che, adesso, sono più che altri accessori, ma che in futuro avranno
la loro giusta, importante, collocazione. Capitolo di aggiunta, anche. Perché, forse per la prima volta in modo significativo, si affaccia la realtà mitologica e culturale
cinese. Shin è cresciuto con i suoi fratelli in Cina; ne ha respirato
l’essenza, ne ha percepito la distanza con il Giappone. Nelle future due parti,
Capitolo sui personaggi “secondari”, in un certo qual modo. E, come accennato, si toccano alcune questioni che non ho ancora voluto risolvere del tutto. Si parla del passato di Kumamoto; della situazione di Koga e Koji/Najiya; delle decisioni di Shin. E di Naraku.
L’ultimo paragrafo, confesso, è stato tremendo da scrivere. E ancora non ne sono persuasa. Perché è l’ultima comparsa che Naraku avrà nella mia storia, almeno in modo diretto. La seconda parte, Un soffio di vita - Fiori di lycoris (così vi ho svelato anche il titolo^^), sarà ambientata vari anni dopo la sconfitta di Naraku, che di conseguenza tornerà solo a livello mnemonico. Però. Però Naraku è un personaggio splendido, e lasciarlo mi è stato davvero difficile. Per mia abitudine a non stravolgere troppo le trame dei manga di partenza, la storia di Naraku prosegue così come l’ha descritta Rumiko Takahshi nel manga. Non posso ancora assicurare di non apportare alcune varianti (soprattutto alla luce del finale di Inuyasha che mi ha lasciato delusa proprio nei confronti di Naraku). Comunque, in questo ultimo paragrafo, ho tentato (tentato, va bene? Non so se posso sperare non di esserci riuscita appieno, ma almeno di aver lasciato intravvedere l’intenzione) di renderne la complessità, la tensione fra parte umana e demoniaca.
Vedremo.
Intanto, il prossimo capito è già in lavorazione, e a buon punto. Non posso garantire una imminente e svelta pubblicazione, soprattutto a causa di scadenze universitarie da rispettare. Tuttavia, e questo capitolo ne è in sostanza la prova, ribadisco che è mia ferma intenzione concludere Un soffio di vita. Nella sua trilogia.
Come di consueto, ho aggiornato il dizionarietto; e infine ringrazio infinitamente tutti coloro che continuano a seguirmi e aspettare e che hanno la gentilezza di recensirmi.
Grazie a Lete89, Lara, Flavia e Francesca per il sostegno che mi avete dato in tutto durante questi mesi.
Grazie a Celina, Eiby, KaDe, Yoi, Kaimi_11 per le splendide parole che mi usate e per la gentilezza che mi mostrate. Infine, grazie ad Achiko, e scusami per il lunghissimo silenzio.
Grazie. Davvero.
CAPITOLO 47
RESA
“La devo ringraziare, Kumamoto-san”
Kyoko abbassò appena la testa e strinse le mani in grembo. Il giardino del kyuden dell’Ovest è da sempre un piccolo capolavoro di armonia. Lo sfondo montano si armonizza con i cipressi e i cedri. Il verde delle magnolie e il violaceo del pyrus si specchiano nelle acque, e in fondo il lago, con il rì rivestito di lacche, madreperla e foglie d’oro che sembra galleggiare prima di aprirsi nel tsuridono. L’equilibrio di alberi e arbusti, bambù e sempreverdi sembrava non esser mai stato scalfito. In poco più di un mese, le tracce della guerra, la desolazione lasciata dopo che l’esercito era stato congedato erano sparite. E il tempo era tornato a scorrere in quel modo immobile che è proprio di loro youkai e dei luoghi che appartengono loro.
Non era cambiata, nel tempo. La residenza dei Principi di Nishi emanava la stessa solennità e rarefazione del passato. Kyoko si concesse di indugiare sulle pietre leggermente sollevate che segnavano i sentieri fra l’erba bassa e la ghiaia. Li aveva percorsi molte volte: spaesata dopo aver lasciato Yezo; stringendosi il ventre leggermente gonfio quando aspettava Shin; scalpitando per l’ostinazione di suo marito di precluderle gli scontri e le battaglie. Le lasciava il governo del Kansai, ma non la voleva come compagna in campo. In quelle occasioni, invidiava…Come le avevano detto che era stata chiamata? Saiyuri. Sì, Saiyuri.
Inutaisho aveva deciso così. Quando sua moglie è morta, ha deciso quel nome. L’altro, quello che aveva in vita, quello che faceva tremare demoni potenti ed era pronunciato con reverenza e timore, quel nome era solo un pallido ricordo. Forse il Principe non lo rammentava nemmeno. Kyoko non se ne sarebbe stupita. Doveva essere molto piccolo quando sua madre era morta. Già: morta. Non lo sapeva. Sul Continente quella voce non era mai giunta. L’ultima volta, l’aveva vista su un molo, prima dell’esilio. Appoggiata al braccio del marito e con il kimono che nascondeva a fatica la sua gravidanza orami alla fine. L’erede dell’Ovest sarebbe nato di lì a pochi mesi. E lei non era stata presente.
Sesshomaru-sama assomigliava molto alla madre. Kyoko dovette riconoscere a se stessa di essere rimasta colpita dal giovane Principe. Lo aveva visto solo di sfuggita, e non aveva avuto occasione di presentarsi come vorrebbe l’etichetta. Eppure, quella sera che era rientrato a palazzo grondante sangue e sudore, con la ningen fra le braccia, Kyoko aveva scorto nei suoi occhi quella luce fiera e determinata che velava sempre lo sguardo di Saiyuri. La fisionomia richiamava quella del padre, certo. Ma Kyoko non si poteva far trarre in inganno. La postura altera e al contempo fluida ed elegante; il mento che si alza leggermente in concomitanza ad una sfida, al proprio prestigio da affermare; la linea dritta del naso e le sopracciglia sottili, le dita lunghe e affusolate delle mani. E poi lo spicchio di luna che si fa intravvedere fra i ciuffi della frangia, il rosso pallido delle striature sul viso. Kyoko non era riuscita a vederlo bene, ma nei giorni della sua convalescenza, quando si aggirava nel padiglione che era stato riservato a lei e ai suoi figli, aveva consumato ore davanti ad un ritratto in tecnica sumi-e del Principe. Sesshomaru dimostrava circa vent’anni; armatura e pelliccia adagiata sul braccio; al fianco due katana e poi gli occhi. Sfuggenti verso l’infinito. Lo aveva studiato attentamente, in quel ritratto. Conforntandolo con il bambino di setto otto anni dagli occhi ancora grandi e un po’ lattiginosi. Un bimbo in kariginu, con i capelli tagliati alle spalle e senza alcuna arma. Doveva risalire circa al periodo in cui era morta sua madre. Poco prima di perdere del tutto la fanciullezza.
Kyoko stiracchiò un sorriso e sistemò una piccola ciocca sfuggita al kanzashi. Kumamoto continuava a fissare le increspature dell’acqua oltre il piccolo declivio della collina. In quelle settimane, il tempo sembrava aver iniziato a scorrere al contrario per loro; probabilmente erano solo i capelli striati di bianco del generale e il viso stanco e affaticato a ricordar loro che gli anni, inesorabili, erano trascorsi. Non ne portavano segni evidenti, ma c’erano; e per quanto loro youkai avessero un altro tempo, un altro modo di percepire l’evolversi della vita, per quanto le stagioni si avvicendassero davanti ai loro occhi in un eterno ciclo e riciclo che si annullava in un solo frammento di stagnante presente, nonostante tutto questo, qualcosa era cambiato. E il solo cambiamento bastava a scandire un prima e un dopo.
Adesso è dopo.
Dopo la battaglia; dopo la morte di Morigawa e del Sensei; dopo la prigionia dei signori del Kansai. Dopo; dopo; dopo. Kyoko dilatava quella percezione facendola risalire agli anni trascorsi nel Continente; allargava il tempo avvolgendo il miscuglio di rimpianto e risentimenti, la delusione e l’abbandono cui non si era opposta. Suo marito l’aveva estromessa a poco a poco, ma in modo inesorabile. Passo dopo passo; gesto dopo gesto. Una oiran nuova nelle stanze private; un kimono intravisto nella scatola e subito smarrito fra corridoi sempre più ostili, sempre più differenti. Aveva il suo prestigio, la sua forza orgogliosa che le imponeva di non supplicare, di non chiedere. Restava la kogo del Principe del Kansai, la madre dell’erede, del futuro della stirpe. Ed era solo quello. Solo e unicamente quello.
C’erano giorni trascorsi nell’apatia, rimescolando nello stomaco emozioni ormai lontane, smarrite totalmente. Perché l’amore di un demone è talmente avvolgente, talmente estraneo da coinvolgimenti secondari, che è assieme pieno e devastante. E il tradimento. Il tradimento non è gelosia, rabbia, sconforto. Semplicemente il cristallizzarsi dell’amore, e poi il crepitio del vetro che si crepa. Kyoko non era stata gelosa del marito. Aveva smesso semplicemente di amarlo; e dentro le era rimasto il vuoto. E il male. Un male che si era chiesta infinite volte quanto assomigliasse a quello delle ningen. Anche loro erano tradite, anche loro erano costrette ad accettare. E poi ordinavo, tramavano, progettavano. Lei no. Lei era rimasta al suo posto, orgogliosa comunque di un compagno che ormai era solo un nome sbiadito nella mente; un’ombra di anni lontanissimi, su un campo da combattimento, con la sua bocca contro la sua.
Il tradimento. Lo conosceva e lo aveva esercitato con grande abilità. Era una yasha, e per quanto forte il suo corpo prima o dopo avrebbe potuto tradirla in duello. Allora. Allora si era affinata nell’intelletto, nell’ingegno. Aveva plasmato il suo modo di pensare secondo le regole del governo. Un governo ben diverso da quello dei ningen, una tipologia di potere che era esercizio di autorità e forza. Spietata forza. Efferatezza. E assieme era altro. Consapevolezza della loro grandezza, coscienza di sé, della propria vita infinita e assieme transitoria. L’indifferenza con cui sfiorano i mutamenti soggetti al tempo. In quel cerchio che inizia in un fagotto e lentamente cresce con la consapevolezza di essere altro; di appartenere ad un mondo diverso rispetto a quello in cui sono immersi, e che conoscono nel profondo. Fino in fondo.
Morigawa l’aveva amata. Kyoko
poteva conservare questa consapevolezza. Perché un demone comunque non può
mentire. Stiracchiò un sorriso e lisciò le pieghe dello yukata.
L’ofuro sarebbe stato libero a breve, ma la voglia di un bagno rilassante era
lentamente scemata. Socchiuse gli occhi: la nebbia
lattiginosa e quel calore umido sulla pelle quasi insensibile. Chissà
perché. Il piacere provato dalla consapevolezza di fondersi con l’acqua, di
percepire il corpo dilatarsi e scorrere in ogni particella d’acqua, in ogni
goccia che scivola oltre il bordo, che scende lentamente verso la canaletta di
scolo; rotolare e aprirsi nella terra. Ascoltare una parte di
sé smaterializzarsi in vapore e una parte penetrare nella terra molle.
Né calda né fredda. Solo molle. E nel buio. O salire nel sole
e poi tornare. Pioggia, tempesta o neve. Era brava in quello; come tutti
loro youkai. Alienazione le aveva detto una volta un onmyoji che si era rifugiato nelle loro terre, a Yezo. I ningen impiegano
anni e anni, e spesso falliscono, per raggiungere
quella condizione che permette loro di estraniarsi dal loro corpo. E seguire
semplicemente il loro sentire con il pensiero. Kyoko non aveva compreso,
allora. Non aveva compreso la difficoltà, non aveva concepito la possibilità
per un ningen di fondersi con il mondo come loro stessi facevano. Non aveva
capito.
E poi aveva visto. Con i suoi occhi; durante i secoli
di esilio sul continente. Yogin li chiamavano.
Uomini che avevano valicato le montagne bianche dell’interno. Lì dove dimorano
gli spiriti di quella terra che aveva, volente o nolente, accettato come sua
nuova dimora. Yogin si facevano chiamare; magri e
scheletrici nel corpo, ma aveva sentito provenire da loro il pieno controllo
della mente. Una conoscenza così diversa da quella demoniaca, ma che era
riuscita a suscitare il suo interesse, a smuovere la sua difficile curiosità.
Il prana che risiede nel corpo e su cui si fa leva, e al suo interno pensiero,
intelligenza e fede. Kyoko aveva avvertito l’anima dello yogin
fluttuarle accanto, mentre il suo corpo si immobilizzava e sembrava rinsecchire
sulle sue stesse ossa; occhi vuoti arrovesciati all’indietro a mostrare il
bulbo bianco e una litania echeggiare ovunque, senza provenienza. Lo aveva
seguito nella sua esplorazione, nel suo peregrinare metafisico. E al contempo
era rimasta a studiare la rigidità del suo corpo; l’odore di morte che
lentamente aleggiava. Diverso da quella che lei stessa sapeva dare, eppure
dettato dalla stessa sottile, latente consapevolezza. L’odore di quel terrore
che attraversa la mente un istante prima di dissolvere
il pensiero. Il dubbio, il terrore, o forse l’angosciante
consapevolezza di non poter tornare.
Lo aveva scoperto; o forse semplicemente intuito. La differenza con i
ningen. Loro devono comunque morire; in un modo o nell’altro, definitivamente o
solo per un breve periodo, loro muoiono. E diventano solo pensiero, solo proiezione indefinita. Se ne distruggi il corpo, è la
fine completa. Loro youkai no. Loro sono nel petalo che scorre su un letto
d’acqua, nel vento che attraversa gli aceri sulle montagne e ridiscende lungo
le vallate, nel refolo che accarezza le betulle e s’insinua fra i bambù prima
di precipitare fra i ciuffi secchi della spiaggia e poi nel mare. Sono nella
pioggia che cade, si infrange nella terra o si immerge
nell’assoluto dell’acqua; sono nella danza ipnotica della neve. E sono anche
nel luogo del loro corpo, con i sensi tesi a fondersi e a captare il movimento.
Rilassati e assieme pronti allo scatto. Addormentati e vigili. Perché il loro
riposo è la fusione e la natura stessa vibra d’istinto davanti al pericolo. Senza spezzare l’equilibrio, senza smettere di seguire le
increspature dell’acqua.
Avrebbe voluto parlarne con Saiyuri. Avrebbe voluto insegnarle un altro
modo di disprezzare. Non approvava i ningen, Saiyuri. Non li avrebbe mai approvati, Kyoko lo sapeva bene. Forse nemmeno per
compiacere suo figlio. Era orgogliosa, Saiyuri. Lo stesso orgoglio di
Sesshomaru-sama. La freddezza che non si liquefà se non nel
buio, nell’oscuro. E quel leggero sorriso che accompagnava
l’inclinazione della testa; un cenno di quieta apparente accondiscendenza.
Mentre risistemava con eleganza la pelliccia bianca o fermava una ciocca di
platino. Era altera, Saiyuri, e consapevole di chi fosse. Del ruolo che avesse.
E che avrebbe avuto suo figlio.
“A Sesshomaru-sama manca. Anche se non lo sa”
Kumamoto si sedette di nuovo sullo zabuton. Quella conversazione non era stata delle più piacevoli, ma non gli era pesata nemmeno quanto si era immaginato. Quando Kyoko-sama gli aveva chiesto se potesse prendere un tè con lei, il vecchio generale aveva subito percepito la stranezza. Negli anni prima dell’esilio aveva avuto modo di conoscere Kyoko e soprattutto di apprezzare la sua abilità. Sviava i demoni. Inganno lo avrebbero definito i ningen, crede. Ma non lo è. Per loro demoni, se cadi in una trappola non è stato l’avversario ad ingannarti, ma tu a non prestare attenzione alle sue mosse, alla tattica cui voleva ricorrere per allentare la tua concentrazione. E Kyoko era maestra nello sviare la mente. Gli anni di esperienza a capo di Yezo, reggendo le sorti del loro regno con suo fratello, le avevano conferito l’intelligenza fine e la velocità di ragionamento per cui eccelleva fra le yasha.
Aveva capito che voleva qualcosa, nonostante la pacatezza quasi remissiva della richiesta. Aveva immaginato ragguagli sulla battaglia; aveva ipotizzato la storia della morte di suo marito o forse delucidazioni riguardo il destino suo e dei suoi figli. Alle prime due possibilità, Kumamoto avrebbe saputo rispondere tranquillamente. Le immagini di quel giorno erano stampate vivide nella sua mente. Assieme a quelle della prima volta che era sceso in campo con Inutaisho e Morigawa. Si era sfiorato in un gesto automatico l’occhio cieco. Lo aveva perso per proteggere Inutaisho e non se ne era mai pentito. Quella folle spedizione di loto tre, per risolvere una situazione che avrebbe altrimenti costretto il vecchio Principe a scendere in campo, e non era in condizioni per farlo. Avevano vinto, quella volta, ma Inutaisho c’era andato vicino. Troppo vicino dall’essere ucciso in battaglia. Aveva squarciato la tigre appena in tempo; veloce abbastanza da impedirle di sgozzare Inutaisho, ma non a sufficienza per evitare la zampata che gli aveva maciullato il volto e strappato il bulbo. Kumamoto non ricorda nemmeno il dolore. Solo l’urgenza di uccidere quel maledetto gattaccio e portare via Inutaisho. Dal Sensei. Erano andati da lui, perché le ferite del demone erano gravi. Molto gravi. Inutaisho aveva impiegato due mesi a recuperare le forze; pochissimo considerando che a quel tempo era ancora un ragazzino. E nello stesso tempo, Kumamoto si era accorto che il suo viso ritornava normale: restava solo l’orbita vuota e la cicatrice profonda, un segno che nemmeno la sua youki ancora giovane poteva rimarginare.
Aveva immaginato che Kyoko gli avrebbe chiesto del Sensei; di come si fosse presentato all’improvviso sul campo di battaglia. In forma canina, gli occhi grigi brillanti di youki. Il modo in cui aveva azzannato alla gola Morigawa un istante prima che potesse chiudere le fauci su Sesshomaru. E rotolare verso il fondo della piana, auree a scontrarsi e furia che era più istinto cieco e ferino che razionalità demoniaca. La forma animale concede a loro youkai il pieno potere della loro natura, ma può stravolgere il modo di percepire il mondo. Può annullare la razionalità selvaggia e trasformarla in puro istinto. È la fusione totale del loro essere con l’essenza stessa della natura. E può essere devastante. Soprattutto per loro taiyoukai. Non è la perdita del loro io, non sono hanyou che si lasciano sopraffare dal sangue demoniaco; è diverso. È profondamente diverso. Il loro io al massimo grado, in un controllo assoluto e insieme istintivo. Sono pienamente se stessi e bramano la perfezione assoluta che nemmeno loro possiedono: la perfezione dei Kamigami.
Aveva immaginato di dover parlare di quello. E invece Kyoko lo aveva sorpreso chiedendogli della Signora, della moglie di Inutaisho. Saiyuri. La poteva chiamare solo così, ormai. Il nome che Inutaisho aveva scelto per lei; forse il nome che avrebbe sempre voluto rivolgerle. Se ne era andata presto, Saiyuri. Troppo presto. Presto per Inutaisho; presto per Sesshomaru. Assomigliava alla sua prima moglie. Composta e fiera. Orgogliosa. Ma in fondo era l’erede delle terre di Higashi.
E forse non avrebbe mai accettato
Alessandra-san. Kumamoto si sorprese del leggero sorriso che gli attraversò le
labbra. Le rivalità fra yasha non erano mai state di suo interesse, ma l’idea
di come avrebbe giocato Sesshomaru quella partita lo
divertiva.
Assaporò il maccha in tre piccoli sorsi, socchiudendo gli occhi. Avrebbe preferito del sake, ma era molto tempo che non aveva qualcuno con cui berlo. Il suo primogenito era morto da almeno un secolo, e con lui anche gli altri figli. Gli restava solo Homoe. Avrebbe preferito il sake, ma non è decoroso invitare una donna, anche una yasha, a berlo. Forse una sera lo avrebbe proposto a Inuyasha. Ruotò lentamente la chawan; un sottile strato di polvere verdina galleggiava pigramente. Lo avrebbe visto verso sera. Inuyasha si stava impegnando al meglio delle sue possibilità per non deludere Sesshomaru e mantenere una situazione di equilibrio a corte, ma non era facile. Non era affatto facile; soprattutto per lui che non aveva ricevuto alcuna educazione in campo governativo. Kumamoto si sorprese a seguire il profilo di Kyoko. I capelli dorati elegantemente raccolti e gli occhi viola socchiusi. Osservava il vuoto. Come solo loro youkai sanno fare. Il silenzio che si allarga in un manto invisibile; il vuoto che è solo assenza di movimento o movimento perfettamente armonico e compito. Perfezione assoluta. Come nel piccolo tonfo della rana che si tuffa; quel suono profondo che si annulla nell’espandersi dei cerchi concentrici, che dilatano il silenzio. E non c’è più la rana o lo stagno; solo il senso del silenzio. Euiko non lo aveva mai capito. La donna che aveva amato si era sforzata; aveva cercato di penetrare, di cogliere anche solo un piccolo barlume di quello che lui percepiva, ma non ci era mai riuscita. Arrivava appena a sfiorare la consapevolezza che il tempo scorre diversamente fra di loro. Una sottile linea che li teneva comunque divisi.
Era riuscito a farla accettare a Kita; era riuscito a riconoscere il figlio che gli aveva dato. Euiko era la sua chugu e se ci era riuscito lo doveva a Inutaisho. Alla fermezza con cui si era imposto nella Famiglia e nel Consiglio; all’appoggio incondizionato che gli aveva dato. E c’era anche Morigawa, a quel tempo. Era ancora con loro. Sounga era un nome sfumato quanto una leggenda; e loro erano quattro. Quattro demoni che stavano lentamente imparando la loro natura; le diversità fra Kami, ningen e youkai. La forza e l’indifferenza che i ningen chiamano misericordia.
“Cosa vorreste, Kyoko-sama?”
Era da più di un mese che voleva porle quella domanda, sapere cosa desiderasse. Kyoko si limitò a stringere compostamente le mani in grembo. Cosa voleva? Era un quesito che martellava la sua testa da quando aveva razionalizzato di essere nel Palazzo dell’Ovest. Da quando aveva saputo che Sesshomaru se ne era andato con una ningen e aveva affidato la reggenza ad un hanyou, al suo fratellastro. Avrebbe potuto approfittarne; un ragazzino inesperto, in balia di se stesso, non sarebbe stato difficile da raggirare e fargli preparare un accordo pienamente vantaggioso per lei, per i suoi figli e per il Kansai. Ma era davvero il Kansai che voleva? O bramava piuttosto la nuova casa, sul Continente, oppure riavvertire il pizzicorio leggero dell’aria gelida di Yezo? Hidesuke andava a trovarla due volte al giorno e stava cercando di convincerla. Le dipingeva davanti il ritorno al passato. Quando era la hime di Yezo, una delle yasha più importanti e influenti. Una yasha indipendente. Kyoko sorrideva dei progetti di suo fratello, scuoteva elegantemente il capo e gli stingeva una mano. Una mano grande e un po’ imbarazzata. Hidesuke non si era mai abituato alle attenzioni della sorella; finchè era un cucciolo le trovava piacevoli, ma crescendo aveva iniziato a trovarle costringenti. In più, non è molto piacevole avere addosso gli occhi dell’intera corte e il sorriso di quieta accondiscendenza. Kyoko lo aveva viziato in un certo senso; come sorella maggiore e con la sua abilità diplomatica oltre che bellica era riuscita a ritardare fino all’ultimo la sua successione. Alla corte di Yezo si era mormorato anche che Kyoko-hime progettasse l’assassinio del legittimo Principe, per essere lei la sola, la prima yasha a succedere al comando di un Clan inuyoukai. Hidesuke conosceva le voci e ne sorrideva quasi compiaciuto. Lo lusingava l’idea che gli youkai temessero sua sorella, in quanto era il metro con cui si poteva misurare il suo prestigio e assieme l’influenza che sapeva esercitare. Per quanto riguardava la veridicità di quelle chiacchiere, non ci prestava la minima attenzione. C’era un tacito patto, fra lui e sua sorella. Kyoko avrebbe retto il regno finchè fosse stato suo desiderio e lui non si fosse sentito pronto a sfidarla nella prova di successione. Doveva guadagnarselo, il diritto di controllare gli inuyoukai di Yezo. Poi. Poi c’era stata la sua vittoria, il matrimonio e Morigawa alla corte di Yezo. E Kyoko aveva lasciato le sue terre.
Adesso, Hidesuke le proponeva di tornare. Miwako avrebbe potuto imparare molto da lei, e poi lo aggradava molto l’idea che sua sorella lo potesse consigliare per l’istruzione di Eisaku. Desiderava molto che suo figlio crescesse con lo stesso orgoglio suo e della sua stirpe, che non accadesse mai che si sentisse secondo rispetto a Shin e Yashi. Ma Kyoko non rispondeva mai ai suoi inviti. Si limitava a ricordargli la condizione sua e dei suoi figli, di come loro fossero semplicemente gli sconfitti. E poco importava, alla fine, che Morigawa fosse stato l’unico artefice di tutto. Poco importava che lei, Yashi e Koji fossero stati imprigionati e torturati; che Shin avesse deciso spontaneamente di collaborare con Sesshomaru. Le loro regole erano precise: i signori del Kansai dovevano rimettersi al volere di Nishi. Kyoko non osava farsi illusioni; Sesshomaru poteva chiedere anche le loro vite.
Ma se avesse davvero potuto scegliere. Se avesse potuto farlo, Kyoko si accorse all’improvviso di non avere una risposta. Perché niente sarebbe più stato come prima. Il tempo, quel tempo che per loro scorre quasi indifferente, per la prima volta aveva assunto una consistenza corporea e pesante; una cappa che la schiacciava a terra, rimbombandole nelle orecchie con la violenza di uno tsunami. Passato; passato; passato. Con o senza Morigawa, Kyoko aveva perso. Perso qualcosa che aveva costruito nel tempo, con una consapevolezza lasciata altrimenti fluttuare leggera e inconsistente. Perdere un figlio in battaglia sarebbe stato normale. Era preparata a quella possibilità con la consapevolezza della sua natura. Uno youkai è eterno; non è immortale. Sarebbe stato naturale. Nulla di più. E avrebbe sorpassato il lutto senza lasciarsene piegare. Un dolore profondo che l’avrebbe avvolta, ma non annullata. I ningen si lasciano consumare dal dolore. Non gli youkai. Lo avvertono nella sua massima espressione, in quell’interezza che trascina nelle ombre della terra. Un frantumarsi continuo vorticoso. Ma lo vivono accettandolo. Il dolore, come la gioia, la sofferenza e l’amore sono sentiti nella loro espressione più alta e semplicemente lasciati scorrere sulla pelle. Sono nell’armonia stessa di cui loro sono espressione. Non ha motivo d’esserci rimpianto, per un demone. Non il rimpianto umano. E nemmeno malinconia.
Ma se avesse potuto scegliere. Cosa avrebbe fatto, allora? Sarebbe tornata a casa, certo. Ma dov’era, la sua casa? Le vette ghiacciate di Yezo o quel palazzo che Morigawa aveva fatto ricostruire, pezzo dopo pezzo, nel delicato Kansai. Oppure il Continente. Kyoko socchiuse gli occhi. Forse era ridicolo pensarci, non era facilmente prevedibile che il Principe lasciasse loro quella scelta, la libertà della scelta. Ma immaginare, ipotizzare, era un gioco cui si era sempre prestata volentieri. Elaborare ogni possibile situazione e avere sempre pronta la risposta, la soluzione. Precisa e inesorabile come un fendente dei suoi lunghi artigli. Kyoko aveva fatto della voce la più letale delle sue armi, ma zanne e unghie non erano meno pericolose; benché capitasse che i suoi avversari se ne dimenticassero, avvolti dalla sua garbata e arguta dialettica.
Tuttavia, Kyoko dovette arrendersi alla consapevolezza che serpeggiava nella sua mente: non aveva risposte. Se avesse potuto scegliere, non sapeva cosa decidere. Perché comunque, in un modo o nell’altro, avrebbe perso qualcosa. Shin era stato categorico e irriducibile al dialogo come poche volte. Se Sesshomaru glielo avesse concesso, sarebbe tornato nel Continente. In esilio e per sua scelta, l’importante era tornare. Glielo aveva detto pochi giorni dopo che era bruciato lo shinden del corpo principale. In una afosa giornata, con il sole che filtrava pesante fra le listelle di bambù e il frinire assordante delle cicale. Si era rimesso in fretta, il suo primogenito. Nonostante l’imprudenza commessa scendendo in campo senza tener presente le sue ancora instabili condizioni fisiche, le ferite si erano ormai rimarginate. Il passo era ancora un po’ claudicante, ma aveva ripreso l’andatura fiera ed eretta che gli era propria. Quando lo aveva visto sfinito e coperto di sangue sul campo di battaglia, all’interno delle mura del palazzo dell’Ovest aveva temuto in uno strano scherzo dovuto alla stanchezza e ad una verità dura da accettare anche per una yasha. Ma poi. Poi Shin le si era avvicinato; tendendo quasi senza accorgersene la mano e sorreggendosi alla spada. E Kyoko aveva rivisto un cucciolo muovere incerto i primi passi su un tatami orlato d’ocra; sollevarsi fra le gambe del padre e gattonare. Puntare i teneri artigli e sollevare le gambette alla ricerca di un precario equilibrio. Era ruzzolato per terra due volte, ma alla terza aveva guadagnato una precaria stabilità. I primi passi verso l’engawa dove lei sedeva; prima incerti e poi mutare, in una goffa e spensierata corsa che Shin aveva conclusa ridendo fra le sue braccia, prima di voltarsi verso il padre con un ditino in bocca. Inconsapevole di cosa esattamente significasse quel suo naturale crescere. Morigawa aveva sorriso. Una delle ultime volte che suo marito avesse sorriso. E su quella piazza d’armi ingombra di cadaveri Kyoko aveva ricercato per forza d’abitudine il compagno. Era stato un attimo, ma non aveva potuto impedire ai suoi occhi di spaziare lungo le mura, sui ballatoi, fino al corpo centrale alla ricerca di uno sguardo che ormai, lo sapeva lei per prima, sarebbe naufragato nella sua memoria.
Le forze avevano abbandonato Shin a pochi passi da lei e suo figlio aveva semplicemente chiuso gli occhi, troppo stanco anche solo per tentare di fermare la propria caduta. Kyoko lo aveva visto scendere verso terra al rallentatore e benché impartisse ai suoi muscoli l’ordine di muoversi, restava immobile. E intanto Shin cadeva. Shin. Shin vivo davanti a lei; Shin che zoppica verso di lei e poi si abbandona alla spossatezza. Suo figlio che accetta le mani di una yasha per ritrovare l’equilibrio, il corpo poggiato sul suo petto e il respiro affannoso regolarizzarsi lentamente verso un sonno esausto. Homoe che sembra cullarlo come se fosse un cucciolo, in gesti innati e quasi malinconici. E poi alzare gli occhi a fissarla; senza astio o felicità. Semplicemente rassicurandola, benché gli occhi della yasha non dicessero nulla. O forse solo una parola: realtà. Kyoko si rivide inginocchiarsi all’improvviso nella terra lorda di sangue, gattonare con il respiro fermo in gola verso quelle figure unite, quasi abbracciate. Gli artigli incerti e quasi spaventati allungarsi a sfiorare un viso pallido e scavato, con occhiaie profonde e una sottile ferita che tagliava la fronte; la pelle di Shin era fredda, quasi livida ai suoi occhi e sapeva di sudore, stanchezza e sangue. Aveva raccolto il viso fra le mani quasi studiandolo, come se la sua mente non potesse razionalizzare che era davvero suo figlio, quello che si era accorta all’improvviso di stringere al seno, quello che aveva debolmente portato le braccia attorno alla sua vita e che cercava disperatamente di sussurrare qualche parola.
Lo stesso figlio che aveva creduto perso e che si era ritrovato inginocchiato compitamente nelle stanze assegnatele. Sfuggente e quasi colpevole mentre le comunicava la sua ferma intenzione, se fosse stata presentata l’occasione, di lasciare il trono a Yashi e ritornare sul Continente. E la preghiera aggiungersi a quelle poche parole; le uniche, aveva sottolineato, che le chiedeva di accettare non come richiesta di un figlio, ma volere del suo Principe. E il soffio che aveva aggiunto: tacere con Yashi e Koji, nascondere loro la verità di quella scelta quasi utopica. Prima scoprire cosa esattamente possano volere.
“Quando tornerà Sesshomaru-sama?”
Sapeva che non era un suo diritto chiedere; ma il generale, il Principe di Kita che le sedeva di fronte non l’aveva mai trattata come una prigioniera e benché si esimesse dal formulare promesse o elargire speranze che potevano risolversi in uno sbuffo di fumo nero, Kumamoto restava pur sempre un suo vecchio amico. Un demone con cui aveva condiviso parte della vita, di quella vita lunga e precipitata così, all’improvviso. Sapeva che non aveva diritto di chiedere, ma l’ignoranza cui l’attesa la costringeva era sfibrante. Inuyasha non aveva fatto loro sapere nulla, e non le avevano nemmeno detto se era intenzionato a parlare con loro. Poteva supporre che fosse bendisposto nei loro confronti, almeno a giudicare degli alloggi loro riservati e dal fatto che la stessa archiatra di corte fosse stata incaricata di provvedere a che i Signori del Kansai si rimettessero al meglio. Eppure, finchè non avesse saputo esattamente cosa li attendeva, non sarebbe stata tranquilla. O forse, semplicemente, non si sarebbe rassegnata. Hidesuke era ancora a palazzo, ma nonostante le lunghe conversazioni in cui si intrattenevano, suo fratello non si lasciava sfuggire una mezza parola in più del lecito. Aveva imparato troppo bene la sua arte oratoria, aveva dovuto ammettere Kyoko, raccogliendo leggermente una manica per versare un’altra tazza di tè al suo ospite e poi servire se stessa. Non aveva risposto alla domanda.
Kumamoto l’aveva sentita chiara e precisa, nonostante il tono usato fosse stato di poco superiore ad un fruscio. Ma la risposta. Quella era un arcano; un semplice e naturale arcano. Si massaggiò di riflesso il ginocchio. Dopo la battaglia aveva ricominciato a dolergli e nemmeno il rimedio di Alessandra-san aveva più effetto. Ma in fondo si era quasi abituato all’idea di quella lama che penetrava la cerne al minimo spostamento. Un buon monito, nulla da dire: i draghi sono pericolosi. Era stato quasi sicuro che avrebbe perso la gamba quando si era sentito azzannare alla coscia. Invece, per un motivo che non ricordava in modo nitido, i denti avevano rosicchiato e liquefatto solo attorno al piatto tibiale e poi erano stati costretti a mollare la presa. Il suo ginocchio era stato ridotto ad un osso incrinato e scheggiato in più punti che biancheggiava in uno squarcio maleodorante e sanguinolento. Erano stati necessari mesi prima che il muscolo e la pelle si riformasse e tornasse intatta, ma per l’acido che era riuscito a intaccare i legamenti non c’era stato rimedio e Kumamoto si era semplicemente rassegnato a convivere con quel ginocchio traditore.
Quando sarebbe tornato Sesshomaru. In verità, più del quando, lui era stuzzicato dal pensiero del come. Non si concedeva l’ipotesi che rientrasse a palazzo da solo, non dopo che lui stesso aveva portato via Alessandra-san e dato precise istruzioni su chi dovesse sostituirlo durante la sua assenza. Tuttavia, quantificare il tempo, soprattutto accostandolo a Sesshomaru, rasentava un calcolo impossibile. Un ciclo lunare, forse due. O anche di più. Il tempo necessario, forse sarebbe stata la risposta adatta. Necessario per qualunque cosa il Principe volesse fare o scoprire. Ma non poteva darla, quella risposta. Nemmeno a Kyoko. Perché poteva significare il pericolo di voci che serpeggiavano nella corte e che sarebbero potute andare a ravvivare il fuoco del malcontento e dell’insoddisfazione che già aleggiava a palazzo.
Non erano piaciute le decisioni
Sesshomaru. Dai commenti che aveva raccolto e dalle conversazioni che, più o meno involontariamente, aveva ascoltato sembrava
palese che la strage compiuta da Sesshomaru per ripristinare la sua autorità
fosse stata accettata quasi con compiacimento. Un Principe che non si fa
intimidire dai legami di palazzo ed è capace di punire per il mancato rispetto
è certamente capace di tenere a freno
Kumamoto rigirò lentamente la tazzina da tè. Vedere Sesshomaru montare Ah-Un con Alessandra fra le braccia, vedergli quello sguardo sicuro, determinato anche nella consapevolezza della pazzia, dell’errore, se proprio voleva chiamarlo così, che stava per commettere, assicurargli le katana alla sella e sfiorargli una spalla. Una sensazione già provata, assieme ad un grumo di saliva fermo in gola. Perché per un istante si era ritrovato in un crepuscolo di molti secoli prima, ai limiti dell’jinmaku mentre cercava di far ragionare Inutaisho. Lui, Hisdoshi e Morigawa. Impotenti davanti alla ferma volontà del Principe dell’Ovest, a quella sicurezza che a volte paventava un’arroganza che era esasperata copertura. C’era una donna fra le braccia di Inutaisho. Una yasha che cercava di nascondere il proprio aspetto in un’anonima corazza da soldato. C’era la bellezza pura di Saiyuri, con Inutaisho. Quando quel nome ancora non esisteva; quando quel nome non era ancora stato necessario. La foga di Inutaisho nelle sue argomentazioni; quella foga che non era solo esuberanza giovanile, ma ferma convinzione di essere nel giusto. Che fosse giusto scappare con lei; rinnegare se stesso e il suo nome, se fosse stato necessario. Ero costato molto, quel suo colpo di testa. Ma la cosa che più aveva sorpreso era stato che Saiyuri accettasse. Per un motivo forse un po’ strano, ma pur sempre per il suo motivo.
E in Sesshomaru aveva rivisto la stessa determinazione oscurata da un’ombra di timore. Inespresso e insieme presente. La consapevolezza di sapere cosa si vuole fare, cosa si sta facendo, e non volersi fermare a chiedere perché. Chissà se Sesshomaru conosceva i retroscena dell’unione dei suoi genitori. Forse gli sarebbe servito, o forse ne era già al corrente e si limitava ad ignorarla.
Quando sarebbe tornato. Picchiettò con l’artiglio la ceramica sobria. Non aveva certezze per dirlo, ma prevedeva non prima dell’autunno. E lui ormai si era rassegnato all’idea di restare a Nishi ancora per dei mesi. Avrebbe mandato Homoe nel loro palazzo di Kita appena possibile. Se ne sarebbe separato con un po’ di rimprovero, ma era la soluzione ideale. I Signori del Kansai, e Shin in particolare, sarebbero stati costretti a rimanere ancora a lungo. E la situazione poteva diventare pericolosa. E spiacevole. Soprattutto spiacevole. C’era una strana complicità fra l’erede del Kanasi e sua figlia. Una complicità che poteva rabbuiarlo; anche se a malincuore.
Vagò distrattamente per i contorni del giardino e si lasciò catturare dalle sagome in lontananza. Homoe e Shin, probabilmente; o forse l’houshi e la taijya.
“Homoe-hime-san è davvero una goccia d’ambra. Dovete esserne fiero, Kumamoto-sama”
Kumamoto inclinò appena la testa. Homoe gli ricordava in modo doloroso e assieme piacevole Tansho; il viso pallido e gli occhi d’acciaio. Gli ricordava quello che aveva perso per una sua stupida lontananza. Homoe era tutto quello che gli restava. Oltre a Sesshomaru; oltre al suo piccolo principe. Al figlio del suo più caro amico; quel demone che, lo aveva promesso, avrebbe visto crescere e cercato di aiutare come meglio era in suo potere. Homoe invece era il suo orgoglio; un orgoglio pieno e insieme velato di dispiacere. Perché adesso non poteva più lasciarla libera; perché doveva proteggerla e impedire che qualcos’altro le facesse del male. Soprattutto doveva impedire di essere lui a farle del male.
“Shin-san mi ha parlato di lei. Con entusiasmo. Non pensate…”
“No, Kyoko-sama.
Non fatemi pensare a quello che voglio e non posso”
Kyoko si morse forte il labbro. C’era rassegnazione, quasi dispiacere, nella voce di Kumamoto. E gli occhi si erano chiusi in un gesto impotente. Adesso, osservava di nuovo, la testa appena piegata, le figure scure contro la luce che andava intensificandosi. Homoe e Shin. Sarebbe stato bello; molto bello. Sarebbe stata quasi una speranza mai realmente calibrata. Quando Morigawa non aveva ancora tradito. Allora, con Shin che appena gattonava, in una notte di tarda primavera, si era abbandonato a quelle sciocche fantasticherie. Il suo primogenito aspettava solo il battesimo delle armi, e lui cercava una nuova compagna. Senza realmente metterci molto impegno, ma nemmeno disdegnando l’idea. Sorrideva al pensiero di un altro cucciolo a riempire il silenzio del palazzo di Kita. Atshushi non sembrava contrario all’idea di una nuova madre e la possibilità di avere fratelli, anche maschi, che forse avrebbero potuto rivendicare a sé il titolo non lo sfiorava minimamente. Tansho era riuscita a catturare la sua attenzione, a interessarlo, e soprattutto era riuscita a non distruggere il ricordo della madre dalla mente di Atshushi. Gli aveva dato due figli: Homoe e Yosen. E con la yasha si era riaffacciato il desiderio che forse, un giorno, il Clan di Kita e quello del Kansai sarebbero stati uniti. Un giorno naufragato in una battaglia contro un amico.
Adesso. Adesso forse si potrebbe riprendere quel progetto. Kyoko era rimasta sul vago, ma lui stesso ne aveva sentore. Shin apprezzava Homoe; l’apprezzava forse molto più di quanto dicesse o mostrasse. Eppure. Eppure Kumamoto sapeva quasi con rassegnazione che nulla era più così semplice. Non si preuccupava del fatto che i Principi del Kansai in quel momento fossero semplici prigionieri di Sesshomaru-sama. Una questione facile da risolvere, soprattutto dal momento che l’artefice dell’offesa, Morigawa, era morto. Non avrebbe avuto senso accanirsi sugli altri membri del Clan che gli si erano dimostrati, a sorpresa, se non fedeli, almeno favorevoli. Shin, non lo si poteva dimenticare, aveva anche combattuto con Inuyasha e gli altri youkai a difesa del palazzo. Un palazzo di cui avrebbe potuto volere e facilitare la caduta. Nella confusione creatasi, approfittando dei pochi uomini a difesa, confidando nella conoscenza forse generale ma anche passabile e sufficiente della pianta dell’edificio avrebbe potuto spalancare la porta con una certa facilità. Avrebbe; ma aveva preferito la battaglia, aveva preferito mettere a repentaglio la sua vita ancora debole e fidare in un corpo ancora in via di guarigione che tradire. Ecco: tradire. Era il termine migliore. Forse una fiducia che Sesshomaru gli aveva accordato quasi senza consapevolezza; forse semplicemente la gentilezza mostratagli da Alessandra, Yaone e Homoe. Soprattutto Homoe. Kumamoto socchiuse gli occhi. Sua figlia era sempre stata ribelle, soprattutto per la compagnia vivace e vitale dei fratelli. Non si era stupito molto quando era entrata con Shin nella sala del consiglio; un passo dietro di lui, ma gli occhi, i suoi occhi d’acciaio, alzati a sfidare i presenti: ci provassero, a metterla alla porta perché yasha. Anche lei aveva artigli e zanne; e sapeva usarli.
Kumamoto era stato quasi sollevato che tutti si concentrassero sul Principe del Kansai e ignorassero lei. Non era sicuro che si sarebbe piegata ai suoi richiami e forse sarebbe arrivata a sfidare anche l’autorità di Sesshomaru-sama. Però il vederla lì, il riconoscere il modo deciso di atteggiare la testa, le labbra appena inclinate in un mezzo sorriso; tutto il suo aspetto lo avevano catapultato a molti anni prima, quando Homoe gli aveva chiesto con decisione irremovibile di scegliere: accettare o cacciarli. C’era un altro uomo, quella volta, al fianco di Homoe. Un uomo diverso da Shin, per molte cose. C’era un ningen, quella volta, con Homoe. Un semplice ningen che aveva imparato a non tremare davanti a loro youkai, che aveva scoperto che la convivenza con i demoni può essere piacevole, piena, intensa. Certamente diversa. Diversi i ritmi cui adattarsi, diverso il modo di scandire l’esistenza, diverse le priorità. Era un semplice soldato, quel ningen. Un ragazzo neanche diciottenne, senza molta istruzione e con un’ingenuità quasi infantile. A Kumamoto non era importato molto cosa fosse quel ningen, non gli era interessato nemmeno che fosse un ningen. Homoe era felice con lui, di quella felicità discreta e totale che si percepiva attraverso i suoi gesti.
Non si era ribellato, opposto e non aveva cercato di sabotare nulla. Il ningen era diventato il compagno di sua figlia e aveva sempre saputo rispettare loro e conservare il suo posto. Era disponibile, ma non si arrischiava a intervenire nelle questioni di palazzo senza essere direttamente interpellato. Essere il compagno di Homoe non gli aveva mai fatto dimenticare che erano diversi, profondamente diversi. Kumamoto si lisciò il mento. Suo genero usava spesso quei termini: consorte, sposo, marito. Lui non li capiva. Fra loro demoni non esistevano formule simili. C’era il possesso, la consapevolezza di essersi legati a un compagno, ma nulla di più. C’era un rito anche fra loro youkai, ma cambiava per stirpe e Clan. Ed era solo il modo apparente di comunicare un qualcosa che poteva esistere da tantissimo tempo; semplicemente una tappa, un passaggio nemmeno necessario. Nessuno obbligava un Principe a comunicare ufficialmente le proprie nozze; gli si chiedeva di presentare l’erede con la compagna. Solo quello. E solo i Principi. Solo per loro valeva la scomoda, e per fortuna ovviabile, incombenza del rito. Gli altri demoni niente. Erano legami che costruivano senza preoccupazione e l’unico elemento distintivo era l’odore nella compagna che virava leggermente. Nulla di particolare, in definitiva.
Sospirò e si passò una mano sull’occhi cieco. Non era andato come aveva previsto; molte cose non erano andate come aveva immaginato e sperato. Inutaisho era stato più bravo di lui, in quello. Aveva sistemato tutto come se già sapesse che sarebbe potuto morire. Così, da un giorno all’altro. E quando Inuyasha stava per nascere aveva già stabilito tutto. Le sue solite soluzioni a metà fra lo scherzo e il cervellotico; qualcosa che avrebbe comportato molto e avrebbe segnato l’equilibrio fra i due fratelli, già molto incerto, ma che Inutaisho riteneva necessario. Un suo personalissimo modo di riparare alla sua assenza negli anni. Soprattutto verso Sesshomaru.
Jacken barcollava in fondo alla piccola altura, cercando di correre e agitando il bastone Ninto. Doveva essere preoccupato a giudicare dal modo in cui si dimenava. Da quando Sesshomaru-sama aveva lasciato la reggenza a Inuyasha, il demonietto passava le ore a girare in tondo sudando freddo e continuava a guardare il cielo nella direzione in cui il suo signore era scomparso. Sperava sempre di vederlo tornare; e imprecava e malediva sottovoce la sua decisione. L’hanyou non era pratico di faccende di palazzo e rischiava di combinare un danno dietro l’altro. E lui già si sentiva sulla pelle le unghie del suo signore e le parole sibilare leggere a incolpare lui di tutti i problemi venutisi a creare. Avrebbe potuto cercare di controllare meglio la situazione, ma Inuyasha era una testa calda, e per quanto si mostrasse disposto a farsi insegnare, non accettava minimamente che a farlo fosse lui.
Kumamoto si alzò con un gesto stanco. Le chiacchiere stridule di Jacken gli strapparono un sorriso. Elencava catastrofi e disperava per la sua imminente morte, ma probabilmente tutto si sarebbe risolto nel solito sbuffo di fumo. Accennò un saluto a Kyoko e si diresse verso il palazzo. Una sottile sensazione di piacere nel corpo, all’idea di poter dimostrare a Sesshomaru che suo padre non aveva fatto un errore e che Inuyasha era capace di meritarsi la sua piena fiducia.
*****
Lo aveva trascurato.
In quell’ultimo periodo lo aveva lasciato languire in un angolo della stanza. Non se ne era dimenticata; non avrebbe mai potuto dimenticarsene. Ogni giorno si riprometteva di trovare il tempo, il giusto tempo, da riservare anche a lui. Come era giusto che facesse. Ogni sera preparava tutto l’occorrente e si addormentava pregustando il piacere che avrebbe avuto nell’occuparsi di lui. Pochi minuti o anche ore, se fossero necessarie. Dipendeva da quello che voleva fare. A volte bastava poco, una lisciatina o qualche accorgimento veloce; altre era necessario togliere tutto, accarezzare ogni parte e poi rivestire. Certe volte ci volevano molte ore. Ore bellissime, piacere liquido e puro. E non le interessava la fatica che ci voleva; non le interessava il sudore che le scivolava sulla pelle accaldata e le labbra che diventavano secche. Se era sicura che nessuno sarebbe venuto a disturbare, a volte osava togliere lo yukata e offrire il seno protetto da una fascia al refolo di vento che spirava negli appartamenti del Principe. Le stanze di Sesshomaru dove erano all’alloggiati erano a Nord-Est, e verso sera c’era sempre un sottile filo d’aria che serpeggiava malizioso fra le listelle di bambù e le shoji socchiuse.
C’era silenzio, nelle prime ore della sera, in quelle stanze. Un silenzio pieno che ti invade la testa e ti inviterebbe a lasciarti scivolare sull’engawa calda e socchiudere gli occhi, lo yukata mollemente allacciato e la pelle rilassata aspettare con placida impazienza quel sottile filo d’aria correre lungo le gambe, risalire fino al ventre, dentro e sotto la stoffe e uscire sul volto, dal basso, spezzandosi appena sulla linea del mento. Magari con lui accanto; per darti sicurezza. Basta allungare la mano e lo puoi toccare; risalire lungo il contorno ancora un po’ caldo e bagnato, scivolare nell’incavo e alzare la mano fino a sprofondarla nel morbido.
Lo ha immaginato tante volte. E ogni volta si riprometteva di farlo. Prenderlo fra le braccia e stringerselo al seno. Se ci riflette, è un po’ innaturale l’idea di averlo di fronte. Di solito è alle sue spalle, e scende spesso a carezzarle i fianchi, in uno sfiorarsi più o meno discreto. In base alla situazione. Ormai ci ha fatto l’abitudine; non cerca nemmeno più di allontanarlo. Sarà infantile e stupido, ma le comunica un senso di protezione. Di naturalezza. Sono anni che è alle sue spalle; costante. Protettivo. Rassicurante.
Ma quegli ultimi mesi erano stati davvero pieni, e lei si era vista costretta a diradare le attenzioni che gli rivolgeva. Averlo sempre accanto non era sufficiente. Anche un buon amante si stanca, se non gli presti le dovute attenzioni. E per questo si sentiva in colpa. Prima lo costringe a continue battaglie contro nemici che nemmeno conosce e che con lei non hanno nulla da spartire. Sono demoni, va bene. E lei è stata cresciuta per combatterli. Ma con altri uomini, con altri ningen. Non ha mai ipotizzato di trovarsi coinvolta in una guerra fra youkai, con regole che non conosceva, abitudini, percezioni, situazioni contingenti che la spiazzavano e la mettevano in agitazione. Lui c’era sempre; alle sue spalle o al suo fianco. Pronto. Servizievole.
Ma non basta a restituire la normalità. Qualcosa è cambiato. Sango lo percepiva chiaramente. Uno sterminatore non dovrebbe interessarsi troppo a chi uccide. Si finisce per lasciarsi attrarre da quello che si caccia, si rischia di restare imprigionati nei meandri di un mondo alieno e affascinante: lo stesso mondo attraverso occhi diversi.
Forse è semplicemente una scusa. Perché non è stata la guerra condotta sotto Sesshomaru a costringerla a riflettere. L’ha solo obbligata a fermarsi a pensare seriamente. L’unica certezza che ha. Non è stato con Sesshomaru che ha iniziato a vedere i demoni sotto una luce diversa; e stato prima. Quando ha conosciuto Inuyasha. Morse l’interno della guancia e soffocò uno sbuffo quasi divertito. Una sterminatrice e un demone, un mezzo demone, che se ne vanno a braccetto per Nihon. Inuyasha che scherza con lei, che la protegge, che le urla contro quando è arrabbiato e che raggela delle sue occhiatacce. Lei che si lascia andare, che accetta quella compagnia innaturale, dimenticando le armi che porta nascoste nel kimono, dimenticando gli insegnamenti che ha ricevuto. Sistemò una ciocca di capelli. Gli insegnamenti di suo padre sono una faccenda complicata. Sono ben saldi nella sua mente, e scorrono veloci in ogni duello; ogni arguzia, ogni strategia, ogni soluzione. Tutto ben ordinato e pronto ad essere messo in pratica, a correre in aiuto suo e dei suoi amici. Ma fra gli insegnamenti di suo padre non c’era anche quello di non fidarsi dei demoni? Sango sospirò. Sì; c’era. Ed era il primo che avesse mai ricevuto. Non fidarsi dei demoni, a prescindere dalla loro natura. Un demone è subdolo, un demone può ingannare. E un ningen è solo un pasto di carne prelibata, una preda forse nemmeno più difficile di un cinghiale o di un cervo. Diffidate dagli youkai, ripeteva sempre suo padre; soprattutto dai taiyoukai. Perché ci sono vari livelli demoniaci, anche se le varie ripartizioni non sono chiare nemmeno a loro sterminatori. C’è solo la coscienza che gli youkai con sembianze antropomorfe sono i più potenti e i più pericolosi.
Prima di incontrare Inuyasha, non aveva mai visto un demone in forma umana. Ne aveva sentito parlare nei racconti al villaggio: creature meravigliose, di una bellezza che ammalia, selvaggia e distaccata insieme. Hanno dita che terminano in artigli, orecchie appuntite e segni del loro potere, della loro appartenenza ad un’altra realtà sul corpo; e per questo sono letali. Perché racchiudono in sé una sostanza, un’appartenenza che l’uomo non è destinato a conoscere, che non gli appartiene. Quando era bambina, Sango ascoltava quelle storie e non capiva. Suo padre e gli altri uomini del villaggio cacciavano i demoni; e allora perché nelle voci che raccontavano di loro, di quegli youkai superiori, c’era qualcosa che sembrava rispetto più che folle terrore? Negli altri villaggi il solo nominare gli youkai scatenava il panico e la disperata ricerca di un’arma per difendersi durante la fuga. Nel loro no. Al villaggio degli sterminatori era diverso. E da bambina non capiva come un demone che ha aspetto umano può far paura.
Lo aveva capito. Con il tempo lo aveva capito. Il terrore le era precipitato addosso all’improvviso, in una giornata uguale alle altre; e aveva l’aspetto di un Kami sceso in terra. Si asciugò il sudore che colava dalla fronte; il pomeriggio era afoso e pesante, assieme al rimbombo delle cicale. Sfilò con un gesto secco e stizzito la parte alta del kimono e stiracchiò le braccia. Non c’era nessuno negli appartamenti del Principe e prima che gli altri rientrassero avrebbe finito quel servizio che stava rimandando da troppo tempo. Arricciò le labbra compiaciuta e distese le mani, sfiorando appena la stoffa. Piacevole, come sempre. Raccolse i capelli in un nodo scomposto e improvvisato, mentre un brivido le correva lungo la spina dorsale. Lo aveva fra le sue braccia; abbandonato. Bello e pericoloso.
Inclinò appena la testa. Anche Sesshomaru, ammise a sé stessa con un leggero rossore, era bello. Molto bello e altrettanto pericoloso. Quando lo aveva visto apparire davanti al loro piccolo gruppo, all’improvviso, con l’aria che crepitava per metri elettrizzata dalla sua youki, aveva sentito le gambe tremare e si era chiesta cosa ancora la tenesse in piedi. L’abitudine, si era risposta. L’abitudine e l’istinto di sopravvivenza. Perché se quel demone avesse attaccato l’unica possibilità, minima e recondita, di salvezza risiedeva nella fuga; e nel fatto che avesse più prede a disposizione. Un pensiero orribile, che l’aveva sorpresa e trafitto la testa in modo doloroso, ma pur sempre un pensiero umano. Davanti a quel demone che li fissava con ostinato disgusto e indifferenza, Sango si era ricordata qualcosa, mentre era incapace di abbassare gli occhi da quel volto troppo pallido, dai capelli bianchi e dalla forza che sembrava emanare. Devastante. La sua memoria aveva vorticato e trillato come un campanello d’allarme. C’era qualcosa che non doveva fare. C’era qualcosa che non si doveva assolutamente fare se un taiyoukai appare minaccioso, se lo incontri. E lei non lo ricordava. Non riusciva a ricordarlo. Restava immobile mentre gli altri parlavano, mentre Inuyasha sbraitava e vomitava insulti. Non ricordava nemmeno per cosa avessero iniziato a battersi. C’entrava Tessaiga, ma quella era più una consapevolezza dovuta all’abitudine del pensiero che altro. No; c’era qualcosa che la sua testa non ricordava. Ed era importante. Dannatamente importante.
Se ne era ricordata all’improvviso. Nell’istante stesso in cui Sesshomaru aveva alzato i suoi occhi su di loro. Occhi spaventosi: l’iride d’oro che sembrava risplendere attorno alla pupilla affilata. Occhi da predatore, occhi ferini aveva pensato. E aveva subito distolto lo sguardo concentrandosi sullo spicchio di luna sulla sua fronte. Perché un demone non va mai fissato negli occhi; perché se lo guardi in quelle iridi divine sei perduto. Ti trascinano in un mondo che ti annulla, ti fanno impazzire. Sango aveva avvertito il brivido di terrore scuoterla prima ancora di realizzare che stava per fissarlo negli occhi. Lo aveva avvertito e si era tramutato in una scarica quando lo aveva sfiorato. Una scarica che l’aveva voluta far fuggire, che l’aveva supplicata di scuotere il suo corpo e fuggire. Era rimasta, invece. Era rimasta e aveva evitato in ogni modo di guardarlo negli occhi. Perché rivedeva il vecchio che abitava in una capanna a ridosso della palizzata del suo villaggio. Era stato uno dei migliori sterminatori della loro storia, e poi era impazzito. Era uscito per una missione, una missione semplice, ed era tornato così: invecchiato di trent’anni, con i capelli bianchi e gli occhi sbarrati. Aveva uno sguardo fisso che ti faceva compassione e terrore. Perché sembrava rincorrere con disperato bisogno un qualcosa che lo terrorizzava. Restava ore ed ore seduto immobile, mentre il tempo passava sulla sua pelle e si depositava in rughe sempre più pesanti e profonde. La pelle raggrinziva e virava al grigio e lui diventava fragile come una foglia secca. Sango lo osservava ogni tanto dall’angolo di una casa. Lo vedeva muovere la bocca, ma non pronunciava nulla. Però ricordava di aver sentito il fruscio del vento e il rimbombo del temporale in giornate immobili; lo sciabordio dell’acqua che precipita dall’alto e un silenzio che le mozzava il fiato anche se era circondata da persone. E il vecchio continuava a muovere le labbra e a fissare il vuoto. Aveva gli occhi bianchi, senza pupilla o iride. Sembrava che il bulbo oculare si fosse rovesciato come quando si sviene e non sapesse più come raddrizzarsi. Gli uomini al villaggio dicevano che era cieco, ma lei non ci credeva. Perché anche quando restava lontana, nascosta dall’ombra della casa, il vecchio girava la testa ed era come se la fissasse. Come se potesse vederla. No. Sango non credeva che fosse cieco. Solo non vedeva più come lei. Non vedeva più come fanno i ningen.
Aveva parlato col vecchio, una volta. Una delle rare volte in cui la sua bocca non era solo aperta ma emetteva davvero un suono e le labbra non masticavano aria. In una giornata d’inverno, con il cielo nero e basso e una pioggia fredda che scendeva lungo tutto il corpo. E il vecchio restava lì, sotto quel gelo, con addosso solo un fundoshi e la pelle quasi trasparente e livida. E non tremava. Sango si era seduta davanti a lui e aveva ascoltato la storia. Una storia che solo dopo aver incontrato Sesshomaru aveva saputo vera. Il vecchio sterminatore non aveva nemmeno trent’anni e aveva visto uno youkai. Negli occhi. Ed era successo qualcosa; si era sentito risucchiare, esplodere in mille particelle con un dolore straziante e al contempo avvertiva il corpo premere sempre di più a terra. E gli occhi del demone erano due fessure che lo fissavano; giganteschi. Sempre più grandi in un mondo, in un cielo che vorticava troppo veloce. E c’era luce. Tantissima luce. Una luce che ti fa tremare e ti ispira il desiderio della fuga. Era inquietante, quella luce. Perché non aveva ombre; nemmeno la più piccola ombra. Se alzavi la mano non riuscivi a schermarti il viso; se chiudevi gli occhi non se ne andava. Restava ovunque. Ed era terribile.
Sango aveva pensato ad un discorso sconclusionato, al delirio di un uomo reso folle da un qualcosa di terribile. Incontrare uno youkai, un demone superiore, non è cosa da poco, e probabilmente adesso il giovane-vecchio sterminatore scontava quel prezzo. Eppure. Eppure quando aveva incontrato Sesshomaru per la prima volta, aveva sentito il desiderio di fissarlo negli occhi, di esserne risucchiata e provare. Vedere se davvero il vecchio del suo villaggio era pazzo o aveva visto qualcosa che lo aveva reso diverso. Né pazzo né saggio ma solo diverso. Si era fermata in tempo. Qualcosa nella sua testa l’aveva costretta a fermarsi. Istinto di conservazione si era detta. Ma c’era la curiosità. C’era quel rimasuglio di voglia di sapere, di scrutare occhi alieni e diversi e scoprire se si può provare a capire cosa sono i demoni.
Sorrise a se stessa e strappò la stoffa che aveva incontrato. Era fastidiosa e non serviva più. L’avrebbe sostituita dopo. Adesso voleva vederlo perfettamente nudo. E gustarsi le linee arrotondate del suo contorno. Sesshomaru; e i suoi occhi. Gli occhi di un demone. Con il tempo, era divenuta un’ossessione. Desiderava sapere se davvero fissare uno youkai porta la follia; cosa c’è dietro le pupille sottili e l’iride innaturale. Ma c’era anche la paura; la consapevolezza che, se davvero si impazzisce, non lo avrebbe mai saputo. Sarebbe passata dalla lucidità alla follia nello spazio di un respiro, e il ritorno, se mai avesse avuto coscienza di dover tornare da qualche parte, si sarebbe perso. Chiuso senza alcuna possibilità. No, si era detta. Era solo un capriccio; uno stupido capriccio troppo pericoloso. Come era pericoloso il desiderio di poter fissare la mano destra di Miroku. Si passò uno fazzoletto umido sul viso. Stava sudando; un po’ troppo forse. Lisciò le labbra e reclinò la testa. Era nuvoloso, quel giorno. Sbuffi grigio-bianchi si rincorrevano pigramente e qua e là qualche sprazzo di azzurro abbagliante.
Sua madre le ripeteva sempre che non è bene per una sterminatrice la curiosità. Può farti diventare avventata, e in combattimento ci vuole autocontrollo, non sconsideratezza. È pericolosa la curiosità, ma è estremamente piacevole. Un brivido caldo che ti afferra la pancia e preme. Sembra un pungo. Un pungo che ti fa un male strano, che sale lentamente nel petto come un formicolio e si scarica nelle braccia che si contraggono appena e nelle gambe assieme instabili e pronte. È bella, la curiosità. Ed è dolorosa. Sango lo sapeva bene. Dietro la curiosità c’è la voglia di conoscere, e sapere troppo fa male. Può fare molto male. Si coprì gli occhi e massaggiò un po’ le palpebre. Naraku le aveva offerto una verità fasulla, di comodo. Una verità che sapeva di subdola carità. Lo aveva avuto davanti agli occhi per ore, e non era riuscita a pensare ad altro che al modo di trattenere le forze che scivolavano via. Se solo quella pelliccia l’avesse incuriosita; se solo si fosse chiesta il perché di un brivido improvviso. In seguito, aveva provato a capire per quale motivo non ci fosse stato niente a metterla in guardia da Naraku. Perché non ci fosse stato un sospetto, un presentimento, un qualcosa che la facesse dubitare. Si era fidata di lui con un’ingenuità disarmante; soprattutto per una sterminatrice. Si era fidata, e tutto le si era sgretolato fra le dita. E la curiosità, la sua onnipresente curiosità, era finita in un angolino della sua testa. Realistica, si ripeteva. Doveva essere realistica.
I mesi trascorsi fra i demoni, al palazzo dell’Ovest, però, avevano aperto una falla. Una piccolissima falla, ma sufficiente a lasciar passare di nuovo la curiosità. Le domande, la voglia di parlare, di chiedere, di sapere. Da piccola era curiosa, quasi invadente. Poi, crescendo, era riuscita a mettere un freno alla lingua impudente. Colpa dell’addestramento, si diceva. Aveva imparato così bene a combattere che a volte si dimenticava di essere una donna e che, nonostante fosse una sterminatrice, doveva restare al suo posto, sotto l’uomo. Non era da ribellarsi o accettare. Era così e basta, e Sango semplicemente aveva imparato a giostrare i due lati del suo carattere. Donna quando indossava il kimono; uomo quando combatteva. O almeno doveva essere così nei suoi progetti.
La fascia al seno era un po’ troppo stretta. Era arrabbiata, quella mattina, mentre la stringeva. Arrabbiata, amareggiata e preoccupata. Soprattutto preoccupata. Sesshomaru se ne era andato da palazzo con Alessandra da quasi un mese, e non aveva fatto pervenire alcuna notizia. Non che sperasse che informasse delle condizioni di salute loro ningen, ma almeno una lettera, anche solo poche parole, avrebbe potuto scriverle. Inuyasha però non aveva mai ricevuto niente e davvero sembrava che il demone avesse volutamente tagliato qualsiasi contatto.
Rialzò i capelli e s’inumidì il collo sudato. Non le piaceva l’idea che Alessandra fosse sola con lui. Non le piaceva proprio. Aveva paura degli occhi di Sesshomaru, benché, doveva ammettere a se stessa, in quei mesi non aveva avuto mai sentore del fatto che la ragazza corresse pericolo con lo youkai. Erano stati i cortigiani a palazzo a costituire una minaccia continua che era esplosa dolorosa e violenta e le avevano sbattuto in faccia il fatto che lì, a Nishi, lei e i suoi amici erano pressoché impotenti. Strinse forte le fasce che aveva in mano. Si erano divertiti con Alessandra, in un modo che Sango si rifiutava di immaginare. Yaone-san aveva detto che non l’avevano violata. Aveva detto che il suo odore non era cambiato, e quindi era ancora vergine. Per un qualche motivo, si erano limitati ad una tortura psicologica. Non meno dolorosa e facilmente superabile, ma almeno qualcosa li aveva fermati. Si sfiorò il ventre e un brivido le corse lungo la schiena. Un brivido gelido. Dopo la strage che Sesshomaru aveva compiuto, la maggior parte dei demoni evitavano di avvicinarsi a loro o di infastidirli. Sango non si sentiva ugualmente tranquilla e non si muoveva dagli alloggi del Principe né dormiva senza avere accanto un’arma, ma si era accorta della situazione di momentanea tregua che si era andata creando. Con i soldati, aveva scoperto con sua immensa sorpresa, si era ambientata in modo soddisfacente. Alcuni demoni si erano offerti di allenarsi con lei con la katana e si erano rivelati anche disponibili in varie occasioni. E lei rischiava di impazzire per la marea di situazioni diverse che le si stavano accavallando nella testa.
Aveva pensato, in principio, che stessero cercando di ingannarla. Gli youkai in forma umana sono i demoni più pericolosi. La voce di suo padre echeggiava ossessiva nella testa. Ma i demoni non sanno mentire, le aveva detto Kumamoto. Con quel suo modo di fare un po’ sbrigativo e rozzo che le ricordava l’imbarazzo di suo padre dopo che lei era diventata donna. Aveva dodici anni, quando sua madre aveva preso il suo futon e l’aveva portato in una capanna un po’ isolata del villaggio. Sango si era chiesta perché. E perché sanguinasse senza esser stata ferita. Era rimasta in quella capanna quattro giorni. Con l’ordine tassativo di non avvicinarsi agli uomini del villaggio; solo sua madre o alcune donne anziane andavano a farle visita per i pasti. E lei non faceva domande, mai. Per pudore e per vergogna. Il quinto giorno, l’avevano spogliata e l’avevano costretta a farsi un bagno. Era inverno; la neve era alta e l’acqua del torrente gelida. E lei era rimasta immersa per un tempo che le era sembrato infinito, perdendo forza e calore, lasciando che uno strano torpore la invadesse lentamente, assieme al violaceo che risaliva lungo il corpo. Il kimono che aveva indossato e il futon erano stati bruciati. Poi era rientrata a casa come se nulla fosse cambiato, anche se, da quel giorno, suo padre aveva iniziato ad affidarle delle missioni da sola. Dapprima piccoli incarichi, giusto per metterla alla prova; ma via via sempre più impegnativi per affinarne la tecnica. E aveva anche iniziato a parlare di uomini. In modo discreto, come solo suo padre sapeva fare. Un invito a cena, e la raccomandazione implicita di osservare dalle fessure dei paraventi. Ragazzi con cui era cresciuta, con cui continuava ad allenarsi e che suo padre voleva, all’improvviso, che diventassero altro. Adesso sapeva che le stava cercando marito e che l’aveva promessa ad un giovane morto quando lei aveva quattordici anni. E allora aveva fatto un patto con suo padre: doveva lasciarla diventare abile e perfettamente addestrata, e solo allora lei avrebbe accettato un marito. Sango scosse la testa e premette con forza le mani sulle cosce. Ogni progetto era morto con suo padre e il suo villaggio e nel tempo che era seguito aveva cercato solo una cosa: vendetta. Di matrimonio e figli non si preoccupava, anche se ormai era quasi al limite dell’età tradizionale. Se fossero ancora vive, le compagne che avevano al villaggio sarebbero madri già da alcuni anni. La ragazza che viveva accanto alla sua casa; aveva partorito il suo secondo figlio quando lei e suo padre erano usciti per la loro ultima missione. Il secondo figlio, e aveva due anni in più di lei.
Si morsicchiò il labbro inferiore, cercando di disfare il nodo che aveva creato senza accorgersene. I demoni non sanno ingannare le aveva detto Kumamoto-sama; e lei non capiva come fosse possibile. Aveva chiesto se non era forse un inganno quello che Morigawa aveva perpetrato verso di loro, se non era un inganno quello che Naraku aveva ordito nei riguardi di Inuyasha e Kikyo, nei loro, nei suoi confronti. Kumamoto le aveva sorriso bonariamente e Sango si era accorta di fissarlo negli occhi. La foga l’aveva tradita e l’avrebbe portata alla pazzia. Si era aspettata da un momento all’altro di sentirsi risucchiare in un incubo e di perdere la percezione della realtà. La stanza sparire e diventare un inferno nero, bianco, grigio. Aveva abbassato la testa e stretto gli occhi; aveva paura, ma non sapeva come nasconderla e come riuscire a dominarla. Aveva sbagliato, ed era pronta a pagare per la sua imprudenza, ma non poteva, dovette ammetterlo, impedirsi di tremare.
“Sango-san. State bene? Avete freddo?”
La mano che sfiora appena la spalla, con imbarazzo. Artigli che la toccano, che la scuotono dal suo leggero torpore. E gli occhi. Gli occhi (l’occhio) di Kumamoto fissarla con una punta di ironia. Come se avesse intuito, sapesse, il motivo dell’improvviso tremore e volesse costringerla a rivelarglielo in modo chiaro e preciso. Arricciò le labbra. Si era lasciata andare ad un pianto irrefrenabile, davanti a quel demone. Se suo padre lo avesse saputo, avrebbe avuto mille motivi per rimproverarla: mostrarsi così deboli e vulnerabili, soprattutto davanti ad un nemico, anche solo potenziale. Che stupida, era stata. Una vera stupida. Eppure, non aveva sentito alcun imbarazzo o istinto di pericolo mentre piangeva con il viso nascosto dalla mano. Un pianto silenzioso e composto, ma pur sempre un pianto. E le parole che ruzzolano fra i denti, inciampando nei singhiozzi e in piccoli colpi di tosse.
Gli aveva raccontato la sua storia; sua e di suo fratello e del villaggio. Gli aveva raccontato il suo desiderio di uccidere Naraku e la disperazione che l’assaliva ogni volta che si avvicinava la possibilità di recuperare la sfera. Perché avere la sfera significa doverla completare e quindi, di conseguenza, uccidere Kohaku.
Gli aveva raccontato anche del vecchio sterminatore dagli occhi bianchi e delle raccomandazioni di suo padre, del rispetto che aleggiava nel suo villaggio verso gli youkai, i taiyoukai, senza che nessuno ne avesse mai incontrato uno. E Kumamoto aveva annuito assente, con le labbra che appena accennavano un sorriso. Di chi sa, di chi conosce qualcosa e prova una punta di piacere nel torturare il suo interlocutore. Nel non svelarli subito la verità, tutta la verità.
Le aveva alzato il viso e l’aveva costretta a fissarlo. A lungo. In quegli occhi dalla pupilla allungata che guizzavano vivi nel sottile reticolato di rughe. Aveva sorriso, Kumamoto. E Sango si era ritrovata calamitata dalla strana luminescenza che invadeva l’iride, partendo dal centro, dalla pupilla, allargandosi in rivoli sottili prima bianchi, poi azzurri e infine verdi. E aveva visto. Un mondo distorto e deformato; era stato come essere immersa nell’acqua e guardare su, verso l’alto, la luce che si infrange in chiazze. Bruciano, scappano, si disperdono. E restano comunque. Anche sott’acqua si può vedere; e Sango riusciva a vedere attraverso quello strano, inquietante velo che le aveva ricoperto gli occhi. Vedeva le stanze del palazzo; vedeva se stessa, houshi-sama, Inuyasha e Kagome. Li vedeva e vedeva qualcosa che non afferrava, ma che le scorreva nel corpo. Brividi nello scorgere il viso di Miroku o la sensazione di un respiro a pieni polmoni davanti a Kagome. Poi. Le mura e la piana della battaglia. Così nitida che avrebbe potuto dire sì, ero anche io là, ho combattuto anch’io contro gli youkai di Morigawa. Una sensazione piena, assoluta; ma nella mente di Sango il grido era un no lungo e ripetuto, una cantilena lenta lenta che cresceva di intensità con il tempo, con il ricordo sempre più spesso di non averci mai messo piede, in quella pianura. Poi. Poi Naraku, e il respiro si spezza. Dall’odio, dal rancore, dalla rabbia. Dal terrore. Perché sotto la corazza, Sango distingue corpi fusi in una massa palpitante e sanguigna; intuisce la sfera e la ignora; prosegue verso un punto, un lumicino, che le sorride quasi per schernirla. E in fondo trova il buio. E la sensazione di molle e pesante e opprimente e soffocante. Come sprofondare nel fango; come essere immersi nelle risaie e muovere e tendere i muscoli con dolore e disperazione per smuovere i piedi nudi da un fondo che non si sente, che sfugge ad ogni contatto. Rimane solo la sensazione di viscido e di appiccicoso, di infido.
Poi. Una nuova consapevolezza ad investirla. Un pensiero mai espresso, mentre il fango diventa mani e lacci e lingue e capelli che aggrovigliano e stringono e bloccano. Sì, bloccano. Lasciandoti lì, fermo. Senza poterti muovere, senza poter fuggire. Ma anche senza trascinarti, senza distruggerti. Semplicemente, ti fanno dibattere come una preda. Una falena dalle ali bruciate dall’andon; una farfalla nella tela del ragno.
Sango si era ritrova inginocchiata a terra, a fissare incredula le sue mani sconvolte da spasimi, a ripescare il ricordo di quelle stesse mani che correvano su tutto il suo corpo per togliere ombre della mente. Nient’altro che un pensiero inesistente, un’illusione. Ma i miraggi non ti restano addosso in quel modo; di un sogno ricordi poco, quasi nulla; e non ti piantano nella testa un pensiero, una consapevolezza. I sogni ti spaventano, ma farti conoscere qualcosa, quello no. Le miko possono avvertire qualcosa nel sonno; possono scorgere avvisaglie del futuro o i Kami-gami possono inviare loro segni di ammonimento o di guida. Ma lei. Sango non era una miko, non aveva alcun potere particolare. Sango era solo una taijia; esperta, temprata, ma normale. E allora da dove veniva quel dolore sordo e profondo, quella fissazione ossessiva che le martellava la testa? L’idea che Naraku fosse altro. Fosse qualcosa da non sottovalutare. Sì, certo, lo aveva già pensato; ci aveva pensato più volte, in verità, mentre parlava con Miroku. Ma quella sensazione era altro. Era un seme, piantatole dentro a viva forza e che stava iniziando a mettere radici. Sango sentiva quasi le sottili fibre vegetali farsi largo dentro di lei, mangiare un pezzettino alla volta la sua carne per costruirsi una nicchia in cui crescere protetto. Prima vengono le radici; poi sarebbero venute le foglioline verdi e tenere, quelle più fragili. Bisogna proteggerle, quelle foglioline. Sono delicate, molto delicate. Quando era piccola, sua madre metteva le pianticelle di riso nella stalla, accanto alla paglia secca. Diceva che la stalla è sempre calda, e che il riso cresce bene e diventa forte; così, quando sarebbe arrivata la stagione, sua madre avrebbe legato i capelli nel tabane-gani, avrebbe indossato shitagi, kosode e habaki e, con il cesto intrecciato e le pianticelle di riso, sarebbe andata alla risaia. E il riso sarebbe cresciuto forte e nemmeno il gelo improvviso lo avrebbe fatto morire.
Ma in quel momento, Sango aveva desiderato poterla strappare, quella pianticella che le cresceva nella testa. E già la vedeva albero e si sentiva schiacciare a terra da quel peso estraneo, sconosciuto e assieme troppo grande, troppo intenso per essere sopportato.
Aveva alzato su Kumamoto uno sguardo vacuo, pieno di angoscia, terrore e di un velo di lacrime che restavano lì, incapaci di essere lasciate cadere. Kumamoto si era limitato a socchiudere gli occhi e a lasciare che un fugace sorriso gli attraversasse le labbra. Si era seduto per terra accanto a lei, sull’engawa pesante nel sole del primo pomeriggio di Rokugatsu. C’era un pizzico di malinconia e di attesa, nella sua espressione. Kumamoto aveva intuito il pensiero di Sango, il suo terrore nel distogliere gli occhi in fretta. Troppo in fretta. In quel modo particolare; non per timore fine a se stesso né per rispetto reverenziale. Gli occhi guizzavano sotto le palpebre socchiuse, aveva potuto intuirne il movimenti frenetico e irregolare, lo sforzo di bloccare la curiosità e il desiderio folle, quasi eretico, di tornare a fissarlo. Dritto in faccia, nell’occhio sano che la scrutava con placida attesa. Non si era sorpreso. Sapeva che la ningen era una cacciatrice, e forse solo i cacciatori di demoni conoscevano alcuni accenni ai loro arcani.
“Adesso…diventerò cieca?”
Sango masticava il labbro, stringendo forte le mani chiuse in grembo. Il panorama aveva ritrovato un suo equilibrio e riusciva a prendere fiato senza che conati di vomito le salissero alla gola. Aveva capito cosa fosse successo, lo aveva capito fin troppo bene, e aveva paura del dopo, di quello che sarebbe venuto. Kumamoto-sama l’aveva costretta a fissarlo negli occhi e aveva fatto qualcosa. Come se fosse entrato nella sua mente, quasi l’avesse violentata inserendosi a viva forza, sradicando un sentire limitato e parziale per sostituirvi il suo, insinuandolo negli spazi che lasciava dietro di se passando. Vedere il mondo attraverso quel filtro innaturale, attraverso la superficie dell’acqua. Sango non era riuscita a reprimere il brivido violento che le aveva attraversato il corpo madido. Si era sorpresa ad avere freddo, in quell’afoso pomeriggio di giugno. Freddo e desiderio di una coperta calda o anche semplicemente del sole sulla pelle rattrappita.
Kumamoto aveva riso della sua infantile paura. Del suo modo di sfuggirlo senza realmente andarsene. Sango era curiosa; anche del pericolo. Una caratteristica che avrebbe potuto metterla in situazioni insicure, incerte; ma che, in quel momento, ricordava al generale Euriko e le sue domande discrete. Il modo che aveva di sbirciarlo dai byobu decorati, ritraendosi nell’ombra d’istinto, anche nella consapevolezza di non scomparire, di poter essere fiutata. Euriko era affascinata da lui, dal suo modo diverso di essere. E lo temeva. Ne aveva un timore folle e assieme reverenziale. Lo aveva amato, come un essere umano, una ningen di diciotto anni può amare un uomo, un demone, di età imprecisata. Senza riuscire a capire, limitandosi a obbedire a quello che le diceva. Lo aveva amato; e lo aveva temuto fino alla fine. E aveva temuto Tansho, ben consapevole della differenza che intercorre fra uomini e youkai.
La piccola Euriko. Sango gliela richiamava nell’aspetto giovane e negli occhi grandi, quasi sfacciati in confronto ai loro, sottili e allungati. Era stata la sua terza moglie, Euriko; e gli aveva dato un figlio, un hanyou. Kumamoto si era concesso un respiro e tempo. Doveva rispondere alle domande, tante e silenziose, della taijiya, ma voleva prendere un istante. Lasciare che la mente di allargasse nel passato, ritrovasse il suono di un vagito e lo scalpiccio sul legno. Gli era rimasta solo Homoe, dei suoi quattro figli. E Hoshi era morto che appena riusciva a traballare sulle gambette paffute. Non aveva nemmeno avuto il tempo di capire cosa vuol dire, vivere. Cosa significa essere sospeso fra due realtà. Lo aveva trovato avvolto nelle vesti di Tansho, con il corpicino aperto e un fiotto di sangue rappreso ad imbrattare il solco sulla testa, dove prima si agitava sempre un’orecchietta. E Tansho poco distante, il corpo contro le fusuma frantumate coperto di lividi e ferite. Nudo e discinto, con un buco grande grande nel ventre e la testa spiccata chiusa in una smorfia di orgoglio e furore. Di accusa. Avevo cercato di difendere Hoshi, come una bestia braccata che ormai si sente in trappola. Lo aveva difeso anche se non era stata lei a partorirlo, ma una moglie umana. Tansho aveva odiato Euriko, di quell’odio assoluto e pieno che solo una yasha può sentire. Non è gelosia, frustrazione o dubbio della propria bellezza. E consapevolezza piena e assoluta di non possedere qualcosa. Qualcosa che non si riesce nemmeno a concretizzare, e che esiste. E che Euriko aveva.
“Kumamoto-sama”
Sango avrebbe voluto urlare.
Perché il silenzio dello youkai sembrava promettere qualcosa di brutto, di pesante e pericoloso. Si era aspettata una risposta immediata, e poi si era ritrovata a scrutare con agitazione crescente il volto del demone, a cogliere il fremito degli occhi sotto le palpebre, a cercare di intuire la modulazione delle labbra quando le avrebbe detto che sì, sarebbe diventata cieca. Perché la curiosità è come una malattia, e alla fine ti lascia debole e incerta. La curiosità si paga, come l’aveva pagato lo sterminatore dagli occhi bianchi. E adesso anche lei sarebbe cambiata. In un qualche modo che non sapeva, osava congetturare. Sperava solo che il dolore svanisse in fretta. Perché una punizione può essere solo dolorosa e Sango sapeva di poter resistere al dolore fisico, ma a quello più profondo, quello che si pianta nella tua testa, nella tua anima e continua a divorarti lentamente, a quello non avrebbe saputo resistere. E si sarebbe ritrovata a urlare con la bocca chiusa e a vedere la sua psiche venir fatta a pezzi mentre il corpo non le rispondeva più.
Avrebbe voluto urlare, ma la voce era uscita sottile e gutturale, roca. Mentre la mano aveva avuto una spasmo nell’infruttuoso tentativo di alzarsi in preghiera. Forse pregare uno youkai sarebbe stato stupido, ma se fosse servito a rendere tutto più veloce, più immediato, Sango lo avrebbe fatto.
Kumamoto, invece, le aveva sorriso e le aveva chiesto cosa avesse visto. Una domanda tanto semplice da gettarla nel panico e da farle salire in bocca un sapore amaro di disgusto e rigetto. Cosa aveva visto? Lo sapeva bene: un mondo diverso, un Naraku diverso. Non peggiore o migliore, solo diverso, più profondo. Completo, forse. Forse solo completo era la parola che avrebbe potuto usare. Ma non ci riusciva. Non poteva dirglielo, non trovava voce e forza.
“Hai intuito.
Solo questo. Hai intuito per un istante cosa può vedere un demone”
Quello che può vedere un demone. Sango aveva deglutito a vuoto. E Kumamoto le aveva spiegato che uno youkai non vede come un essere umano. Non sempre. Può cogliere altro, quello che c’è dietro l’apparenza, nel profondo dell’essere. Un demone conosce guardando; non ha bisogno di studio, fatica e di testi. La storia della loro terra i demoni l’apprendono solo vivendo sulla terra, ascoltando voci che nessun ningen riesce più a distinguere. Il canto di gioia della pioggia, il lamento del temporale; il sorriso della neve e l’urlo della tempesta. La saggezza del legno e il tempo sussurrato nella sabbia. Basta che osservino e ascoltino e sanno. Non tutto. Non sono onniscienti. Ma più imparano a scrutare fra i suoni, a distinguerli e differenziarli; più apprendono a spezzare i legami che formano i corpi, le cortecce, le onde del mare, più riescono a penetrare nell’essenza. Un demone sente con i suoi sensi. Solo con quelli. Ascolta. Fondendo tutto in un’unica mareggiata di elementi che diventano subito informazioni. Non sensazioni, non sentimento: conoscenza.
Un demone ha due occhi, come i ningen. Ma ha molti modi di vedere. Può vedere come gli uomini, ma non solo. Ma se vuole che un ningen lo guardi deve osservarlo con occhi di ningen. Occhi simili a quelli di un ningen, non uguali. Perché comunque il sentire è differente.
Altrimenti. Se un ningen incrociasse gli occhi di un demone, gli occhi veri di un demone, acquisirebbe il pensiero stesso dello youkai, quel modo di percepire che è assoluto. Ma resterebbe bloccato in un corpo incapace di reggere il cambiamento. E lo spirito muterebbe, mentre la carne invecchierebbe in fretta, molto in fretta, logorata dal tentativo di ristabilire un equilibrio smarrito.
Sango aveva annuito per riflesso. Non era riuscita a comprendere appieno lo spiegazione, ma Kumamoto stesso le aveva detto che non doveva pretenderlo. Per quanto si fosse sforzato di rendere chiaro quel pensiero, non avrebbe mai potuto fare in modo che lo padroneggiasse appieno. Ningen e youkai possono parlare, possono tentare di comprendersi, ma ci sono degli abissi che non si possono colmare. Da parte dei ningen per la loro stessa essenza, per il modo diverso che hanno di concepire; da parte dei demoni per l’assenza di stadi intermedi, per il loro avvertire tutto all’assoluto, senza riuscire a cogliere l’incompleto: o il tutto o il nulla. Il dubbio esiste; ma non è imperfezione. Semplicemente, è l’incastrarsi disarmonico di qualcosa.
“Sesshomaru-sama può…ha mai…”
Kumamoto aveva solo annuito. Non dipende dal rango del demone; tutti partecipano del medesimo sentire. Loro taiyoukai in modo perfetto e assoluto; e Sesshomaru, nonostante la giovane età, non smetteva di conoscere, di osservare e sentire il respiro antico del mondo. Il suo grido nell’evolversi ciclico che andava scolorando. C’era un monito, in quelle parole incomprensibili. Un avvertimento urlato da secoli ormai: un giorno qualcosa sarebbe cambiato. La loro stirpe non sarebbe mai morta, non si sarebbe mai estinta. Ma non sarebbe stata comunque. Sesshomaru, ma anche suo padre, Kumamoto, Hidoshi e altri demoni avevano sentito e continuavano a sentire quel singhiozzo lento e prolungato, che non aveva origine e si spegneva nell’eco del vento, nell’afa dell’estate, nello scricchiolio dell’autunno.
I demoni non sarebbero morti, ma non sarebbero comunque stati. Ma nessuno, ancora, era riuscito a comprendere davvero quella cantilena continua.
Sesshomaru, da cucciolo, cercava spesso di vedere, di conoscere. Kumamoto lo aveva sorpreso più volte seduto a fissare l’orizzonte, il cerchio dell’acqua che si allarga e scompare, il movimento impercettibile di una foglia. Lo faceva ancora; in ogni istante possibile. Viveva assorbito in quel mondo primigenio; per anni non aveva smesso quel modo di fissare la terra e i ningen. Gettando in loro terrore e sgomento prima di ucciderli. Per assaggiare la voce del loro sangue, per trovare una risposta a tormenti e insicurezze. Nel confronto con un qualcosa di sicuramente diverso Sesshomaru ricercava la consapevolezza della sua essenza, di quel suo essere youkai e detenere l’orgoglio di quella stirpe antica.
Sango lisciò l’ultima piega e strinse forte il nodo. Aveva impiegato tutto il pomeriggio, era sudata e stanca, ma adesso poteva di nuovo assaporare sotto le dita la linea curva e appuntita dell’hiraikotsu. Le nappe e le fasce di stoffa sostituite invitavano ad essere strette e adoperate. Non aveva potuto eliminare la piccola ammaccatura vicino al bordo inferiore; non se ne preoccupò più di tanto. Appena ne avesse avuto la possibilità, sarebbe ritornata al villaggio. E avrebbe ripetuto i gesti che per tutta l’infanzia aveva visto compiere a sua madre. I minerali pestati nel mortaio mentre il ventaglio ravviva il fuoco e cenere e lapilli invadono la fucina sempre più calda. Avrebbe raccolto i capelli e stretto le maniche con il sigeo; i piedi nudi sul terriccio umido e freddo, anche vicino alle pietre incandescenti. Avrebbe sentito il sudore formarsi sulla pelle, nel respiro pesante e gravato dalla cenere sottile; gli occhi bruciare per l’intensità del calore e del brillio delle fiamme, mentre il kimono si scioglie e rivela la fasciatura al seno. Avrebbe aggiustato l’osso e poi, madida e spossata, si sarebbe rovesciata addosso un secchio di acqua gelida, alzando la testa in alto e godendo del tremore intenso e del gemito soffocato nella gola.
Sarebbe stato bello. Molto bello.
Ma prima.
Prima doveva tornare Sesshomaru. Prima dovevano esser sicuri che Alessandra stesse bene e accertassi di quello che avrebbe voluto fare. Kagome tornava spesso nel suo mondo; aveva la sua vita, la sua famiglia in quel tempo diverso. E anche Alessandra.
Sango non era certa che la ragazza avrebbe potuto fare come la miko. Kagome aveva poteri da sacerdotessa; grandi poteri che le permettevano di attraversare la barriera temporale. Alessandra era una ningen come lei. Senza alcuna particolare capacità. E amava un demone; uno fra i più pericolosi ancora viventi.
Sospirò e stiracchiò le braccia. Non spettava a lei elaborare strategia di conquista, come le chiamava Kagome, per scoprire cosa provasse il Principe. Sua madre le aveva insegnato una cosa importante: sei una donna, e devi aver rispetto e pudore. Ma la curiosità era di Sango e quindi, volente o nolente, con mezz’orecchio le farneticazioni di Kagome le ascoltava lo stesso. Parlava di dichiarazioni, di anelli, di nozze. E a volte Sango non capiva più se stesse fantasticando e progettando per se stessa o per Sesshomaru e Alessandra. Ma non importava. Era anche piacevole ascoltarla, quando le raccontava delle usanze diverse, nuove, di un Giappone distante cinquecento anni. Era come avventurarsi in un mondo sconosciuto, più affascinante e fiabesco di quelli che si era creata da bambina.
“Disturbo?”
Il grido si strozzò in gola e Sango avvertì un tremito nuovo, eccitante, correrle lungo la clavicola, lì dove le labbra di Miroku continuavano, impertinenti, a soffiare sulla pelle accaldata. Era entrato senza far rumore o, più probabilmente, Sango realizzò di non aver prestato attenzione al mutare anche lieve dei suoni che la circondavano. E si ritrovava con il petto dell’houshi sulla schiena nuda, mentre una sensazione quasi liquida le risaliva dal ventre. Eppure. Eppure non provava pudore o imbarazzo; sentiva una sfacciata sicurezza correrle sotto la pelle, facendole assecondare gli inviti leggeri, il gioco sottile di Miroku.
Miroku. Gli occhi dilatati nella sera rossa, con quell’ombra conturbante di indecisione e sorpresa. Perché non è di Sango quel sorriso accennato sulle labbra rosse e gonfie e lucide; non è di Sango lo sguardo che non fugge, che resta lì, a fissarti, a chiederti qualcosa che non sei sicuro di capire, di intuire. Sango si arrabbia, quando Miroku tenta un goffo approccio; il suo volto si arrossa e inizia a balbettare. E lui è preso in contropiede e incespica nelle parole e travisa i termini e sbaglia e la fa arrabbiare.
Eppure, in quel momento Sango gli stava offrendo la bocca, gli permetteva di scivolare lungo la mandibola piccola e un po’ sfuggente vicino al mento, lì dove la curva del viso declina nella gola. Si lasciava baciare sul collo, contro pelle calda e dentro, Miroku lo sentiva, il sangue correva e correva e il respiro accelerava.
“Ho paura”
Due parole. Due semplici, stupide parole soffiata fra i capelli, con quel sorriso irritante e gli occhi acquosi di una bambina piccola. Bella. Miroku non riuscì a pensare altro: bella e maledetta. Perché glielo diceva così, un attimo prima di lasciarsi andare, mentre il fruscio della seta lasciava intuire la carne celata e il bianco del ginocchio si scuriva, si declinava nelle ombre sfumate della sera. Glielo diceva così, e sapeva. Sapeva che Miroku avrebbe capito; e allora le mani sarebbero scivolate attorno al suo corpo e l’avrebbero stretta forte, quasi volessero inglobarla. Miroku avrebbe capito, e Sango gli avrebbe nascosto il viso nella spalla e avrebbe pianto e riso e…E non lo riusciva bene a comprendere nemmeno lei. Ma quelle mani, Kami! Quelle mani dovevano restare lì, sul suo corpo, su di lei. E stringere fin quasi a farle male; stringere sempre di più.
“È giusto”
Giusto. Nessuna sicurezza, nessun appiglio. Voleva consolarla, ma non era riuscito a mentirle. Miroku premette la fronte nell’incavo fra i seni. Sarebbe stato facile dirle che sarebbe andato tutto bene; sarebbe stato bello costruire insieme un progetto, immaginarsi un futuro tranquillo e sereno; con Kohaku magari; e dei bambini. Perché Miroku ne avrebbe voluti tanti, di bambini. Da lei. Sarebbe stato così bello; e così facile. Ma non ci era riuscito. Per quanto, infatti, il fischio del foro del vento fosse ancora solo un incubo che lo svegliava di notte, all’improvviso, dopo incubi che si riducevano a immagini confuse e ad un angosciante nodo alla gola, Miroku non poteva dimenticarsi di non avere futuro, nonostante lo desiderasse; non poteva ignorare Sango e le promesse che non avrebbe potuto mantenere. E poi. Poi c’era Naraku. La vendetta rincorsa contro di lui, il desiderio bruciante, folle, di perdere tutto ma riuscire a fargliela sentire, almeno una volta, tutta la rabbia che covava dentro. Anche nel rischio di inquinare di più la sfera dei quattro spiriti. Farglielo sentire, quell’odio, e vederlo sorpreso, e forse un po’, anche solo un po’, vacillare.
Giusto.
Miroku ricompose con lentezza esasperante il kimono, lisciando le pieghe una ad una e sfiorando i motivi decorativi fino a risalire alla gola, e ancora più su, aggirando le labbra. La fossetta sotto il naso piccolo e diritto, le ciglia sottili e arcuate, quasi una linea di matita. E ancora. Il lobo pieno, rotondo di Sango, e il collo. Scoprire la nuca sotto una cortina scura, e premere le labbra forte, mordicchiando la pelle tesa e stanca, aspirando lentamente quasi stesse mangiando un frutto carnoso. Pensava che Sango lo avrebbe allontanato; pensava che lo avrebbe schiaffeggiato. Invece, sentì le mani insinuarsi sotto la tunica, sfiorare incerte e audaci la pelle nuda e stringerlo, premerlo contro le forme piene e invitanti di Sango.
Giusto. Giusto non illuderla, non offrirle false speranze. Giusto accettare la sua paura e farle capire che aver paura è normale. Giusto.
Miroku la imprigionò sotto di sé; non l’avrebbe amata, non ancora. E non avrebbe cercato di rassicurarla, di scacciare quel terrore che vedeva dietro il desiderio e la punta di ingenuità. Ma una cosa Miroku voleva che Sango la sapesse; e gliela avrebbe mostrata. Forse non sarebbe stato per molto, forse sarebbe stato uno sbaglio, ma finchè il tempo e la kazaana glielo avrebbero permesso, Miroku voleva che Sango sapesse che poteva piangere e tremare e spaventarsi ancora e ancora. Perché lui ci sarebbe sempre stato a consolarla, a stringerla fra le braccia e sussurrarle all’orecchio.
“Ancora.
Abbiamo ancora tempo”.
*****
Non hai pazienza.
Se lo era sentito ripetere spesso, mentre cresceva. Troppo impulsivo, dicevano. Guarda tuo fratello, invece. Tuo fratello è controllato; tuo fratello sa come mantenere il sangue freddo. Prendi esempio da lui; perché non provi a crescere un po’? Spesso ci fai vergognare; spesso sei un disonore. Cosa succederebbe se fossi tu l’erede? Cosa combineresti?
Kami! Era un mantra. Una litania che gli attraversava il cervello. Nelle sale, nel silenzio, fra il vociare dei cortigiani. Parole. Parole. Tante parole che sussurravano all’orecchio. Le sentiva sempre; non era necessario che le pronunciassero davvero. Bastava un’occhiata. Una di quelle occhiate un po’ pallide e un po’ di scherno; una di quelle occhiate che non vorresti mai sentirti addosso. Perché sono occhiate che ti spiano, ti comparano, di vivisezionano. E ti fanno male. Un male forte forte dentro, nel petto, o ancora più giù. Perché non le vorresti sentire, quelle parole. E gli occhi. Hai voglia di strapparli, gli occhi di quei cortigiani. Anche se sei piccolo. Anche se ti dici: ignora. Perché di quello che pensano loro a te non importa nulla, vero? Non hai bisogno della loro pietà, della loro approvazione, giusto?
A tuo fratello va bene così. Non ti ha mai detto niente. Ti dice: migliorerai. Sei piccolo. Prima cresci, poi preoccupati. Perché finchè sei piccolo non ne devi avere, di preoccupazioni. Anche se sei un principe; anche se sei uno youkai. Le preoccupazioni sono per gli altri, vero? Tu devi solo crescere. E ai guai che combini ci penserà qualcun altro. Ci penserà tuo fratello.
“Non ti sei stancato di farmi da balia?”
La pedina girava e girava fra gli artigli. Una piccola pedina di avorio, lucida e levigata. Non ha pazienza Yashi; e il go è un gioco di pazienza. Ma meglio di niente. Meglio che restare a marcire nel futon e consumarsi gli occhi nel fissare il soffitto. Perché gli occhi ce li ha ancora, anche se non se ne capacita del tutto. Pensava che Shin glieli avrebbe strappati, quando la avrebbe visto. Perché a quel guaio nemmeno Shin avrebbe saputo mettere rimedio.
Yashi si passò distrattamente una mano fra i capelli. Erano ancora corti e irregolari, come appena recisi. E risente la lama del pugnale scorrere sulla pelle sensibile, tagliare ogni capello e la coda stretta in mano afflosciarsi istante dopo istante. Non ci aveva pensato; lo aveva fatto e basta. E si era sentito orgoglioso. Per la prima volta in vita sua, quel gesto sbagliato lo aveva riempito di orgoglio. E le voci e le chiacchiere e i mormorii erano piacere. Perché per la prima volta lo aveva cercato lui, il paragone con Shin. Lo aveva cercato, voluto, sottolineato. E sentire i capelli solleticargli la gola, sorridere di scherno davanti alle facce allibite e costernate, vedere la rabbia negli occhi di suo padre e ricordarsi così, all’improvviso, di aver sempre cercato l’approvazione di altri occhi, la fiducia di un altro sguardo, lo aveva reso euforico e temerario. Troppo temerario.
Ma Shin era appena morto; lo credeva morto. E il dolore era forte, e la voglia di piangere grande e una responsabilità non voluta premeva sulle spalle. E poi c’era Koji. Koji e la sua realtà diversa; il bisogno sviscerale di proteggerlo, di farlo restare al sicuro, di non esporlo.
Yashi si era sentito schiacciato da un pensiero. Da una consapevolezza che lo premeva a terra, giù, sempre più giù, e alzare appena la testa e fissare qualcosa oltre la polvere era difficile. Stramaledettamente difficile.
Ma Shin lo aveva sempre fatto. Shin aveva sempre camminato con la testa alta e la sicurezza. Anche con i capelli corti. Anche quando, negli ultimi giorni passati al loro accampamento, nessuno sapeva più come comportarsi con lui.
Ma Shin non si arrende mai, Yashi lo sa. E adesso, vederselo di fronte, i capelli irregolari che giocano con i riflessi bruciati dell’haori, la posa informale e quel sorriso rilassato, quasi irreale, assomiglia ai sogni che faceva i primi giorni dopo che Naraku aveva riferito la notizia della sua morte.
Non ci voleva credere, all’inizio. Quando, ripresa conoscenza, se lo era trovato accanto al futon, la testa reclinata e un panno in mano. Era notte. E Shin era accanto a lui; come quando erano piccoli, nel palazzo sul Continente. Come quando uno yaoguai lo aveva avvelenato ed era rimasto incosciente e arso dalla febbre per tre giorni. Shin non c’era quella volta, al suo capezzale. Ma era la stessa cosa: Shin c’era, anche se non era lì con il suo corpo. Shin c’era sempre stato. Perché i guai di Yashi era Shin a doverli sistemare. Era rientrato due giorni dopo che la febbre era scesa e Yashi stava già riprendendo le forze. Pallido, il kimono a brandelli e senza cavalcatura. E uno sguardo spento. Non gli aveva mai chiesto niente. Forse per paura di un rimprovero; forse per paura di venir allontanato, disprezzato. Forse. Forse. Forse. Ne aveva molti, di forse e di domande nella testa. E Shin adesso era davanti a lui, la pedina nera che ondeggiava sulla scacchiera, prima di cadere a destra o a sinistra. E Yashi si accorse che a Shin il nero non stava bene. Lo aveva visto spesso, con gli abiti scuri. Lo aveva visto spesso vestire l’armatura brunita dei loro antenati. E aveva sempre pensato: bello. Shin era nato per quello, e lui ci sarebbe sempre stato per sorreggerlo. Al suo fianco, il suo braccio destro; il suo elemento di disturbo; perché ogni tanto bisogna ricordarlo, a un Principe, che anche la vita di loro youkai può finire e sprecarla a preservare un equilibrio, a cercare di comprendere un’armonia senza concedersi tregue e distrazioni non va bene. Yashi ne era sempre stato convinto. Ma era anche sempre stato persuaso dell’idea che sarebbe tornato nel Kansai un giorno; e avrebbe visto con i suoi occhi il palazzo dove suo fratello era nato, e lo avrebbe visto sedersi su quel trono antico e rivendicare a sé i diritti e la vendetta.
E Shin sarebbe stato nero; nero nell’armatura; nero nelle vesti; nero nei capelli.
E adesso no, Yashi si era accorto che quell’immagine, quel Principe, non gli piaceva. Forse, in verità, non gli era mai piaciuto. E l’unica cosa che volesse davvero per suo fratello, per quel fratello che gli era stato accanto come un padre, che gli aveva fatto da padre quando Morigawa era ormai perso nel suo delirio, era un haori, una scacchiera di go e una tazza di tè.
E non voleva sminuire Shin.
Ma c’era qualcosa, nella figura elegante di suo fratello che gli impediva di vederlo di nuovo vestire un’armatura. E no, non era la fasciatura che si lasciava intravvedere fra le pieghe della stoffa; non era il movimento ancora rigido della spalla quando si alzava o il passo appena claudicante che ancora si concedeva. Yashi lo sapeva bene: sarebbe bastata un’avvisaglia, un sentore di pericolo, e Shin avrebbe soppesato di nuovo la katana al fianco e celato il viso dietro l’ho-ate. Shin non è mai stato pacifico; ma non ha mai cercato lo scontro diretto, il confronto.
Yashi si lasciò ricadere sul futon. Restare seduto gli costava ancora un discreto sforzo, anche se le cure di Yaone-sama e di Homoe-san si stavano rivelando prodigiose. Il suo fisico, benchè demoniaco, era ormai allo stremo quando era arrivato al palazzo di Sesshomaru e se non fosse stato per l’aiuto medico che gli era stato fornito sarebbe ancora sospeso in un limbo irritante e capace solo di consumagli le energie giorno dopo giorno. Non ricordava quanto fosse stato svenuto, come non aveva pienamente coscienza di cosa fosse esattamente successo dopo che quella yasha aveva offerto loro l’acqua. Ma era lontano, si accorse Yashi. Erano ancora prigionieri e feriti e stanchi. Lui era stanco. E con addosso la consapevolezza che ogni tortura inflitta fiaccava la sua resistenza senza possibilità di ripresa. L’angoscia. L’angoscia che montava assieme alla consapevolezza di poter cedere da un momento all’altro e di lasciare Koji e sua madre esposti, soli. E di deludere Shin.
Poca importanza il fatto che lo credesse ancora morto.
“Ho avuto paura. Di perderti”
Il movimento rapido della testa e il ringhio che si strozza in gola. Shin si concesse un sorriso; Yashi ha sempre avuto quel pessimo, istintivo vizio, fin da cucciolo. Ringhia. Se qualcosa lo infastidisce, lo irrita, lo preoccupa. E dirgli: smettila non è mai servito a nulla. Perché Yashi è istinto demoniaco puro, e la violenza e l’impulsività selvaggia fresca e non arginata, non controllata, non piegata. Yashi è tutto quello che Shin non ha mai potuto e non si è mai permesso di essere.
Ma è
anche l’avventatezza e l’ingenuità disarmante che solo un bambino può avere.
Quella irritante e sciocca abilità di mettersi nei
guai. Come con
Shin la ricorda bene, quella notte di fine primavera. Trascorsa alla finestra della sua stanza, un libro e un tokkuri di sake. Ad aspettare, mentre il cielo si fa chiaro e scolora e l’aria, nel crepuscolo, punge la pelle e gli artigli premono sempre un po’ di più nella carne. Perché non è da Yashi non avvertirlo e passare fuori la notte. E soprattutto non è da Koji assecondare il fratello fino a quel punto. Shin lo ricorda, quel sottile strato di agitazione serpeggiare sotto la pelle. Come un campanello di allarme. E gettare il libro sul futon, indossare i koshi-ate, prendere la katana, legare i capelli in un nodo veloce e sellare il suo cervo. Senza un reale motivo, senza che l’aria fremesse o un corvo avesse gracchiato. Spronare e dirigersi verso il profilo delle montagne; perché per cacciare le montagne sono il luogo migliore. E doveva essere solo una battuta di caccia. Una semplice stupida battuta di caccia. Una sfida, l’ennesima, fra Yashi e Koji. Il primo che avesse ucciso un cinghiale e lo avesse riportato a palazzo si sarebbe aggiudicato…Shin non lo ricordava nemmeno, quale fosse il premio in palio. Una spada forse; o il sorriso di una yasha. Non lo ricordava, e non gli interessava ricordarlo. Sapeva solo che doveva durare una giornata, quella caccia; e Koji e Yashi non avevano fatto ancora ritorno a palazzo.
Shin sfiorò con prudenza la fasciatura alla spalla. Homoe-san gli aveva raccomandato di restare tranquillo; se la ferita si fosse riaperta non gliela avrebbe curata più. Lo aveva promesso; una di quelle promesse che Shin ha imparato a riconoscere. Quelle che Homoe snocciola con la bocca corrucciata e la difficoltà evidente di mascherare un sorriso. Shin ha imparato a riconoscerle, quelle promesse. E assapora il pensiero di provocarla e di riaprirsela volontariamente, quella ferita. Per vedere di nuovo Homoe costretta accanto al suo futon. E addormentarsi con la sua mano che gli asciuga la fonte e svegliarsi con il pensiero, la sicurezza, di trovarla coricata acconto a lui, vinta dal sonno e dalla tranquillità della notte.
Ma adesso deve pensare a Yashi. A suo fratello e ai suoi grandi occhi curiosi. Di ascoltare il pezzo di quella storia che non ha mai voluto raccontargli. E poi l’altra storia. Quella del loro arrivo al palazzo di Sesshomaru. Spiegargli che, se il Principe dell’Ovest acconsentirà, il Kansai avrà un nuovo Principe e lui tornerà sul Continente. Forse con Homoe, forse da solo. Forse con loro madre. Ma comunque sul Continente. Perché Nihon non è più la sua terra, Shin lo sente prepotente dentro di sé. Nihon sono le sue origini; e i tasselli di un infanzia che ha finalmente ricostruito. Mettendo in ordine le confuse sensazioni di un bambino e i frammenti di storie e ricordi che suo padre gli aveva fatto balenare davanti agli occhi. Ecco, suo padre. L’altro motivo per cui non se la sente di restarci, sulle isole. Dovrà affrontare anche quella questione, lo sa bene. Ma prima ha bisogno di capire cosa fosse diventato e perché e, soprattutto, cosa contasse per lui. Cosa significasse. Perché fa male il pensiero di non vederlo più e fa rabbia ed è, strano, ma lo è, anche gioia. Quasi liberazione. No, non è paura, sorpresa o sconcerto. Non si sente degenere nella consapevolezza che la morte di suo padre gli fa vibrare il corpo fin nei recessi. La morte è normale. E solo un’altra forma della loro esistenza. Erano essenza della terra prima di diventare youkai; restano parte dell’esistenza da youkai e tornano nell’assoluto nella loro morte. No; non è dolore o rammarico o sconcerto. È solo, di nuovo, voglia di capire, di definire. Per chiudere del tutto con il passato, trarne insegnamento e andare avanti. Migliorare. Superare Morigawa.
Ma dopo. Il presente è Yashi. E le sue parole che corrono nel ricordo di una cavalcata fino a trovare due corpi feriti e uno scheletro a trascinarli. Shin tenne gli occhi sulla scacchiera; perché non è sicuro di far bene a dirlo, quel segreto, anche se non c’è nessun vincolo. Ma lo aveva promesso a se stesso: non lo avrebbe mai detto loro. Per non farli sentire in colpa, per non far pesare loro addosso un qualcosa che ha deciso lui.
Ricordare. Koji che riprende piano conoscenza e lo vede. Mentre parla con
Ma nella sua memoria, Koji era ancora un cucciolo e stringeva e piangeva. Shin lo aveva fatto montare in sella e gli aveva detto solo: ti affido Yashi. Mi fido solo di te. E li aveva visti correre nella nebbia leggera che saliva dagli stagni, mentre la mano ossuta si allungava sulla sua spalla. Aveva mantenuto gli occhi all’orizzonte, e il sigeo scivolava con la katana e il kimono si apriva sul petto a mostrare i contorni di una muscolatura viva. Viva. Le dita lunghe e sottili allungarsi sul suo corpo erano ancora un brivido di disgusto. Ma non si era ritratto; aveva dato la sua parola e avrebbe mantenuto.
Quella mattina, benché fosse uno youkai, Shin si sorprese a pregare i Kamigami di far arrivare Yashi in tempo al castello e che Bai Gu Jing mantenesse la sua parola. Voleva rivedere suo fratello, quando fosse tornato. Voleva rivederlo e potergli dire baka! E sentirlo scusarsi e nascondere un singhiozzo e stringerlo forte e pensare che, in fondo, Yashi gli sbagli e gli errori doveva farli. Anche per lui. E non doveva preoccuparsene perché glieli avrebbe rimessi a posto lui.
“Perché lo hai fatto? Shin!
Perché ci sei sempre?”
Yashi non ha pazienza; glielo ha sempre detto. Ma è intelligente; e ha buona memoria. E la lezione di Takakumi la ricorda anche lui. Per placare uno yaouguai ci sono solo due modi: o lo uccidi o lo assecondi. E Shin aveva solo potuto assecondarlo. Perché uno scambio è uno scambio, e lui aveva accettato: il suo corpo, la sua forza giovane, per i suoi fratelli; perchè voleva esser sicuro che Yashi si sarebbe alzato dal futon con le sue gambe e avrebbe di nuovo camminato al suo fianco.
Yashi non è sciocco e Shin si
limitò a piegare la testa e stringere la pedina del go. Mentre la mano correva
alla spalla e si contorceva. Perché il ricordo faceva male, faceva
rabbia; anche se era passato tanto tempo.
Ma c’è Yashi; e c’era anche Koji. Loro sono importanti, sono più importanti. Altrimenti. Altrimenti non avrebbe esitazioni. Li immagina: gli artigli allungarsi e scivolare attorno al collo pallido, con le vene che sono un reticolato rivoltante. Posarsi lì, alla base della nuca, e iniziare a premere. La pelle chiazzarsi di nero in fretta, e distinguere le ossa del collo. Tre, quattro, cinque. Avrebbe potuto contarle. Avrebbe potuto dire di ognuna posizione e spessore e fiacca resistenza. Continuare a premere, fino a costringere la testa a torcersi indietro, con la gola semitrasparente offerta alle zanne. E la mano, l’altra, quella che era costretta ai seni avvizziti e cadenti, scivolare sul plesso solare, ricercare l’eco di un battito, e penetrare. Spingersi a fondo, nel molle e nel viscido, e accorgersi del sangue che gocciola e della smorfia di irritazione e sconfitta.
Se solo non avesse dato parola.
Le zanne avrebbero schernito, con lo sguardo fisso su un volto che va disfacendosi, mostrando orbite vuote e carne e ossa che si liquefanno con uno sfrigolio assordante. Le zanne. Non avrebbe dovuto conficcarle nelle labbra, per impedirsi di reagire e allontanare quella nudità volgare e ostentata. Avrebbe potuto mordere.
Invece. Il conato represso con
fatica, mentre un sapore di liquame e marciume gli invadeva la bocca; la
sensazione di sporco e polveroso sulla pelle, nella pelle,
dentro, nel corpo. E le forze scendevano lentamente e la schiena nuda sulla
terra preme e preme e preme. Era volgare,
Shin aveva lasciato che godesse di lui, dimenticandosi del suo onore e del suo orgoglio
di demone. Le aveva concesso il suo corpo, la sua forza vitale, più intensa e
soddisfacente di quella umana, capace di renderle le forze e la vigoria per
molto, molto tempo. Quando
Ma
Shin chiuse gli occhi. La mano diversa della Bai Gu Jing che si era stratta nella sua era stata una sorpresa. C’era qualcosa di diverso nello yaouguai; il suo sguardo forse, di nuovo vivo e giovane. Il volto liscio, o forse solo le forme che ammiccavano dal hanfu gettato in fretta sulle spalle. Shin non sapeva ancora dire cosa gli avesse impedito di far scattare gli artigli e stringerle la gola; perché le avesse permesso di nuovo di toccarlo e non avvertisse la medesima repulsione provata la prima volta. Né compassione né accondiscendenza. Semplice curiosità, si era detto. O forse il gusto per il proibito. Non lo sapeva. Non lo aveva mai capito. E aveva continuato a guardarla anche quando lei gli aveva voltato le spalle e si era incamminata nella nebbia che saliva dalla terra calda. Aveva continuato a fissare il punto indistinto che l’aveva inghiottita, prima di avvertire in mano le forme levigate di un pei.
“Ce l’hai ancora? Il pei, intendo”
Shin socchiuse gli occhi. Il pei: un cerchietto di giada levigata e perfetta nelle forme,
con incisi a sbalzo ideogrammi così simili ai suoi e ancora così diversi. Il pei. Sì; lo aveva conservato, ben protetto e nascosto nella himitsu bako. Si era chiesto spesso, in passato, perché non l’avesse
buttato. Si tengono i doni delle amanti; non le ricompense di un’incontro che
si vorrebbe solo dimenticare. Eppure, per qualche motivo, il pei
restava ancora al suo posto, al sicuro nel mosaico di legno e incastri. Shin sospirò
e si passò una mano sul collo. Restava l’altra questione, adesso.
“Ti lascio il Kansai.
Io torno nel Continente”
Ecco.
Lo aveva detto. Facendo ruzzolare le parole con troppa
velocità; quasi con il timore di sentire la bocca muoversi e la voce spegnersi
senza esser riuscito a finire la frase. Lo aveva detto; e Yashi lo
fissava con la bocca socchiusa e il respiro che non voleva saperne di andarsene
né su né giù. Non poteva aver capito bene. Si stava sbagliando, giusto? Suo
fratello non aveva davvero intenzione di andarsene; non poteva mollarlo lì e
tornarsene a casa. Non aveva senso, ecco. Era uno scherzo, vero? Shin stava
solo scherzando. Di certo. Voleva metterlo alla prova; voleva
vedere come avrebbe reagito; voleva solo vedere se era un po’ cresciuto o se lo
avrebbe preso il panico come quando era cucciolo e suo fratello doveva uscire
con l’esercito. Certo; ovvio. Era solo una prova. Yashi cercava di
convincersene disperatamente. Era solo una prova: adesso gli avrebbe detto che
era stato uno stupido, a fare quella faccia; gli avrebbe detto che appena
Sesshomaru-sama fosse rientrato a palazzo sarebbe andato a parlare con lui.
Inuyasha-san aveva portato loro, in via informale, una
prima proposta delle condizioni di resa ed erano state più che soddisfacenti.
Mancava solo l’approvazione di Sesshomaru-sama e tutto sarebbe andato a posto.
Avrebbero riavuto il Kansai; avrebbero riavuto la loro libertà e la posizione
che detenevano prima dell’esilio. L’unica condizione
era riconoscere la supremazia di Sesshomaru-sama, la sua autorità, e
sottoscrivere un trattato di alleanza. Sì; ottime condizioni. Shin avrebbe
firmato e avrebbe ottenuto il trono; il suo trono.
Doveva andare così, Yashi ne era certo.
Suo
fratello a capo del loro clan e lui gli avrebbe dato
tutto il suo appoggio. Su quello non si discuteva. Era sempre stato quello,
l’accordo. Perché cambiare le carte in tavola? No, non aveva senso. Shin stava
giocando. Un gioco brutto, va bene, ma poteva concederglielo. Non si sarebbe
messo a pestare i piedi per terra come quando era cucciolo; non si sarebbe
messo a piangere e urlare e stringere il kimono di suo fratello solo per
trattenerlo o per convincerlo a portarlo con lui. No; avrebbe sorriso, magari
abbozzato un piccolo applauso, perché, doveva ammetterlo, era riuscito davvero
a sorprenderlo. Ma in fondo era solo uno scherzo,
giusto? Solo uno…
“Non
sto scherzando Yashi-kun”
Shin si
appoggiò stancamente al bracciolo. Lo sapeva; lo aveva previsto: Yashi non gli
credeva; aveva pensato ad uno scherzo, ad una trovata
sfuggita per allentare la tensione. Forse ad una
prova; ad una specie di iniziazione per confermare se sarebbe stato un valido
aiuto o se una notizia simile, sbattuta in faccia senza preavviso, lo avrebbe
destabilizzato. Doveva aver pensato a molte cose; ma non gli aveva creduto. E
adesso se ne stava lì, a rigirare sul piatto di bambù gli onigiri, senza
decidersi a portarli alla bocca e mordere. E Shin era sicuro che quello
smarrimento, quella calma placida e irreale fosse solo un momento di pausa.
L’attimo che, lo sapeva bene, precedeva l’esplosione, la rabbia, la
frustrazione, la tensione che si libera e diventa parole, urla, ringhi. Gesti
anche, se solo Yashi avesse avuto la forza di muoversi a suo piacimento. Ecco:
quello giocava a suo favore. Suo fratello non era ancora capace di sopportare
uno sforzo fisico prolungato, e questo avrebbe di certo evitato un confronto
diretto. Verbale era inevitabile, ma almeno non si sarebbe trovato costretto a
premere Yashi contro il tatami, a fermarne le mani che correvano a premere e stringere
e afferrare. Forse avrebbe fatto più fatica; perché sapeva per esperienza che
Yashi è più propenso ad ascoltare e ragionare solo dopo che si è sfogato. Ma non aveva tempo per andare tanto per il sottile. Due possibilità: o affrontare subito la questione, con suo fratello
costretto in un modo o nell’altro ad ascoltarlo, o rimandare e dare a Yashi
il tempo di rimettersi e reagire e dover, allora, intavolare un confronto
sfibrante e lungo. Maledettamente lungo. Shin aveva optato
per la prima ipotesi. Non se la sentiva di trascinare ancora quel
pensiero che andava rimuginando da troppo tempo. Nelle ore passate al capezzale
di suo fratello, ma anche prima, durante la sua stessa convalescenza a palazzo,
Shin aveva avuto occasione di pensare. E aveva scoperto di desiderare
unicamente il Continente. Una consapevolezza che non gli aveva attraversato la
mente all’improvviso; quasi la quieta e naturale accondiscendenza ad una realtà sempre saputa, sempre agognata, e ignorata e
repressa per dovere e per non alimentare illusioni.
Con
Morigawa vivo, il posto di Shin era a fianco di suo padre. Dovunque lui volesse
andare: Continente, Nihon, o anche altrove. In pace o in guerra. Ma Morigawa era il passato. Morigawa era un qualcosa che
Shin desidera lasciarsi alle spalle; quell’eredità che non riusciva, in nessun
modo, ad accettare. Poteva rassegnarsi al ruolo che la sua nascita gli
imponeva; poteva rassegnarsi a non essere libero, senza vincoli; poteva
accettare il ruolo e l’equilibrio che doveva preservare. Ma
il regno del Kansai no. Per quanto si sforzasse, non riusciva a formulare
un’immagine diversa da Yashi seduto sul trono. Lo avrebbe voluto di nuovo con
lui, certo. Sul Continente, lo sapeva già, prima o dopo lo avrebbe preso la
nostalgia, il rimpianto di trovarsi solo ad affrontare gli abituali problemi e
nella testa la sibillina consapevolezza che la fusuma non si sarebbe più aperta
con troppa irruenza e che Yashi non avrebbe più fatto irruzione. Con la sua
carica ribelle, con quell’esuberanza che gli permetteva, lo obbligava, a
distrarsi e lasciare il palazzo.
Yashi
sarebbe diventato principe del Kansai, con l’approvazione di Sesshomaru-sama.
Shin era pronto a tutto pur di ottenere il riconoscimento di suo fratello; con
Inuyasha-san l’argomento era stato toccato svariate volte, di sfuggita o
direttamente. Avevano posto condizioni, elaborato ipotesi
e scartato scelte, parole, atteggiamenti controproducenti. Avevano anche
ipotizzato la somma di un possibile riscatto; avevano ipotizzato uno scambio di
natura indefinita: il regno del Kansai e il riconoscimento di Yashi per…Cosa avrebbe potuto destare l’interesse di Sesshomaru-sama?
Ricchezze ne possedeva e non lo affascinavano;
possedeva una spada temibile, e offrigliene un’altra così, per quanto potente e
affilata, era un rischio non calcolabile: avrebbe potuto accettare, ma avrebbe
anche potuto sentirsene offeso. Una spada la conquisti sul campo; ci dev’essere
un legame speciale, con la katana. La si doma; e la si
ama. Come una donna.
No.
Shin era sicuro che una katana sarebbe stato l’omaggio
sbagliato; e anche una yasha o una donna. Conosceva la nomea di
Sesshomaru; e le informazioni che nel tempo suo padre aveva
raccolto sul Principe dell’Ovest si erano rivelate sempre attendibili. Forse un
po’ imprecise e frammentarie in alcuni punti, ma
attendibili. E nessuno aveva mai riportato un particolare interesse di
Sesshomaru per il gentil sesso. Shin aveva dovuto ammettere a se stesso la
sorpresa che lo aveva attraversato nello scoprire la presenza, a palazzo, di
Alessandra-sama. Ne avevano parlato molto, con suo padre e Narku, durante i
consigli di guerra; avevano anche ipotizzato una possibile irruzione a palazzo
per rapirla e usarla quale merce di scambia. Un’idea
dell’hanyou, ad esser precisi. Forse solo per
controllare quanto effettivamente Sesshomaru fosse legato a lei.
“Cosa dovrei dirti, Shin-oniisama?
Arigato gosai?”
Sarcasmo.
Amaro; molto amaro. Shin non credeva che avrebbe
sentito ancora quella sfumatura, nella voce di suo fratello. Era il tono che
usava quando era un cucciolo, e voleva provocare. Lo usava con Morigawa, con
gli youkai più grandi della corte. Lo aveva usato anche con lui, qualche volta.
Gli occhi bassi e i pugni stretti e percorsi da piccoli brividi, fra la
frustrazione e la rabbia, sull’orlo di lacrime che non voleva farsi sfuggire e
stavano lì e premevano e pizzicavano e lo irritavano ancora di più. Perché
quando Shin lo estraniava da un progetto, da un
qualcosa, Yashi gli rispondeva così. Con quella voce che sembra un singhiozzo
ed esce quasi a fatica; la testa inclinata di lato e un mezzo irritante sorriso
di sfida. Uno di quei sorrisetti che sono un piccolo ghigno e sembrano volerti
dire sei contento? Hai fatto di testa tua, ma io non
ci sto. Prova a cacciarmi. Prova a lasciarmi fuori. Non te la perdono. Non ce la fari.
Crescendo,
Yashi si era accorto che gli atteggiamenti infantili non facevano più presa sui
demoni che lo circondavano e allora aveva semplicemente cambiato strategia. E
quando si sentiva vulnerabile, quando lo attaccavo e, per un qualche motivo,
non poteva rispondere sul piano fisico, rispondeva con
la voce tagliente e quel pesante sarcasmo. Disarmante a volte; capace di ferire
quasi sempre. Forse più dei suoi artigli. Perché era
spiazzante vederlo mutare all’improvviso, e la solarità dirompente che lo
caratterizzava virare, trasformarsi in un qualcosa di irriconoscibile
e pericoloso. In quei momenti, gli occhi di Yashi sfumavano in un colore
vinaccia e la sclera si assottigliava in modo pericoloso; era l’avvertimento,
il segno tangibile di non stuzzicarlo ulteriormente, di fare attenzione.
L’impulsività di Yashi poteva essere pericolosa, soprattutto quando era nella
sua forma animale. Pericolosa; e letale.
Ma, in quel
momento, Shin si accorse con dolore che Yashi non voleva essere né sarcastico
né provocatorio. Era solo amareggiato. Profondamente abbattuto. E se ne stava
rannicchiato sul futon, incapace di decidersi a voltarsi e affrontare quella
conversazione come un demone adulto. Perché, di tutto quello che Shin gli aveva
detto e continuava a dirgli, nel tentativo di
spiegarsi, Yashi aveva afferrato solo una cosa. Fondamentale. Shin se ne
andava. Shin tornava a casa, sul Continente; e non lo voleva con sé. Shin non
lo voleva più al suo fianco. Se ne sarebbe andato, magari assieme alla yasha con cui lo aveva visto intrattenersi più volte
sull’engawa. La figlia di Kumamtoto-sama; Homore-hime-san
gli sembra di ricordare. Suo fratello l’avrebbe presa con sé, e avrebbe
lasciato lui a Nihon. Lui e il regno.
Già; il
Kansai. Sarebbe andato a lui. Yashi, Principe del Kansai. Ma
cosa se ne faceva, del regno, se non c’era Shin? Poteva anche accettare l’idea
di salirci, su quel trono, e che suo fratello non se la sentisse e abdicasse. Ma restare da solo; restare da solo in una terra che, in fondo,
anche se era la sua patria d’origine, era solo terra straniera. Con la sua
impulsività; con la sua precipitazione che, ne era certo, avrebbe solo portato
ad attriti e risentimenti con altre famiglie.
No.
Yashi non era ancora pronto. Non se la sentiva di lasciar andare Shin e
mettersi a camminare da solo. Poteva essere egoista, era di certo un
ragionamento egoista, ma in fondo non era ancora un
cucciolo? E Shin non era sempre stato il suo aniue? No; non voleva lasciarlo
andare. Non poteva lasciarlo andare. Ma, mentre lo
osservava di sfuggita rimescolare il tè e starsene zitto e cercare quelle
parole che avrebbero potuto se non persuaderlo almeno inclinarlo al dialogo,
Yashi si accorse di non avere la forza di trattenerlo. E che, in qualche modo,
qualcosa era successo e aveva perso Shin. Perso;
smarrito; fuggito. Shin era in quella stanza; era attento ai suoi movimenti, ai
suoi sospiri; lo studiava con una punta di apparente noia e indifferenza, ma
bastava scivolare lungo i nervi del collo per accorgersi della tensione che li
attraversava, facendoli vibrare a piccoli scatti. Quand’era stata l’ultima
volta che lo aveva visto così…Insicuro. Sì; insicuro. E fragile e addolorato e
diverso. Yashi non la ricordava, una volta in cui suo fratello aveva avuto paura
a sostenere una conversazione. Nemmeno davanti a loro padre,
nemmeno quando era in ginocchio e i capelli cadevano e cadevano al taglio netto
del tanto.
Yashi
sospirò e si lasciò ricadere sul futon. Il frinire delle
cicale e quel silenzio pesante. Yashi avvertiva la stanza pesargli
addosso, contorcersi e rimpicciolirsi a volerlo inghiottire. E non ce l’aveva, la forza, per alzarsi o solo mettersi seduto,
puntare le mani e urlare forte, molto forte, che non gli bastava un ho deciso così, come risposta. Non
avrebbe mai potuto trattenerlo, e sentiva un ringhio roco e fondo montare in
gola a quel pensiero; ma l’idea di lasciarlo andare così era ancora più
insopportabile. E, si sorprese a pensare, non accettava che suo fratello
potesse preferire una yasha a lui. Si coprì gli occhi col braccio. Shin lo avrebbe lasciato
rimuginare tranquillo; avrebbe aspettato anche tutta la notte, seduto
sull’engawa. Aspettato.
Se suo
fratello rinunciava anche a poter vedere Homoe-hime doveva davvero tenerci, a
quel loro colloquio. Yashi arricciò il naso. Homoe-hime; Homoe-sama; Homoe-san.
Homoe. Homoe. Homoe. Non lo sopportava più, quel nome.
Non ne sopportava il suono; non tollerava la presenza ingombrante e minacciosa
che evocava sempre. Riusciva a guastargli l’umore in un attimo. E, soprattutto,
non gli piaceva come lo pronunciava suo fratello. Shin aveva scosso le spalle,
quando glielo aveva fatto notare. Vedi cose che non esistono
aveva detto. Ma Yashi no; Yashi era sicuro di essere
troppo impulsivo e poco propenso all’attesa, ma nessuno lo avrebbe convinto di
essere stupido. E di aver iniziato a sognarsi le cose. Soprattutto se il
qualcosa riguardava Shin. Ed erano anni che non sentiva aniue pronunciare il
nome di una yasha in quel modo; quasi assaggiando ogni
suono e abbassando il tono di voce. Di poco, vero. Un’inflessione
impercettibile, perlopiù. Nessuno se ne sarebbe mai accorto. Ma
Yashi non era nessuno. E la voce di Shin-oniisama la conosceva bene. E quando
parlava di Homoe-hime Shin era contento. E Yashi non
riusciva a digerirlo.
Soffocò
un verso a metà fra un singhiozzo e una risata. Possibile? Avrebbe davvero
potuto…Ma no! Che assurdità! Insomma: non era un bambino; e Homoe-sama non
sarebbe stata la prima. Cosa c’era di diverso? Non era la prima per Shin; e
nemmeno lui non era estraneo ad un simile interesse.
Perché mai avrebbe dovuto essere…Yashi inghiottì rumorosamente. Non riusciva
nemmeno a pensarla, quella parola. Era semplicemente
impossibile. E Shin, allora, come avrebbe dovuto reagire quando lo trovava fra le
braccia di una yasha? Cosa avrebbe
dovuto fare? No. Non era possibile. Si stava sbagliando. Non voleva che Shin
andasse; e basta. Con o senza Homoe-san Yashi non voleva che suo fratello lo
lasciasse. Era quello; solo quello.
Perché.
Perché…Yashi lasciò scivolare la mano attorno al collo. Il sangue martellava
nella giugulare, rimbombava nelle tempio. Correva
veloce, il sangue. Troppo veloce. Yashi si scoprì in agitazione, si accorse
delle mani sudate e attraversate da un tremito leggero; quasi la debolezza di
una malattia che serpeggia nella carne e si irradia,
con sadica lenta studiata lentezza. Cercò di riprendere padronanza di sé; un
respiro, due, tre. Con calma: inspirare; trattenere il fiato;
espirare. Va bene. Daccapo. Inspira di nuovo. E ripensa.
Shin
vuole andarsene. Va bene. Shin vuole lasciarlo a Nihon, come principe. Va bene.
Lui non vuole. È una certezza. Perché. Perché non si sente pronto, ecco. Perché
è egoista. E perché…
“Vuoi portare Homoe-san con te, vero?
Adesso
che c’è lei, io sono di peso, giusto? Ti vuoi disfare
di me. Ma io…”
“Homoe-san
non verrà con me”
Il
labbro si increspò appena, in un sorriso a metà fra il
sarcasmo e l’autocommiserazione. Shin avvertiva la sorpresa che attraversava
suo fratello; lo vedeva: la bocca socchiusa, mentre le parole si spegnevano e
diventavano respiro sempre più lento e trattenuto; le mani bloccarsi, fermarsi
nel gesto frenetico che sempre accompagna Yashi quando parla. Una gestualità
forte, accesa che doveva essersi pietrificata; e le mani e le braccia, ferme,
fanno male, sono pesanti. Ecco: adesso le aveva fatte ricadere e le teneva
inermi lungo il corpo. Ci avrebbe messo ancora qualche istante ad assorbire
quelle parole. Perché, Shin ne è consapevole, non è da lui rispondere in quel
modo. Non è da lui affrontare un argomento delicato come quello; se Yashi in
passato gli chiedeva delle sue amanti, Shin taceva o sviava il discorso. Era
consapevole che suo fratello sapesse, ma non confermava né smentiva. Era una
delle regole per Shin: riservatezza, chiunque fosse stata la compagna.
Non era
da Shin una presa di posizione precisa, un’ammissione che, Yashi se ne accorse,
non era stata gettata lì solo per troncare il suo sproloquio. Shin-oniisama non
parla oltre il necessario; non concede mai più di quello che vuole. E voleva
che lui sapesse quello: Homoe-san non andrà nel Continente. Per il momento,
almeno.
Yashi
si stropicciò gli occhi. Aveva imparato con gli anni a leggere dietro le
semplici parole di suo fratello; una sola frase di Shin poteva contenere più di
un significato, e talvolta il messaggio vero non era quello che appariva più
lampante. Quindi: Shin non sarebbe partito con
Homoe-san. E i motivi potevano essere due: Homoe-san lo aveva rifiutato o Shin-oniisama
non glielo aveva chiesto. Non ancora,
almeno. Yashi sperava nella prima, ma razionalmente era più propenso a
scegliere la seconda ipotesi. Il punto, però, restava: Shin se ne andava, e lo
lasciava lì. E Yashi non riusciva a capire perché.
“Perché,
oniisama? Per una volta, dimmi perché”
Shin sospirò
e ruotò sulla posizione seiza; aveva un’aria così formale e compita,
un’austerità antica e capace di soggiogare anche in quelle vesti semplici e
quotidiane che Yashi avvertì l’impulso di assumere un atteggiamento più formale
e di abbassare gli occhi. Ma non lo fece; aveva sempre
guardato suo fratello in faccia, e avrebbe continuato a farlo. Il rispetto lo
aveva sempre dimostrato in altri modi, e Shin lo sapeva. Era inutile, era
ipocrita, cambiare così, all’improvviso. Solo per la stupida idea di impedirgli
così di parlare e poterlo, in qualche modo, fermare. Incatenare. Come se il non
pronunciare la sua decisione la vanificasse, l’annullasse.
Yashi sospirò e cercò comunque di incrociare le gambe e ottenere una maggiore
stabilità. Va bene: era pronto a parare il colpo.
“Sai
cos’è un principe, ototo?”
Yashi
strinse gli occhi. Che razzo di domanda gli faceva, adesso? Certo che sapeva
cosa fosse un principe. Shin era un principe; e anche Sesshomaru-sama. E lui
sarebbe diventato principe se Shin gli lasciava il Kansai. Certo che sapeva
cosa fosse un principe: era il vertice del clan, il membro primo della stirpe,
l’erede di una dinastia pura e antica. Il discendente diretto degli youkai che
avevano abitato la terra appena l’ultima goccia d’acqua cadde dalla lancia di
Izanagi. Era il perno attorno cui rotavano loro
inoyoukai, il fulcro, il modello. L’essenza.
Yashi
arricciò le labbra in un ringhio di insofferenza. Non
aveva né la voglia né la forza di reggere uno degli estenuanti ragionamenti
cervellotici e contorti di suo fratello. Gli aveva chiesto una cosa, e una
sola, e voleva una risposta chiara, precisa. Concisa. E invece, Shin stava
sorridendo della sua impazienza, delle sue parole snocciolate con noia,
ripetendo una nenia, una cantilena insegnata fino allo sfinimento.
“Devi
ancora crescere, ototo.
Ma sono
sicuro che imparerai cosa significa essere un oujisama”
*****
Era una
sensazione strana; quasi malinconia.
I
fianchi stretti contro il pelo lungo e soffice; il ritmo del cuore e del
respiro che palpita sotto le mani, strette al garrese; e il vento. La
sensazione di libertà e fresco e istinto che si mescolava
nell’aria sbattutagli in faccia, assieme ad un odore pungente, quasi selvaggio.
E poi…Cos’altro c’era, di diverso? C’era il suo cuore. Il ritmo innaturale e
prolungato; il battito cadenzato e l’affanno; la sorpresa della bocca socchiusa
nel cercare di regolarizzare il respiro, di calibrare
energia e sforzo, di equilibrare l’opposizione del corpo all’aria e
l’appiattirsi sul dorso del lupo.
Koji
socchiuse gli occhi.
Era
diverso. Completamente diverso. Sentiva ogni fibra del suo essere palpitare e
fremere e vivere. Sì, vivere. Come se riconoscesse le sensazioni, come se
riuscisse a percepire, nonostante il movimento veloce e frenetico, ogni atomo
della vegetazione che scorreva in fretta, quasi macchia indistinta. Eppure. Eppure erano anni che non montava un lupo, sempre
che lo avesse mai fatto, da cucciolo. Era avvezzo a cavalcare gli stambecchi e
i cervi. Sul Continente, una volta, aveva tentato di domare anche un kirin,
senza molto successo. Ma un lupo. Un lupo no, non
aveva mai immaginato di poterlo, volerlo, cavalcare.
Eppure
era stato tutto così naturale; istintivo. La mano che si allunga al naso umido
e fremente; la sensazione di attesa e fremito che si era irradiata
in tutto il suo corpo mentre il lupo lo annusava e lo valutava. E Koji si era
scoperto in trepidazione, ansioso di conoscerne il giudizio e improvvisamente
impaurito di un possibile rifiuto. Il lupo però aveva solo soffiato forte,
scosso la testa grande e squadrata e si era limitato ad
offrirgli il dorso, mansueto, quasi avrebbe detto onorato. Salirgli in groppa,
appiattirsi sul suo dorso, scendere con una mano ad accarezzargli il collo
forte e i muscoli attraversati dal desiderio di correre era
stato un tutt’uno, immediato e istintivo.
Con i
cervi e gli stambecchi è diverso. La schiena, in primo luogo. La schiena la
devi tenere eretta, ma le spalle vanno rilassate; stringi le gambe e lasci che
il busto assecondi il corpo della cavalcatura. La testa, infine. La testa dritta
e gli occhi ben fissi in avanti. Mai guardare in basso; mai scappare dalla
strada: si guarda solo avanti. E senti il fremito dei muscoli che scattano;
avverti il loro contrarsi nello sforzo e il respiro si trasmette nelle briglie
e nel morso. Devi imparare a essere dentro il cervo o lo stambecco, e allora
saprai cavalcarlo. Saprai domarlo.
Con
quel lupo era stato diverso. La schiena che si curva e la simbiosi quasi
naturale, immediata. Koji si accorse di sapere cosa dire per incitarlo, che
parole (ma erano davvero parole?) usare per impartigli
ordini, come tranquillizzarlo e trasmettergli la sua euforia. E più il tempo
passava, più la corsa proseguiva, più la sensazione di completezza e di
pienezza si irradiava nel suo corpo, saliva dallo
stomaco e stringeva i polmoni pieni d’ossigeno.
Koga
sorrise, mentre stringeva i fianchi del suo lupo e lo
incitava a raggiungere il compagno. Chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni
l’aria fresca e umida della foresta di bambù. Nelle ultime settimane, restare
confinato a palazzo era stato estenuante. Scalpita e desiderava più di ogni
altra cosa trovare una scusa per evadere e mettersi in caccia. Non gli
interessava cosa potesse essere la preda. Un cervo, un cinghiale, andava bene
anche un coniglio. Ma voleva l’odore della terra nel
respiro, gli artigli sentire ogni più piccolo filo d’erba piegarsi al suo
passaggio, i sensi tesi allo spasimo a captare il minimo movimento e quel
rivolo di sudore scendere sulla pelle accaldata e immobile in un brivido
intenso di piacere. Le zanne schiudersi in un ghigno e
scattare e afferrare e affondare. Il sangue riempire
violento e caldo la bocca, scendere a grattare la gola e colare lungo il mento.
La carne offrire debole resistenza e cedere; lo strappo netto dei fasci
muscolari ripetersi ancora e ancora nel silenzio della caccia, mentre assapora
la preda, la sua preda.
Se lo
era immaginato tante volte; il degno coronamento di quella piccola fuga che, lo
sapeva, prima o dopo avrebbe fatto. Adesso, invece, non gli interessava nulla
di caccia, prede e adrenalina che sale nell’attesa e nell’agguato. Adesso Koga
aveva solo la figura di suo fratello a riempirgli la testa: il corpo che
assecondava i movimenti possenti e armoniosi della sua cavalcatura e gli ordini
diventare sempre più sicuri, in un suono basso e gutturale, quasi roco, che gli
riempiva il petto di orgoglio. Probabilmente non se ne
accorgeva, ma Koji stava lentamente ricordando la sua lingua originaria.
I ringhi sommessi si facevano via via più sicuri e fermi; gli ordini scanditi
con sempre maggior autorità e fermezza. Koji stava ricordando, stava riacquistando la sua identità di ookami. Ma, Koga lo sapeva, era un processo che richiedeva ancora
tempo. Molto tempo. Appena si fossero fermati, Koji avrebbe ripreso a
esprimersi normalmente, senza nemmeno ricordarsi di aver usato un’altra lingua,
un’altra impostazione vocale.
Non
importava.
Per una
volta, per suo fratello, Koga era disposto a imparare cosa fosse la pazienza.
Era rassegnato ad ascoltarlo raccontare della sua vita sul Continente, di
ricordi che non avrebbe mai voluto conoscere e di una vita diversa e lontana,
molto lontana. Era disposto anche a parlare con quegli
inuyoukai che lo avevano allevato e che Najiya chiamava
fratelli.
Koga
strinse con stizza il pelo del suo lupo, digrignando i denti in una smorfia
frustrata. Si era sentito ribollire il sangue nelle vene quando aveva trovato
al capezzale di Najiya Shin-san. Forse era stata solo la stanchezza a
impedirgli di reagire con veemenza e lo aveva costretto solo a ringhiare un vattene
disperato e perentorio. E Shin-san aveva piegato la testa, indugiato sul volto
pallido di Koji e se ne era andato. Senza dirgli una parola;
senza disprezzo o alterigia. E Koga aveva sentito tutta la rabbia e
l’adrenalina scendere davanti a quella ritirata dignitosa e così austera.
Aveva
immaginato di dover combattere, per riavere suo fratello. Aveva pensato alle
discussioni, agli scontri non solo verbali, alle urla che, lo sapeva, ci
sarebbero state. Aveva immaginato di dover far valere a forza la sua autorità,
forse anche a dover ricorrere al titolo e alla posizione che gli erano proprio.
Mai, nemmeno nelle sue previsioni meno accese, aveva mai pensato di ritrovarsi
semplicemente seduto accanto al capezzale di suo fratello, lì dove fino a pochi
istanti prima sedeva un altro demone, un altro youkai che Najiya aveva a lungo
chiamato aniue.
Invece.
Invece tutto era avvenuto in modo naturale, quasi necessario.
Homoe-san
che gli si avvicina appena rientrato dalla battaglia; le veloci parole
scambiate con Ayame e la certezza di lasciarla in mani sicure perché fosse
medicata. Era cresciuta, la sua piccola Ayame. Koga l’aveva guardata
allontanarsi, il passo un po’ claudicante e una mano a
comprimere la ferita al seno; aveva visto il braccio spazzare l’aria e
allontanare chiunque cercasse di offrirle appoggio e il mento alzarsi altero e
irriverente, il viso accennare di lato e indugiare su di lui, con gli occhi
languidi attraversati da orgoglio e stanchezza. La sua piccola Ayame.
No, non
era più la piccola Ayame. Koga se ne era accorto in quell’istante: mentre i
capelli scarmigliati e sporchi di terra e sangue assecondavano il movimento
elegante della testa e lasciavano scoperta, per un istante, la nuca flessuosa.
Lì dove l’aveva morsa; lì dove le aveva impresso il suo marchio. E Ayame non
era stata più la bambina, non era stata più il cucciolo con cui scherzare, con
cui giocare a rincorrersi. Ayame era diventata altro: e Koga aveva avvertito
prepotente il desiderio di stringerla lì, nella piazza d’armi, davanti a tutti.
Stringerla, baciarla e recidere i pochi lacci che ancora supportavano la sua
corazza lacera.
L’avrebbe
spogliata lì, davanti a tutti, strappando ornamenti e pelliccia bianca. E poi.
Poi l’avrebbe avvolta nel suo mantello, nei colori del suo clan. E Ayame non
sarebbe più stata la bambina; Ayame sarebbe stata la yasha.
La sua compagna.
Era
stato il capogiro violento e il sangue che era rifluito improvviso al cuore a
impedirgli di muovere un solo passo e a costringerlo a guardarla allontanarsi
verso uno dei palazzi di Sesshomaru-sama. Forse sarebbe anche stato costretto a
piegare un ginocchio a terra, tanto le forze fluivano veloci dal corpo assieme
al sangue e all’eccitazione che scemava. Aveva vinto, ma non era stata una
battaglia facile. Dopo che Sesshomaru-sama aveva lasciato il campo di
battaglia, lo scontro si era protratto ancora per ore e solo alle prime luci
della sera i suoi lupi erano riusciti ad avere la meglio
dell’ultimo drappello che resisteva.
Koga si
lisciò le labbra e strinse gli occhi. Gli sembrava di risentire in bocca il
gusto del sangue; la terra secca e la polvere invadergli la gola e rendergli
fastidioso il respiro. E la ferocia e la follia montare al cervello quando, proprio
all’ultimo, un kamaitachi era scivolato fulmineo oltre la cerchia di lupi e
aveva aggredito Ayame. La sorpresa invadere il viso della yasha
mentre scivolava a terra, i koshi-ate spezzati e il sangue che sprizzava
copioso da una ferita profonda e sottile come il taglio della katana. Era stato
un attimo: la distrazione e la sorpresa di un istante e il kamaitachi aveva sollevato il vento e puntato alla gola, incontrando
invece il braccio che Ayame aveva alzato a riparo per istinto. Gli artigli
graffiare e stridere sulla corazza, infrangerla e affondare nella carne tenera
del seno, mentre i denti premevano e stringevano attorno all’osso che andava
incrinandosi.
Il
vento acquietarsi un istante in un silenzio innaturale, i piccoli occhi neri del
kamaitachi assottigliarsi per l’improvviso silenzio e
poi aprirsi nell’improvvisa consapevolezza del pericolo; il corpo scattare
trascinando gli artigli nella carne viva del petto e nell’urlo di Ayame che
aveva riempito le orecchie di Koga. Il kamaitachi aveva avuto forse il tempo di
scorgere l’iride di Koga virare all’oro prima che gli artigli dell’ookami
affondassero nella gola e tranciassero di netto la testa.
Aveva
pagato; quel demone aveva pagato con la sua vita
l’offesa e il sangue di Ayame. Koga aprì e chiuse la mano, accarezzandosi il
palmo con il artigli. Era stata una sensazione strana:
non era certo la prima volta che uccideva, ma dilaniare quel kamaitachi era
stato assieme liberatorio e frustrante. E più strappava e avvertiva pelle e
viscere impigliarsi nelle mani e poi subito sfuggire, più la testa gli urlava,
continua, non smettere, non perdonare. Erano state le braccia di Ayame e la sua
voce contro la schiena a risvegliarlo da quello stato catatonico, ritrovandosi
inginocchiato nella terra ormai rossa di sangue e cosparsa di resti di carme e
ossa. Uccidere va bene; uccidere è normale per uno youkai, ma Koga si era
fissato gli artigli e si era accorto di tremare e della gola che bruciava per
lo sforzo, le grida e i ringhi continui. Koga si era accorto, e la sensazione
era ancora viva e pulsante nel suo corpo, cosa volesse dire avere davvero
paura. E non quel timore che ti può prendere quando affronti un avversario e ti
accorgi all’improvviso, per un movimento, per un accenno di sorriso, per un
guizzo negli occhi, che sei con le spalle al muro e basta un errore, un minimo
movimento sbagliato, e sarai morto. Non è la stessa sensazione: non ti senti
braccato, bloccato in un angolo e non combatti con la testa la paura e
l’agitazione che ti montano nel petto e sono pericolose perché ti portano ad
agire senza pensare, di portano ad un passo dagli
artigli dell’avversario. Non è la stessa sensazione, eppure il respiro se ne
resta lì, annodato nella gola e il sangue rimbomba e corre e offusca i sensi e
nella testa c’è solo una parola: pericolo. E sussurra e urla e ringhia e
piange. E ti accorgi che devi fare qualcosa e sai esattamente cosa fare, anche se è disperato pensarlo, anche se è insensato
tentarlo. Lo fai e basta, perché non ce la fai a testare fermo e pensare e
valutare e quella parola, pericolo, che martella in testa fa male, è fastidiosa, e vuoi solo metterla a tacere.
Koga
non aveva pensato, e del kamaitachi erano rimasti solo alcuni grumi pulsanti e
caldi di carne; non aveva pensato, mentre aveva stretto Ayame fra le braccia,
l’aveva fatta montare con sé sul suo lupo e lasciava con passo solenne il campo
di battaglia. Non aveva pensato ed era rientrato a testa alta nel palazzo di
Sesshomaru-sama, aveva affidato Ayame a Homoe-san e solo quando era stato certo
che la yasha era ormai stata medicata e riposava nella
loro tenda aveva permesso a Yaone di slacciargli la corazza e tamponare
l’emorragia al fianco e ricucire il largo squarcio che gli percorreva il
torace. Per l’occhio non c’era stato molto da fare e Koga si era dovuto
rassegnare: non ne avrebbe perso l’uso, Yaone era stata rassicurante, ma
avrebbe dovuto imparare a convivere con una vista ridotta di almeno la metà per
l’occhio destro.
Scrollò
le spalle e si sfiorò la benda che gli fasciava la testa e scendeva sul volto.
Aveva smesso di portarla dopo nemmeno una settimana, ma
Ayame lo aveva costretto a rindossarla almeno per il tempo della sua piccola
fuga: l’occhio non era ancora del tutto guarito e affaticarlo e costringerlo a
sopportare il vento e la polvere non gli avrebbe per nulla giovato.
In
verità, Koga sapeva bene di essersi interessato poco o niente alla sua salute
in quei mesi. Appena aveva avuto le forze per reggersi in piedi e restare
cosciente, si era precipitato nelle stanze che Jacken aveva riservato ai
principi del Kansai. E si era maledetto mille e mille volte per essersi
dimenticato, ad un certo punto, preso dalla foga della
battaglia, di suo fratello. Era rientrato a palazzo con la convinzione che si
fosse ritirato insieme ai pochi demoni sopravvissuti, o che al massimo fosse
stato catturato. Ma non avrebbe mai immaginato che
Najiya si trovasse a palazzo, ferito e febbricitante, e che vi fosse arrivato
su una barella assieme a Yashi e a Kyoko-sama.
Suo
fratello. Dopo che Shin si era ritirato, Koga non aveva più lasciato il futon
di Koji se non per poche ore, il minimo per sapere come si evolvessero le
condizioni di Alessandra e per sincerarsi di quelle di Ayame, Inuyasha e degli
altri. Aveva affidato Koji ai suoi lupi quando, dopo la fuga di Sesshomaru e la
partenza di Inuyasha, i demoni della corte avevano usato violenza ad Alessandra
e lui aveva solo potuto restare immobile in mezzo al
corridoio, gli artigli conficcati nella carne e il labbro stretto fra i denti
per tentare di dominare la voglia di saltare alla gola di quegli inuyoukai. Ma c’era la bambina: Rin con un artiglio premuto alla gola e
terrore e suppliche negli occhioni dilatati.
L’aveva
tenuta un po’ con sé, dopo quel giorno terribile. La prendeva
per mano e si faceva accompagnare nella stanza di Najiya. Diceva che era per
distrarla, ma in realtà Koga ammetteva a se stesso che la presenza di Rin era
un espediente comodo e sicuro per non restare troppo da solo con suo fratello.
Koji aveva ripreso conoscenza, e lentamente stava anche recuperando le forze.
Le sue ferite si erano rivelate meno gravi del previsto e la debilitazione cui
il suo corpo era stato preda andava pian piano scomparendo.
Koga
strinse con forza il pelo della sua cavalcatura e la spronò lungo il pendio
erboso, nella nebbia leggera e pesante che saliva dalle risaie deserte. Restare
con Koji significava o parlare o restare in silenzio, ed entrambe erano
soluzioni che Koga non si sentiva pronto ad affrontare. Parlare voleva dire
essere disposti a mettersi in gioco, ad ascoltare parole che, lo sapeva, gli avrebbero fatto male, e il silenzio sarebbe
stato un logorio forse peggiore. Con Rin, invece, era come se cercasse di
riabituarsi alla voce di suo fratello. Najiya era affabile con la piccola
ningen, l’ascoltava parlare e parlare e rispondeva
alla sua curiosità, ma c’era sempre quello sguardo che scappava, che si
rifiutava di fermarsi sull’ookami e preferiva fissare cocciuto le venature dei
ramma. Non accadeva spesso che Rin si allontanasse, ma quando succedeva Koga si era accorto del crepitare dell’aria e della
sensazione di attesa che riempiva la stanza. Sapeva di dover esser lui a fare
il primo passo, a cercare di intavolare una discussione; sarebbe stata
sufficiente anche solo una domanda neutra, così, per avviare il discorso e
cercare di entrare un po’ in confidenza. Le poche volte che Najiya era stato
costretto a rivolgergli la parola lo aveva sempre chiamato Koga-ouji-sama;
ma quando Shin compariva discreto nella stanza per sincerarsi dei suoi
miglioramenti e portargli informazioni di Yashi, Koga aveva visto il viso di
suo fratello abbandonare la rigidità dell’imbarazzo e del sospetto e allargarsi
in un sorriso o indugiare in una complicità intensa e familiare che lo aveva
ferito. Con Shin, Najiya rideva; con Shin, Najiya ascoltava e discuteva e
parlava e si fidava; con Shin, Najiya usava oniisama e quando l’inuyoukai si allontanava allungava una mano quasi a
volerlo trattenere.
Koga
strinse gli occhi e arricciò il naso. Gli dava fastidio; un maledetto fastidio. Non riusciva a sopportare quella confidenza,
quell’atteggiamento di complicità e sicurezza che si veniva a creare quando era
presente l’inuyoukai. Si sentiva escluso, relegato in
un angolino e dimenticato. Era come se, in quei momenti, una
gigantesca bolla lo avvolgesse e per quanto picchiasse, urlasse e si dimenasse
la sua voce non fosse altro che un sussurro, doveva e poteva solo guardare suo
fratello riprendere vigore e rimettersi e sentire sulla pelle, in bocca, nella
testa, esplodere la consapevolezza che era con Shin che Najiya voleva stare;
era la visita di Shin quella che aspettava, sbirciando le shoji e trasalendo al
più piccolo movimento, alla più fugace ombra che si proiettasse sulla carta di
riso. Non era scontroso, Koga doveva riconoscerlo. Ma
c’era quel muro. Quel muro invisibile che non riusciva a scavalcare, in nessun
modo. Aveva deciso di non avere fretta; sapeva che sarebbe stato da sciocchi
pretendere che Najiya capisse e accettasse tutti i cambiamenti e le verità da
un giorno all’altro. Avrebbe avuto pazienza, si era ripromesso; e si stava
impegnando. Ma c’erano giorni in cui era stato
costretto a lasciare la stanza di suo fratello per non urlare; scappare come un
codardo, entrare nello studio di Sesshomaru, afferrare Inuyasha per un braccio
e costringerlo a battersi. Costringere se stesso a sfogare la rabbia e la
frustrazione in qualcosa che non fossero parole taglienti o strepiti. E, Koga
se ne era accorto, Inuyasha sapeva e non protestava. Era diventato un rituale;
o qualcosa di molto simile. Quando il non detto e le questioni in sospeso
diventavano troppo pesanti e rischiavano di soffocarlo, Koga aveva preso
l’abitudine di affacciarsi allo studio; Inuyasha lo vedeva, lo aspettava
probabilmente, lasciava carte e scartoffie a Jacken e lo raggiungeva. Non
combattevano sempre; c’erano state volte in cui semplicemente aveva camminato fianco a fianco nei giardini del palazzo, senza parlare. Koga
era cosciente che non si sarebbe mai lasciato andare a plateali manifestazioni
di dolore e sofferenza, ma andava bene lo stesso. C’era un tacito accordo fra
loro, un modo nuovo e che cresceva piano piano di sostenersi e farsi forza a
vicenda. C’erano occhiate complici e mezzi sorrisi; un pugno mimato e una
battuta pungente per risollevare il morale e alleggerire la tensione. C’erano
le loro litigate, le zuffe davanti ad una scodella di riso che si concludevano con i rimproveri di Kagome e Ayame e la voglia
di scoppiare a ridere perché, in fondo, era un modo per dire: non siamo
cambiati.
C’era
complicità fra loro; un rapporto cresciuto col tempo e fatto maturare. Koga
aveva imparato a mantenere nei confronti di Inuyasha un’avversione che era solo di facciata, quasi una corazza dietro cui trincerarsi
per non esporsi e ferirsi, per conservare quel rapporto fatto di pugni e di
sicurezza reciproca. Sospirò e si lasciò scivolare a terra, incrociando le
braccia dietro la nuca. Il suo lupo gli si era accucciato accanto e gli offriva
il fianco come appoggio, mentre Najiya accarezzava la sua cavalcatura e sembrava
studiarne gli artigli e le zanne e confrontarli con i propri.
Complicità.
Koga lo avrebbe voluto davvero, un rapporto di
complicità con suo fratello. Recuperare la sensazione di sicurezza che ti
attraversa la pelle; il sorriso che increspa le labbra nell’accorgerti che i
passi che senti sono certi e conosciuti; il brivido che coglie i muscoli nella
consapevolezza, in battaglia, di avere le spalle coperte. E allora, non devi
più tendere i sensi al massimo, non devi più spaziare il campo di battaglia in ogni
direzione ed essere pronto a scattare, perché non sai da dove potrebbe arrivare
l’attacco. Allora sai semplicemente che devi guardare davanti a te, perché alle
spalle hai qualcuno che ti protegge.
Complicità.
Quando erano cuccioli, Koga ricordava il modo in cui Najiya si appoggiava a
lui; c’era poca differenza d’età fra loro, ma Koga lo aveva sempre visto come
un lupacchiotto spaurito. Eppure. Eppure qualcosa era
successo. Qualcosa che gli aveva permesso di vedere di nuovo Najiya come un
fratello, come il cucciolo che gli ruzzolava alle spalle durante le corse nei
boschi, e che lo aveva spinto a proporgli quella cavalcata fuori dal palazzo.
Koga raccolse un filo d’erba e iniziò a masticarlo lentamente.
Non era
stata solo la sua immaginazione, ne era sicuro. Quello che era successo. Era
stato istinto, certo. Qualcosa di istintivo, che ti
prende lo stomaco e non ti lascia più andare. Il fremito nella pelle, i sensi
tendersi e i muscoli prepararsi a scattare; l’indugio di un istante, gli occhi
che fuggono indietro, oltre la spalla. Uno sguardo, forse solo un cenno, il
riflesso di un movimento, e sapere che andava bene e potersi allontanare.
Quasi…quasi rassicurato.
Era
stato tutto così improvviso: il silenzio innaturale che aveva percepito nel
dormiveglia, e poi le urla ovattate esplodergli in testa. Koga aveva
riacquistato piena lucidità nello spazio di un istante e anche Najiya aveva
cercato di assumere una posizione di guardia nel futon. Le shoji spalancate e
gli occhi che corrono al padiglione centrale del castello, mentre la notte
inizia a schiarire. E poi, quando ormai le grida sono sfumate e nella testa
resta solo un’eco d’incomprensione, il fumo salire denso e nero, le fiamme
lambire i tetti e frustrare l’aria con un sibilo assordante. Koga ricordava di
aver percepito l’odore di Sesshomaru e Inuyasha mischiarsi a quello del fuoco e
del sangue; ricordava di aver spinto indietro Najiya, di avergli ringhiato un resta qui, guai a
te se ti muovi e di essersi fermato un istante a cercare una conferma: il
viso di Najiya indurirsi ed un cenno affermativo.
Koji
sospirò e si lasciò cadere accanto a Koga. Non sapeva nemmeno lui perché,
mentre il palazzo centrale era avvolto dalle fiamme, mentre lo divorava il
desiderio di alzarsi e mettersi a correre, aveva semplicemente annuito
all’occhiata sfuggente che il Principe degli Yoro gli
aveva rivolto. Un gesto di complicità che gli aveva fatto correre un brivido
sulla pelle e lo aveva proiettato indietro, su un campo di battaglia sul
Continente, accanto ai suoi fratelli mentre fronteggiavano un bashe. La
tensione che sale, il respiro corpo e quel modo che Shin e Yashi avevano di
inclinare la testa e storcere la bocca. Perché era ancora giovani e un serpente
di quelle dimensioni lo potevano uccidere solo
attaccandolo assieme. Koji aveva ricordato il lampo negli occhi di Shin: la
katana scattare in avanti, rimbalzare sulle squame e il corpo subire il
contraccolpo mentre Yashi puntava alla testa e veniva
inforcato dalle corna del serpente e sbalzato indietro. E infine, la gola:
coperta, molle, perfetta. Koji lasciò scorrere una mano lungo le vene del
collo. Quella volta, in quella prima importante battaglia, aveva affondato i
canini appuntiti senza pietà o compassione: ricordava il cuore che pulsava e
pulsava e sembrava scoppiare, lo scatto dettato solo dall’istinto e dalla
lucida innata consapevolezza di cosa avrebbero fatto
Shin e Yashi. Era stato come se si fossero limitati a riprodurre una
combinazione strategica abusata. L’attacco frontale di Shin,
l’elemento di distrazione di Yashi e infine il colpo di grazia, dato da lui:
Koji.
Sarebbe
stato un loro cavallo di battaglia negli scontri, un loro elemento di forza: la
capacità di assecondarsi in modo fluido sul campo di battaglia, di ingaggiare
con naturalezza scontri singoli ma, all’occorrenza, riuscire a muoversi con la
velocità e la precisione necessarie come fossero un
corpo solo. Non era sempre stato lui a portare l’affondo finale, ma spesso
accadeva. Shin sapeva perfettamente che suo fratello era portato per lo scatto e
la corsa veloce, di natura. E aveva riconosciuto in lui da subito una
propensione alla collaborazione, quasi l’abitudine istintiva di cercare e
fidarsi dei compagni. Probabilmente, Koji realizzò in quel momento, Shin lo
aveva sempre saputo: la sua natura di ookami non poteva essersi dissimulata in
un istante e per quanto tempo Takakumi avesse impiegato per portarlo da Nihon
sul Continente, doveva essere arrivato al palazzo di
Morigawa con ancora evidenti i segni della sua origine.
Eppure. Eppure lo
aveva accolto e cresciuto; lo avevano posto sullo stesso piano di Shin e Yashi;
per gli youkai sotto il controllo di Morigawa, lui era il terzo principe. Più
discreto di Yashi, meno portato per il comando di Shin, ma un principe, un
possibile erede nel caso fosse successo qualcosa ai suoi fratelli. Koji sospirò
stancamente. Se fosse successo qualcosa. Se fossero restati sul continente, se
Morigawa non avesse progettato quella folle vendetta che li aveva riportati a
Nihon e li aveva gettati in una guerra per una supremazia di cui Koji ancora
non riusciva a cogliere appieno il peso e il significato. Se. Se. Se. Cosa sarebbe successo? Avrebbe continuato a ignorare la sua
origine e sarebbe rimasto al seguito dei suoi fratelli?
Oppure, prima o dopo, la sua natura di ookami si sarebbe ridestata? E, in quel
caso, cosa avrebbe fatto? Sarebbe riuscito a reggere il dissidio che lo avrebbe
attraversato o forse, forse…No; si sarebbe allontanato da palazzo, era ovvio.
Forse non vi avrebbe più fatto ritrono e avrebbe consumato l’esistenza vagando
nel Continente. È una terra così vasta e differente, con i deserti fertili di
bei, gli sterminati campi di riso di nàn, il mare brulicante di dong e le vette
innevate dell’xi; una terra che aveva imparato a
conoscere e amare, così diversa dal piccolo Nihon, una collana di isole che
salgono dal mare. Gli sembrava piccola, la sua terra d’origine, in paragone ai
ricordi del continente. Piccola e finita e stupido, forse
insensato, rimanerci e sperare di trovare un posto, un luogo definito.
Koji
stiracchiò le braccia, con cautela. La spalla lussata era tornata a funzionare
perfettamente e anche il gonfiore era sparito in poco tempo; nonostante le
torture e gli stenti cui era stato sottoposto, doveva ammettere a se stesso di
esserne uscito meno malconcio rispetto a Yashi. L’elemento più preoccupante e
fastidioso era stata la febbre che non accennava a
diminuire, complice anche il caldo umido e pesante di quei mesi, e che lo aveva
tormentato per giorni, e le fitte di dolore che ancora gli attraversavano a
sorpresa la gola ustionata, costringendolo a smettere di parlare o affievolendogli
la voce fino a poco più di un sussurro. Yaone non era stata troppo rassicurante
al riguardo: i tessuti muscolari si era riformati in
gola già durante la prigionia, ma i continui sforzi cui le corde vocali erano
state sottoposte li avevano notevolmente indeboliti. Prova ne era il fatto che, anche dopo il suo arrivo a palazzo, Koji
era stato costretto più volte a vomitare sangue, tanto i tessuti interni della
gola erano fragili e soggetti a rompersi alla minima sollecitazione. Con il
tempo e molto riposo Yaone era fiduciosa che la youki
di Koji avrebbe permesso una guarigione quasi, se non del tutto, perfetta. Per
il momento, però, doveva accettare il fatto di esser costretto a limitare
notevolmente la sua capacità discorsiva; e non era certo un elemento che Koji
aveva accettato con sollievo. C’erano molte questioni di cui avrebbe voluto
parlare, molte domande da fare e cose da raccontare. C’era da rassicurare Yashi
e convincerlo a restarsene tranquillo nel futon anche se scalpitava e si
dimenava all’idea di essere il solo, fra loro tre, ad
essere ancora costretto ad una rigida convalescenza; c’era Kyoko, cui Koji
avvertiva pressante la necessità di rivolgere domande e dubbi, possibilmente
all’ombra degli aceri, nella calma dei giardini o delle sue stanze,
intrecciando le mani in grembo e lasciandosi distrarre dalle ombre della sera
che ne avrebbero definito il profilo sottile e austero.
Kyoko.
Sua madre. La yasha che per tanti anni gli aveva fatto
da madre.
Ecco.
Quella era un’altra questione da affrontare. Un pungolo continuo nella mente, e
che aveva l’aspetto fastidioso dell’ookami che, quella mattina, aveva aperto la
fusuma della sua stanza senza cerimonie, lo aveva afferrato per un braccio
sbraitando qualcosa che non era riuscito a capire verso Shin e lo aveva fatto
montare a viva forza su un lupo, costringendolo a quella folle corsa fra
boscaglia, bambù e pianura. All’inizio, Koji doveva ammettere a se stesso il sottile
panico che lo aveva attraversato nel non riuscire a domare la cavalcatura; le
mani che si stringevano spasmodicamente al pelo e il tentativo di appiattirsi
contro il corpo dell’animale per offrire meno presa al vento e quindi alla
possibilità di essere sbalzato di sella. Con il trascorrere dei minuti, però,
si era accorto di sapere cosa dire e come fare; aveva percepito le sue mani
muoversi con sempre maggiore sicurezza sulla pelliccia folta e la sensazione di
sapere cosa fare e quando ancor prima che il cervello elaborasse l’ordine.
E Koga
al suo fianco. L’ookami aveva cavalcato accanto a lui per tutti il tempo;
finchè non aveva avuto la certezza che non corresse pericoli e riuscisse a
mantenersi saldo, se non proprio a controllare completamente il lupo. Solo
allora Koga aveva inclinato appena la testa con un mezzo sorriso e lo aveva
superato, quasi invitandolo a seguirlo e imitarlo.
Si era
lasciato andare. Avvolto dal tepore del corpo del lupo, dall’odore ferino e
istintivo della sua cavalcatura e dall’aria piena di terra ed erba, Koji aveva
spronato il lupo, e si era ritrovato a sorridere entusiasta e…Sì; avrebbe
potuto dire felice. Appagato.
Ma il problema
rimaneva. E Koji sapeva che quell’uscita non era stata dettata al principe degli Yoro solo dal desiderio di respirare un’aria diversa
da quella del palazzo; un’aria che non sapeva di viziato e malumore. Se fosse
stato solo per quello, Koga avrebbe potuto scegliere chiunque altro come
compagno; Ayame-san o Inuyasha-sama. Avrebbe anche potuto preferire la
solitudine alla compagnia; di certo, non avrebbe scelto lui solo per il piacere
di trascinarselo dietro e vederlo montare un lupo. C’erano
una sottile tensione e agitazione nell’aria, molto diverse dal brivido di
piacere che scorre sulla pelle e scende giù, lungo la spina dorsale, al momento
di uno scontro. C’era qualcos’altro, un sentimento di insicurezza
misto a imbarazzo che entrambi avevano solo ritegno a definire come paura.
Quella paura che ti coglie quando sai di doverti confrontare, ma sei altrettanto
cosciente del fatto che zanne e artigli e abitudine al combattimento in quel
frangente non ti saranno d’aiuto. Puoi solo aspettare, o deciderti ad aprire
quella bocca diventata improvvisamente troppo secca e pesante e ricordarti che
l’aria può diventare voce, deve diventare voce, e che
le domande e i perché hai diritto di porli e di sapere. Basta anche iniziare
con una battuta; forse un insulto blando, per alleggerire un po’ la tensione.
Basta poco, in fondo; l’importante è evitare di guardarsi. Ecco: concentrarsi
su quelle nuvole oppure sul solletico che scorre sul braccio al soffio del
vento.
Non ci
vuole niente, nero? È facile; è maledettamente facile.
“Ricordi
il tuo nome?”
“Najiya”
Strascicato, quasi doloroso, sentire quel suono sfuggire
dalle labbra e rimbalzare nel silenzio del paesaggio. Un nome. Un nome così diverso; estraneo. Fa male,
pronunciare quel nome; fa molto male. Perché Koji lo
sente lontano, lo sente nemico e forte, nel petto, il cuore batte e supplica di
non togliergli anche quello, di continuare ad essere
chiamato solo Koji. Come lo ha chiamato Kyoko-sama;
come lo chiamano Shin e Yashi.
Koji;
solo Koji.
E
assieme non può ignorare: la fitta inconscia alla testa e la consapevolezza del
qualcosa, di quel passato, che scivola assieme a quel nome. Ricordi confusi che
col tempo riesce a riallineare; prima e dopo, giusto e
sbagliato. Koji socchiuse gli occhi. Quanto ricordava esattamente del suo
passato prima di arrivare sul Continente? Doveva avere circa…In anni umani
sarebbero stati quattro, al massimo cinque anni.
Ricordare.
Un cucciolo che caracolla incerto, rincorre un bambino di poco più grande; le
mani strette al pelo di cuccioli di lupo, le risate e le cadute. Mani che lo
stringono e risate infantili. Il calore di una schiena con il vento fresco sul
viso e una voce adulta con una punta di ironia.
Sospirò.
Strano. Ricordava qualcosa di Koga e riusciva, seppur a fatica, a intravvedere
il viso di suo padre nelle pieghe luminose della sua testa. Ma.
Ma sua madre? C’era solo Kyoko-sama nella sua mente,
un accostamento divenuto abitudine. Ma la sua vera
madre? Non riusciva a ricordare nulla; il calore del suo seno o la sua voce.
Assolutamente nulla.
Strinse
le ginocchia al petto. Koga continuava a suonare il filo d’erba, gustandosi il
tempo che si dilatava nelle ore del primo pomeriggio, pesanti sotto quel cielo
troppo azzurro. Azzurro. Come gli occhi di Hidoshi; come gli
occhi di Koga; come i suoi occhi. Koji mordicchiò il labbro; sua madre
aveva occhi azzurri? Non ricordava. E – e fu un pensiero improvviso-
soprattutto era ancora viva? Sapeva che suo padre era morto; quando Naraku
aveva riferito a Morigawa la notizia che anche un principe degli ookami
combatteva al fianco di Sesshomaru-sama, sua padre non
aveva avuto difficoltà dalla descrizione a riconoscere in Koga il figlio di
Hidoshi. E Koji ricordava ancora nitido il giorno in cui, ancora cucciolo, era
arrivata al palazzo la notizia della morte di Hidoshi-ookami-ooujisama.
Ricordava il viso di Morigawa cementarsi in un’espressione
furiosa per poi rilassarsi improvviso e abbandonarsi ad una risata che, Koji lo
aveva sentito per istinto, era pericolosa e cattiva. Una risata che gravava
nelle volte e si rifletteva negli occhi entusiasti e folli d suo padre.
Hidoshi
era morto; e Koji aveva appreso la notizia per un capriccio della sorte, con la
leggerezza con cui avrebbe reagito se gli avessero parlato di una guerra sui
confini occidentali. Hidoshi era solo un nome, alle sue orecchie di cucciolo. Un nome rubato per caso e lasciato passare nella mente senza danno.
Anche se. Anche se, a ripensarci, l’occhiata che Morigawa gli aveva ricolto
dopo, con le zanne scoperte in un’espressione assieme terribile e grottesca,
forse avrebbero potuto metterlo in guardia. Perché, in
quello sguardo, c’era un guizzo di soddisfazione e trionfo. Perché forse
Morigawa aveva sempre saputo che lui era un figlio di Hidoshi; e crescerlo e
accudirlo doveva essere solo un modo per prendere una vendetta anche sul clan degli Yoro.
Forse.
Forse. Forse. Morigawa non avrebbe più potuto rispondere, e Koji non voleva
porre certe domande alla yasha che lo aveva cresciuto.
Il passato è passato, si ripeteva. Inutile cercare; inutile
sperare; inutile farsi del male. Quello che Morigawa poteva sapere, se
non intuire, quello che forse sperava e progettava era meglio lasciarlo
sepolto, dimenticarlo. Non sarebbe servito, Koji ne era cosciente. Poteva
portare solo maggior confusione e lacerazione.
Lacerazione.
Non era
bella, quella sensazione che gli stringeva lo stomaco da quando si era svegliato. E Koga era accanto a lui. Koga era quasi sempre con lui. E se all’inizio la gola lesa era stato un ottimo espediente per mantenere il silenzio, col
tempo era diventata una costrizione snervante. Col tempo, avrebbe preferito
qualsiasi parola al mutismo che li caratterizzava quando erano soli in stanza. Quella
sospensione carica di attese e aspettative che veniva
semplicemente abbandonata a metà strada fra di loro, dove nessuno voleva
arrivare e dove entrambi speravano che l’altro lo avrebbe trascinato.
Koji accarezzo il muso del suo lupo e si concesse un respiro
profondo. Koga aveva fatto il primo passo. Incerto e vacillante; ma era pur
sempre un primo passo. Lo aveva trascinato fuori dal palazzo e aveva provato a
intavolare un qualche dialogo. Sembrava imbarazzato e teso quanto lui, Koji ne
era consapevole. Ma ci aveva provato lo stesso; e
adesso toccava a lui fare un gesto, una mossa, anche solo un cenno che
superasse quel nome strascicato, masticato e quasi sputato a fatica che si era
lasciato sfuggire.
“Come
devo chiamarti?”
Koga
sentì quella domanda bruciare sulla lingua, ma ignorò il senso di nausea e
soffocamento che gli avevano dato. Se voleva parlare a
suo fratello, doveva trovare il modo di farlo. Se voleva stare con suo fratello,
doveva poterlo fare. E se riaverlo indietro, riuscire ad avvicinarsi,
significava dover sacrificare un nome, il nome che loro padre
aveva scelto, Koga non riteneva che fosse una perdita troppo pesante da
sopportare. Un nome si può perdere e riprendere. Un legame no. Un legame lo si deve ricostruire, e se fai un passo falso, se sbagli
una mossa, puoi anche rovinare tutto.
“Non lo
so. Ancora non lo so”
Koji
strinse forte le braccia. Scegliere? Doveva davvero scegliere? Non poteva restare semplicemente Koji e Najiya insieme? In
definitiva, quello che era diventato aveva davvero bisogno di un nome? Era
sempre lo stesso, sia come Koji sia come Najiya. Non cambiava nulla, no? Poteva
chiamarlo come voleva. Era solo un nome; uno stupido nome
dato per convenzione. Lui restava lui. Najiya era l’ookami; Koji era l’ookami
cresciuto come inuyoukai. E lo youkai che era diventato, che aveva pienamente
scoperto di essere, non poteva restringersi ad uno
solo dei suoi aspetti. Restare solo ookami significava tradire e perdere tutti
gli anni trascorsi sul Continente; i ricordi dell’infanzia e la crescita
difficile e insieme spensierata con Yashi, sotto lo
sguardo di Shin. Dall’altra parte, Koji era consapevole che non poteva più
essere un principe del Kansai. Shin non avrebbe obiettato; Yashi non avrebbe
smesso di arrabbiarsi con lui. Ma Koji sentiva che
sarebbe stato lui per primo a non riuscire più a trovare un equilibrio in
quell’universo. Perché sarebbe bastato un odore diverso, un atteggiamento
scivolato quasi con noncuranza, lo scatto durante una caccia o il naso che,
fino, reagisce più veloce di quello dei fratelli per ricordargli che anche
vivendo con loro, anche vestendosi e comportandosi come loro, per quanto si
potesse inchinare e chiamarli niisama, la sua stirpe d’origine era diversa. Lui
era diverso. E nulla lo avrebbe cambiato.
“Hidoshi-sama”
“Otosama”
Koji
ingoiò a vuoto e, istintivamente, annuì. Otosama. Hidoshi otosama. Sì, suonava
bene; poteva accettarlo, in fondo. Non faceva così male, non
faceva affatto male. Morigawa era stato un buon padre all’inizio. Quando
era ancora un cucciolo che correva per il palazzo, Morigawa aveva sempre avuto
con lui lo stesso atteggiamento che con Shin e Yashi. Non voleva, non poteva,
immaginare che tutto, fin dall’inizio, fosse stata
solo una messa in scena per avvicinarlo a sé e poterlo usare in seguito. Manipolato, raggirato e poi ridotto a merce di scambio, ad asso
nella manica. No; non era possibile. Non era vero: le mani che lo
avevano sollevato quando era caduto; gli insegnamenti
impartiti con serietà e leggerezza, tenendolo sulle ginocchia mentre Shin
ridacchia e Yashi strepita perché non è giusto, proprio no, che sia sempre Koji
a finire sulle ginocchia di otosama.
Koji
morse il polso, con forza. Faceva male. Faceva maledettamente male. E i ricordi
cozzavano e andavano in frantumi. Eppure. Eppure lo
ricordava troppo bene: il sorriso ferino di Morigawa che si piegava su di lui,
nella sua tenda; la mano che gli afferra i capelli e strattona indietro la
testa. Koji si era sentito impotente e perduto, in confronto alla potenza che
sentiva aleggiare attorno a Morigawa. E aveva aspettato di sentire solo le
zanne conficcarsi nella giugulare, il respiro diventare rantolo e il corpo un formicolio lontano. Perché Morigawa lo voleva
uccidere; perché Morigawa lo avrebbe ucciso. E loro
erano stati degli stupidi a precipitarsi nella sua
tenda senza pensare, senza farsi seguire da alcuni soldati, senza valutare le
conseguenze. Ma era Shin lo stratega, fra di loro;
loro sono quelli che agiscono e basta. Tanto c’è Shin a coprire loro le spalle;
c’è Shin, e gli sbagli e le azioni troppo avventate lui le sa correggere e
anche una fase di crisi la rovescia in un attimo in vittoria.
Ma Shin quella
volta non era alle loro spalle, non avrebbe protetto la loro fuga. Quella
volta, la tenda si era chiusa e, Koji lo ricordava, lui e Yashi avevano solo
pensato a sottrarre Kyoko-sama a Morigawa. Quando avevano sentito le urla e le
youki non avevano più pensato; si erano solo slanciati fuori dalla loro tenda e
avevano fatto irruzione in quella del padre. Kyoko era lì a terra, scarmigliata
e con le vesti strappate e ringhiava e graffiava e, anche se stordita, cercava
di allontanare in tutti i modi l’inuyoukai che la
picchiava e picchiava e ruggiva e premeva e strappava e pretendeva.
Koji
ricordava il respiro che si ferma, la vista traballare e per un istante, un
solo maledetto istante, tutto farsi grigio e poi nero
e poi rosso. Ricorda la youki invadere il suo corpo
con violenza selvaggia, i muscoli tendersi in tensione e le gambe scivolare
indietro nello slancio, mentre le zanne di allungano e per istinto cercano di
colpire un punto scoperto. In quel momento, mentre il corpo di Kyoko sussultava
alle percosse di Morigawa, Koji era scattato e, in una frazione di secondo,
aveva avuto la consapevolezza di muoversi non come gli era stato insegnato, non
come per anni si era mosso, ma come un ookami. E l’istinto lo guidava:
avanzava, cercando di colpire, di ferire, e subito scartava di lato, lontano
dal pericolo, cambiandolo angolazione e non fermandosi
mai, non lasciando a Morigawa il tempo per anticipare le sue mosse. Era
istinto. Puro e semplice istinto, fuso con la sua proverbiale
velocità. Scartava, graffiava, azzannava, scartava
di nuovo. Sembrava combattere alla cieca, ma attacco
dopo attacco era riuscito a costringere Morigawa ad arretrare e lasciare la
presa sul corpo di Kyoko, di poco, ma sufficiente a permettere a Yashi di
allontanare la madre.
Perché,
in fondo, quello che premeva loro più di ogni altra cosa non era la vittoria,
il trono o lo scontro; in quel momento, l’unica cosa che aveva importanza era
l’incolumità di loro madre. Ripensandoci a mentre
fredda, Koji sapeva perfettamente che quel suo modo di attaccare, quel serrare
l’avversario e impedirgli di reagire prontamente era qualcosa che aveva solo
sentito di dover fare, che era giusto fare, e che era
la strategia migliore da applicare per permettere a Yashi di agire. Finchè
c’era stato istinto, era andato tutto bene. Ma quando, con la coda dell’occhio,
aveva visto Kyoko al sicuro, la distrazione e la tensione che si allentava erano stati fatali. Si era ritrovato gli artigli
di Morigawa nella spalla e la pressione di tutto il peso del demone
schiacciarlo a terra. Non ricordava esattamente cosa fosse successo: Yashi
doveva essere intervenuto. E poi. Poi anche lui doveva aver reagito, in qualche
modo. Non ricordava bene; troppo veloce; troppo istintivo.
Ma alla fine il
risultato erano stati sua madre e suo fratello catturati dai demoni di Naraku
che, Koji non ricordava quando, era apparso nella tenda, e il suo volto di
fronte a quello del padre. E quelle parole, prima di sentirsi scaraventare
lontano e perdere conoscenza. Quelle parole che gli erano bruciate dentro come
fuoco; perché Morigawa sapeva chi fosse, sapeva di chi
era figlio e, glielo aveva detto: lo aveva allevato solo per vederlo combattere
contro suo padre e la sua stessa razza. Per diletto. Per vendetta. E quella
consapevolezza, quella verità sbattuta in faccia con quel sorriso pieno e
tronfio gli aveva fatto ribollire il sangue e pregare i Kami di avere ancora la
forza per un ultimo attacco. Non gli era interessato
cosa potesse accadergli dopo; l’unica cosa che gli premeva era colpire. Colpire
e ancora colpire. Non era sciocco, ed era perfettamente cosciente della
disparità di forze; eppure, nella sua testa, l’unica cosa che si ripeteva,
ossessiva, era: tradito.
Koji
sospirò e la mano si concesse di indugiare sugli occhi chiusi. Sì, poteva
iniziare da lì; poteva chiedere di Hidoshi-sama, di
suo padre, a Koga-san. Un passo alla volta, prendendo il
discorso da lontano, distinguendo le sensazioni e iniziando ad aggiungere
elementi. Un passo alla volta, risistemare le cose: il
nome di suo padre, il viso di sua madre, il rapporto con suo fratello. Un passo alla volta, riesumare il passato e cercare di trovare un
equilibrio con il presente. Perché rinnegare Morigawa
era possibile; rinnegare un padre fasullo che ti ha allevato per divertimento è
facile. Fa male, ma ce la puoi fare. Ma il resto. Tutto il resto. Tutte le
certezze, i ricordi, le sicurezze. Koji non era
affatto sicuro di volerli perdere o cambiare o modificare. In fondo, lo
sapeva, non poteva fare altro, in quel momento, che ascoltare. Ascoltare la
voce di Koga che gli raccontava della loro infanzia, che indugiava nei
particolari. La luce che si infrangeva sulla roccia
quando, da cuccioli, nella caverna, si svegliavano; la linea sinuosa delle
labbra della madre; il portamento eretto e l’atteggiamento scanzonato di
Hidoshi. L’aria che ti entra nei polmoni durante una corsa e la sensazione di
dominarla, quella terra antica, mentre gli artigli si rinforzano nel tempo e
impari a riconoscere dal fruscio dell’erba la preda.
“Assomigli
a okasama, ototo”
La mano
si era fermata sullo zigomo; Koga non sapeva esattamente cosa fare. Non sapeva
nemmeno perché si fosse avvicinato a quel modo. Parlare era possibile; parlare
era necessario. Instaurare un dialogo, un rapporto verbale di
qualche natura. Parlare. Ma un contatto fisico.
Come avrebbe reagito Najiya ad un contatto fisico? In
quelle settimane, nonostante il tempo trascorso insieme, non si era mai
azzardato a sfiorarlo nemmeno per sbaglio, nemmeno con una scusa.
Perché…Perché. Perché aveva paura; una maledetta paura.
Che reagisse male; che scappasse; che andasse in pezzi. Sì, anche che suo
fratello potesse sentirsi minacciato e non reggesse alla pressione, fosse anche
solo uno sfiorarsi lieve o la pressione della mano. Come in quel momento.
Eppure. Eppure non ce l’aveva fatta, a fermarla, quella mano; era risalita al
viso e aveva disegnato nell’aria il profilo che sfuggiva verso il mento, il
naso dritto e il contorno alto delle sopracciglia. Si era accorto di sfiorare
realmente la pelle quasi per scherzo. Nella sensazione di pizzicorio e calore
che aveva avvertito sotto i polpastrelli; assieme al fremito nel realizzare cosa esattamente stesse facendo; fin dove esattamente si
fosse spinto.
Era
stato precipitoso, va bene. Ma adesso cosa doveva
fare? Restarsene lì fermo o ritirare la mano? E Najiya? Come avrebbe
interpretato il suo gesto? Rifiuto, invadenza, costrizione, nostalgia…Ce ne
erano troppe, di possibilità. Maledizione a lui e al suo modo di fare!
Rischiava di rovinare tutto. Tutto.
Forse,
se si fosse mosso piano, lasciando scivolare lentamente le dita; ecco, adesso
abbassi gli occhi. Anzi, no; gli fai fuggire. Perché te ne vergogni, vero, di
quello che hai fatto? È stupido e insensato, ma te ne vergogni. O almeno lo
fingi; fingi che ti dispiaccia, che sei rammaricato.
Fingilo solo, perché in realtà è stato bello, non è vero? È stato bello
risentire quella pelle e dentro, nel petto, la voglia di afferrare e stringere
e premere in un abbraccio montare e doversi sforzare per ricacciarla indietro e
non cedere anche a quello. Anche se lo vorresti.
Va
bene; fai scivolare la mani, abbassa lo sguardo. La
bocca, ora. Devi aprirla, lo sai vero? Devi aprirla e
dire: scusa. Va bene anche se la voce non esce. Va bene anche se non lo sente davvero. Basta il movimento delle
labbra. Basta che glielo dici, che glielo fai capire. È facile Koga. È davvero
facile. Devi solo provarci. Perché Najiya non si muove; e i suoi occhi sono
spaventati. Perché Najiya non si muove; e tu non riesci a capire se hai davvero
sbagliato tutto o se è lui che non vuole accettarlo. Ti sei ripromesso
pazienza, Koga. Non venir meno all’inizio; non subito. Imparerai anche tu: i
tempi di tuo fratello, i gesti che lo calmano, la rabbia che sale, la voce che
cambia. Imparerai. Con il tempo.
“Koga-san.
Com’era okasama?”
*****
È stato
interessante.
Non ha
ottenuto tutti i risultati sperati, ma non può dirsi deluso. Proprio no. È
riuscito ad acquisire nuove informazioni, e nonostante il tempo in cui ha
dovuto assecondare le follie di quello youkai, ridendo
della sua egocentrica forza, è riuscito comunque a sfruttare la situazione,
rigirandola con maestria. Lo ha usato, in definitiva.
E gli è piaciuto; molto. Una piccola vendetta, un assaggio di quello che,
presto, potrà ottenere. Quella sensazione piena e appagante
di completezza, di dominio, di potenza. È stato anche frustrante, in
certi momenti. Avere quel potere lì, davanti agli occhi;
vederselo sbattere in faccia di continuo e sentire, forte, premere il desiderio
di allungare la mano e prenderlo. Così; con leggerezza. Con noncuranza.
Perché sarebbe stato facile, stringere la corda attorno al collo. Perché
sarebbe bastato un attimo, per rovesciare la partita e fare il
predatore preda. Sarebbe stato facile. E non avrebbe funzionato. Per
inconscia consapevolezza, non avrebbe funzionato. Perché non è facile vincere
uno youkai; neanche uno youkai ormai smarrito e perduto com’era Morigawa.
Il
labbro si sollevò malizioso, in un mezzo sorriso. Era divertito. Forse quasi
sorpreso. Di come avesse avuto sotto il suo diretto controllo
un esercito di taiyoukai e li avesse poi, semplicemente, fatti scivolare
dalle mani. Era un esercito potente, migliore di qualsiasi altro che fosse
riuscito a organizzare. Ben addestrato, assoggettato; abituato a eseguire gli
ordini con negli occhi un fremito di indipendenza e
servilismo. Era diverso dal suo esercito; i demoni che da sempre usava negli scontri erano pedine di poco contro, pezzi
sacrificabili e che poteva sostituire con irrisoria facilità. Carne da mandare
al macello; non allo sbando, certo. Anche farli uccidere
doveva sempre avere uno scopo. Per quanto una pedina possa essere
insignificante, meglio che si distrugga per un qualche motivo. Per un suo
vantaggio.
Naraku
rigirò
Perché
sono i ningen che devono piegare la testa; sono i ningen ad
essere sciocchi e a non capire. Sono i ningen che desiderano, e non conoscono
nemmeno l’essenza del loro desiderio. I ningen non conoscono e, riflettendoci,
Naraku li considerava come youkai. Perché, in fondo, entrambi sono mossi da
istinti: bassi, volgari, immediati i ningen; perfetti, eterei, assoluti gli
youkai. Ma è sempre e solo istinto: quella sensazione che ti scorre dentro al fremito di una foglia; il calore che ti invade nell’ira;
la brama di una donna solo per continuare, per mantenere la propria vita; il
desiderio di conoscere e comprendere. Sì; ningen e youkai sono uguali. Creature
che anelano.
Naraku
scostò l’eri dello yukata. Lo squarcio si stava
ricomponendo, anche se ci sarebbe voluto ancora del tempo prima di recuperare
completamente le forze. Ma andava bene anche così.
Aveva tempo. Aveva bisogno di tempo: per riflettere. Doveva pianificare bene le
sue prossime mosse; doveva individuare il nascondiglio di quello youkai di cui
aveva sentito parlare da Morigawa. E poi. Poi doveva in un certo senso
rielaborare tutte le nuove informazioni che aveva
acquisito in quei mesi.
Perché,
in definitiva, non poteva ritener sprecati quei dodici cicli lunari che aveva dedicato a Morigawa. I fucili erano andati perduti, e
anche quel particolare filtro che Yaone gli aveva mostrato era ormai
considerato un progetto da scartare. Doveva essergli rimasta ancora qualche
fiala della mistura modificata che aveva causato la cecità a Sesshomaru, ma era
comunque troppo poco per essere di reale aiuto e lui
non aveva le capacità di riprodurlo. Strinse la mano e risistemò il kimono. Non
era piacevole dover ammettere le proprie debolezze, le proprie mancanze, ma Naraku non era sciocco e sapeva bene che, se
voleva battere i demoni, se voleva diventare uno youkai, anzi, più potente di
uno youkai, una cosa che doveva imparare era riconoscere i propri limiti. Solo
se fosse stato perfettamente conscio di se stesso, senza elogio e senza
svilimento, avrebbe sempre potuto avere sotto controllo ogni situazione; capire
fin dove spingersi, quanto osare e percepire l’istante più propizio in cui
ritirarsi, in cui cedere e andarsene, senza infamia, con la consapevolezza di
esser comunque riuscito a infliggere delle ferite e di aver guadagnato
qualcosa: un frammento in più; una soddisfazione in più; il cogliere il sottile
divario che ancora lo separa dalla piena coscienza di uno youkai e sapere
perfettamente quale sarà la prossima mossa.
Se
avesse potuto. Se fosse riuscito.
Ci
anelava. Anelava quella perfezione, quella compiutezza
da quando aveva riaperto gli occhi e la grotta era fuoco e l’aria era sulla
pelle, fresca, con odore di cenere; da quando si era accorto che le mani erano
di nuovo sue, che ogni fibra del suo corpo era stata rigenerata ed era diventata
nuova, qualcosa d’altro, qualcosa di sconosciuto e appagante. All’inizio.
All’inizio la parte umana, Onigumo, era ancora forte. E sentiva e percepiva e
avvertiva. I sensi per prima cosa: il mondo come attraverso
l’acqua, o nelle sfaccettature del quarzo. Percepiva. Sì; si era accorto
di percepire in modo diverso. E c’erano suoni o forse erano voci. La prima volta, non aveva capito. La prima volta,
era stato dolore e sgomento e confusione. Rumori. Tanti; troppi. Si riversavano
caotici nella testa, nella bocca, nel petto. Entravano nel corpo e risuonavano,
rimbombavano. Erano echi, sussurri, grida, pianti. E non serviva tapparsi le
orecchie, gridare, pensare. Non serviva nulla. Quelle voci continuavano,
rimbombavano, ossessionavano. Erano diventate un’ossessione, esplosa
all’improvviso, dopo esser rinato. Non subito, no.
C’era voluto del tempo. Forse erano solo minuti, forse erano stati giorni
interi. Naraku non lo ricordava e non gli interessava ricordarlo.
Gli bastava la sensazione di soffocamento, di costrizione che ne era derivata.
C’era voluto tempo. Tempo per capire; tempo per imparare a
filtrare e discernere i suoni. Tempo per riconoscere i suoni e scoprire
che il fulmine è l’urlo del cielo, il vento il pianto
degli alberi, i frutti il sorriso della terra. C’era voluto tempo, ma aveva
imparato. E i suoni non erano più stati solo suoni.
Erano diventati voci, parole, frasi ben articolate. Erano diventati altro, e
non più un rumore continuo di sottofondo che lo aveva quasi fatto impazzire,
che lo aveva costretto a piegarsi a terra, le mani strette alla testa e la
bocca aperta e asciutta, senza forza per urlare ancora, senza voce per
provarci. C’era voluto tempo, per abituarsi al nuovo corpo, per percepire di
nuovo le distante e dare volume a quello che vedeva.
Prima macchie indistinte e imprecise; poi figure deformate. Poi era stato il
contorno, nitido e percorso da una specie di fluorescenza. Imparare
le diverse tonalità; riconoscere il pericolo prima di vederlo; riuscire a
prevedere mosse e azioni solamente facendo affidamento sulla propria
intelligenza. Con la sicurezza, perfetta, di non sbagliare.
Ecco.
Naraku non sopporta l’errore. Naraku non sopporta di non riuscire a prevedere.
Non riuscire a prevedere l’atteggiamento degli youkai. Alcuni sono elementari;
così immediati da plasmare e attirare che anche un cucciolo di ningen al
confronto è più istintivo davanti al pericolo. Sono deludenti, ma sono utili. Per distrarre, per attirare l’attenzione, per difendere. Per
ricreare il suo copro. Naraku respirò a fondo l’aria pesante della notte:
Satsuki era finito da molto. Non sapeva esattamente quanto tempo fosse passato
dalla battaglia con Sesshomaru e dalla morte di Morigawa. E dalla sua fuga. Ma
la stagione delle piogge era passata; era venuto il
caldo e l’odore pesante del riso a mollo nelle risaie. E anche l’aria ormai
stava diventando più fresca. Strinse la ceramica e il guinomi gli si frantumò
fra le dita, mentre il sakè gocciolava sul tatami. Era fuggito. Non era stata
una ritirata strategica; non era stato un volger le spalle calcolato e
ponderato, con la sicurezza di aver ottenuto qualcosa e la consapevolezza di
lasciarsi dietro rabbia e frustrazione negli avversari.
Quella
volta, Naraku dovette ammettere a se stesso di aver riavvertito un brivido corre
nel corpo, come quando era ancora un ningen. La sottile avvisaglia di un
pericolo, di una consapevolezza evidente e che non accetti subito, cui non ti
rassegni nell’immediato. Nonostante il suo cuore fosse al sicuro; nonostante
fosse perfettamente conscio che, per quanto venisse
dilaniato, smembrato, fatto a pezzi, sarebbe stato necessario solo tempo per
ricostruire il corpo.
Eppure. Eppure la
testa aveva iniziato a ronzare e, dentro, ogni fibra urlava e premeva e diceva
solo: scappa. Perché se ti affronta, muori. Perché lui non è
come gli altri demoni, lui è diverso. Lui è qualcosa che non hai mai visto:
osservalo, ma a distanza; studialo, ma al sicuro. Non hai mai incontrato
qualcosa di simile. Non hai mai immaginato che esistesse qualcosa di simile. Sesshomaru.
Sesshomaru era il modello: il demone da eguagliare, da osservare, studiare, e
superare, mettere in scacco e dimostrargli, affondargli nella carne, la
superiorità, la tua essenza completa.
Il
brivido però lo aveva avvertito; ancora e ancora. Crescere
fino a diventare fremito irragionevole nelle membra, fino ad accorgersi con
stupore del tremore delle proprie mani e del sudore freddo e della bocca
socchiusa e asciutta. Come quando aveva incontrato Sesshomaru per la prima
volta. Il fremito da reprimere sotto la pelliccia, nel disagio di quegli occhi
che guardano. E sapere e percepire cosa esattamente vedono, assieme alla
consapevolezza di non poter ingannare uno youkai. Di non poter mentire. E
allora. Allora la strategia deve cambiare. Perché raggirare un ningen è facile; ingannare uno youkai è impossibile. Allora.
Allora Naraku aveva imparato: come uno schermo nei suoi pensieri. Aggirare le intenzioni incasellando azione dopo azione; imparare la
velocità del ragionamento, l’abilità nel formulare e nello scartare ogni
possibilità, ogni mossa, senza concedersi un’esitazione, un tentennamento. Non sotto gli occhi di uno youkai; non sotto gli occhi di
Sesshomaru.
Quella
volta.
Quella
volta, invece. Se li era sentiti addosso, degli occhi. Diversi
da quelli di Sesshomaru; e altrettanto pericoloso. Ma
non era la stessa sensazione; non era il disagio creato dal pensiero di essere
spiato, scrutato, studiato. Era come una mano. Un mano
con artigli che prima volteggiava, sadica, divertita. E poi, all’improvviso, Naraku
l’aveva sentita affondare nelle carni, quella mano. E scavare
e scavare e sentire il sangue gorgogliare dentro il corpo e il calore andarsene
dalle mani e dalle gambe. Un formicolio fastidioso serpeggiare nel
corpo, e intanto quella mano scavava e scavava. O
forse non era una mano; ecco: un serpente. La sentiva: la testa che spinge e spinge per farsi spazio fra i fasci muscolari e i vasi
sanguigni. Ecco: adesso era nei polmoni; dentro i polmoni.
E saliva ancora. In gola. No. Nel collo; da qualche parte,
nel collo. Dentro il collo. Mirare alla testa. Cercare qualcosa nella
testa. E il sibilo della lingua era una risata. E nelle viscere un gorgoglio
fondo e il sangue uscire. Uscire anche se, lo sapeva, non aveva ferite, non aveva nulla e la pelle, sotto la corazza lucida,
era intatta. E non era a terra; non si stava dimenando in preda agli spasmi e
al dolore; non si stava liquefacendo. Lo sapeva. Si vedeva: era ancora in
piedi, ne era certo. E guardava nella pianura.
Il
puntino bianco alla sua destra, accerchiato. Sesshomaru probabilmente. Gli ululati e il nero di una pelliccia saettare fra il lucore delle
armi. Koga degli Yoro mieteva; ovunque passava,
si lasciava dietro brandelli di carne e un terreno scivoloso per il sangue. E
poi. Poi c’erano loro: quei due immensi cani che si azzuffavano ad una distanza irrisoria; li poteva vedere bene.
Morigawa
grondava sangue da un occhio, il muso solcato da una profonda artigliata
schiumava per il veleno; sembrava come esitare e non semplicemente
riequilibrare il fiato prima di un nuovo assalto. Era successo… Sì; Morigawa,
se non si sbagliava, stava per conficcare le zanne nel corpo di Sesshomaru,
inerme sotto i suoi artigli. Le fauci che si schiudono, la lingua che accarezza
la bocca e la soddisfazione e il trionfo negli occhi. Naraku aveva assunto
inconsciamente una posizione di attacco, mentre la mano lentamente si
trasformava in artiglio e la bocca si socchiudeva quasi pregustasse il piacere
di affondare nella carne tenera, fredda e altera di quello youkai. Aveva
inghiottito a vuoto, la testa si era appena alzata tendendo al
limite i muscoli, pronta a scendere in sincronia perfetta.
Morigawa
era scattato. E il corpo che rotolava lontano; il guaito roco e frustrato
assieme ad un rumore quasi elettrico, come quello del fulmine che si schianta a
terra; o come una pioggia di sassolini rimbombare sul fondo di un secchio
vuoto. Morigawa era stato sbalzato via, e Naraku si era accorto della tensione
delle membra, e che sarebbe bastato un respiro a coprire la distanza che lo
separava da Sesshomaru ed essere lui, proprio lui, con le sue mani, con quelle mani che Sesshomaru aveva sempre guardato con un accenno di
divertita compassione, ad affondare nel petto, o nello squarcio alla spalla, e
strappare quel cuore troppo altezzoso. O forse era meglio partire dagli occhi.
Naraku si era passato la lingua sulle labbra, flettendo appena le ginocchia.
Strappare gli occhi a Sesshomaru; sentire le sue grida, mentre l’artiglio
penetra il bulbo e si stringe sul molle e tira e i centri nervosi sono recisi
in modo perfetto. Lo pregustava; con una soddisfazione lenta che risaliva in
tutto il corpo. Sarebbe bastato un istante. Un singolo istante.
Invece.
Invece si era ritrovato bloccato, con quella sensazione di essere stato
trapassato e di aver quella mano, quel serpente, quel…quel qualcosa a scavargli
dentro. Ma lo sapeva che non c’era niente. Si vedeva:
ritto, esterrefatto, tremante. Il sudore formarsi in
goccioline ai lati delle tempie, sopra il labbro, nell’incavo leggero del mento.
Crescere: da sensazione a corpo che scivola lungo la pelle asciutta, troppo asciutta forse, e fredda. Come non ricorda di averla mai
sentita. Nemmeno quando Sesshomaru aveva fatto accuratamente a brandelli il suo
corpo; nemmeno sull’Hakurei, mentre sceglieva, scartava, provava fra mucchi di
carne palpitante. Nemmeno da ningen. Quella
sensazione, quel corpo che è pesante e non riesci a muoverlo e lo senti tremare
ma è lontano, non è nemmeno più il tuo corpo e ti aspetti solo di sentirti
cadere e ti odi perché lo farai e ti detesti perché non vuoi, ma sai che non
riesci a fermarti, a bloccare le ginocchia che si piegano sempre di più,
l’equilibrio che ti abbandona e quel maledetto terreno farsi vicino, sempre più
vicino.
Gli era
rimasto solo quello: aspettare il momento. Rincorrendo un
brandello di consapevolezza, di necessaria conoscenza. Scoprire perché,
cosa lo rendesse così, all’improvviso…Vulnerabile? Sì; vulnerabile. Indifeso.
Più di un bambino. Lui. Lui che non si era piegato nemmeno ai grandi Kami; lui
che aveva creato, frammento dopo frammento, la sua
strada e il suo riscatto. Oh, ci sarebbe arrivato, un giorno, al riscatto. E
allora. Allora sarebbero stati gli youkai. Sarebbero stati loro a guardare alla
sua essenza; alla sua perfezione. Un giorno.
Ma prima ci sarebbe
stata la caduta. E Naraku aveva odiato se stesso per non aver la forza per
impedirla.
Ma alla fine il
suolo era rimasto suolo; e il corpo era rimasto corpo eretto e Naraku non era
caduto. Perché quella mano che scavava e scavava,
dentro, nella sua testa, e rimescolava i suoi pensieri e le sue percezioni,
quella mano era sparita. Plop. L’aveva sentita: staccatasi con un rumore sordo
e secco. Plop. Quando un sasso si tuffa nell’acqua. Plop. Quando schiacci la
pelle secca di una cicala. Plop. Anche la sua testa aveva fatto plop. Ed era
tornato a respirare, senza nemmeno sapere se davvero avesse trattenuto il fiato
fino a quel momento o se anche quella fosse l’ennesima percezione conficcata a
forza nella sua testa.
Plop. E
Naraku si era lentamente riappropriato delle sue facoltà, mentre nella pianura
i due inuyoukai lottavano e mordevano e graffiavano e
i ringhi era profondi e i latrati salivano a riempire il cielo pesante. Naraku
aveva respirato, a lungo; con gli occhi socchiusi e i nervi tesi. Ascoltava: il
respiro sempre più pesante di Morigawa; l’aria fendersi veloce al passaggio
dell’altro demone. Gli artigli strappare la carte come
corteccia di betulla; i denti: nella carne e nel sangue, conficcati; e
stringere e lacerare. Ascoltava: gli ululati dei lupi e i ringhi e la
frustrazione dei demoni; il silenzio attorno a Sesshomaru; il sibilare del
veleno nell’aria e lo schiocco della frusta nell’impatto.
Ascoltava.
Hakudoshi
materializzarsi vicino all’altura; la naginata scivolare nell’aria. Il tempo.
Ecco: che suono ha il tempo? Naraku lo sentiva. L’incresparsi dell’acqua. Il
tremito della foglia. Il tempo ha un suono così preciso. Lo avverti nella pelle
come una carezza. La mano di una donna: malefica e suadente.
Il tempo seduce. Con eleganza e leggerezza; ma ti prende e ti costringe. Non
puoi scappare al tempo. È come la vittoria. Sono amanti esigenti. Quando ti
prendono, non ti lasciano più andare. Ti tradiscono; ti amano. Ma non ti sono fedeli. Basta un istante, e le perdi.
Naraku
odiava il tempo. Da ningen odiava scorgere i cambiamenti del suo corpo. Le
cicatrici segnare una pelle che piano piano sarebbe diventata grigia e coperta
di macchie. Il viso smagrirsi negli stenti e i solchi sempre
più profondi ai lati della bocca. Quelle fossette che la
yotaka che una volta lo aspettava nel futon amava sfiorare, baciare,
tormentare.
Naraku
odiava il tempo. E nemmeno da youkai avrebbe potuto
sfuggire. Lo odiava; ma aveva imparato a sedurlo. Ad assecondarlo. Perché puoi
odiare quello che vuoi, ma è stupido odiare e basta. Odia, ma impara. Odia, ma
manovra. Odia, e utilizza. Odia e riconosci.
E nel
suono di quel tempo, nel respiro della terra e nella risata della
youki, Naraku aveva ascoltato altro: lo stupore. Ed era stato come la
detonazione di un fucile; come un urlo che aveva riempito il cielo ed era
rimbombato per ogni anfratto. Ancora e ancora. Rimbalzato, amplificato;
fastidioso. Sì; tanto fastidioso e snervante che si era deciso ad aprire gli
occhi. Per vedere una ningen – no, quella ningen- rotolare a
terra scomposta, Sesshomaru scattare e poi. Poi niente.
Perché
quella mano era ritornata. E adesso aveva occhi. E lo guardava. Occhi sottili
dalla pupilla affilata e tagliente nell’iride dorato.
E no, non era un bel colore, quello. Non era un luccichio che si deve seguire.
Anche se attrae. Come l’oro.
Naraku
aveva avvertito come un rimasuglio di coscienza umana agitarsi da qualche
parte, in fondo, nel suo corpo. E il brivido di interesse
serpeggiare nelle mani e l’idea, folle, pazza, insensata, di allungare le
braccia e cercare di prenderli, quegli occhi che sembravano due pezzi d’oro. E
lasciarseli scappare era da pazzi, giusto? Anche se sapevi che qualcosa di
sbagliato c’era. Perché a te, adesso, dell’oro non interessa più; perché
adesso, su un campo di battaglia, di oro non dovrebbe starci nemmeno il
riflesso. Eppure. Eppure quel cerchio era giallo e ti
chiamava. Vieni, ti diceva. E Naraku si era accorto con orrore di volerlo
seguire; e che il suo corpo era pronto a muovere ogni muscolo se solo l’ultimo
spiraglio di consapevolezza si fosse zittita e fosse
riuscito a relegarla in un angolino profondo e impenetrabile della sua mente.
Perché quel giallo, quell’occhio, era dannazione.
Gli
occhi di Sesshomaru sono gialli; la luce che, da ningen, scorgeva, accecante,
fra il fogliame era gialla; le fiamme erano gialle. Le
fiamme che lo hanno mangiato. E Naraku aveva avvertito
il desiderio premere e spingere e la mano allungarsi e dentro, nella testa,
rimbombare una voce flebile: scappa. E poi. Poi qualcosa. E si era ritrovato
senza respiro e con il cielo a fissarlo. Mentre sangue, youki, vita se ne stavano andando. Mentre l’armatura crepitava e si frantumava
pezzettino per pezzettino, lasciandogli sentire contro
la pelle ustionata del torace ogni piccola crepa allargarsi: partire lì, dalla
spalla, da dove c’era la spalla, e scendere lente, colare quasi, sull’addome. E
il buco. Il buco che aveva avvertito nello stomaco. Il serpente, la mano.
Quella cosa. Quella cosa era ancora lì; di nuovo. E adesso non era più solo la
sensazione; adesso non era più solo la mente. Lo sentiva, netto, un peso contro
il corpo. Un altro corpo; anche se, lassù, il cielo continuava a restare
azzurro e attorno a lui non c’era nessuno. Ma era lo
stesso. Qualcosa c’era; e premeva e alitava sul suo viso e scendeva con uno
stridio sulla corazza e sulla pelle; affondava nella carne delle gambe, dentro
fino a ricordargli la fragilità delle ossa che si sbriciolavano. E c’era, se
n’era accorto quasi per capriccio, quell’odore nauseante, di carne che si
liquefà. Prima era lontano; prima era diverso. Umano.
Era
riuscito a far scivolare la testa di lato; nella pianura, aveva distinto il
karigiru di Inuyasha, la figura bianca di Sesshomaru e la sicurezza di una
terza figura, stretta fra di loro. Aveva sorriso;
quasi. Perché l’aria fremeva, lo percepiva anche se i
suoi sensi si rifiutavano di rispondergli correttamente; anche se la voce
restava un ricordo e il corpo (lo aveva ancora, un corpo?) era solo assenza. Aveva
sorriso; perché qualcosa doveva esser riuscito, in quella folle stupida
insensata strategia. Qualcosa che, bene o male, prima o dopo, Naraku sapeva che
avrebbe potuto usare a suo vantaggio. Doveva solo riuscire a capire cosa fosse
esattamente; scoprire perché Sesshomaru se ne stesse andando, mentre, lo aveva
sentito chiaramente, la battaglia ancora infuriava. Andarsene; mentre Morigawa
latrava e il suo ringhio frustrato percorreva l’aria. Andarsene; rinunciando
(possibile?) alla vittoria. Rinunciare a lui. Perché Sesshomaru lo sapeva che
era presente anche lui, su quel campo di battaglia. Perché era stato un
istante: prima che Morigawa schioccasse le nocche e arricciasse compiaciuto le
labbra; prima che Morigawa scendesse in campo e la
vittoria, seduttrice, gli concedesse l’ombra del successo. Era stato solo un
momento; lo spazio fra il respiro che scende nei polmoni e quella sottile
increspatura che attraversa le labbra. Era stato un niente; ma Naraku era
persuaso che in quel niente Sesshomaru lo avesse visto, e gli avesse, di nuovo,
promesso una cosa: morte.
Sesshomaru
è fatto così, Naraku lo conosce bene.
Gli
affronti non può dimenticarli; solo eliminarli. E lui,
la sua esistenza, la sua irrita tante sfacciata
melliflua prepotenza è un affronto. Perché gli hanyou non possono aspirare; non
possono desiderare. Gli hanyou sono come i ningen;
sono peggio dei ningen. E devono solo trascinare la
loro esistenza senza concedersi il lusso di un pensiero, di un riscatto.
Un
hanyou è un irritante fastidioso pensiero che ronza in fondo alla testa. Come
il sangue che ti resta addosso dopo che la mano scivola dalla ferita; come il
filo di incenso che s’insinua nella brezza calda di
metà estate; come la cenere che affonda, irriverente, nel manto nevoso. Una semplice contrazione degli occhi; una macchia da sorpassare
senza prestarci tanta attenzione.
Naraku
era stato una macchia, lo ricorda bene.
Da
ningen. Da Onigumo. Una macchia scura e grande nella testa
della gente. Si era acquistato una discreta
fama, da ningen. E quello che gli interessava lo prendeva; con la forza.
Ridacchiò nel frinire assordante delle cicale. Era strano concedersi simili
rievocazioni. Ma in fondo aveva tempo, no? Per una
volta, non era lui a dover soppesare le mosse. Per una volta, Naraku aveva
superato Sesshomaru. E il piano, il suo progetto, procedeva e si formava sempre
più nitido: Mimisenri. Quando Kagura fosse riuscita a
localizzarne il nascondiglio, tutti i tasselli sarebbero tornati al loro posto;
e l’ultimo frammento della sfera tanto vicino da dover solo decidere quando
allungare la mano e premere. Lo avrebbe stretto, forte forte;
con i bordi scheggiati a conficcarsi nella carne e la sensazione del sangue che
si raggruma contro la pietra. Trovarsi a fissare il taglio sul palmo, e
compiacersi della sensazione di fastidio che avrebbe percorso il corpo. Sì;
avrebbe goduto appieno di quell’ultimo preziosissimo frammento.
E
intanto.
Intanto
avrebbe aspettato. Perchè, se c’era una cosa che la sua rinascita come demone
gli aveva insegnato, era la pazienza. Affrettarsi è inutile; e pericoloso. Da
ningen si affrettava; da ningen sentiva sempre il tempo graffiargli la pelle,
lì sulla nuca. Scivolare nell’ebbrezza del sake e stravolgere
anche le notti più spensierate. C’erano notti, in cui cacciava la yotaka, si rivestiva in fretta e se ne andava. Ed era
sobrio. Ma quelle notti, quando la gola gli si
chiudeva, quando dentro qualcosa premeva e premeva e sembrava solo voler uscire
e squarciava il petto e la testa; quelle notti, Onigumo le passava da solo, a
fissare la luna irriverente e il cielo maledetto. Perché il tempo passava, e
con lui la consapevolezza che qualcosa andava semplicemente svanendo. Naraku
socchiuse gli occhi; non aveva eliminato completamente
la sua memoria umana. Nonostante il suo corpo fosse stato ricostruito più e più
volte, non era mai stata toccata la scatola cranica. Quasi avesse paura di
dimenticare quella parte umana che tanto odiava e che aveva imparato, istante
per istante, pezzettino per pezzettino, a riconoscere
e che aveva estirpato con minuzia.
Ma la memoria
restava. E c’era un demone, in quei ricordi.
Una
futakuchi-onna. Ed era bella; di quella bellezza pericolosa e attraente che sa
adescare gli uomini sorridendo con un lieve rossore da dietro una finestra
socchiusa. Era bella, la futakuchi-onna; ed era affamata. Naraku lo sentiva
ancora, il suo respiro caldo e umido, con un accenno di zolfo, scendergli in
bocca e stordirlo; i capelli, troppo lunghi, troppo neri, avvolgerlo e
stringere sempre di più. C’era una bocca, fra quei capelli. Una
piccola linea rosata, quasi una cicatrice. Si era divertito ad
accarezzarla, a ricalcarne con l’indice il contorno
preciso e sottile. Quando la donna era ancora una donna;
quando gli occhi erano neri e liquidi e promettevano solo piacere. Quegli
occhi. Erano diventati rossi, nella sera; e lui aveva pensato ad uno strano riflesso del sole che infuocava la stanza. Li
aveva trovati belli, quegli occhi rossi che si allargavano e dilatavano, con la
pupilla sempre più piccola e distante. Li aveva trovati belli, e aveva riso.
Perché quegli occhi erano una bocca e lo stavano assaggiando, entrando nella
pelle, nel respiro, nel profondo. Occhi rossi. Naraku rise senza allegria. La
sua memoria umana non era sempre spiacevole. C’erano momenti, pochi, ma
c’erano, in cui il segmento che faceva capolino nelle sue elucubrazioni era accolto con sollievo. Con compiacimento, quasi. Perché
era curioso osservare i ningen attraverso se stesso; e accorgersi dei progressi
e dei mutamenti fatti. Ricordare. E fissare il cielo o le
venature di un tronco e adesso, adesso, sapere. Percepirne il respiro e
gli eterni discorsi che intessevano l’aria. Sentirli dentro
di sé, con la fuggevolezza ossessiva di una cometa.
Erano
un’ossessione, i ricordi.
Un’ossessione
piacevole cui concedeva tempo. E il ricordo della futakuchi-onna era il più
prezioso. Perché era stato il primo. Il primo demone che avesse davvero
incontrato. Onigumo non ci aveva mai creduto davvero, agli youkai. Nei santuari
ci entrava solo per rubare e di demoni ne conosceva molti, ma erano tutti di
carne e di sangue e si arrabbiavano quando li provocavi e chiedevano pietà se
la katana premeva loro la gola. Di demoni ne aveva
conosciuti tanti, Onigumo. Ashura che un tempo chiamavano
ningen, e che avevano venduto (forse davvero forse erano solo voci) l’anima a Enma.
Gli
youkai. Non ci aveva mai creduto; eppure. Eppure le
dita affilate della futakuchi-onna le ricordava.
Premevano la gola; incidevano e lasciavano segni lividi sulla pelle, mentre le
labbra diventavano cianotiche per la mancanza d’ossigeno. La stanza era
diventata tutta luce; tanta e tanta luce che gli dava
fastidio. E dentro lo sapeva che era stupidaggine, perché era il tramonto e il
sole era già sceso dietro la costa della montagna. Era una stupidaggine. Ma quella luce lo abbagliava ancora, nei suoi ricordi (o
forse sono sogni?). E c’erano occhi rossi, in fondo a quella luce. Tanti occhi
rossi. E no, non era più la futakuchi-onna. Non era solo
lei. C’era stato qualcos’ altro; doveva esserci stato
qualcos’ altro. Perché la presa era sparita senza una ragione; perché il corpo
che lo premeva a terra e la lingua si erano dissolti.
Perché il tatami sapeva si chiuso e di polvere. E polvere, strana, trasparente,
Onigumo se ne era ritrovato addosso tanta. Troppa
perché fosse stata solo trasportata dal vento. Gli aveva fatto paura, quella
polvere; negli ultimi frammenti di luce, gli era sembrato di vedere tante
bocche. Labbra sottili allargarsi in sorrisi troppo piacevoli per essere inoffensivi. Ridevano. Quella polvere. Rideva. Di
lui. Di qualcosa che lui non sapeva.
Era
fastidiosa, quella sensazione. E, ripensandoci, era la stessa del campo di
battaglia. Quella mano che ti penetra dentro e scava e cerca e smuove e non ti
lascia finchè non è soddisfatta, finchè non ha trovato. Cosa, lo vorresti
sapere anche tu. Ma Naraku, quando era Onigumo, aveva
sentito solo dolore. Le viscere contrarsi e la gola bruciare e il respiro
(respirava ancora?) diventare ricordo. E poi. La bocca aperta e le mani strette
convulse alla fusuma, tossendo e rincorrendo il respiro irregolare, mentre il
cuore batteva e batteva e non li sembrava quasi più di
avere un corpo. Solo il cuore. Tu-tum; tu-tum. In gola, nella testa, nelle
braccia. Perfino negli occhi, tanto faceva male tenerli aperti e fissare la
macchia scura e nauseante vicino al gradino di pietra. Con addosso
quella sensazione strana e il sospetto, forte, che se fosse riuscito a
girarsi, se invece di lasciarsi cadere nudo sull’engawa fosse riuscito a far
scivolare la testa di lato, anche solo a smuoverla un po’, ci sarebbero stati
occhi rossi a fissarlo. Tanti occhi rossi.
Col
tempo. Con il tempo aveva imparato anche a discernere i ricordi che conservava. Quelli umani da quelli degli youkai che avevano
formato il suo primo corpo. Col tempo, quegli occhi rossi erano tornati. E lo
fissavano beffardo e ridevano di lui e gli ricordavano che, in fondo, quello
che era diventato lo doveva ad una pulsione troppo
umana per non disprezzarla. Voleva Kikyo e un nuovo corpo. Voleva un corpo per
avere Kikyo. Perché, anche se Onigumo non era uno sciocco, cosa significasse
poter diventare altro, essere altro, che esistesse davvero qualcosa d’altro non lo capiva. Dopo la futakuchi-onna ai demoni ci
credeva, ma non gli erano mai interessati. Fino a quella notte. Fino a quando il
dolore per le ferite e l’impotenza, al costrizione e
la frustrazione non erano diventate un miscuglio pesante e soffocante e non si
erano fusi con la sua stessa carne martoriata. Quella notte, nel silenzio
umido, Onigumo aveva desiderato qualcos’altro per la prima volta. Aveva
desiderato un corpo che non invecchiasse; aveva anelato ad
una forza che non si esaurisse nella vita di un ningen; aveva immaginato cosa
potesse significare percepire più di un ningen. Mentre l’occhio sano vagava
affamato sotto le bende chiazzate, l’aveva sentito. Di nuovo. Quello sguardo.
Quella mano che ti prende e di schiaccia a terra. E la sensazione era diventata
corpo e occhi rossi e zampe lunghe e pelose e odore.
Un odore pungente e ferino che si mescolava a quello del sangue marcio, del
miso freddo e della polvere. Lo aveva nauseato e lo aveva amato. Perché era una
promessa e lui aveva capito; e si era accorto di aver sempre aspettato. Da
quando la futakuchi-onna era diventata polvere, lui aveva aspettato. Di
risentire quegli occhi trapassargli la pelle e poterli fissare. Sei occhi rossi
e lucidi; grandi come la caverna, come il cielo, come ogni pensiero che gli
riempiva il cervello. C’erano stati solo quegli occhi
nella sua testa, per tanta e tanto tempo. E una voce senza bocca che rideva e
chiedeva cosa desiderasse.
Perché
lo tsuchigumo è scaltro, ma con Naraku non aveva più potuto giocare. Perché la
risposta la vedeva e la sapeva: la leggeva nel desiderio e nella lussuria che
tendeva le bende sul viso ustionato, nel fremito violento che percorreva i
fasci muscolari scoperti. Naraku ricordava un sorriso. Non lo aveva visto, ma
era certo che lo tsuchigumo avesse sorriso. Il sorriso di un ragazzino, di un
ningen in quell’età sospesa fra l’infanzia e la maturità, quando i corpi sono
sottili e acerbi e il rossore infiamma il viso e gli occhi si chinano per
pudore e vergogna. Un sorriso semplice, che lo aveva fatto rabbrividire, mentre
la tela che da sempre lo aveva avvolto si stringeva e gli cadeva addosso, nel
suo groviglio luccicante di seta e bava calda. E lui, imprigionato in quella
morsa che incideva e graffiava e sfrigolava, aveva riso. La
bocca senza labbra aperta e una tosse isterica e cadenzata a confondersi con le
parole. Perché aveva capito che forse si può tornare indietro; perché
aveva capito che c’era ancora qualcosa che poteva fare, con quel corpo morto.
Perché lo tsuchigumo lo fissava e sorrideva e prometteva vittoria. E Onigumo
aveva detto hai. Mentre la carne
spariva pezzo per pezzo; mentre le ossa si spezzavano
in bocce grandi e affamate; mentre la voce diventava urla e la risata era un
singhiozzo. E il fuoco cresceva e mangiava il sangue e distruggeva la tela e
gli occhi rossi dello tsuchigumo lo fissavano e ridevano.
Naraku
si massaggiò la fronte, prima di abbandonare la testa contro lo stipite. Lo
tsuchigumo. Lo aveva raggirato con maestria. E aveva fatto in modo che lui,
Naraku, non dimenticasse mai cosa fosse; a chi dovesse la sua nascita. Rigirò
la sakazuki e il sake rimandò un’ombra rossa. Un cenno sulle
labbra e il sapore dolciastro in bocca. I suoi occhi. I suoi occhi erano
rossi. Gentile omaggio. Gentile ricordo. Li odiava,
quegli occhi. Ma per quanto cambiasse il suo corpo, per quanto braccia, gambe,
organi, sangue cambiassero e fossero restituiti, c’erano
due cose che non era mai riuscito a eliminare: la cicatrice sulla schiena e
quei maledetti occhi rossi.
Ma in definitiva
sarebbero stati il suo riscatto: fissare Sesshomaru agonizzante ai suoi piedi,
la sua superbia imprigionata nei lineamenti eleganti deformati dal dolore e
dalla rabbia, dallo sconcerto della sconfitta. Fissarlo con quegli occhi, gli occhi che erano di un ningen e che adesso sono di uno
youkai. Occhi diversi e così uguali. Perché potevano vedere le medesime cose,
percepire il fremito dei riflessi nell’acqua che si increspa;
la luce che si spezza in ogni singola goccia di pioggia; l’ombra che si allunga
nei fiori che crescono lentamente.
Naraku
sorrise, mentre
Aveva
perso il vantaggio acquisito con Morigawa; aveva perso un filtro capace di
uccidere Sesshomaru e i fucili; aveva perso contro quella mano che lo aveva
bloccato a terra su quel maledetto campo di battaglia. Aveva perso anche contro
Sesshomaru. Perché il demone non aveva raccolto la sua provocazione e gli aveva
semplicemente voltato le spalle, come se fosse un insetto senza importanza, di
cui non preoccuparsi minimamente. Aveva perso, doveva ammetterlo a se stesso. E
si sorprese della soddisfazione che sentiva crescere in fondo al petto. Perché
adesso sapeva come rintracciare l’ultimo frammento della sfera; perché adesso
le mosse erano ben delineate nella sua mente e, passo
dopo passo, le sue mani si stringevano attorno al collo di Sesshomaru. Perché
sarebbe stato presto. E Sesshomaru non si sarebbe mai
più preso la libertà di ignorarlo; non avrebbe più potuto concedergli solo un
annoiato cenno. Presto. Presto sarebbe diventato un’ossessione, per Sesshomaru.
La prova, tangibile, concreta, sfacciata, delle sue mancanze,
dei suoi limiti.
Cambiamento.
I demoni
non conosco il cambiamento, e Naraku sapeva di poter
giocare con quella mancanza. Gli youkai percepiscono l’assoluto; e l’assoluto è completezza. Perfino l’avvicendarsi delle
stagioni non è altro che lo scorrere di un tempo inesistente, rannicchiato su
se stesso. Avvertono il fluire del tempo, certo. Ma
non dicono cambiamento. Non esiste il cambiamento. Le cose mutano, ma non
cambiano. Naraku arrotolò alla mano il sigeo. Era strano. Nonostante fosse uno youkai; nonostante si fosse esercitato per anni nel
sondare i ragionamenti dei demoni, ne avesse studiato le mosse e le
inclinazioni, c’erano ancora delle cose che gli sfuggivano. E quella
distinzione fra cambiamento e mutamento lo irritava più di altre. Perché
significava, nonostante tutti gli sforzi fatti, essere ancora legato alla parte
umana, ad Onigumo. Sbuffò. Per quanto estirpasse carne
e cervello, per quanto cambiasse e sostituisse parti del suo corpo; per quanti
scarti intrisi di parti umane espellesse, qualcosa riusciva sempre a sfuggirli
e restava lì, annidata come un parassita dentro di lui. E lo fermava. Perché
permetteva che il divario rimanesse; e lo schiacciava giù. Lo relegava più in
basso degli youkai. Migliore dei ningen; ancora inadatto
agli youkai.
Andava
bene lo stesso.
Aveva
tempo; e avrebbe imparato anche a impiegare al meglio quelle irritanti
limitazioni che la parte umana gli imponeva. Se ne sarebbe liberato, prima o
dopo. Lo sapeva. Sarebbe diventato come Sesshomaru e Morigawa. Anzi: migliore
di loro; perché il suo cervello avrebbe continuato a cercare, a lavorare a
fremere. Sarebbe stato. Sì; sarebbe stato come quel demone che lo aveva vinto
sul campo di battaglia; mentre era impegnato in uno scontro
era riuscito ad abbattere anche lui, con l’irrisoria facilità con cui si rompe
un rametto secco. Ecco: sarebbe diventato come quel demone. Capace di elevarsi
sopra tutto il resto; e avrebbe sorriso beffardo. Perché, in fondo, quello che
desiderava era il desiderio stesso. Quello stupido irritante desiderio di
migliorare se stesso che era diventato il centro, il fulcro unico, della sua
esistenza.
Vendetta?
Che parola irrisoria. Quella lezione l’aveva imparata dai demoni; da
Sesshomaru. È sciocco cercare la vendetta; soprattutto in rapporto all’eternità
che ti senti scivolare addosso. C’è l’orgoglio, da difendere. Il petto che si
gonfia e la testa, altera, alzarsi a sfidare. C’è la consapevolezza da
salvaguardare. E allora gli artigli si allungano; la lingua sfiora,
compiaciuta, le zanne e dentro il cuore pompa risoluzione e youki. C’è la
consapevolezza; non la vendetta. E uno youkai attacca per ripristinare un
equilibrio incrinato, per riaffermare se stesso. Nell’istante; nella sua
completezza.
Frustò l’aria in un gesto di stizza. Era ancora presto, ma fremeva. Perché razionalmente riusciva
a percepire le differenze; le ripercorreva, precise, nella mente, le
classificava e le elencava. Razionalmente, avrebbe saputo sempre cosa di lui
era mutato e cosa era rimasto. Ma nell’immediato.
Nell’istante in cui agiva, la linea di confine spariva e tutto ritornava
confuso; troppo confuso. E l’istinto umano si
mescolava alla razionalità demoniaca. Lo sapeva; e lo irritava. Perché, quando
si trovava in difficoltà, la testa ragionava in fretta e i pensieri erano
ancora pensieri da ningen. Mentre la sensazione di
trappola si stringeva alla gola, Naraku odiava la sua testa che ripeteva e
urlava: sopravvivi. Perché gli youkai non pensano sopravvivi; gli youkai pensano solo vinci. Perché di morire
non se ne curano, gli youkai. Perché conosco se stessi e la propria potenza.
Naraku
della morte aveva paura. Come un ningen.
Perché
sarebbe stata la sconfitta definitiva; perché avrebbe significato dar ragione a
Sesshomaru e al suo irritante sorriso di scherno. A Naraku la morte non piace;
perché non la puoi ingannare. E sapeva che, non fosse stato per Morigawa e la
sua rabbia feroce, o forse solo per semplice fortuna, quel demone lo avrebbe
ucciso. E non avrebbe visto le spalle di Sesshomaru né i latrati singhiozzare
come una risata.
Ma adesso. Adesso
stava imparando. E quei cicli lunari avrebbero fruttato più di quanto si fosse
mai aspettato. Era ad un passo dal vincere, adesso. E avrebbe vinto. Aveva
raccolto i pezzi; aveva pianificato le mosse. Mancava poco. Così poco.
L’ultimo
frammento. Ancora un frammento, e poi. Poi. Pregustava già la luce della sfera
aumentare d’intensità e irradiarsi nel suo corpo. Quel calore
colargli nelle membra e rinvigorire e cambiare e sconvolgere e rinascere.
Forse non avrebbe più avuto quella cicatrice sulla schiena; forse anche gli
occhi non sarebbero stati rossi.
Sarebbe
nato. Completo, questa volta. E Sesshomaru lo avrebbe visto piegato; premuto a
terra e costretto a strisciare, a riconoscerlo come un suo pari.
Mancava
poco, ormai. Molto poco.
Naraku
sorrise allo spicchio di luna. Aveva imparo che la vittoria si assapora
lentamente, restituendo pezzettino per pezzettino gli
smacchi subiti. Aveva imparto la pazienza.