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Autore: avalon9    08/11/2009    5 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Finalmente, diranno molti di voi

Finalmente, diranno molti di voi.

Dopo diciassette mesi, dopo almeno dieci riscritture, dopo impegni lavorativi e universitari, finalmente riesco ad aggiornare. Un soffio di vita-Giorni d’inverno, con questo capitolo, si avvia definitivamente alla sua conclusione. E lo fa con calma; molta, moltissima calma.

Per essere precisi, e per frustrare un po’ di aspettative, in questo capitolo non compariranno affatto Alessandra e Sesshomaru, se non nelle parole e nei ricordi di altri personaggi. Di contro, il prossimo, Lucciole, sarà interamente dedicato a loro, e al loro rapporto. Alla sua evoluzione (o involuzione?).

Quarantasettesimo capitolo, dunque. Neutro, sotto un certo aspetto. Perché non aggiunge, ne sono consapevole io per prima, molti elementi allo sviluppo immediato della trama. Al contrario, sembra gettare ancora più interrogativi e non dissipa alcune zone d’ombra. Al contempo, però, è un capitolo fondamentale. Perché riprende il tema delle diversità che intercorrono fra youkai e ningen e soprattutto getta le prime basi per la seconda parte della storia e anche per la terza. Elementi che, adesso, sono più che altri accessori, ma che in futuro avranno la loro giusta, importante, collocazione. Capitolo di aggiunta, anche. Perché, forse per la prima volta in modo significativo, si affaccia la realtà mitologica e culturale cinese. Shin è cresciuto con i suoi fratelli in Cina; ne ha respirato l’essenza, ne ha percepito la distanza con il Giappone. Nelle future due parti, la Cina non sarà più solo una terra lontana in cui i principi del Kansai sono cresciuti, ma un mondo concreto e tangibile, di scambio.

Capitolo sui personaggi “secondari”, in un certo qual modo. E, come accennato, si toccano alcune questioni che non ho ancora voluto risolvere del tutto. Si parla del passato di Kumamoto; della situazione di Koga e Koji/Najiya; delle decisioni di Shin. E di Naraku.

L’ultimo paragrafo, confesso, è stato tremendo da scrivere. E ancora non ne sono persuasa. Perché è l’ultima comparsa che Naraku avrà nella mia storia, almeno in modo diretto. La seconda parte, Un soffio di vita - Fiori di lycoris (così vi ho svelato anche il titolo^^), sarà ambientata vari anni dopo la sconfitta di Naraku, che di conseguenza tornerà solo a livello mnemonico. Però. Però Naraku è un personaggio splendido, e lasciarlo mi è stato davvero difficile. Per mia abitudine a non stravolgere troppo le trame dei manga di partenza, la storia di Naraku prosegue così come l’ha descritta Rumiko Takahshi nel manga. Non posso ancora assicurare di non apportare alcune varianti (soprattutto alla luce del finale di Inuyasha che mi ha lasciato delusa proprio nei confronti di Naraku). Comunque, in questo ultimo paragrafo, ho tentato (tentato, va bene? Non so se posso sperare non di esserci riuscita appieno, ma almeno di aver lasciato intravvedere l’intenzione) di renderne la complessità, la tensione fra parte umana e demoniaca.

Vedremo.

Intanto, il prossimo capito è già in lavorazione, e a buon punto. Non posso garantire una imminente e svelta pubblicazione, soprattutto a causa di scadenze universitarie da rispettare. Tuttavia, e questo capitolo ne è in sostanza la prova, ribadisco che è mia ferma intenzione concludere Un soffio di vita. Nella sua trilogia.

Come di consueto, ho aggiornato il dizionarietto; e infine ringrazio infinitamente tutti coloro che continuano a seguirmi e aspettare e che hanno la gentilezza di recensirmi.

Grazie a Lete89, Lara, Flavia e Francesca per il sostegno che mi avete dato in tutto durante questi mesi.

Grazie a Celina, Eiby, KaDe, Yoi, Kaimi_11 per le splendide parole che mi usate e per la gentilezza che mi mostrate. Infine, grazie ad Achiko, e scusami per il lunghissimo silenzio.

 

Grazie. Davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 47

RESA

 

 

“La devo ringraziare, Kumamoto-san”

 

Kyoko abbassò appena la testa e strinse le mani in grembo. Il giardino del kyuden dell’Ovest è da sempre un piccolo capolavoro di armonia. Lo sfondo montano si armonizza con i cipressi e i cedri. Il verde delle magnolie e il violaceo del pyrus si specchiano nelle acque, e in fondo il lago, con il rì rivestito di lacche, madreperla e foglie d’oro che sembra galleggiare prima di aprirsi nel tsuridono. L’equilibrio di alberi e arbusti, bambù e sempreverdi sembrava non esser mai stato scalfito. In poco più di un mese, le tracce della guerra, la desolazione lasciata dopo che l’esercito era stato congedato erano sparite. E il tempo era tornato a scorrere in quel modo immobile che è proprio di loro youkai e dei luoghi che appartengono loro.

Non era cambiata, nel tempo. La residenza dei Principi di Nishi emanava la stessa solennità e rarefazione del passato. Kyoko si concesse di indugiare sulle pietre leggermente sollevate che segnavano i sentieri fra l’erba bassa e la ghiaia. Li aveva percorsi molte volte: spaesata dopo aver lasciato Yezo; stringendosi il ventre leggermente gonfio quando aspettava Shin; scalpitando per l’ostinazione di suo marito di precluderle gli scontri e le battaglie. Le lasciava il governo del Kansai, ma non la voleva come compagna in campo. In quelle occasioni, invidiava…Come le avevano detto che era stata chiamata? Saiyuri. Sì, Saiyuri.

 

Inutaisho aveva deciso così. Quando sua moglie è morta, ha deciso quel nome. L’altro, quello che aveva in vita, quello che faceva tremare demoni potenti ed era pronunciato con reverenza e timore, quel nome era solo un pallido ricordo. Forse il Principe non lo rammentava nemmeno. Kyoko non se ne sarebbe stupita. Doveva essere molto piccolo quando sua madre era morta. Già: morta. Non lo sapeva. Sul Continente quella voce non era mai giunta. L’ultima volta, l’aveva vista su un molo, prima dell’esilio. Appoggiata al braccio del marito e con il kimono che nascondeva a fatica la sua gravidanza orami alla fine. L’erede dell’Ovest sarebbe nato di lì a pochi mesi. E lei non era stata presente.

 

Sesshomaru-sama assomigliava molto alla madre. Kyoko dovette riconoscere a se stessa di essere rimasta colpita dal giovane Principe. Lo aveva visto solo di sfuggita, e non aveva avuto occasione di presentarsi come vorrebbe l’etichetta. Eppure, quella sera che era rientrato a palazzo grondante sangue e sudore, con la ningen fra le braccia, Kyoko aveva scorto nei suoi occhi quella luce fiera e determinata che velava sempre lo sguardo di Saiyuri. La fisionomia richiamava quella del padre, certo. Ma Kyoko non si poteva far trarre in inganno. La postura altera e al contempo fluida ed elegante; il mento che si alza leggermente in concomitanza ad una sfida, al proprio prestigio da affermare; la linea dritta del naso e le sopracciglia sottili, le dita lunghe e affusolate delle mani. E poi lo spicchio di luna che si fa intravvedere fra i ciuffi della frangia, il rosso pallido delle striature sul viso. Kyoko non era riuscita a vederlo bene, ma nei giorni della sua convalescenza, quando si aggirava nel padiglione che era stato riservato a lei e ai suoi figli, aveva consumato ore davanti ad un ritratto in tecnica sumi-e del Principe. Sesshomaru dimostrava circa vent’anni; armatura e pelliccia adagiata sul braccio; al fianco due katana e poi gli occhi. Sfuggenti verso l’infinito. Lo aveva studiato attentamente, in quel ritratto. Conforntandolo con il bambino di setto otto anni dagli occhi ancora grandi e un po’ lattiginosi. Un bimbo in kariginu, con i capelli tagliati alle spalle e senza alcuna arma. Doveva risalire circa al periodo in cui era morta sua madre. Poco prima di perdere del tutto la fanciullezza.

 

Kyoko stiracchiò un sorriso e sistemò una piccola ciocca sfuggita al kanzashi. Kumamoto continuava a fissare le increspature dell’acqua oltre il piccolo declivio della collina. In quelle settimane, il tempo sembrava aver iniziato a scorrere al contrario per loro; probabilmente erano solo i capelli striati di bianco del generale e il viso stanco e affaticato a ricordar loro che gli anni, inesorabili, erano trascorsi. Non ne portavano segni evidenti, ma c’erano; e per quanto loro youkai avessero un altro tempo, un altro modo di percepire l’evolversi della vita, per quanto le stagioni si avvicendassero davanti ai loro occhi in un eterno ciclo e riciclo che si annullava in un solo frammento di stagnante presente, nonostante tutto questo, qualcosa era cambiato. E il solo cambiamento bastava a scandire un prima e un dopo.

 

Adesso è dopo.

Dopo la battaglia; dopo la morte di Morigawa e del Sensei; dopo la prigionia dei signori del Kansai. Dopo; dopo; dopo. Kyoko dilatava quella percezione facendola risalire agli anni trascorsi nel Continente; allargava il tempo avvolgendo il miscuglio di rimpianto e risentimenti, la delusione e l’abbandono cui non si era opposta. Suo marito l’aveva estromessa a poco a poco, ma in modo inesorabile. Passo dopo passo; gesto dopo gesto. Una oiran nuova nelle stanze private; un kimono intravisto nella scatola e subito smarrito fra corridoi sempre più ostili, sempre più differenti. Aveva il suo prestigio, la sua forza orgogliosa che le imponeva di non supplicare, di non chiedere. Restava la kogo del Principe del Kansai, la madre dell’erede, del futuro della stirpe. Ed era solo quello. Solo e unicamente quello.

C’erano giorni trascorsi nell’apatia, rimescolando nello stomaco emozioni ormai lontane, smarrite totalmente. Perché l’amore di un demone è talmente avvolgente, talmente estraneo da coinvolgimenti secondari, che è assieme pieno e devastante. E il tradimento. Il tradimento non è gelosia, rabbia, sconforto. Semplicemente il cristallizzarsi dell’amore, e poi il crepitio del vetro che si crepa. Kyoko non era stata gelosa del marito. Aveva smesso semplicemente di amarlo; e dentro le era rimasto il vuoto. E il male. Un male che si era chiesta infinite volte quanto assomigliasse a quello delle ningen. Anche loro erano tradite, anche loro erano costrette ad accettare. E poi ordinavo, tramavano, progettavano. Lei no. Lei era rimasta al suo posto, orgogliosa comunque di un compagno che ormai era solo un nome sbiadito nella mente; un’ombra di anni lontanissimi, su un campo da combattimento, con la sua bocca contro la sua.

 

Il tradimento. Lo conosceva e lo aveva esercitato con grande abilità. Era una yasha, e per quanto forte il suo corpo prima o dopo avrebbe potuto tradirla in duello. Allora. Allora si era affinata nell’intelletto, nell’ingegno. Aveva plasmato il suo modo di pensare secondo le regole del governo. Un governo ben diverso da quello dei ningen, una tipologia di potere che era esercizio di autorità e forza. Spietata forza. Efferatezza. E assieme era altro. Consapevolezza della loro grandezza, coscienza di sé, della propria vita infinita e assieme transitoria. L’indifferenza con cui sfiorano i mutamenti soggetti al tempo. In quel cerchio che inizia in un fagotto e lentamente cresce con la consapevolezza di essere altro; di appartenere ad un mondo diverso rispetto a quello in cui sono immersi, e che conoscono nel profondo. Fino in fondo.

 

Morigawa l’aveva amata. Kyoko poteva conservare questa consapevolezza. Perché un demone comunque non può mentire. Stiracchiò un sorriso e lisciò le pieghe dello yukata. L’ofuro sarebbe stato libero a breve, ma la voglia di un bagno rilassante era lentamente scemata. Socchiuse gli occhi: la nebbia lattiginosa e quel calore umido sulla pelle quasi insensibile. Chissà perché. Il piacere provato dalla consapevolezza di fondersi con l’acqua, di percepire il corpo dilatarsi e scorrere in ogni particella d’acqua, in ogni goccia che scivola oltre il bordo, che scende lentamente verso la canaletta di scolo; rotolare e aprirsi nella terra. Ascoltare una parte di sé smaterializzarsi in vapore e una parte penetrare nella terra molle. Né calda né fredda. Solo molle. E nel buio. O salire nel sole e poi tornare. Pioggia, tempesta o neve. Era brava in quello; come tutti loro youkai. Alienazione le aveva detto una volta un onmyoji che si era rifugiato nelle loro terre, a Yezo. I ningen impiegano anni e anni, e spesso falliscono, per raggiungere quella condizione che permette loro di estraniarsi dal loro corpo. E seguire semplicemente il loro sentire con il pensiero. Kyoko non aveva compreso, allora. Non aveva compreso la difficoltà, non aveva concepito la possibilità per un ningen di fondersi con il mondo come loro stessi facevano. Non aveva capito.

E poi aveva visto. Con i suoi occhi; durante i secoli di esilio sul continente. Yogin li chiamavano. Uomini che avevano valicato le montagne bianche dell’interno. Lì dove dimorano gli spiriti di quella terra che aveva, volente o nolente, accettato come sua nuova dimora. Yogin si facevano chiamare; magri e scheletrici nel corpo, ma aveva sentito provenire da loro il pieno controllo della mente. Una conoscenza così diversa da quella demoniaca, ma che era riuscita a suscitare il suo interesse, a smuovere la sua difficile curiosità. Il prana che risiede nel corpo e su cui si fa leva, e al suo interno pensiero, intelligenza e fede. Kyoko aveva avvertito l’anima dello yogin fluttuarle accanto, mentre il suo corpo si immobilizzava e sembrava rinsecchire sulle sue stesse ossa; occhi vuoti arrovesciati all’indietro a mostrare il bulbo bianco e una litania echeggiare ovunque, senza provenienza. Lo aveva seguito nella sua esplorazione, nel suo peregrinare metafisico. E al contempo era rimasta a studiare la rigidità del suo corpo; l’odore di morte che lentamente aleggiava. Diverso da quella che lei stessa sapeva dare, eppure dettato dalla stessa sottile, latente consapevolezza. L’odore di quel terrore che attraversa la mente un istante prima di dissolvere il pensiero. Il dubbio, il terrore, o forse l’angosciante consapevolezza di non poter tornare.

 

Lo aveva scoperto; o forse semplicemente intuito. La differenza con i ningen. Loro devono comunque morire; in un modo o nell’altro, definitivamente o solo per un breve periodo, loro muoiono. E diventano solo pensiero, solo proiezione indefinita. Se ne distruggi il corpo, è la fine completa. Loro youkai no. Loro sono nel petalo che scorre su un letto d’acqua, nel vento che attraversa gli aceri sulle montagne e ridiscende lungo le vallate, nel refolo che accarezza le betulle e s’insinua fra i bambù prima di precipitare fra i ciuffi secchi della spiaggia e poi nel mare. Sono nella pioggia che cade, si infrange nella terra o si immerge nell’assoluto dell’acqua; sono nella danza ipnotica della neve. E sono anche nel luogo del loro corpo, con i sensi tesi a fondersi e a captare il movimento. Rilassati e assieme pronti allo scatto. Addormentati e vigili. Perché il loro riposo è la fusione e la natura stessa vibra d’istinto davanti al pericolo. Senza spezzare l’equilibrio, senza smettere di seguire le increspature dell’acqua.

 

Avrebbe voluto parlarne con Saiyuri. Avrebbe voluto insegnarle un altro modo di disprezzare. Non approvava i ningen, Saiyuri. Non li avrebbe mai approvati, Kyoko lo sapeva bene. Forse nemmeno per compiacere suo figlio. Era orgogliosa, Saiyuri. Lo stesso orgoglio di Sesshomaru-sama. La freddezza che non si liquefà se non nel buio, nell’oscuro. E quel leggero sorriso che accompagnava l’inclinazione della testa; un cenno di quieta apparente accondiscendenza. Mentre risistemava con eleganza la pelliccia bianca o fermava una ciocca di platino. Era altera, Saiyuri, e consapevole di chi fosse. Del ruolo che avesse. E che avrebbe avuto suo figlio.

 

“A Sesshomaru-sama manca. Anche se non lo sa”

 

Kumamoto si sedette di nuovo sullo zabuton. Quella conversazione non era stata delle più piacevoli, ma non gli era pesata nemmeno quanto si era immaginato. Quando Kyoko-sama gli aveva chiesto se potesse prendere un tè con lei, il vecchio generale aveva subito percepito la stranezza. Negli anni prima dell’esilio aveva avuto modo di conoscere Kyoko e soprattutto di apprezzare la sua abilità. Sviava i demoni. Inganno lo avrebbero definito i ningen, crede. Ma non lo è. Per loro demoni, se cadi in una trappola non è stato l’avversario ad ingannarti, ma tu a non prestare attenzione alle sue mosse, alla tattica cui voleva ricorrere per allentare la tua concentrazione. E Kyoko era maestra nello sviare la mente. Gli anni di esperienza a capo di Yezo, reggendo le sorti del loro regno con suo fratello, le avevano conferito l’intelligenza fine e la velocità di ragionamento per cui eccelleva fra le yasha.

Aveva capito che voleva qualcosa, nonostante la pacatezza quasi remissiva della richiesta. Aveva immaginato ragguagli sulla battaglia; aveva ipotizzato la storia della morte di suo marito o forse delucidazioni riguardo il destino suo e dei suoi figli. Alle prime due possibilità, Kumamoto avrebbe saputo rispondere tranquillamente. Le immagini di quel giorno erano stampate vivide nella sua mente. Assieme a quelle della prima volta che era sceso in campo con Inutaisho e Morigawa. Si era sfiorato in un gesto automatico l’occhio cieco. Lo aveva perso per proteggere Inutaisho e non se ne era mai pentito. Quella folle spedizione di loto tre, per risolvere una situazione che avrebbe altrimenti costretto il vecchio Principe a scendere in campo, e non era in condizioni per farlo. Avevano vinto, quella volta, ma Inutaisho c’era andato vicino. Troppo vicino dall’essere ucciso in battaglia. Aveva squarciato la tigre appena in tempo; veloce abbastanza da impedirle di sgozzare Inutaisho, ma non a sufficienza per evitare la zampata che gli aveva maciullato il volto e strappato il bulbo. Kumamoto non ricorda nemmeno il dolore. Solo l’urgenza di uccidere quel maledetto gattaccio e portare via Inutaisho. Dal Sensei. Erano andati da lui, perché le ferite del demone erano gravi. Molto gravi. Inutaisho aveva impiegato due mesi a recuperare le forze; pochissimo considerando che a quel tempo era ancora un ragazzino. E nello stesso tempo, Kumamoto si era accorto che il suo viso ritornava normale: restava solo l’orbita vuota e la cicatrice profonda, un segno che nemmeno la sua youki ancora giovane poteva rimarginare.

 

Aveva immaginato che Kyoko gli avrebbe chiesto del Sensei; di come si fosse presentato all’improvviso sul campo di battaglia. In forma canina, gli occhi grigi brillanti di youki. Il modo in cui aveva azzannato alla gola Morigawa un istante prima che potesse chiudere le fauci su Sesshomaru. E rotolare verso il fondo della piana, auree a scontrarsi e furia che era più istinto cieco e ferino che razionalità demoniaca. La forma animale concede a loro youkai il pieno potere della loro natura, ma può stravolgere il modo di percepire il mondo. Può annullare la razionalità selvaggia e trasformarla in puro istinto. È la fusione totale del loro essere con l’essenza stessa della natura. E può essere devastante. Soprattutto per loro taiyoukai. Non è la perdita del loro io, non sono hanyou che si lasciano sopraffare dal sangue demoniaco; è diverso. È profondamente diverso. Il loro io al massimo grado, in un controllo assoluto e insieme istintivo. Sono pienamente se stessi e bramano la perfezione assoluta che nemmeno loro possiedono: la perfezione dei Kamigami.

Aveva immaginato di dover parlare di quello. E invece Kyoko lo aveva sorpreso chiedendogli della Signora, della moglie di Inutaisho. Saiyuri. La poteva chiamare solo così, ormai. Il nome che Inutaisho aveva scelto per lei; forse il nome che avrebbe sempre voluto rivolgerle. Se ne era andata presto, Saiyuri. Troppo presto. Presto per Inutaisho; presto per Sesshomaru. Assomigliava alla sua prima moglie. Composta e fiera. Orgogliosa. Ma in fondo era l’erede delle terre di Higashi.

 

E forse non avrebbe mai accettato Alessandra-san. Kumamoto si sorprese del leggero sorriso che gli attraversò le labbra. Le rivalità fra yasha non erano mai state di suo interesse, ma l’idea di come avrebbe giocato Sesshomaru quella partita lo divertiva. La Signora non era remissiva; per nulla. Ma amava suo figlio. Di un amore quasi impalpabile e che si poteva intuire solo per chi la conoscesse bene. Veramente bene. Anche in compagnia di Inutaisho Saiyuri rasentava una distaccata e composta indifferenza. Eppure. Eppure Kumamoto sapeva benissimo che il legame che li aveva uniti era stato particolare. Molto particolare. Inutaisho aveva rischiato il trono e la vita, per lei. Aveva accettato il disonore e il ripudio, per lei. Era stato pronto ad esser privato del titolo di Principe, di mettersi contro il Clan, la Famiglia, perfino il Consiglio, pur di avere lei. Ripartire da zero, senza titoli e con la condanna del rinnegato a pesare sulle spalle. Inutaisho lo avrebbe fatto; in un certo senso lo aveva fatto. E Saiyuri al suo fianco. Ma Sesshomaru? Sesshomaru sarebbe mai stato capace di superare le regole e le convinzioni che gli erano state inculcate fin da ragazzo? Forse con il tempo; forse con tempo e pazienza e fatica.

 

Assaporò il maccha in tre piccoli sorsi, socchiudendo gli occhi. Avrebbe preferito del sake, ma era molto tempo che non aveva qualcuno con cui berlo. Il suo primogenito era morto da almeno un secolo, e con lui anche gli altri figli. Gli restava solo Homoe. Avrebbe preferito il sake, ma non è decoroso invitare una donna, anche una yasha, a berlo. Forse una sera lo avrebbe proposto a Inuyasha. Ruotò lentamente la chawan; un sottile strato di polvere verdina galleggiava pigramente. Lo avrebbe visto verso sera. Inuyasha si stava impegnando al meglio delle sue possibilità per non deludere Sesshomaru e mantenere una situazione di equilibrio a corte, ma non era facile. Non era affatto facile; soprattutto per lui che non aveva ricevuto alcuna educazione in campo governativo. Kumamoto si sorprese a seguire il profilo di Kyoko. I capelli dorati elegantemente raccolti e gli occhi viola socchiusi. Osservava il vuoto. Come solo loro youkai sanno fare. Il silenzio che si allarga in un manto invisibile; il vuoto che è solo assenza di movimento o movimento perfettamente armonico e compito. Perfezione assoluta. Come nel piccolo tonfo della rana che si tuffa; quel suono profondo che si annulla nell’espandersi dei cerchi concentrici, che dilatano il silenzio. E non c’è più la rana o lo stagno; solo il senso del silenzio. Euiko non lo aveva mai capito. La donna che aveva amato si era sforzata; aveva cercato di penetrare, di cogliere anche solo un piccolo barlume di quello che lui percepiva, ma non ci era mai riuscita. Arrivava appena a sfiorare la consapevolezza che il tempo scorre diversamente fra di loro. Una sottile linea che li teneva comunque divisi.

Era riuscito a farla accettare a Kita; era riuscito a riconoscere il figlio che gli aveva dato. Euiko era la sua chugu e se ci era riuscito lo doveva a Inutaisho. Alla fermezza con cui si era imposto nella Famiglia e nel Consiglio; all’appoggio incondizionato che gli aveva dato. E c’era anche Morigawa, a quel tempo. Era ancora con loro. Sounga era un nome sfumato quanto una leggenda; e loro erano quattro. Quattro demoni che stavano lentamente imparando la loro natura; le diversità fra Kami, ningen e youkai. La forza e l’indifferenza che i ningen chiamano misericordia.

 

Cosa vorreste, Kyoko-sama?”

 

Era da più di un mese che voleva porle quella domanda, sapere cosa desiderasse. Kyoko si limitò a stringere compostamente le mani in grembo. Cosa voleva? Era un quesito che martellava la sua testa da quando aveva razionalizzato di essere nel Palazzo dell’Ovest. Da quando aveva saputo che Sesshomaru se ne era andato con una ningen e aveva affidato la reggenza ad un hanyou, al suo fratellastro. Avrebbe potuto approfittarne; un ragazzino inesperto, in balia di se stesso, non sarebbe stato difficile da raggirare e fargli preparare un accordo pienamente vantaggioso per lei, per i suoi figli e per il Kansai. Ma era davvero il Kansai che voleva? O bramava piuttosto la nuova casa, sul Continente, oppure riavvertire il pizzicorio leggero dell’aria gelida di Yezo? Hidesuke andava a trovarla due volte al giorno e stava cercando di convincerla. Le dipingeva davanti il ritorno al passato. Quando era la hime di Yezo, una delle yasha più importanti e influenti. Una yasha indipendente. Kyoko sorrideva dei progetti di suo fratello, scuoteva elegantemente il capo e gli stingeva una mano. Una mano grande e un po’ imbarazzata. Hidesuke non si era mai abituato alle attenzioni della sorella; finchè era un cucciolo le trovava piacevoli, ma crescendo aveva iniziato a trovarle costringenti. In più, non è molto piacevole avere addosso gli occhi dell’intera corte e il sorriso di quieta accondiscendenza. Kyoko lo aveva viziato in un certo senso; come sorella maggiore e con la sua abilità diplomatica oltre che bellica era riuscita a ritardare fino all’ultimo la sua successione. Alla corte di Yezo si era mormorato anche che Kyoko-hime progettasse l’assassinio del legittimo Principe, per essere lei la sola, la prima yasha a succedere al comando di un Clan inuyoukai. Hidesuke conosceva le voci e ne sorrideva quasi compiaciuto. Lo lusingava l’idea che gli youkai temessero sua sorella, in quanto era il metro con cui si poteva misurare il suo prestigio e assieme l’influenza che sapeva esercitare. Per quanto riguardava la veridicità di quelle chiacchiere, non ci prestava la minima attenzione. C’era un tacito patto, fra lui e sua sorella. Kyoko avrebbe retto il regno finchè fosse stato suo desiderio e lui non si fosse sentito pronto a sfidarla nella prova di successione. Doveva guadagnarselo, il diritto di controllare gli inuyoukai di Yezo. Poi. Poi c’era stata la sua vittoria, il matrimonio e Morigawa alla corte di Yezo. E Kyoko aveva lasciato le sue terre.

 

Adesso, Hidesuke le proponeva di tornare. Miwako avrebbe potuto imparare molto da lei, e poi lo aggradava molto l’idea che sua sorella lo potesse consigliare per l’istruzione di Eisaku. Desiderava molto che suo figlio crescesse con lo stesso orgoglio suo e della sua stirpe, che non accadesse mai che si sentisse secondo rispetto a Shin e Yashi. Ma Kyoko non rispondeva mai ai suoi inviti. Si limitava a ricordargli la condizione sua e dei suoi figli, di come loro fossero semplicemente gli sconfitti. E poco importava, alla fine, che Morigawa fosse stato l’unico artefice di tutto. Poco importava che lei, Yashi e Koji fossero stati imprigionati e torturati; che Shin avesse deciso spontaneamente di collaborare con Sesshomaru. Le loro regole erano precise: i signori del Kansai dovevano rimettersi al volere di Nishi. Kyoko non osava farsi illusioni; Sesshomaru poteva chiedere anche le loro vite.

 

Ma se avesse davvero potuto scegliere. Se avesse potuto farlo, Kyoko si accorse all’improvviso di non avere una risposta. Perché niente sarebbe più stato come prima. Il tempo, quel tempo che per loro scorre quasi indifferente, per la prima volta aveva assunto una consistenza corporea e pesante; una cappa che la schiacciava a terra, rimbombandole nelle orecchie con la violenza di uno tsunami. Passato; passato; passato. Con o senza Morigawa, Kyoko aveva perso. Perso qualcosa che aveva costruito nel tempo, con una consapevolezza lasciata altrimenti fluttuare leggera e inconsistente. Perdere un figlio in battaglia sarebbe stato normale. Era preparata a quella possibilità con la consapevolezza della sua natura. Uno youkai è eterno; non è immortale. Sarebbe stato naturale. Nulla di più. E avrebbe sorpassato il lutto senza lasciarsene piegare. Un dolore profondo che l’avrebbe avvolta, ma non annullata. I ningen si lasciano consumare dal dolore. Non gli youkai. Lo avvertono nella sua massima espressione, in quell’interezza che trascina nelle ombre della terra. Un frantumarsi continuo vorticoso. Ma lo vivono accettandolo. Il dolore, come la gioia, la sofferenza e l’amore sono sentiti nella loro espressione più alta e semplicemente lasciati scorrere sulla pelle. Sono nell’armonia stessa di cui loro sono espressione. Non ha motivo d’esserci rimpianto, per un demone. Non il rimpianto umano. E nemmeno malinconia.

 

Ma se avesse potuto scegliere. Cosa avrebbe fatto, allora? Sarebbe tornata a casa, certo. Ma dov’era, la sua casa? Le vette ghiacciate di Yezo o quel palazzo che Morigawa aveva fatto ricostruire, pezzo dopo pezzo, nel delicato Kansai. Oppure il Continente. Kyoko socchiuse gli occhi. Forse era ridicolo pensarci, non era facilmente prevedibile che il Principe lasciasse loro quella scelta, la libertà della scelta. Ma immaginare, ipotizzare, era un gioco cui si era sempre prestata volentieri. Elaborare ogni possibile situazione e avere sempre pronta la risposta, la soluzione. Precisa e inesorabile come un fendente dei suoi lunghi artigli. Kyoko aveva fatto della voce la più letale delle sue armi, ma zanne e unghie non erano meno pericolose; benché capitasse che i suoi avversari se ne dimenticassero, avvolti dalla sua garbata e arguta dialettica.

 

Tuttavia, Kyoko dovette arrendersi alla consapevolezza che serpeggiava nella sua mente: non aveva risposte. Se avesse potuto scegliere, non sapeva cosa decidere. Perché comunque, in un modo o nell’altro, avrebbe perso qualcosa. Shin era stato categorico e irriducibile al dialogo come poche volte. Se Sesshomaru glielo avesse concesso, sarebbe tornato nel Continente. In esilio e per sua scelta, l’importante era tornare. Glielo aveva detto pochi giorni dopo che era bruciato lo shinden del corpo principale. In una afosa giornata, con il sole che filtrava pesante fra le listelle di bambù e il frinire assordante delle cicale. Si era rimesso in fretta, il suo primogenito. Nonostante l’imprudenza commessa scendendo in campo senza tener presente le sue ancora instabili condizioni fisiche, le ferite si erano ormai rimarginate. Il passo era ancora un po’ claudicante, ma aveva ripreso l’andatura fiera ed eretta che gli era propria. Quando lo aveva visto sfinito e coperto di sangue sul campo di battaglia, all’interno delle mura del palazzo dell’Ovest aveva temuto in uno strano scherzo dovuto alla stanchezza e ad una verità dura da accettare anche per una yasha. Ma poi. Poi Shin le si era avvicinato; tendendo quasi senza accorgersene la mano e sorreggendosi alla spada. E Kyoko aveva rivisto un cucciolo muovere incerto i primi passi su un tatami orlato d’ocra; sollevarsi fra le gambe del padre e gattonare. Puntare i teneri artigli e sollevare le gambette alla ricerca di un precario equilibrio. Era ruzzolato per terra due volte, ma alla terza aveva guadagnato una precaria stabilità. I primi passi verso l’engawa dove lei sedeva; prima incerti e poi mutare, in una goffa e spensierata corsa che Shin aveva conclusa ridendo fra le sue braccia, prima di voltarsi verso il padre con un ditino in bocca. Inconsapevole di cosa esattamente significasse quel suo naturale crescere. Morigawa aveva sorriso. Una delle ultime volte che suo marito avesse sorriso. E su quella piazza d’armi ingombra di cadaveri Kyoko aveva ricercato per forza d’abitudine il compagno. Era stato un attimo, ma non aveva potuto impedire ai suoi occhi di spaziare lungo le mura, sui ballatoi, fino al corpo centrale alla ricerca di uno sguardo che ormai, lo sapeva lei per prima, sarebbe naufragato nella sua memoria.

 

Le forze avevano abbandonato Shin a pochi passi da lei e suo figlio aveva semplicemente chiuso gli occhi, troppo stanco anche solo per tentare di fermare la propria caduta. Kyoko lo aveva visto scendere verso terra al rallentatore e benché impartisse ai suoi muscoli l’ordine di muoversi, restava immobile. E intanto Shin cadeva. Shin. Shin vivo davanti a lei; Shin che zoppica verso di lei e poi si abbandona alla spossatezza. Suo figlio che accetta le mani di una yasha per ritrovare l’equilibrio, il corpo poggiato sul suo petto e il respiro affannoso regolarizzarsi lentamente verso un sonno esausto. Homoe che sembra cullarlo come se fosse un cucciolo, in gesti innati e quasi malinconici. E poi alzare gli occhi a fissarla; senza astio o felicità. Semplicemente rassicurandola, benché gli occhi della yasha non dicessero nulla. O forse solo una parola: realtà. Kyoko si rivide inginocchiarsi all’improvviso nella terra lorda di sangue, gattonare con il respiro fermo in gola verso quelle figure unite, quasi abbracciate. Gli artigli incerti e quasi spaventati allungarsi a sfiorare un viso pallido e scavato, con occhiaie profonde e una sottile ferita che tagliava la fronte; la pelle di Shin era fredda, quasi livida ai suoi occhi e sapeva di sudore, stanchezza e sangue. Aveva raccolto il viso fra le mani quasi studiandolo, come se la sua mente non potesse razionalizzare che era davvero suo figlio, quello che si era accorta all’improvviso di stringere al seno, quello che aveva debolmente portato le braccia attorno alla sua vita e che cercava disperatamente di sussurrare qualche parola.

Lo stesso figlio che aveva creduto perso e che si era ritrovato inginocchiato compitamente nelle stanze assegnatele. Sfuggente e quasi colpevole mentre le comunicava la sua ferma intenzione, se fosse stata presentata l’occasione, di lasciare il trono a Yashi e ritornare sul Continente. E la preghiera aggiungersi a quelle poche parole; le uniche, aveva sottolineato, che le chiedeva di accettare non come richiesta di un figlio, ma volere del suo Principe. E il soffio che aveva aggiunto: tacere con Yashi e Koji, nascondere loro la verità di quella scelta quasi utopica. Prima scoprire cosa esattamente possano volere.

 

“Quando tornerà Sesshomaru-sama?”

 

Sapeva che non era un suo diritto chiedere; ma il generale, il Principe di Kita che le sedeva di fronte non l’aveva mai trattata come una prigioniera e benché si esimesse dal formulare promesse o elargire speranze che potevano risolversi in uno sbuffo di fumo nero, Kumamoto restava pur sempre un suo vecchio amico. Un demone con cui aveva condiviso parte della vita, di quella vita lunga e precipitata così, all’improvviso. Sapeva che non aveva diritto di chiedere, ma l’ignoranza cui l’attesa la costringeva era sfibrante. Inuyasha non aveva fatto loro sapere nulla, e non le avevano nemmeno detto se era intenzionato a parlare con loro. Poteva supporre che fosse bendisposto nei loro confronti, almeno a giudicare degli alloggi loro riservati e dal fatto che la stessa archiatra di corte fosse stata incaricata di provvedere a che i Signori del Kansai si rimettessero al meglio. Eppure, finchè non avesse saputo esattamente cosa li attendeva, non sarebbe stata tranquilla. O forse, semplicemente, non si sarebbe rassegnata. Hidesuke era ancora a palazzo, ma nonostante le lunghe conversazioni in cui si intrattenevano, suo fratello non si lasciava sfuggire una mezza parola in più del lecito. Aveva imparato troppo bene la sua arte oratoria, aveva dovuto ammettere Kyoko, raccogliendo leggermente una manica per versare un’altra tazza di tè al suo ospite e poi servire se stessa. Non aveva risposto alla domanda.

 

Kumamoto l’aveva sentita chiara e precisa, nonostante il tono usato fosse stato di poco superiore ad un fruscio. Ma la risposta. Quella era un arcano; un semplice e naturale arcano. Si massaggiò di riflesso il ginocchio. Dopo la battaglia aveva ricominciato a dolergli e nemmeno il rimedio di Alessandra-san aveva più effetto. Ma in fondo si era quasi abituato all’idea di quella lama che penetrava la cerne al minimo spostamento. Un buon monito, nulla da dire: i draghi sono pericolosi. Era stato quasi sicuro che avrebbe perso la gamba quando si era sentito azzannare alla coscia. Invece, per un motivo che non ricordava in modo nitido, i denti avevano rosicchiato e liquefatto solo attorno al piatto tibiale e poi erano stati costretti a mollare la presa. Il suo ginocchio era stato ridotto ad un osso incrinato e scheggiato in più punti che biancheggiava in uno squarcio maleodorante e sanguinolento. Erano stati necessari mesi prima che il muscolo e la pelle si riformasse e tornasse intatta, ma per l’acido che era riuscito a intaccare i legamenti non c’era stato rimedio e Kumamoto si era semplicemente rassegnato a convivere con quel ginocchio traditore.

 

Quando sarebbe tornato Sesshomaru. In verità, più del quando, lui era stuzzicato dal pensiero del come. Non si concedeva l’ipotesi che rientrasse a palazzo da solo, non dopo che lui stesso aveva portato via Alessandra-san e dato precise istruzioni su chi dovesse sostituirlo durante la sua assenza. Tuttavia, quantificare il tempo, soprattutto accostandolo a Sesshomaru, rasentava un calcolo impossibile. Un ciclo lunare, forse due. O anche di più. Il tempo necessario, forse sarebbe stata la risposta adatta. Necessario per qualunque cosa il Principe volesse fare o scoprire. Ma non poteva darla, quella risposta. Nemmeno a Kyoko. Perché poteva significare il pericolo di voci che serpeggiavano nella corte e che sarebbero potute andare a ravvivare il fuoco del malcontento e dell’insoddisfazione che già aleggiava a palazzo.

 

Non erano piaciute le decisioni Sesshomaru. Dai commenti che aveva raccolto e dalle conversazioni che, più o meno involontariamente, aveva ascoltato sembrava palese che la strage compiuta da Sesshomaru per ripristinare la sua autorità fosse stata accettata quasi con compiacimento. Un Principe che non si fa intimidire dai legami di palazzo ed è capace di punire per il mancato rispetto è certamente capace di tenere a freno la Famiglia e di presiedere il Consiglio. Ma il motivo non aggradava, così come il fatto che si fosse nuovamente allontanato da palazzo in compagnia della ningen e avesse delegato il governo all’hanyou. Meglio un solito inetto leccapiedi come Jacken che la prova vivente dell’infamia che il loro Clan portava. Tuttavia, Kumamoto si era compiaciuto che nessuno avesse reagito quando avevano comunicato la notizia. Le lingue di fuoco che ancora rosseggiavano sullo sfondo erano un’eloquente promessa della sorte che aspettava chi non avesse rispettato il volere di Sesshomaru-sama. Da parte sua, cercava di guidare le mosse del giovane hanyou senza fargliele pesare. Inuyasha aveva l’orgoglio indisponente di Inutaisho, cui si doveva sommare un’endemica abitudine alla diffidenza. Aveva imparato a non fidarsi mai, di nessuno. Forse nemmeno degli amici, e questo era un bene. Ma rischiava di confondere la prudenza con la paura, e questo non era affatto un bene. Ma d’altra parte, doveva sentirsi profondamente spaesato ad aggirarsi per stanze che avrebbe dovuto conoscere e che invece gli risultavano estranee se non ostili. Inutaisho era scrupoloso nelle sue mansioni e Sesshomaru aveva fatto convergere in sé la precisione del padre e il rigore della madre. Inuyasha, invece, era insofferente. S’impegnava, ma erano più gli ostacoli che le riuscite e il conseguente peso di inadeguatezza diventava giorno dopo giorno più pesante. L’houshi e Koga cercavano di aiutarlo, come potevano, ma il più delle volte erano solo il mezzo per alleggerire la tensione. Miroku-sama, per quanto istruito, non conosceva nulla del loro mondo, e Koga assomigliava troppo a suo padre Hidoshi nella consueta allergia a tutto ciò che avesse a che fare con le scartoffie. Con una spada in mano o semplicemente gli artigli e le zanne era capace di smuovere mezzo Nihon, ma i trattati e gli accordi li demandava più che volentieri.

 

Kumamoto rigirò lentamente la tazzina da tè. Vedere Sesshomaru montare Ah-Un con Alessandra fra le braccia, vedergli quello sguardo sicuro, determinato anche nella consapevolezza della pazzia, dell’errore, se proprio voleva chiamarlo così, che stava per commettere, assicurargli le katana alla sella e sfiorargli una spalla. Una sensazione già provata, assieme ad un grumo di saliva fermo in gola. Perché per un istante si era ritrovato in un crepuscolo di molti secoli prima, ai limiti dell’jinmaku mentre cercava di far ragionare Inutaisho. Lui, Hisdoshi e Morigawa. Impotenti davanti alla ferma volontà del Principe dell’Ovest, a quella sicurezza che a volte paventava un’arroganza che era esasperata copertura. C’era una donna fra le braccia di Inutaisho. Una yasha che cercava di nascondere il proprio aspetto in un’anonima corazza da soldato. C’era la bellezza pura di Saiyuri, con Inutaisho. Quando quel nome ancora non esisteva; quando quel nome non era ancora stato necessario. La foga di Inutaisho nelle sue argomentazioni; quella foga che non era solo esuberanza giovanile, ma ferma convinzione di essere nel giusto. Che fosse giusto scappare con lei; rinnegare se stesso e il suo nome, se fosse stato necessario. Ero costato molto, quel suo colpo di testa. Ma la cosa che più aveva sorpreso era stato che Saiyuri accettasse. Per un motivo forse un po’ strano, ma pur sempre per il suo motivo.

E in Sesshomaru aveva rivisto la stessa determinazione oscurata da un’ombra di timore. Inespresso e insieme presente. La consapevolezza di sapere cosa si vuole fare, cosa si sta facendo, e non volersi fermare a chiedere perché. Chissà se Sesshomaru conosceva i retroscena dell’unione dei suoi genitori. Forse gli sarebbe servito, o forse ne era già al corrente e si limitava ad ignorarla.

 

Quando sarebbe tornato. Picchiettò con l’artiglio la ceramica sobria. Non aveva certezze per dirlo, ma prevedeva non prima dell’autunno. E lui ormai si era rassegnato all’idea di restare a Nishi ancora per dei mesi. Avrebbe mandato Homoe nel loro palazzo di Kita appena possibile. Se ne sarebbe separato con un po’ di rimprovero, ma era la soluzione ideale. I Signori del Kansai, e Shin in particolare, sarebbero stati costretti a rimanere ancora a lungo. E la situazione poteva diventare pericolosa. E spiacevole. Soprattutto spiacevole. C’era una strana complicità fra l’erede del Kanasi e sua figlia. Una complicità che poteva rabbuiarlo; anche se a malincuore.

Vagò distrattamente per i contorni del giardino e si lasciò catturare dalle sagome in lontananza. Homoe e Shin, probabilmente; o forse l’houshi e la taijya.

 

Homoe-hime-san è davvero una goccia d’ambra. Dovete esserne fiero, Kumamoto-sama”

 

Kumamoto inclinò appena la testa. Homoe gli ricordava in modo doloroso e assieme piacevole Tansho; il viso pallido e gli occhi d’acciaio. Gli ricordava quello che aveva perso per una sua stupida lontananza. Homoe era tutto quello che gli restava. Oltre a Sesshomaru; oltre al suo piccolo principe. Al figlio del suo più caro amico; quel demone che, lo aveva promesso, avrebbe visto crescere e cercato di aiutare come meglio era in suo potere. Homoe invece era il suo orgoglio; un orgoglio pieno e insieme velato di dispiacere. Perché adesso non poteva più lasciarla libera; perché doveva proteggerla e impedire che qualcos’altro le facesse del male. Soprattutto doveva impedire di essere lui a farle del male.

 

“Shin-san mi ha parlato di lei. Con entusiasmo. Non pensate…”

 

“No, Kyoko-sama.

Non fatemi pensare a quello che voglio e non posso

 

Kyoko si morse forte il labbro. C’era rassegnazione, quasi dispiacere, nella voce di Kumamoto. E gli occhi si erano chiusi in un gesto impotente. Adesso, osservava di nuovo, la testa appena piegata, le figure scure contro la luce che andava intensificandosi. Homoe e Shin. Sarebbe stato bello; molto bello. Sarebbe stata quasi una speranza mai realmente calibrata. Quando Morigawa non aveva ancora tradito. Allora, con Shin che appena gattonava, in una notte di tarda primavera, si era abbandonato a quelle sciocche fantasticherie. Il suo primogenito aspettava solo il battesimo delle armi, e lui cercava una nuova compagna. Senza realmente metterci molto impegno, ma nemmeno disdegnando l’idea. Sorrideva al pensiero di un altro cucciolo a riempire il silenzio del palazzo di Kita. Atshushi non sembrava contrario all’idea di una nuova madre e la possibilità di avere fratelli, anche maschi, che forse avrebbero potuto rivendicare a il titolo non lo sfiorava minimamente. Tansho era riuscita a catturare la sua attenzione, a interessarlo, e soprattutto era riuscita a non distruggere il ricordo della madre dalla mente di Atshushi. Gli aveva dato due figli: Homoe e Yosen. E con la yasha si era riaffacciato il desiderio che forse, un giorno, il Clan di Kita e quello del Kansai sarebbero stati uniti. Un giorno naufragato in una battaglia contro un amico.

 

Adesso. Adesso forse si potrebbe riprendere quel progetto. Kyoko era rimasta sul vago, ma lui stesso ne aveva sentore. Shin apprezzava Homoe; l’apprezzava forse molto più di quanto dicesse o mostrasse. Eppure. Eppure Kumamoto sapeva quasi con rassegnazione che nulla era più così semplice. Non si preuccupava del fatto che i Principi del Kansai in quel momento fossero semplici prigionieri di Sesshomaru-sama. Una questione facile da risolvere, soprattutto dal momento che l’artefice dell’offesa, Morigawa, era morto. Non avrebbe avuto senso accanirsi sugli altri membri del Clan che gli si erano dimostrati, a sorpresa, se non fedeli, almeno favorevoli. Shin, non lo si poteva dimenticare, aveva anche combattuto con Inuyasha e gli altri youkai a difesa del palazzo. Un palazzo di cui avrebbe potuto volere e facilitare la caduta. Nella confusione creatasi, approfittando dei pochi uomini a difesa, confidando nella conoscenza forse generale ma anche passabile e sufficiente della pianta dell’edificio avrebbe potuto spalancare la porta con una certa facilità. Avrebbe; ma aveva preferito la battaglia, aveva preferito mettere a repentaglio la sua vita ancora debole e fidare in un corpo ancora in via di guarigione che tradire. Ecco: tradire. Era il termine migliore. Forse una fiducia che Sesshomaru gli aveva accordato quasi senza consapevolezza; forse semplicemente la gentilezza mostratagli da Alessandra, Yaone e Homoe. Soprattutto Homoe. Kumamoto socchiuse gli occhi. Sua figlia era sempre stata ribelle, soprattutto per la compagnia vivace e vitale dei fratelli. Non si era stupito molto quando era entrata con Shin nella sala del consiglio; un passo dietro di lui, ma gli occhi, i suoi occhi d’acciaio, alzati a sfidare i presenti: ci provassero, a metterla alla porta perché yasha. Anche lei aveva artigli e zanne; e sapeva usarli.

 

Kumamoto era stato quasi sollevato che tutti si concentrassero sul Principe del Kansai e ignorassero lei. Non era sicuro che si sarebbe piegata ai suoi richiami e forse sarebbe arrivata a sfidare anche l’autorità di Sesshomaru-sama. Però il vederla lì, il riconoscere il modo deciso di atteggiare la testa, le labbra appena inclinate in un mezzo sorriso; tutto il suo aspetto lo avevano catapultato a molti anni prima, quando Homoe gli aveva chiesto con decisione irremovibile di scegliere: accettare o cacciarli. C’era un altro uomo, quella volta, al fianco di Homoe. Un uomo diverso da Shin, per molte cose. C’era un ningen, quella volta, con Homoe. Un semplice ningen che aveva imparato a non tremare davanti a loro youkai, che aveva scoperto che la convivenza con i demoni può essere piacevole, piena, intensa. Certamente diversa. Diversi i ritmi cui adattarsi, diverso il modo di scandire l’esistenza, diverse le priorità. Era un semplice soldato, quel ningen. Un ragazzo neanche diciottenne, senza molta istruzione e con un’ingenuità quasi infantile. A Kumamoto non era importato molto cosa fosse quel ningen, non gli era interessato nemmeno che fosse un ningen. Homoe era felice con lui, di quella felicità discreta e totale che si percepiva attraverso i suoi gesti.

 

Non si era ribellato, opposto e non aveva cercato di sabotare nulla. Il ningen era diventato il compagno di sua figlia e aveva sempre saputo rispettare loro e conservare il suo posto. Era disponibile, ma non si arrischiava a intervenire nelle questioni di palazzo senza essere direttamente interpellato. Essere il compagno di Homoe non gli aveva mai fatto dimenticare che erano diversi, profondamente diversi. Kumamoto si lisciò il mento. Suo genero usava spesso quei termini: consorte, sposo, marito. Lui non li capiva. Fra loro demoni non esistevano formule simili. C’era il possesso, la consapevolezza di essersi legati a un compagno, ma nulla di più. C’era un rito anche fra loro youkai, ma cambiava per stirpe e Clan. Ed era solo il modo apparente di comunicare un qualcosa che poteva esistere da tantissimo tempo; semplicemente una tappa, un passaggio nemmeno necessario. Nessuno obbligava un Principe a comunicare ufficialmente le proprie nozze; gli si chiedeva di presentare l’erede con la compagna. Solo quello. E solo i Principi. Solo per loro valeva la scomoda, e per fortuna ovviabile, incombenza del rito. Gli altri demoni niente. Erano legami che costruivano senza preoccupazione e l’unico elemento distintivo era l’odore nella compagna che virava leggermente. Nulla di particolare, in definitiva.

 

Sospirò e si passò una mano sull’occhi cieco. Non era andato come aveva previsto; molte cose non erano andate come aveva immaginato e sperato. Inutaisho era stato più bravo di lui, in quello. Aveva sistemato tutto come se già sapesse che sarebbe potuto morire. Così, da un giorno all’altro. E quando Inuyasha stava per nascere aveva già stabilito tutto. Le sue solite soluzioni a metà fra lo scherzo e il cervellotico; qualcosa che avrebbe comportato molto e avrebbe segnato l’equilibrio fra i due fratelli, già molto incerto, ma che Inutaisho riteneva necessario. Un suo personalissimo modo di riparare alla sua assenza negli anni. Soprattutto verso Sesshomaru.

 

Jacken barcollava in fondo alla piccola altura, cercando di correre e agitando il bastone Ninto. Doveva essere preoccupato a giudicare dal modo in cui si dimenava. Da quando Sesshomaru-sama aveva lasciato la reggenza a Inuyasha, il demonietto passava le ore a girare in tondo sudando freddo e continuava a guardare il cielo nella direzione in cui il suo signore era scomparso. Sperava sempre di vederlo tornare; e imprecava e malediva sottovoce la sua decisione. L’hanyou non era pratico di faccende di palazzo e rischiava di combinare un danno dietro l’altro. E lui già si sentiva sulla pelle le unghie del suo signore e le parole sibilare leggere a incolpare lui di tutti i problemi venutisi a creare. Avrebbe potuto cercare di controllare meglio la situazione, ma Inuyasha era una testa calda, e per quanto si mostrasse disposto a farsi insegnare, non accettava minimamente che a farlo fosse lui.

 

Kumamoto si alzò con un gesto stanco. Le chiacchiere stridule di Jacken gli strapparono un sorriso. Elencava catastrofi e disperava per la sua imminente morte, ma probabilmente tutto si sarebbe risolto nel solito sbuffo di fumo. Accennò un saluto a Kyoko e si diresse verso il palazzo. Una sottile sensazione di piacere nel corpo, all’idea di poter dimostrare a Sesshomaru che suo padre non aveva fatto un errore e che Inuyasha era capace di meritarsi la sua piena fiducia.

 

 

 

*****

 

 

 

Lo aveva trascurato.

In quell’ultimo periodo lo aveva lasciato languire in un angolo della stanza. Non se ne era dimenticata; non avrebbe mai potuto dimenticarsene. Ogni giorno si riprometteva di trovare il tempo, il giusto tempo, da riservare anche a lui. Come era giusto che facesse. Ogni sera preparava tutto l’occorrente e si addormentava pregustando il piacere che avrebbe avuto nell’occuparsi di lui. Pochi minuti o anche ore, se fossero necessarie. Dipendeva da quello che voleva fare. A volte bastava poco, una lisciatina o qualche accorgimento veloce; altre era necessario togliere tutto, accarezzare ogni parte e poi rivestire. Certe volte ci volevano molte ore. Ore bellissime, piacere liquido e puro. E non le interessava la fatica che ci voleva; non le interessava il sudore che le scivolava sulla pelle accaldata e le labbra che diventavano secche. Se era sicura che nessuno sarebbe venuto a disturbare, a volte osava togliere lo yukata e offrire il seno protetto da una fascia al refolo di vento che spirava negli appartamenti del Principe. Le stanze di Sesshomaru dove erano all’alloggiati erano a Nord-Est, e verso sera c’era sempre un sottile filo d’aria che serpeggiava malizioso fra le listelle di bambù e le shoji socchiuse.

 

C’era silenzio, nelle prime ore della sera, in quelle stanze. Un silenzio pieno che ti invade la testa e ti inviterebbe a lasciarti scivolare sull’engawa calda e socchiudere gli occhi, lo yukata mollemente allacciato e la pelle rilassata aspettare con placida impazienza quel sottile filo d’aria correre lungo le gambe, risalire fino al ventre, dentro e sotto la stoffe e uscire sul volto, dal basso, spezzandosi appena sulla linea del mento. Magari con lui accanto; per darti sicurezza. Basta allungare la mano e lo puoi toccare; risalire lungo il contorno ancora un po’ caldo e bagnato, scivolare nell’incavo e alzare la mano fino a sprofondarla nel morbido.

 

Lo ha immaginato tante volte. E ogni volta si riprometteva di farlo. Prenderlo fra le braccia e stringerselo al seno. Se ci riflette, è un po’ innaturale l’idea di averlo di fronte. Di solito è alle sue spalle, e scende spesso a carezzarle i fianchi, in uno sfiorarsi più o meno discreto. In base alla situazione. Ormai ci ha fatto l’abitudine; non cerca nemmeno più di allontanarlo. Sarà infantile e stupido, ma le comunica un senso di protezione. Di naturalezza. Sono anni che è alle sue spalle; costante. Protettivo. Rassicurante.

 

Ma quegli ultimi mesi erano stati davvero pieni, e lei si era vista costretta a diradare le attenzioni che gli rivolgeva. Averlo sempre accanto non era sufficiente. Anche un buon amante si stanca, se non gli presti le dovute attenzioni. E per questo si sentiva in colpa. Prima lo costringe a continue battaglie contro nemici che nemmeno conosce e che con lei non hanno nulla da spartire. Sono demoni, va bene. E lei è stata cresciuta per combatterli. Ma con altri uomini, con altri ningen. Non ha mai ipotizzato di trovarsi coinvolta in una guerra fra youkai, con regole che non conosceva, abitudini, percezioni, situazioni contingenti che la spiazzavano e la mettevano in agitazione. Lui c’era sempre; alle sue spalle o al suo fianco. Pronto. Servizievole.

Ma non basta a restituire la normalità. Qualcosa è cambiato. Sango lo percepiva chiaramente. Uno sterminatore non dovrebbe interessarsi troppo a chi uccide. Si finisce per lasciarsi attrarre da quello che si caccia, si rischia di restare imprigionati nei meandri di un mondo alieno e affascinante: lo stesso mondo attraverso occhi diversi.

 

Forse è semplicemente una scusa. Perché non è stata la guerra condotta sotto Sesshomaru a costringerla a riflettere. L’ha solo obbligata a fermarsi a pensare seriamente. L’unica certezza che ha. Non è stato con Sesshomaru che ha iniziato a vedere i demoni sotto una luce diversa; e stato prima. Quando ha conosciuto Inuyasha. Morse l’interno della guancia e soffocò uno sbuffo quasi divertito. Una sterminatrice e un demone, un mezzo demone, che se ne vanno a braccetto per Nihon. Inuyasha che scherza con lei, che la protegge, che le urla contro quando è arrabbiato e che raggela delle sue occhiatacce. Lei che si lascia andare, che accetta quella compagnia innaturale, dimenticando le armi che porta nascoste nel kimono, dimenticando gli insegnamenti che ha ricevuto. Sistemò una ciocca di capelli. Gli insegnamenti di suo padre sono una faccenda complicata. Sono ben saldi nella sua mente, e scorrono veloci in ogni duello; ogni arguzia, ogni strategia, ogni soluzione. Tutto ben ordinato e pronto ad essere messo in pratica, a correre in aiuto suo e dei suoi amici. Ma fra gli insegnamenti di suo padre non c’era anche quello di non fidarsi dei demoni? Sango sospirò. Sì; c’era. Ed era il primo che avesse mai ricevuto. Non fidarsi dei demoni, a prescindere dalla loro natura. Un demone è subdolo, un demone può ingannare. E un ningen è solo un pasto di carne prelibata, una preda forse nemmeno più difficile di un cinghiale o di un cervo. Diffidate dagli youkai, ripeteva sempre suo padre; soprattutto dai taiyoukai. Perché ci sono vari livelli demoniaci, anche se le varie ripartizioni non sono chiare nemmeno a loro sterminatori. C’è solo la coscienza che gli youkai con sembianze antropomorfe sono i più potenti e i più pericolosi.

 

Prima di incontrare Inuyasha, non aveva mai visto un demone in forma umana. Ne aveva sentito parlare nei racconti al villaggio: creature meravigliose, di una bellezza che ammalia, selvaggia e distaccata insieme. Hanno dita che terminano in artigli, orecchie appuntite e segni del loro potere, della loro appartenenza ad un’altra realtà sul corpo; e per questo sono letali. Perché racchiudono in sé una sostanza, un’appartenenza che l’uomo non è destinato a conoscere, che non gli appartiene. Quando era bambina, Sango ascoltava quelle storie e non capiva. Suo padre e gli altri uomini del villaggio cacciavano i demoni; e allora perché nelle voci che raccontavano di loro, di quegli youkai superiori, c’era qualcosa che sembrava rispetto più che folle terrore? Negli altri villaggi il solo nominare gli youkai scatenava il panico e la disperata ricerca di un’arma per difendersi durante la fuga. Nel loro no. Al villaggio degli sterminatori era diverso. E da bambina non capiva come un demone che ha aspetto umano può far paura.

 

Lo aveva capito. Con il tempo lo aveva capito. Il terrore le era precipitato addosso all’improvviso, in una giornata uguale alle altre; e aveva l’aspetto di un Kami sceso in terra. Si asciugò il sudore che colava dalla fronte; il pomeriggio era afoso e pesante, assieme al rimbombo delle cicale. Sfilò con un gesto secco e stizzito la parte alta del kimono e stiracchiò le braccia. Non c’era nessuno negli appartamenti del Principe e prima che gli altri rientrassero avrebbe finito quel servizio che stava rimandando da troppo tempo. Arricciò le labbra compiaciuta e distese le mani, sfiorando appena la stoffa. Piacevole, come sempre. Raccolse i capelli in un nodo scomposto e improvvisato, mentre un brivido le correva lungo la spina dorsale. Lo aveva fra le sue braccia; abbandonato. Bello e pericoloso.

 

Inclinò appena la testa. Anche Sesshomaru, ammise a sé stessa con un leggero rossore, era bello. Molto bello e altrettanto pericoloso. Quando lo aveva visto apparire davanti al loro piccolo gruppo, all’improvviso, con l’aria che crepitava per metri elettrizzata dalla sua youki, aveva sentito le gambe tremare e si era chiesta cosa ancora la tenesse in piedi. L’abitudine, si era risposta. L’abitudine e l’istinto di sopravvivenza. Perché se quel demone avesse attaccato l’unica possibilità, minima e recondita, di salvezza risiedeva nella fuga; e nel fatto che avesse più prede a disposizione. Un pensiero orribile, che l’aveva sorpresa e trafitto la testa in modo doloroso, ma pur sempre un pensiero umano. Davanti a quel demone che li fissava con ostinato disgusto e indifferenza, Sango si era ricordata qualcosa, mentre era incapace di abbassare gli occhi da quel volto troppo pallido, dai capelli bianchi e dalla forza che sembrava emanare. Devastante. La sua memoria aveva vorticato e trillato come un campanello d’allarme. C’era qualcosa che non doveva fare. C’era qualcosa che non si doveva assolutamente fare se un taiyoukai appare minaccioso, se lo incontri. E lei non lo ricordava. Non riusciva a ricordarlo. Restava immobile mentre gli altri parlavano, mentre Inuyasha sbraitava e vomitava insulti. Non ricordava nemmeno per cosa avessero iniziato a battersi. C’entrava Tessaiga, ma quella era più una consapevolezza dovuta all’abitudine del pensiero che altro. No; c’era qualcosa che la sua testa non ricordava. Ed era importante. Dannatamente importante.

 

Se ne era ricordata all’improvviso. Nell’istante stesso in cui Sesshomaru aveva alzato i suoi occhi su di loro. Occhi spaventosi: l’iride d’oro che sembrava risplendere attorno alla pupilla affilata. Occhi da predatore, occhi ferini aveva pensato. E aveva subito distolto lo sguardo concentrandosi sullo spicchio di luna sulla sua fronte. Perché un demone non va mai fissato negli occhi; perché se lo guardi in quelle iridi divine sei perduto. Ti trascinano in un mondo che ti annulla, ti fanno impazzire. Sango aveva avvertito il brivido di terrore scuoterla prima ancora di realizzare che stava per fissarlo negli occhi. Lo aveva avvertito e si era tramutato in una scarica quando lo aveva sfiorato. Una scarica che l’aveva voluta far fuggire, che l’aveva supplicata di scuotere il suo corpo e fuggire. Era rimasta, invece. Era rimasta e aveva evitato in ogni modo di guardarlo negli occhi. Perché rivedeva il vecchio che abitava in una capanna a ridosso della palizzata del suo villaggio. Era stato uno dei migliori sterminatori della loro storia, e poi era impazzito. Era uscito per una missione, una missione semplice, ed era tornato così: invecchiato di trent’anni, con i capelli bianchi e gli occhi sbarrati. Aveva uno sguardo fisso che ti faceva compassione e terrore. Perché sembrava rincorrere con disperato bisogno un qualcosa che lo terrorizzava. Restava ore ed ore seduto immobile, mentre il tempo passava sulla sua pelle e si depositava in rughe sempre più pesanti e profonde. La pelle raggrinziva e virava al grigio e lui diventava fragile come una foglia secca. Sango lo osservava ogni tanto dall’angolo di una casa. Lo vedeva muovere la bocca, ma non pronunciava nulla. Però ricordava di aver sentito il fruscio del vento e il rimbombo del temporale in giornate immobili; lo sciabordio dell’acqua che precipita dall’alto e un silenzio che le mozzava il fiato anche se era circondata da persone. E il vecchio continuava a muovere le labbra e a fissare il vuoto. Aveva gli occhi bianchi, senza pupilla o iride. Sembrava che il bulbo oculare si fosse rovesciato come quando si sviene e non sapesse più come raddrizzarsi. Gli uomini al villaggio dicevano che era cieco, ma lei non ci credeva. Perché anche quando restava lontana, nascosta dall’ombra della casa, il vecchio girava la testa ed era come se la fissasse. Come se potesse vederla. No. Sango non credeva che fosse cieco. Solo non vedeva più come lei. Non vedeva più come fanno i ningen.

 

Aveva parlato col vecchio, una volta. Una delle rare volte in cui la sua bocca non era solo aperta ma emetteva davvero un suono e le labbra non masticavano aria. In una giornata d’inverno, con il cielo nero e basso e una pioggia fredda che scendeva lungo tutto il corpo. E il vecchio restava lì, sotto quel gelo, con addosso solo un fundoshi e la pelle quasi trasparente e livida. E non tremava. Sango si era seduta davanti a lui e aveva ascoltato la storia. Una storia che solo dopo aver incontrato Sesshomaru aveva saputo vera. Il vecchio sterminatore non aveva nemmeno trent’anni e aveva visto uno youkai. Negli occhi. Ed era successo qualcosa; si era sentito risucchiare, esplodere in mille particelle con un dolore straziante e al contempo avvertiva il corpo premere sempre di più a terra. E gli occhi del demone erano due fessure che lo fissavano; giganteschi. Sempre più grandi in un mondo, in un cielo che vorticava troppo veloce. E c’era luce. Tantissima luce. Una luce che ti fa tremare e ti ispira il desiderio della fuga. Era inquietante, quella luce. Perché non aveva ombre; nemmeno la più piccola ombra. Se alzavi la mano non riuscivi a schermarti il viso; se chiudevi gli occhi non se ne andava. Restava ovunque. Ed era terribile.

 

Sango aveva pensato ad un discorso sconclusionato, al delirio di un uomo reso folle da un qualcosa di terribile. Incontrare uno youkai, un demone superiore, non è cosa da poco, e probabilmente adesso il giovane-vecchio sterminatore scontava quel prezzo. Eppure. Eppure quando aveva incontrato Sesshomaru per la prima volta, aveva sentito il desiderio di fissarlo negli occhi, di esserne risucchiata e provare. Vedere se davvero il vecchio del suo villaggio era pazzo o aveva visto qualcosa che lo aveva reso diverso. Né pazzo né saggio ma solo diverso. Si era fermata in tempo. Qualcosa nella sua testa l’aveva costretta a fermarsi. Istinto di conservazione si era detta. Ma c’era la curiosità. C’era quel rimasuglio di voglia di sapere, di scrutare occhi alieni e diversi e scoprire se si può provare a capire cosa sono i demoni.

 

Sorrise a se stessa e strappò la stoffa che aveva incontrato. Era fastidiosa e non serviva più. L’avrebbe sostituita dopo. Adesso voleva vederlo perfettamente nudo. E gustarsi le linee arrotondate del suo contorno. Sesshomaru; e i suoi occhi. Gli occhi di un demone. Con il tempo, era divenuta un’ossessione. Desiderava sapere se davvero fissare uno youkai porta la follia; cosa c’è dietro le pupille sottili e l’iride innaturale. Ma c’era anche la paura; la consapevolezza che, se davvero si impazzisce, non lo avrebbe mai saputo. Sarebbe passata dalla lucidità alla follia nello spazio di un respiro, e il ritorno, se mai avesse avuto coscienza di dover tornare da qualche parte, si sarebbe perso. Chiuso senza alcuna possibilità. No, si era detta. Era solo un capriccio; uno stupido capriccio troppo pericoloso. Come era pericoloso il desiderio di poter fissare la mano destra di Miroku. Si passò uno fazzoletto umido sul viso. Stava sudando; un po’ troppo forse. Lisciò le labbra e reclinò la testa. Era nuvoloso, quel giorno. Sbuffi grigio-bianchi si rincorrevano pigramente e qua e là qualche sprazzo di azzurro abbagliante.

 

Sua madre le ripeteva sempre che non è bene per una sterminatrice la curiosità. Può farti diventare avventata, e in combattimento ci vuole autocontrollo, non sconsideratezza. È pericolosa la curiosità, ma è estremamente piacevole. Un brivido caldo che ti afferra la pancia e preme. Sembra un pungo. Un pungo che ti fa un male strano, che sale lentamente nel petto come un formicolio e si scarica nelle braccia che si contraggono appena e nelle gambe assieme instabili e pronte. È bella, la curiosità. Ed è dolorosa. Sango lo sapeva bene. Dietro la curiosità c’è la voglia di conoscere, e sapere troppo fa male. Può fare molto male. Si coprì gli occhi e massaggiò un po’ le palpebre. Naraku le aveva offerto una verità fasulla, di comodo. Una verità che sapeva di subdola carità. Lo aveva avuto davanti agli occhi per ore, e non era riuscita a pensare ad altro che al modo di trattenere le forze che scivolavano via. Se solo quella pelliccia l’avesse incuriosita; se solo si fosse chiesta il perché di un brivido improvviso. In seguito, aveva provato a capire per quale motivo non ci fosse stato niente a metterla in guardia da Naraku. Perché non ci fosse stato un sospetto, un presentimento, un qualcosa che la facesse dubitare. Si era fidata di lui con un’ingenuità disarmante; soprattutto per una sterminatrice. Si era fidata, e tutto le si era sgretolato fra le dita. E la curiosità, la sua onnipresente curiosità, era finita in un angolino della sua testa. Realistica, si ripeteva. Doveva essere realistica.

 

I mesi trascorsi fra i demoni, al palazzo dell’Ovest, però, avevano aperto una falla. Una piccolissima falla, ma sufficiente a lasciar passare di nuovo la curiosità. Le domande, la voglia di parlare, di chiedere, di sapere. Da piccola era curiosa, quasi invadente. Poi, crescendo, era riuscita a mettere un freno alla lingua impudente. Colpa dell’addestramento, si diceva. Aveva imparato così bene a combattere che a volte si dimenticava di essere una donna e che, nonostante fosse una sterminatrice, doveva restare al suo posto, sotto l’uomo. Non era da ribellarsi o accettare. Era così e basta, e Sango semplicemente aveva imparato a giostrare i due lati del suo carattere. Donna quando indossava il kimono; uomo quando combatteva. O almeno doveva essere così nei suoi progetti.

La fascia al seno era un po’ troppo stretta. Era arrabbiata, quella mattina, mentre la stringeva. Arrabbiata, amareggiata e preoccupata. Soprattutto preoccupata. Sesshomaru se ne era andato da palazzo con Alessandra da quasi un mese, e non aveva fatto pervenire alcuna notizia. Non che sperasse che informasse delle condizioni di salute loro ningen, ma almeno una lettera, anche solo poche parole, avrebbe potuto scriverle. Inuyasha però non aveva mai ricevuto niente e davvero sembrava che il demone avesse volutamente tagliato qualsiasi contatto.

 

Rialzò i capelli e s’inumidì il collo sudato. Non le piaceva l’idea che Alessandra fosse sola con lui. Non le piaceva proprio. Aveva paura degli occhi di Sesshomaru, benché, doveva ammettere a se stessa, in quei mesi non aveva avuto mai sentore del fatto che la ragazza corresse pericolo con lo youkai. Erano stati i cortigiani a palazzo a costituire una minaccia continua che era esplosa dolorosa e violenta e le avevano sbattuto in faccia il fatto che lì, a Nishi, lei e i suoi amici erano pressoché impotenti. Strinse forte le fasce che aveva in mano. Si erano divertiti con Alessandra, in un modo che Sango si rifiutava di immaginare. Yaone-san aveva detto che non l’avevano violata. Aveva detto che il suo odore non era cambiato, e quindi era ancora vergine. Per un qualche motivo, si erano limitati ad una tortura psicologica. Non meno dolorosa e facilmente superabile, ma almeno qualcosa li aveva fermati. Si sfiorò il ventre e un brivido le corse lungo la schiena. Un brivido gelido. Dopo la strage che Sesshomaru aveva compiuto, la maggior parte dei demoni evitavano di avvicinarsi a loro o di infastidirli. Sango non si sentiva ugualmente tranquilla e non si muoveva dagli alloggi del Principe né dormiva senza avere accanto un’arma, ma si era accorta della situazione di momentanea tregua che si era andata creando. Con i soldati, aveva scoperto con sua immensa sorpresa, si era ambientata in modo soddisfacente. Alcuni demoni si erano offerti di allenarsi con lei con la katana e si erano rivelati anche disponibili in varie occasioni. E lei rischiava di impazzire per la marea di situazioni diverse che le si stavano accavallando nella testa.

Aveva pensato, in principio, che stessero cercando di ingannarla. Gli youkai in forma umana sono i demoni più pericolosi. La voce di suo padre echeggiava ossessiva nella testa. Ma i demoni non sanno mentire, le aveva detto Kumamoto. Con quel suo modo di fare un po’ sbrigativo e rozzo che le ricordava l’imbarazzo di suo padre dopo che lei era diventata donna. Aveva dodici anni, quando sua madre aveva preso il suo futon e l’aveva portato in una capanna un po’ isolata del villaggio. Sango si era chiesta perché. E perché sanguinasse senza esser stata ferita. Era rimasta in quella capanna quattro giorni. Con l’ordine tassativo di non avvicinarsi agli uomini del villaggio; solo sua madre o alcune donne anziane andavano a farle visita per i pasti. E lei non faceva domande, mai. Per pudore e per vergogna. Il quinto giorno, l’avevano spogliata e l’avevano costretta a farsi un bagno. Era inverno; la neve era alta e l’acqua del torrente gelida. E lei era rimasta immersa per un tempo che le era sembrato infinito, perdendo forza e calore, lasciando che uno strano torpore la invadesse lentamente, assieme al violaceo che risaliva lungo il corpo. Il kimono che aveva indossato e il futon erano stati bruciati. Poi era rientrata a casa come se nulla fosse cambiato, anche se, da quel giorno, suo padre aveva iniziato ad affidarle delle missioni da sola. Dapprima piccoli incarichi, giusto per metterla alla prova; ma via via sempre più impegnativi per affinarne la tecnica. E aveva anche iniziato a parlare di uomini. In modo discreto, come solo suo padre sapeva fare. Un invito a cena, e la raccomandazione implicita di osservare dalle fessure dei paraventi. Ragazzi con cui era cresciuta, con cui continuava ad allenarsi e che suo padre voleva, all’improvviso, che diventassero altro. Adesso sapeva che le stava cercando marito e che l’aveva promessa ad un giovane morto quando lei aveva quattordici anni. E allora aveva fatto un patto con suo padre: doveva lasciarla diventare abile e perfettamente addestrata, e solo allora lei avrebbe accettato un marito. Sango scosse la testa e premette con forza le mani sulle cosce. Ogni progetto era morto con suo padre e il suo villaggio e nel tempo che era seguito aveva cercato solo una cosa: vendetta. Di matrimonio e figli non si preoccupava, anche se ormai era quasi al limite dell’età tradizionale. Se fossero ancora vive, le compagne che avevano al villaggio sarebbero madri già da alcuni anni. La ragazza che viveva accanto alla sua casa; aveva partorito il suo secondo figlio quando lei e suo padre erano usciti per la loro ultima missione. Il secondo figlio, e aveva due anni in più di lei.

 

Si morsicchiò il labbro inferiore, cercando di disfare il nodo che aveva creato senza accorgersene. I demoni non sanno ingannare le aveva detto Kumamoto-sama; e lei non capiva come fosse possibile. Aveva chiesto se non era forse un inganno quello che Morigawa aveva perpetrato verso di loro, se non era un inganno quello che Naraku aveva ordito nei riguardi di Inuyasha e Kikyo, nei loro, nei suoi confronti. Kumamoto le aveva sorriso bonariamente e Sango si era accorta di fissarlo negli occhi. La foga l’aveva tradita e l’avrebbe portata alla pazzia. Si era aspettata da un momento all’altro di sentirsi risucchiare in un incubo e di perdere la percezione della realtà. La stanza sparire e diventare un inferno nero, bianco, grigio. Aveva abbassato la testa e stretto gli occhi; aveva paura, ma non sapeva come nasconderla e come riuscire a dominarla. Aveva sbagliato, ed era pronta a pagare per la sua imprudenza, ma non poteva, dovette ammetterlo, impedirsi di tremare.

 

“Sango-san. State bene? Avete freddo?”

 

La mano che sfiora appena la spalla, con imbarazzo. Artigli che la toccano, che la scuotono dal suo leggero torpore. E gli occhi. Gli occhi (l’occhio) di Kumamoto fissarla con una punta di ironia. Come se avesse intuito, sapesse, il motivo dell’improvviso tremore e volesse costringerla a rivelarglielo in modo chiaro e preciso. Arricciò le labbra. Si era lasciata andare ad un pianto irrefrenabile, davanti a quel demone. Se suo padre lo avesse saputo, avrebbe avuto mille motivi per rimproverarla: mostrarsi così deboli e vulnerabili, soprattutto davanti ad un nemico, anche solo potenziale. Che stupida, era stata. Una vera stupida. Eppure, non aveva sentito alcun imbarazzo o istinto di pericolo mentre piangeva con il viso nascosto dalla mano. Un pianto silenzioso e composto, ma pur sempre un pianto. E le parole che ruzzolano fra i denti, inciampando nei singhiozzi e in piccoli colpi di tosse.

Gli aveva raccontato la sua storia; sua e di suo fratello e del villaggio. Gli aveva raccontato il suo desiderio di uccidere Naraku e la disperazione che l’assaliva ogni volta che si avvicinava la possibilità di recuperare la sfera. Perché avere la sfera significa doverla completare e quindi, di conseguenza, uccidere Kohaku.

Gli aveva raccontato anche del vecchio sterminatore dagli occhi bianchi e delle raccomandazioni di suo padre, del rispetto che aleggiava nel suo villaggio verso gli youkai, i taiyoukai, senza che nessuno ne avesse mai incontrato uno. E Kumamoto aveva annuito assente, con le labbra che appena accennavano un sorriso. Di chi sa, di chi conosce qualcosa e prova una punta di piacere nel torturare il suo interlocutore. Nel non svelarli subito la verità, tutta la verità.

 

Le aveva alzato il viso e l’aveva costretta a fissarlo. A lungo. In quegli occhi dalla pupilla allungata che guizzavano vivi nel sottile reticolato di rughe. Aveva sorriso, Kumamoto. E Sango si era ritrovata calamitata dalla strana luminescenza che invadeva l’iride, partendo dal centro, dalla pupilla, allargandosi in rivoli sottili prima bianchi, poi azzurri e infine verdi. E aveva visto. Un mondo distorto e deformato; era stato come essere immersa nell’acqua e guardare su, verso l’alto, la luce che si infrange in chiazze. Bruciano, scappano, si disperdono. E restano comunque. Anche sott’acqua si può vedere; e Sango riusciva a vedere attraverso quello strano, inquietante velo che le aveva ricoperto gli occhi. Vedeva le stanze del palazzo; vedeva se stessa, houshi-sama, Inuyasha e Kagome. Li vedeva e vedeva qualcosa che non afferrava, ma che le scorreva nel corpo. Brividi nello scorgere il viso di Miroku o la sensazione di un respiro a pieni polmoni davanti a Kagome. Poi. Le mura e la piana della battaglia. Così nitida che avrebbe potuto dire sì, ero anche io là, ho combattuto anch’io contro gli youkai di Morigawa. Una sensazione piena, assoluta; ma nella mente di Sango il grido era un no lungo e ripetuto, una cantilena lenta lenta che cresceva di intensità con il tempo, con il ricordo sempre più spesso di non averci mai messo piede, in quella pianura. Poi. Poi Naraku, e il respiro si spezza. Dall’odio, dal rancore, dalla rabbia. Dal terrore. Perché sotto la corazza, Sango distingue corpi fusi in una massa palpitante e sanguigna; intuisce la sfera e la ignora; prosegue verso un punto, un lumicino, che le sorride quasi per schernirla. E in fondo trova il buio. E la sensazione di molle e pesante e opprimente e soffocante. Come sprofondare nel fango; come essere immersi nelle risaie e muovere e tendere i muscoli con dolore e disperazione per smuovere i piedi nudi da un fondo che non si sente, che sfugge ad ogni contatto. Rimane solo la sensazione di viscido e di appiccicoso, di infido.

Poi. Una nuova consapevolezza ad investirla. Un pensiero mai espresso, mentre il fango diventa mani e lacci e lingue e capelli che aggrovigliano e stringono e bloccano. Sì, bloccano. Lasciandoti lì, fermo. Senza poterti muovere, senza poter fuggire. Ma anche senza trascinarti, senza distruggerti. Semplicemente, ti fanno dibattere come una preda. Una falena dalle ali bruciate dall’andon; una farfalla nella tela del ragno.

 

Sango si era ritrova inginocchiata a terra, a fissare incredula le sue mani sconvolte da spasimi, a ripescare il ricordo di quelle stesse mani che correvano su tutto il suo corpo per togliere ombre della mente. Nient’altro che un pensiero inesistente, un’illusione. Ma i miraggi non ti restano addosso in quel modo; di un sogno ricordi poco, quasi nulla; e non ti piantano nella testa un pensiero, una consapevolezza. I sogni ti spaventano, ma farti conoscere qualcosa, quello no. Le miko possono avvertire qualcosa nel sonno; possono scorgere avvisaglie del futuro o i Kami-gami possono inviare loro segni di ammonimento o di guida. Ma lei. Sango non era una miko, non aveva alcun potere particolare. Sango era solo una taijia; esperta, temprata, ma normale. E allora da dove veniva quel dolore sordo e profondo, quella fissazione ossessiva che le martellava la testa? L’idea che Naraku fosse altro. Fosse qualcosa da non sottovalutare. Sì, certo, lo aveva già pensato; ci aveva pensato più volte, in verità, mentre parlava con Miroku. Ma quella sensazione era altro. Era un seme, piantatole dentro a viva forza e che stava iniziando a mettere radici. Sango sentiva quasi le sottili fibre vegetali farsi largo dentro di lei, mangiare un pezzettino alla volta la sua carne per costruirsi una nicchia in cui crescere protetto. Prima vengono le radici; poi sarebbero venute le foglioline verdi e tenere, quelle più fragili. Bisogna proteggerle, quelle foglioline. Sono delicate, molto delicate. Quando era piccola, sua madre metteva le pianticelle di riso nella stalla, accanto alla paglia secca. Diceva che la stalla è sempre calda, e che il riso cresce bene e diventa forte; così, quando sarebbe arrivata la stagione, sua madre avrebbe legato i capelli nel tabane-gani, avrebbe indossato shitagi, kosode e habaki e, con il cesto intrecciato e le pianticelle di riso, sarebbe andata alla risaia. E il riso sarebbe cresciuto forte e nemmeno il gelo improvviso lo avrebbe fatto morire.

 

Ma in quel momento, Sango aveva desiderato poterla strappare, quella pianticella che le cresceva nella testa. E già la vedeva albero e si sentiva schiacciare a terra da quel peso estraneo, sconosciuto e assieme troppo grande, troppo intenso per essere sopportato.

Aveva alzato su Kumamoto uno sguardo vacuo, pieno di angoscia, terrore e di un velo di lacrime che restavano lì, incapaci di essere lasciate cadere. Kumamoto si era limitato a socchiudere gli occhi e a lasciare che un fugace sorriso gli attraversasse le labbra. Si era seduto per terra accanto a lei, sull’engawa pesante nel sole del primo pomeriggio di Rokugatsu. C’era un pizzico di malinconia e di attesa, nella sua espressione. Kumamoto aveva intuito il pensiero di Sango, il suo terrore nel distogliere gli occhi in fretta. Troppo in fretta. In quel modo particolare; non per timore fine a se stesso né per rispetto reverenziale. Gli occhi guizzavano sotto le palpebre socchiuse, aveva potuto intuirne il movimenti frenetico e irregolare, lo sforzo di bloccare la curiosità e il desiderio folle, quasi eretico, di tornare a fissarlo. Dritto in faccia, nell’occhio sano che la scrutava con placida attesa. Non si era sorpreso. Sapeva che la ningen era una cacciatrice, e forse solo i cacciatori di demoni conoscevano alcuni accenni ai loro arcani.

 

“Adesso…diventerò cieca?”

 

Sango masticava il labbro, stringendo forte le mani chiuse in grembo. Il panorama aveva ritrovato un suo equilibrio e riusciva a prendere fiato senza che conati di vomito le salissero alla gola. Aveva capito cosa fosse successo, lo aveva capito fin troppo bene, e aveva paura del dopo, di quello che sarebbe venuto. Kumamoto-sama l’aveva costretta a fissarlo negli occhi e aveva fatto qualcosa. Come se fosse entrato nella sua mente, quasi l’avesse violentata inserendosi a viva forza, sradicando un sentire limitato e parziale per sostituirvi il suo, insinuandolo negli spazi che lasciava dietro di se passando. Vedere il mondo attraverso quel filtro innaturale, attraverso la superficie dell’acqua. Sango non era riuscita a reprimere il brivido violento che le aveva attraversato il corpo madido. Si era sorpresa ad avere freddo, in quell’afoso pomeriggio di giugno. Freddo e desiderio di una coperta calda o anche semplicemente del sole sulla pelle rattrappita.

 

Kumamoto aveva riso della sua infantile paura. Del suo modo di sfuggirlo senza realmente andarsene. Sango era curiosa; anche del pericolo. Una caratteristica che avrebbe potuto metterla in situazioni insicure, incerte; ma che, in quel momento, ricordava al generale Euriko e le sue domande discrete. Il modo che aveva di sbirciarlo dai byobu decorati, ritraendosi nell’ombra d’istinto, anche nella consapevolezza di non scomparire, di poter essere fiutata. Euriko era affascinata da lui, dal suo modo diverso di essere. E lo temeva. Ne aveva un timore folle e assieme reverenziale. Lo aveva amato, come un essere umano, una ningen di diciotto anni può amare un uomo, un demone, di età imprecisata. Senza riuscire a capire, limitandosi a obbedire a quello che le diceva. Lo aveva amato; e lo aveva temuto fino alla fine. E aveva temuto Tansho, ben consapevole della differenza che intercorre fra uomini e youkai.

La piccola Euriko. Sango gliela richiamava nell’aspetto giovane e negli occhi grandi, quasi sfacciati in confronto ai loro, sottili e allungati. Era stata la sua terza moglie, Euriko; e gli aveva dato un figlio, un hanyou. Kumamoto si era concesso un respiro e tempo. Doveva rispondere alle domande, tante e silenziose, della taijiya, ma voleva prendere un istante. Lasciare che la mente di allargasse nel passato, ritrovasse il suono di un vagito e lo scalpiccio sul legno. Gli era rimasta solo Homoe, dei suoi quattro figli. E Hoshi era morto che appena riusciva a traballare sulle gambette paffute. Non aveva nemmeno avuto il tempo di capire cosa vuol dire, vivere. Cosa significa essere sospeso fra due realtà. Lo aveva trovato avvolto nelle vesti di Tansho, con il corpicino aperto e un fiotto di sangue rappreso ad imbrattare il solco sulla testa, dove prima si agitava sempre un’orecchietta. E Tansho poco distante, il corpo contro le fusuma frantumate coperto di lividi e ferite. Nudo e discinto, con un buco grande grande nel ventre e la testa spiccata chiusa in una smorfia di orgoglio e furore. Di accusa. Avevo cercato di difendere Hoshi, come una bestia braccata che ormai si sente in trappola. Lo aveva difeso anche se non era stata lei a partorirlo, ma una moglie umana. Tansho aveva odiato Euriko, di quell’odio assoluto e pieno che solo una yasha può sentire. Non è gelosia, frustrazione o dubbio della propria bellezza. E consapevolezza piena e assoluta di non possedere qualcosa. Qualcosa che non si riesce nemmeno a concretizzare, e che esiste. E che Euriko aveva.

 

“Kumamoto-sama”

 

Sango avrebbe voluto urlare.

Perché il silenzio dello youkai sembrava promettere qualcosa di brutto, di pesante e pericoloso. Si era aspettata una risposta immediata, e poi si era ritrovata a scrutare con agitazione crescente il volto del demone, a cogliere il fremito degli occhi sotto le palpebre, a cercare di intuire la modulazione delle labbra quando le avrebbe detto che sì, sarebbe diventata cieca. Perché la curiosità è come una malattia, e alla fine ti lascia debole e incerta. La curiosità si paga, come l’aveva pagato lo sterminatore dagli occhi bianchi. E adesso anche lei sarebbe cambiata. In un qualche modo che non sapeva, osava congetturare. Sperava solo che il dolore svanisse in fretta. Perché una punizione può essere solo dolorosa e Sango sapeva di poter resistere al dolore fisico, ma a quello più profondo, quello che si pianta nella tua testa, nella tua anima e continua a divorarti lentamente, a quello non avrebbe saputo resistere. E si sarebbe ritrovata a urlare con la bocca chiusa e a vedere la sua psiche venir fatta a pezzi mentre il corpo non le rispondeva più.

 

Avrebbe voluto urlare, ma la voce era uscita sottile e gutturale, roca. Mentre la mano aveva avuto una spasmo nell’infruttuoso tentativo di alzarsi in preghiera. Forse pregare uno youkai sarebbe stato stupido, ma se fosse servito a rendere tutto più veloce, più immediato, Sango lo avrebbe fatto.

Kumamoto, invece, le aveva sorriso e le aveva chiesto cosa avesse visto. Una domanda tanto semplice da gettarla nel panico e da farle salire in bocca un sapore amaro di disgusto e rigetto. Cosa aveva visto? Lo sapeva bene: un mondo diverso, un Naraku diverso. Non peggiore o migliore, solo diverso, più profondo. Completo, forse. Forse solo completo era la parola che avrebbe potuto usare. Ma non ci riusciva. Non poteva dirglielo, non trovava voce e forza.

 

“Hai intuito.

Solo questo. Hai intuito per un istante cosa può vedere un demone

 

Quello che può vedere un demone. Sango aveva deglutito a vuoto. E Kumamoto le aveva spiegato che uno youkai non vede come un essere umano. Non sempre. Può cogliere altro, quello che c’è dietro l’apparenza, nel profondo dell’essere. Un demone conosce guardando; non ha bisogno di studio, fatica e di testi. La storia della loro terra i demoni l’apprendono solo vivendo sulla terra, ascoltando voci che nessun ningen riesce più a distinguere. Il canto di gioia della pioggia, il lamento del temporale; il sorriso della neve e l’urlo della tempesta. La saggezza del legno e il tempo sussurrato nella sabbia. Basta che osservino e ascoltino e sanno. Non tutto. Non sono onniscienti. Ma più imparano a scrutare fra i suoni, a distinguerli e differenziarli; più apprendono a spezzare i legami che formano i corpi, le cortecce, le onde del mare, più riescono a penetrare nell’essenza. Un demone sente con i suoi sensi. Solo con quelli. Ascolta. Fondendo tutto in un’unica mareggiata di elementi che diventano subito informazioni. Non sensazioni, non sentimento: conoscenza.

Un demone ha due occhi, come i ningen. Ma ha molti modi di vedere. Può vedere come gli uomini, ma non solo. Ma se vuole che un ningen lo guardi deve osservarlo con occhi di ningen. Occhi simili a quelli di un ningen, non uguali. Perché comunque il sentire è differente.

Altrimenti. Se un ningen incrociasse gli occhi di un demone, gli occhi veri di un demone, acquisirebbe il pensiero stesso dello youkai, quel modo di percepire che è assoluto. Ma resterebbe bloccato in un corpo incapace di reggere il cambiamento. E lo spirito muterebbe, mentre la carne invecchierebbe in fretta, molto in fretta, logorata dal tentativo di ristabilire un equilibrio smarrito.

 

Sango aveva annuito per riflesso. Non era riuscita a comprendere appieno lo spiegazione, ma Kumamoto stesso le aveva detto che non doveva pretenderlo. Per quanto si fosse sforzato di rendere chiaro quel pensiero, non avrebbe mai potuto fare in modo che lo padroneggiasse appieno. Ningen e youkai possono parlare, possono tentare di comprendersi, ma ci sono degli abissi che non si possono colmare. Da parte dei ningen per la loro stessa essenza, per il modo diverso che hanno di concepire; da parte dei demoni per l’assenza di stadi intermedi, per il loro avvertire tutto all’assoluto, senza riuscire a cogliere l’incompleto: o il tutto o il nulla. Il dubbio esiste; ma non è imperfezione. Semplicemente, è l’incastrarsi disarmonico di qualcosa.

 

“Sesshomaru-sama può…ha mai…”

 

Kumamoto aveva solo annuito. Non dipende dal rango del demone; tutti partecipano del medesimo sentire. Loro taiyoukai in modo perfetto e assoluto; e Sesshomaru, nonostante la giovane età, non smetteva di conoscere, di osservare e sentire il respiro antico del mondo. Il suo grido nell’evolversi ciclico che andava scolorando. C’era un monito, in quelle parole incomprensibili. Un avvertimento urlato da secoli ormai: un giorno qualcosa sarebbe cambiato. La loro stirpe non sarebbe mai morta, non si sarebbe mai estinta. Ma non sarebbe stata comunque. Sesshomaru, ma anche suo padre, Kumamoto, Hidoshi e altri demoni avevano sentito e continuavano a sentire quel singhiozzo lento e prolungato, che non aveva origine e si spegneva nell’eco del vento, nell’afa dell’estate, nello scricchiolio dell’autunno.

I demoni non sarebbero morti, ma non sarebbero comunque stati. Ma nessuno, ancora, era riuscito a comprendere davvero quella cantilena continua.

Sesshomaru, da cucciolo, cercava spesso di vedere, di conoscere. Kumamoto lo aveva sorpreso più volte seduto a fissare l’orizzonte, il cerchio dell’acqua che si allarga e scompare, il movimento impercettibile di una foglia. Lo faceva ancora; in ogni istante possibile. Viveva assorbito in quel mondo primigenio; per anni non aveva smesso quel modo di fissare la terra e i ningen. Gettando in loro terrore e sgomento prima di ucciderli. Per assaggiare la voce del loro sangue, per trovare una risposta a tormenti e insicurezze. Nel confronto con un qualcosa di sicuramente diverso Sesshomaru ricercava la consapevolezza della sua essenza, di quel suo essere youkai e detenere l’orgoglio di quella stirpe antica.

 

Sango lisciò l’ultima piega e strinse forte il nodo. Aveva impiegato tutto il pomeriggio, era sudata e stanca, ma adesso poteva di nuovo assaporare sotto le dita la linea curva e appuntita dell’hiraikotsu. Le nappe e le fasce di stoffa sostituite invitavano ad essere strette e adoperate. Non aveva potuto eliminare la piccola ammaccatura vicino al bordo inferiore; non se ne preoccupò più di tanto. Appena ne avesse avuto la possibilità, sarebbe ritornata al villaggio. E avrebbe ripetuto i gesti che per tutta l’infanzia aveva visto compiere a sua madre. I minerali pestati nel mortaio mentre il ventaglio ravviva il fuoco e cenere e lapilli invadono la fucina sempre più calda. Avrebbe raccolto i capelli e stretto le maniche con il sigeo; i piedi nudi sul terriccio umido e freddo, anche vicino alle pietre incandescenti. Avrebbe sentito il sudore formarsi sulla pelle, nel respiro pesante e gravato dalla cenere sottile; gli occhi bruciare per l’intensità del calore e del brillio delle fiamme, mentre il kimono si scioglie e rivela la fasciatura al seno. Avrebbe aggiustato l’osso e poi, madida e spossata, si sarebbe rovesciata addosso un secchio di acqua gelida, alzando la testa in alto e godendo del tremore intenso e del gemito soffocato nella gola.

Sarebbe stato bello. Molto bello.

 

Ma prima.

Prima doveva tornare Sesshomaru. Prima dovevano esser sicuri che Alessandra stesse bene e accertassi di quello che avrebbe voluto fare. Kagome tornava spesso nel suo mondo; aveva la sua vita, la sua famiglia in quel tempo diverso. E anche Alessandra.

Sango non era certa che la ragazza avrebbe potuto fare come la miko. Kagome aveva poteri da sacerdotessa; grandi poteri che le permettevano di attraversare la barriera temporale. Alessandra era una ningen come lei. Senza alcuna particolare capacità. E amava un demone; uno fra i più pericolosi ancora viventi.

Sospirò e stiracchiò le braccia. Non spettava a lei elaborare strategia di conquista, come le chiamava Kagome, per scoprire cosa provasse il Principe. Sua madre le aveva insegnato una cosa importante: sei una donna, e devi aver rispetto e pudore. Ma la curiosità era di Sango e quindi, volente o nolente, con mezz’orecchio le farneticazioni di Kagome le ascoltava lo stesso. Parlava di dichiarazioni, di anelli, di nozze. E a volte Sango non capiva più se stesse fantasticando e progettando per se stessa o per Sesshomaru e Alessandra. Ma non importava. Era anche piacevole ascoltarla, quando le raccontava delle usanze diverse, nuove, di un Giappone distante cinquecento anni. Era come avventurarsi in un mondo sconosciuto, più affascinante e fiabesco di quelli che si era creata da bambina.

 

“Disturbo?”

 

Il grido si strozzò in gola e Sango avvertì un tremito nuovo, eccitante, correrle lungo la clavicola, lì dove le labbra di Miroku continuavano, impertinenti, a soffiare sulla pelle accaldata. Era entrato senza far rumore o, più probabilmente, Sango realizzò di non aver prestato attenzione al mutare anche lieve dei suoni che la circondavano. E si ritrovava con il petto dell’houshi sulla schiena nuda, mentre una sensazione quasi liquida le risaliva dal ventre. Eppure. Eppure non provava pudore o imbarazzo; sentiva una sfacciata sicurezza correrle sotto la pelle, facendole assecondare gli inviti leggeri, il gioco sottile di Miroku.

Miroku. Gli occhi dilatati nella sera rossa, con quell’ombra conturbante di indecisione e sorpresa. Perché non è di Sango quel sorriso accennato sulle labbra rosse e gonfie e lucide; non è di Sango lo sguardo che non fugge, che resta lì, a fissarti, a chiederti qualcosa che non sei sicuro di capire, di intuire. Sango si arrabbia, quando Miroku tenta un goffo approccio; il suo volto si arrossa e inizia a balbettare. E lui è preso in contropiede e incespica nelle parole e travisa i termini e sbaglia e la fa arrabbiare.

Eppure, in quel momento Sango gli stava offrendo la bocca, gli permetteva di scivolare lungo la mandibola piccola e un po’ sfuggente vicino al mento, lì dove la curva del viso declina nella gola. Si lasciava baciare sul collo, contro pelle calda e dentro, Miroku lo sentiva, il sangue correva e correva e il respiro accelerava.

 

“Ho paura”

 

Due parole. Due semplici, stupide parole soffiata fra i capelli, con quel sorriso irritante e gli occhi acquosi di una bambina piccola. Bella. Miroku non riuscì a pensare altro: bella e maledetta. Perché glielo diceva così, un attimo prima di lasciarsi andare, mentre il fruscio della seta lasciava intuire la carne celata e il bianco del ginocchio si scuriva, si declinava nelle ombre sfumate della sera. Glielo diceva così, e sapeva. Sapeva che Miroku avrebbe capito; e allora le mani sarebbero scivolate attorno al suo corpo e l’avrebbero stretta forte, quasi volessero inglobarla. Miroku avrebbe capito, e Sango gli avrebbe nascosto il viso nella spalla e avrebbe pianto e riso e…E non lo riusciva bene a comprendere nemmeno lei. Ma quelle mani, Kami! Quelle mani dovevano restare lì, sul suo corpo, su di lei. E stringere fin quasi a farle male; stringere sempre di più.

 

“È giusto”

 

Giusto. Nessuna sicurezza, nessun appiglio. Voleva consolarla, ma non era riuscito a mentirle. Miroku premette la fronte nell’incavo fra i seni. Sarebbe stato facile dirle che sarebbe andato tutto bene; sarebbe stato bello costruire insieme un progetto, immaginarsi un futuro tranquillo e sereno; con Kohaku magari; e dei bambini. Perché Miroku ne avrebbe voluti tanti, di bambini. Da lei. Sarebbe stato così bello; e così facile. Ma non ci era riuscito. Per quanto, infatti, il fischio del foro del vento fosse ancora solo un incubo che lo svegliava di notte, all’improvviso, dopo incubi che si riducevano a immagini confuse e ad un angosciante nodo alla gola, Miroku non poteva dimenticarsi di non avere futuro, nonostante lo desiderasse; non poteva ignorare Sango e le promesse che non avrebbe potuto mantenere. E poi. Poi c’era Naraku. La vendetta rincorsa contro di lui, il desiderio bruciante, folle, di perdere tutto ma riuscire a fargliela sentire, almeno una volta, tutta la rabbia che covava dentro. Anche nel rischio di inquinare di più la sfera dei quattro spiriti. Farglielo sentire, quell’odio, e vederlo sorpreso, e forse un po’, anche solo un po’, vacillare.

 

Giusto.

Miroku ricompose con lentezza esasperante il kimono, lisciando le pieghe una ad una e sfiorando i motivi decorativi fino a risalire alla gola, e ancora più su, aggirando le labbra. La fossetta sotto il naso piccolo e diritto, le ciglia sottili e arcuate, quasi una linea di matita. E ancora. Il lobo pieno, rotondo di Sango, e il collo. Scoprire la nuca sotto una cortina scura, e premere le labbra forte, mordicchiando la pelle tesa e stanca, aspirando lentamente quasi stesse mangiando un frutto carnoso. Pensava che Sango lo avrebbe allontanato; pensava che lo avrebbe schiaffeggiato. Invece, sentì le mani insinuarsi sotto la tunica, sfiorare incerte e audaci la pelle nuda e stringerlo, premerlo contro le forme piene e invitanti di Sango.

Giusto. Giusto non illuderla, non offrirle false speranze. Giusto accettare la sua paura e farle capire che aver paura è normale. Giusto.

Miroku la imprigionò sotto di sé; non l’avrebbe amata, non ancora. E non avrebbe cercato di rassicurarla, di scacciare quel terrore che vedeva dietro il desiderio e la punta di ingenuità. Ma una cosa Miroku voleva che Sango la sapesse; e gliela avrebbe mostrata. Forse non sarebbe stato per molto, forse sarebbe stato uno sbaglio, ma finchè il tempo e la kazaana glielo avrebbero permesso, Miroku voleva che Sango sapesse che poteva piangere e tremare e spaventarsi ancora e ancora. Perché lui ci sarebbe sempre stato a consolarla, a stringerla fra le braccia e sussurrarle all’orecchio.

 

“Ancora.

Abbiamo ancora tempo”.

 

 

 

*****

 

 

 

Non hai pazienza.

Se lo era sentito ripetere spesso, mentre cresceva. Troppo impulsivo, dicevano. Guarda tuo fratello, invece. Tuo fratello è controllato; tuo fratello sa come mantenere il sangue freddo. Prendi esempio da lui; perché non provi a crescere un po’? Spesso ci fai vergognare; spesso sei un disonore. Cosa succederebbe se fossi tu l’erede? Cosa combineresti?

Kami! Era un mantra. Una litania che gli attraversava il cervello. Nelle sale, nel silenzio, fra il vociare dei cortigiani. Parole. Parole. Tante parole che sussurravano all’orecchio. Le sentiva sempre; non era necessario che le pronunciassero davvero. Bastava un’occhiata. Una di quelle occhiate un po’ pallide e un po’ di scherno; una di quelle occhiate che non vorresti mai sentirti addosso. Perché sono occhiate che ti spiano, ti comparano, di vivisezionano. E ti fanno male. Un male forte forte dentro, nel petto, o ancora più giù. Perché non le vorresti sentire, quelle parole. E gli occhi. Hai voglia di strapparli, gli occhi di quei cortigiani. Anche se sei piccolo. Anche se ti dici: ignora. Perché di quello che pensano loro a te non importa nulla, vero? Non hai bisogno della loro pietà, della loro approvazione, giusto?

A tuo fratello va bene così. Non ti ha mai detto niente. Ti dice: migliorerai. Sei piccolo. Prima cresci, poi preoccupati. Perché finchè sei piccolo non ne devi avere, di preoccupazioni. Anche se sei un principe; anche se sei uno youkai. Le preoccupazioni sono per gli altri, vero? Tu devi solo crescere. E ai guai che combini ci penserà qualcun altro. Ci penserà tuo fratello.

 

“Non ti sei stancato di farmi da balia?”

 

La pedina girava e girava fra gli artigli. Una piccola pedina di avorio, lucida e levigata. Non ha pazienza Yashi; e il go è un gioco di pazienza. Ma meglio di niente. Meglio che restare a marcire nel futon e consumarsi gli occhi nel fissare il soffitto. Perché gli occhi ce li ha ancora, anche se non se ne capacita del tutto. Pensava che Shin glieli avrebbe strappati, quando la avrebbe visto. Perché a quel guaio nemmeno Shin avrebbe saputo mettere rimedio.

Yashi si passò distrattamente una mano fra i capelli. Erano ancora corti e irregolari, come appena recisi. E risente la lama del pugnale scorrere sulla pelle sensibile, tagliare ogni capello e la coda stretta in mano afflosciarsi istante dopo istante. Non ci aveva pensato; lo aveva fatto e basta. E si era sentito orgoglioso. Per la prima volta in vita sua, quel gesto sbagliato lo aveva riempito di orgoglio. E le voci e le chiacchiere e i mormorii erano piacere. Perché per la prima volta lo aveva cercato lui, il paragone con Shin. Lo aveva cercato, voluto, sottolineato. E sentire i capelli solleticargli la gola, sorridere di scherno davanti alle facce allibite e costernate, vedere la rabbia negli occhi di suo padre e ricordarsi così, all’improvviso, di aver sempre cercato l’approvazione di altri occhi, la fiducia di un altro sguardo, lo aveva reso euforico e temerario. Troppo temerario.

Ma Shin era appena morto; lo credeva morto. E il dolore era forte, e la voglia di piangere grande e una responsabilità non voluta premeva sulle spalle. E poi c’era Koji. Koji e la sua realtà diversa; il bisogno sviscerale di proteggerlo, di farlo restare al sicuro, di non esporlo.

Yashi si era sentito schiacciato da un pensiero. Da una consapevolezza che lo premeva a terra, giù, sempre più giù, e alzare appena la testa e fissare qualcosa oltre la polvere era difficile. Stramaledettamente difficile.

Ma Shin lo aveva sempre fatto. Shin aveva sempre camminato con la testa alta e la sicurezza. Anche con i capelli corti. Anche quando, negli ultimi giorni passati al loro accampamento, nessuno sapeva più come comportarsi con lui.

Ma Shin non si arrende mai, Yashi lo sa. E adesso, vederselo di fronte, i capelli irregolari che giocano con i riflessi bruciati dell’haori, la posa informale e quel sorriso rilassato, quasi irreale, assomiglia ai sogni che faceva i primi giorni dopo che Naraku aveva riferito la notizia della sua morte.

 

Non ci voleva credere, all’inizio. Quando, ripresa conoscenza, se lo era trovato accanto al futon, la testa reclinata e un panno in mano. Era notte. E Shin era accanto a lui; come quando erano piccoli, nel palazzo sul Continente. Come quando uno yaoguai lo aveva avvelenato ed era rimasto incosciente e arso dalla febbre per tre giorni. Shin non c’era quella volta, al suo capezzale. Ma era la stessa cosa: Shin c’era, anche se non era lì con il suo corpo. Shin c’era sempre stato. Perché i guai di Yashi era Shin a doverli sistemare. Era rientrato due giorni dopo che la febbre era scesa e Yashi stava già riprendendo le forze. Pallido, il kimono a brandelli e senza cavalcatura. E uno sguardo spento. Non gli aveva mai chiesto niente. Forse per paura di un rimprovero; forse per paura di venir allontanato, disprezzato. Forse. Forse. Forse. Ne aveva molti, di forse e di domande nella testa. E Shin adesso era davanti a lui, la pedina nera che ondeggiava sulla scacchiera, prima di cadere a destra o a sinistra. E Yashi si accorse che a Shin il nero non stava bene. Lo aveva visto spesso, con gli abiti scuri. Lo aveva visto spesso vestire l’armatura brunita dei loro antenati. E aveva sempre pensato: bello. Shin era nato per quello, e lui ci sarebbe sempre stato per sorreggerlo. Al suo fianco, il suo braccio destro; il suo elemento di disturbo; perché ogni tanto bisogna ricordarlo, a un Principe, che anche la vita di loro youkai può finire e sprecarla a preservare un equilibrio, a cercare di comprendere un’armonia senza concedersi tregue e distrazioni non va bene. Yashi ne era sempre stato convinto. Ma era anche sempre stato persuaso dell’idea che sarebbe tornato nel Kansai un giorno; e avrebbe visto con i suoi occhi il palazzo dove suo fratello era nato, e lo avrebbe visto sedersi su quel trono antico e rivendicare a sé i diritti e la vendetta.

E Shin sarebbe stato nero; nero nell’armatura; nero nelle vesti; nero nei capelli.

E adesso no, Yashi si era accorto che quell’immagine, quel Principe, non gli piaceva. Forse, in verità, non gli era mai piaciuto. E l’unica cosa che volesse davvero per suo fratello, per quel fratello che gli era stato accanto come un padre, che gli aveva fatto da padre quando Morigawa era ormai perso nel suo delirio, era un haori, una scacchiera di go e una tazza di tè.

E non voleva sminuire Shin.

Ma c’era qualcosa, nella figura elegante di suo fratello che gli impediva di vederlo di nuovo vestire un’armatura. E no, non era la fasciatura che si lasciava intravvedere fra le pieghe della stoffa; non era il movimento ancora rigido della spalla quando si alzava o il passo appena claudicante che ancora si concedeva. Yashi lo sapeva bene: sarebbe bastata un’avvisaglia, un sentore di pericolo, e Shin avrebbe soppesato di nuovo la katana al fianco e celato il viso dietro l’ho-ate. Shin non è mai stato pacifico; ma non ha mai cercato lo scontro diretto, il confronto.

 

Yashi si lasciò ricadere sul futon. Restare seduto gli costava ancora un discreto sforzo, anche se le cure di Yaone-sama e di Homoe-san si stavano rivelando prodigiose. Il suo fisico, benchè demoniaco, era ormai allo stremo quando era arrivato al palazzo di Sesshomaru e se non fosse stato per l’aiuto medico che gli era stato fornito sarebbe ancora sospeso in un limbo irritante e capace solo di consumagli le energie giorno dopo giorno. Non ricordava quanto fosse stato svenuto, come non aveva pienamente coscienza di cosa fosse esattamente successo dopo che quella yasha aveva offerto loro l’acqua. Ma era lontano, si accorse Yashi. Erano ancora prigionieri e feriti e stanchi. Lui era stanco. E con addosso la consapevolezza che ogni tortura inflitta fiaccava la sua resistenza senza possibilità di ripresa. L’angoscia. L’angoscia che montava assieme alla consapevolezza di poter cedere da un momento all’altro e di lasciare Koji e sua madre esposti, soli. E di deludere Shin.

Poca importanza il fatto che lo credesse ancora morto.

 

“Ho avuto paura. Di perderti”

 

Il movimento rapido della testa e il ringhio che si strozza in gola. Shin si concesse un sorriso; Yashi ha sempre avuto quel pessimo, istintivo vizio, fin da cucciolo. Ringhia. Se qualcosa lo infastidisce, lo irrita, lo preoccupa. E dirgli: smettila non è mai servito a nulla. Perché Yashi è istinto demoniaco puro, e la violenza e l’impulsività selvaggia fresca e non arginata, non controllata, non piegata. Yashi è tutto quello che Shin non ha mai potuto e non si è mai permesso di essere.

Ma è anche l’avventatezza e l’ingenuità disarmante che solo un bambino può avere. Quella irritante e sciocca abilità di mettersi nei guai. Come con la Bai Gu Jing.

Shin la ricorda bene, quella notte di fine primavera. Trascorsa alla finestra della sua stanza, un libro e un tokkuri di sake. Ad aspettare, mentre il cielo si fa chiaro e scolora e l’aria, nel crepuscolo, punge la pelle e gli artigli premono sempre un po’ di più nella carne. Perché non è da Yashi non avvertirlo e passare fuori la notte. E soprattutto non è da Koji assecondare il fratello fino a quel punto. Shin lo ricorda, quel sottile strato di agitazione serpeggiare sotto la pelle. Come un campanello di allarme. E gettare il libro sul futon, indossare i koshi-ate, prendere la katana, legare i capelli in un nodo veloce e sellare il suo cervo. Senza un reale motivo, senza che l’aria fremesse o un corvo avesse gracchiato. Spronare e dirigersi verso il profilo delle montagne; perché per cacciare le montagne sono il luogo migliore. E doveva essere solo una battuta di caccia. Una semplice stupida battuta di caccia. Una sfida, l’ennesima, fra Yashi e Koji. Il primo che avesse ucciso un cinghiale e lo avesse riportato a palazzo si sarebbe aggiudicato…Shin non lo ricordava nemmeno, quale fosse il premio in palio. Una spada forse; o il sorriso di una yasha. Non lo ricordava, e non gli interessava ricordarlo. Sapeva solo che doveva durare una giornata, quella caccia; e Koji e Yashi non avevano fatto ancora ritorno a palazzo.

 

Shin sfiorò con prudenza la fasciatura alla spalla. Homoe-san gli aveva raccomandato di restare tranquillo; se la ferita si fosse riaperta non gliela avrebbe curata più. Lo aveva promesso; una di quelle promesse che Shin ha imparato a riconoscere. Quelle che Homoe snocciola con la bocca corrucciata e la difficoltà evidente di mascherare un sorriso. Shin ha imparato a riconoscerle, quelle promesse. E assapora il pensiero di provocarla e di riaprirsela volontariamente, quella ferita. Per vedere di nuovo Homoe costretta accanto al suo futon. E addormentarsi con la sua mano che gli asciuga la fonte e svegliarsi con il pensiero, la sicurezza, di trovarla coricata acconto a lui, vinta dal sonno e dalla tranquillità della notte.

Ma adesso deve pensare a Yashi. A suo fratello e ai suoi grandi occhi curiosi. Di ascoltare il pezzo di quella storia che non ha mai voluto raccontargli. E poi l’altra storia. Quella del loro arrivo al palazzo di Sesshomaru. Spiegargli che, se il Principe dell’Ovest acconsentirà, il Kansai avrà un nuovo Principe e lui tornerà sul Continente. Forse con Homoe, forse da solo. Forse con loro madre. Ma comunque sul Continente. Perché Nihon non è più la sua terra, Shin lo sente prepotente dentro di sé. Nihon sono le sue origini; e i tasselli di un infanzia che ha finalmente ricostruito. Mettendo in ordine le confuse sensazioni di un bambino e i frammenti di storie e ricordi che suo padre gli aveva fatto balenare davanti agli occhi. Ecco, suo padre. L’altro motivo per cui non se la sente di restarci, sulle isole. Dovrà affrontare anche quella questione, lo sa bene. Ma prima ha bisogno di capire cosa fosse diventato e perché e, soprattutto, cosa contasse per lui. Cosa significasse. Perché fa male il pensiero di non vederlo più e fa rabbia ed è, strano, ma lo è, anche gioia. Quasi liberazione. No, non è paura, sorpresa o sconcerto. Non si sente degenere nella consapevolezza che la morte di suo padre gli fa vibrare il corpo fin nei recessi. La morte è normale. E solo un’altra forma della loro esistenza. Erano essenza della terra prima di diventare youkai; restano parte dell’esistenza da youkai e tornano nell’assoluto nella loro morte. No; non è dolore o rammarico o sconcerto. È solo, di nuovo, voglia di capire, di definire. Per chiudere del tutto con il passato, trarne insegnamento e andare avanti. Migliorare. Superare Morigawa.

 

Ma dopo. Il presente è Yashi. E le sue parole che corrono nel ricordo di una cavalcata fino a trovare due corpi feriti e uno scheletro a trascinarli. Shin tenne gli occhi sulla scacchiera; perché non è sicuro di far bene a dirlo, quel segreto, anche se non c’è nessun vincolo. Ma lo aveva promesso a se stesso: non lo avrebbe mai detto loro. Per non farli sentire in colpa, per non far pesare loro addosso un qualcosa che ha deciso lui.

Ricordare. Koji che riprende piano conoscenza e lo vede. Mentre parla con la Bai Gu Jing. Il corpo di Yashi caldo e sudato contro la pelle fredda; il respiro del cervo e la consapevolezza di non avere tempo, di doverli rimandare a palazzo e far curare Yashi. Perché il sangue che scende dalla ferita è verde e maleodorante e il veleno si diffonde in circolo in fretta, troppo in fretta. Koji che si aggrappa al suo kimono, che cerca di trattenerlo, che lo supplica ti tornare, andare con loro. Shin lo rivede: negli occhi di suo fratello c’era un terrore immenso. Lo smarrimento e la disperazione che aveva visto nello sguardo di Koga quando era rientrato a palazzo dopo la battaglia finale. La paura che si allarga nell’iride e contrae la mascella in un ghigno deforme; contrae i muscoli fino a far mele. Shin lo aveva visto e si era alzato ed era uscito dalla stanza di Koji. Con addosso la consapevolezza che qualcosa era cambiato e il passato, il loro legame, non sarebbe più ritornato. Perché lo aveva scelto lui stesso e un altro fratello, quello vero, avrebbe vegliato il futon di Koji.

 

Ma nella sua memoria, Koji era ancora un cucciolo e stringeva e piangeva. Shin lo aveva fatto montare in sella e gli aveva detto solo: ti affido Yashi. Mi fido solo di te. E li aveva visti correre nella nebbia leggera che saliva dagli stagni, mentre la mano ossuta si allungava sulla sua spalla. Aveva mantenuto gli occhi all’orizzonte, e il sigeo scivolava con la katana e il kimono si apriva sul petto a mostrare i contorni di una muscolatura viva. Viva. Le dita lunghe e sottili allungarsi sul suo corpo erano ancora un brivido di disgusto. Ma non si era ritratto; aveva dato la sua parola e avrebbe mantenuto.

Quella mattina, benché fosse uno youkai, Shin si sorprese a pregare i Kamigami di far arrivare Yashi in tempo al castello e che Bai Gu Jing mantenesse la sua parola. Voleva rivedere suo fratello, quando fosse tornato. Voleva rivederlo e potergli dire baka! E sentirlo scusarsi e nascondere un singhiozzo e stringerlo forte e pensare che, in fondo, Yashi gli sbagli e gli errori doveva farli. Anche per lui. E non doveva preoccuparsene perché glieli avrebbe rimessi a posto lui.

 

“Perché lo hai fatto? Shin!

Perché ci sei sempre?”

 

Yashi non ha pazienza; glielo ha sempre detto. Ma è intelligente; e ha buona memoria. E la lezione di Takakumi la ricorda anche lui. Per placare uno yaouguai ci sono solo due modi: o lo uccidi o lo assecondi. E Shin aveva solo potuto assecondarlo. Perché uno scambio è uno scambio, e lui aveva accettato: il suo corpo, la sua forza giovane, per i suoi fratelli; perchè voleva esser sicuro che Yashi si sarebbe alzato dal futon con le sue gambe e avrebbe di nuovo camminato al suo fianco.

Yashi non è sciocco e Shin si limitò a piegare la testa e stringere la pedina del go. Mentre la mano correva alla spalla e si contorceva. Perché il ricordo faceva male, faceva rabbia; anche se era passato tanto tempo. La Bai Gu Jing che lo prende per mano e lo porta con sé; nella nebbia pensante e cattiva. Il corpo di donna avvenente che si decompone e si stacca pezzo per pezzo, mentre gli percorre la pelle alla ricerca disperata del suo calore, della sua essenza vitale. La forza, il vigore svanire dalle membra istante dopo istante e scoprire di non poter nemmeno alzare un braccio e tentare di allontanarla. Scoprire di non riuscire più a pensare. Perché uno youkai adulto può vincerlo facilmente uno yaouguai, ma Shin era poco più che un cucciolo e per quanto abile e adulto aveva la forza di un ragazzino. Ma avverte chiaro lo sbaglio, l’umiliazione di essere costretto a concedersi, ad assecondare un rifiuto, un grumo di risentimento e disperazione che, quasi per scherzo, viene chiamato Kami.

Ma c’è Yashi; e c’era anche Koji. Loro sono importanti, sono più importanti. Altrimenti. Altrimenti non avrebbe esitazioni. Li immagina: gli artigli allungarsi e scivolare attorno al collo pallido, con le vene che sono un reticolato rivoltante. Posarsi lì, alla base della nuca, e iniziare a premere. La pelle chiazzarsi di nero in fretta, e distinguere le ossa del collo. Tre, quattro, cinque. Avrebbe potuto contarle. Avrebbe potuto dire di ognuna posizione e spessore e fiacca resistenza. Continuare a premere, fino a costringere la testa a torcersi indietro, con la gola semitrasparente offerta alle zanne. E la mano, l’altra, quella che era costretta ai seni avvizziti e cadenti, scivolare sul plesso solare, ricercare l’eco di un battito, e penetrare. Spingersi a fondo, nel molle e nel viscido, e accorgersi del sangue che gocciola e della smorfia di irritazione e sconfitta.

Se solo non avesse dato parola.

Le zanne avrebbero schernito, con lo sguardo fisso su un volto che va disfacendosi, mostrando orbite vuote e carne e ossa che si liquefanno con uno sfrigolio assordante. Le zanne. Non avrebbe dovuto conficcarle nelle labbra, per impedirsi di reagire e allontanare quella nudità volgare e ostentata. Avrebbe potuto mordere.

Invece. Il conato represso con fatica, mentre un sapore di liquame e marciume gli invadeva la bocca; la sensazione di sporco e polveroso sulla pelle, nella pelle, dentro, nel corpo. E le forze scendevano lentamente e la schiena nuda sulla terra preme e preme e preme. Era volgare, la Bai Gu Jing; nel suo muoversi sconnesso ed eccitato, nell’assaporare la sua forza, la sua vitalità, il suo corpo. Era volgare, con l’hanfu sempre più largo, scivolare a denudare il seno avvizzito e cadente; allargarsi nel mostrare un corpo smunto e macilento. Vederlo muoversi frenetico, sconnesso sopra il suo, fra respiri sempre più pesanti e gemiti che ricordano singhiozzi. Un leggero strato di sudore e la sensazione di un piacere intenso crescere sempre di più; partire dal basso, dal ventre, e disperdersi nel corpo, costringerlo a reagire e assecondare movimenti e spinte. Shin aveva scelto. E aveva subito. Separando il corpo e la mente; osservando il corpo sopra di lui muoversi e muoversi e muoversi. La carne grigiastra e flaccida tendersi e riacquistare tono ed elasticità; il seno ritornare pieno e turgido, provocante; mani scheletriche ingentilire il tocco e scivolare sul suo corpo senza graffiare, senza la fastidiosa spigolosità delle ossa appena offuscate da un sottile strato di pelle. La Bai Gu Jing lo stava amando, e gli stava rubando forza vitale. Per riavere un volto pallido dall’ovale perfetto; per poter ridisegnare di rosso il labbro inferiore e tracciare una linea sottile in alto, sulla fronte spaziosa. E accennare maliziosa dietro al ventaglio allo stolto che si lascia irretire da lei e la segue. La Bai Gu Jing si concede volentieri; è il solo mezzo che conosce, che ricorda, per restare affascinante e catturare l’attenzione. E per un istante, un singolo istante, riassaporare la sensazione del corpo nel suo pieno vigore.

 

Shin aveva lasciato che godesse di lui, dimenticandosi del suo onore e del suo orgoglio di demone. Le aveva concesso il suo corpo, la sua forza vitale, più intensa e soddisfacente di quella umana, capace di renderle le forze e la vigoria per molto, molto tempo. Quando la Bai Gu Jing lo aveva lasciato libero, Shin si era dovuto concedere tempo. Tempo per lasciar rifluire il sangue e regolarizzare il respiro; tempo perché il suo corpo demoniaco riequilibrasse la forza sottratta con quella rimasta e fosse in grado di sostenere anche solo lo sforzo di assumere una posizione più decorosa. Era riuscito a reindossare i ku, quasi vergognandosi della propria nudità. Era strano. La Bai Gu Jing non era la prima yasha con cui si intratteneva, ma era stato diverso. Aveva scelto di concedersi, nonostante la rabbia e il disprezzo che gli chiudevano lo stomaco. Unirsi a una creatura che è solo desiderio per lui, per il suo modo di percepire l’esistenza, era solo frustrante e umiliante. Le pochissime amanti che aveva avuto fino a quel momento erano state più un obbligo che una volontà. Un modo come un altro, forse più indolore di altri, per ingraziarsi gli altri demoni presenti. Spiriti forse inferiori a loro inuyoukai per potere, ma dotati di una saggezza e di una conoscenza millenaria di quella terra troppo nuova e diversa e quindi utili, necessari, anche se contro voglia. Suo padre non aveva mai disdegnato chi gli si era offerto, e Shin si era ritrovato costretto a fare altrettanto. Giacere con il Principe Morigawa era un onore, ma era Shin ad attrarre di più. Per la bellezza giovane e provocante; per l’austerità che mostrava e il ruolo che avrebbe giocato nella successione al padre.

La Bai Gu Jing no. La Bai Gu Jing lo aveva voluto solo perché lo desiderava. Aveva voluto il suo corpo, e non chiedeva altro. Non chiedeva mai altro. Solo passione e sfrenatezza e lussuria. Solo quell’attimo, quell’istante in cui, rigida e scossa da un piacere intenso, scende sul compagno occasionale e gli carpisce anche l’ultimo alito di vita con un bacio. Così diverso da quello della vecchia; da quello nauseante di una donna in disfacimento.

Ma la Bai Gu Jing non aveva baciato Shin; gli aveva sottratto forza vitale, ma non la vita stessa. Non avrebbe nemmeno potuto contenerla tutta nel suo corpo, l’energia di Shin, di uno inuyoukai. Si era appagata, e adesso osservava il suo giovane amante ricomporsi e legare ben saldo l’inrou al sigeo. Lo aveva osservato mentre soppesava le katana al fianco e le voltava incerto le spalle, per tornare al castello.

 

Shin chiuse gli occhi. La mano diversa della Bai Gu Jing che si era stratta nella sua era stata una sorpresa. C’era qualcosa di diverso nello yaouguai; il suo sguardo forse, di nuovo vivo e giovane. Il volto liscio, o forse solo le forme che ammiccavano dal hanfu gettato in fretta sulle spalle. Shin non sapeva ancora dire cosa gli avesse impedito di far scattare gli artigli e stringerle la gola; perché le avesse permesso di nuovo di toccarlo e non avvertisse la medesima repulsione provata la prima volta. Né compassione né accondiscendenza. Semplice curiosità, si era detto. O forse il gusto per il proibito. Non lo sapeva. Non lo aveva mai capito. E aveva continuato a guardarla anche quando lei gli aveva voltato le spalle e si era incamminata nella nebbia che saliva dalla terra calda. Aveva continuato a fissare il punto indistinto che l’aveva inghiottita, prima di avvertire in mano le forme levigate di un pei.

 

Ce l’hai ancora? Il pei, intendo”

 

Shin socchiuse gli occhi. Il pei: un cerchietto di giada levigata e perfetta nelle forme, con incisi a sbalzo ideogrammi così simili ai suoi e ancora così diversi. Il pei. Sì; lo aveva conservato, ben protetto e nascosto nella himitsu bako. Si era chiesto spesso, in passato, perché non l’avesse buttato. Si tengono i doni delle amanti; non le ricompense di un’incontro che si vorrebbe solo dimenticare. Eppure, per qualche motivo, il pei restava ancora al suo posto, al sicuro nel mosaico di legno e incastri. Shin sospirò e si passò una mano sul collo. Restava l’altra questione, adesso. La Bai Gu Jin era stato un buon pretesto per rompere il ghiaccio; ma a Shin premeva maggiormente l’altro argomento. E la partita era stata una scusa; un modo come un altro per prendere tempo e trovare il modo migliore di intavolare una discussione. Lo sapeva bene; e lo sapeva anche Yashi. E lo aveva assecondato; lo aveva sempre assecondato e doveva averlo capito subito, fin da quando era entrato con la scacchiera e quel sorriso forzato che quello sarebbe stato un giorno difficile. Un brutto giorno difficile, di quelli in cui vorresti solo girarti nel futon e restartene in pace. Senza pensieri, senza preoccupazioni. Ma i discorsi, soprattutto un discorso come quello, vanno affrontati. Senza fretta, ma vanno affrontati. E Shin sapeva che ormai non ci poteva più girare intorno.

 

“Ti lascio il Kansai.

Io torno nel Continente”

 

Ecco. Lo aveva detto. Facendo ruzzolare le parole con troppa velocità; quasi con il timore di sentire la bocca muoversi e la voce spegnersi senza esser riuscito a finire la frase. Lo aveva detto; e Yashi lo fissava con la bocca socchiusa e il respiro che non voleva saperne di andarsene né su né giù. Non poteva aver capito bene. Si stava sbagliando, giusto? Suo fratello non aveva davvero intenzione di andarsene; non poteva mollarlo lì e tornarsene a casa. Non aveva senso, ecco. Era uno scherzo, vero? Shin stava solo scherzando. Di certo. Voleva metterlo alla prova; voleva vedere come avrebbe reagito; voleva solo vedere se era un po’ cresciuto o se lo avrebbe preso il panico come quando era cucciolo e suo fratello doveva uscire con l’esercito. Certo; ovvio. Era solo una prova. Yashi cercava di convincersene disperatamente. Era solo una prova: adesso gli avrebbe detto che era stato uno stupido, a fare quella faccia; gli avrebbe detto che appena Sesshomaru-sama fosse rientrato a palazzo sarebbe andato a parlare con lui. Inuyasha-san aveva portato loro, in via informale, una prima proposta delle condizioni di resa ed erano state più che soddisfacenti. Mancava solo l’approvazione di Sesshomaru-sama e tutto sarebbe andato a posto. Avrebbero riavuto il Kansai; avrebbero riavuto la loro libertà e la posizione che detenevano prima dell’esilio. L’unica condizione era riconoscere la supremazia di Sesshomaru-sama, la sua autorità, e sottoscrivere un trattato di alleanza. Sì; ottime condizioni. Shin avrebbe firmato e avrebbe ottenuto il trono; il suo trono. Doveva andare così, Yashi ne era certo.

Suo fratello a capo del loro clan e lui gli avrebbe dato tutto il suo appoggio. Su quello non si discuteva. Era sempre stato quello, l’accordo. Perché cambiare le carte in tavola? No, non aveva senso. Shin stava giocando. Un gioco brutto, va bene, ma poteva concederglielo. Non si sarebbe messo a pestare i piedi per terra come quando era cucciolo; non si sarebbe messo a piangere e urlare e stringere il kimono di suo fratello solo per trattenerlo o per convincerlo a portarlo con lui. No; avrebbe sorriso, magari abbozzato un piccolo applauso, perché, doveva ammetterlo, era riuscito davvero a sorprenderlo. Ma in fondo era solo uno scherzo, giusto? Solo uno…

 

“Non sto scherzando Yashi-kun”

 

Shin si appoggiò stancamente al bracciolo. Lo sapeva; lo aveva previsto: Yashi non gli credeva; aveva pensato ad uno scherzo, ad una trovata sfuggita per allentare la tensione. Forse ad una prova; ad una specie di iniziazione per confermare se sarebbe stato un valido aiuto o se una notizia simile, sbattuta in faccia senza preavviso, lo avrebbe destabilizzato. Doveva aver pensato a molte cose; ma non gli aveva creduto. E adesso se ne stava lì, a rigirare sul piatto di bambù gli onigiri, senza decidersi a portarli alla bocca e mordere. E Shin era sicuro che quello smarrimento, quella calma placida e irreale fosse solo un momento di pausa. L’attimo che, lo sapeva bene, precedeva l’esplosione, la rabbia, la frustrazione, la tensione che si libera e diventa parole, urla, ringhi. Gesti anche, se solo Yashi avesse avuto la forza di muoversi a suo piacimento. Ecco: quello giocava a suo favore. Suo fratello non era ancora capace di sopportare uno sforzo fisico prolungato, e questo avrebbe di certo evitato un confronto diretto. Verbale era inevitabile, ma almeno non si sarebbe trovato costretto a premere Yashi contro il tatami, a fermarne le mani che correvano a premere e stringere e afferrare. Forse avrebbe fatto più fatica; perché sapeva per esperienza che Yashi è più propenso ad ascoltare e ragionare solo dopo che si è sfogato. Ma non aveva tempo per andare tanto per il sottile. Due possibilità: o affrontare subito la questione, con suo fratello costretto in un modo o nell’altro ad ascoltarlo, o rimandare e dare a Yashi il tempo di rimettersi e reagire e dover, allora, intavolare un confronto sfibrante e lungo. Maledettamente lungo. Shin aveva optato per la prima ipotesi. Non se la sentiva di trascinare ancora quel pensiero che andava rimuginando da troppo tempo. Nelle ore passate al capezzale di suo fratello, ma anche prima, durante la sua stessa convalescenza a palazzo, Shin aveva avuto occasione di pensare. E aveva scoperto di desiderare unicamente il Continente. Una consapevolezza che non gli aveva attraversato la mente all’improvviso; quasi la quieta e naturale accondiscendenza ad una realtà sempre saputa, sempre agognata, e ignorata e repressa per dovere e per non alimentare illusioni.

Con Morigawa vivo, il posto di Shin era a fianco di suo padre. Dovunque lui volesse andare: Continente, Nihon, o anche altrove. In pace o in guerra. Ma Morigawa era il passato. Morigawa era un qualcosa che Shin desidera lasciarsi alle spalle; quell’eredità che non riusciva, in nessun modo, ad accettare. Poteva rassegnarsi al ruolo che la sua nascita gli imponeva; poteva rassegnarsi a non essere libero, senza vincoli; poteva accettare il ruolo e l’equilibrio che doveva preservare. Ma il regno del Kansai no. Per quanto si sforzasse, non riusciva a formulare un’immagine diversa da Yashi seduto sul trono. Lo avrebbe voluto di nuovo con lui, certo. Sul Continente, lo sapeva già, prima o dopo lo avrebbe preso la nostalgia, il rimpianto di trovarsi solo ad affrontare gli abituali problemi e nella testa la sibillina consapevolezza che la fusuma non si sarebbe più aperta con troppa irruenza e che Yashi non avrebbe più fatto irruzione. Con la sua carica ribelle, con quell’esuberanza che gli permetteva, lo obbligava, a distrarsi e lasciare il palazzo.

Yashi sarebbe diventato principe del Kansai, con l’approvazione di Sesshomaru-sama. Shin era pronto a tutto pur di ottenere il riconoscimento di suo fratello; con Inuyasha-san l’argomento era stato toccato svariate volte, di sfuggita o direttamente. Avevano posto condizioni, elaborato ipotesi e scartato scelte, parole, atteggiamenti controproducenti. Avevano anche ipotizzato la somma di un possibile riscatto; avevano ipotizzato uno scambio di natura indefinita: il regno del Kansai e il riconoscimento di Yashi per…Cosa avrebbe potuto destare l’interesse di Sesshomaru-sama? Ricchezze ne possedeva e non lo affascinavano; possedeva una spada temibile, e offrigliene un’altra così, per quanto potente e affilata, era un rischio non calcolabile: avrebbe potuto accettare, ma avrebbe anche potuto sentirsene offeso. Una spada la conquisti sul campo; ci dev’essere un legame speciale, con la katana. La si doma; e la si ama. Come una donna.

No. Shin era sicuro che una katana sarebbe stato l’omaggio sbagliato; e anche una yasha o una donna. Conosceva la nomea di Sesshomaru; e le informazioni che nel tempo suo padre aveva raccolto sul Principe dell’Ovest si erano rivelate sempre attendibili. Forse un po’ imprecise e frammentarie in alcuni punti, ma attendibili. E nessuno aveva mai riportato un particolare interesse di Sesshomaru per il gentil sesso. Shin aveva dovuto ammettere a se stesso la sorpresa che lo aveva attraversato nello scoprire la presenza, a palazzo, di Alessandra-sama. Ne avevano parlato molto, con suo padre e Narku, durante i consigli di guerra; avevano anche ipotizzato una possibile irruzione a palazzo per rapirla e usarla quale merce di scambia. Un’idea dell’hanyou, ad esser precisi. Forse solo per controllare quanto effettivamente Sesshomaru fosse legato a lei.

 

Cosa dovrei dirti, Shin-oniisama?

Arigato gosai?”

 

Sarcasmo. Amaro; molto amaro. Shin non credeva che avrebbe sentito ancora quella sfumatura, nella voce di suo fratello. Era il tono che usava quando era un cucciolo, e voleva provocare. Lo usava con Morigawa, con gli youkai più grandi della corte. Lo aveva usato anche con lui, qualche volta. Gli occhi bassi e i pugni stretti e percorsi da piccoli brividi, fra la frustrazione e la rabbia, sull’orlo di lacrime che non voleva farsi sfuggire e stavano lì e premevano e pizzicavano e lo irritavano ancora di più. Perché quando Shin lo estraniava da un progetto, da un qualcosa, Yashi gli rispondeva così. Con quella voce che sembra un singhiozzo ed esce quasi a fatica; la testa inclinata di lato e un mezzo irritante sorriso di sfida. Uno di quei sorrisetti che sono un piccolo ghigno e sembrano volerti dire sei contento? Hai fatto di testa tua, ma io non ci sto. Prova a cacciarmi. Prova a lasciarmi fuori. Non te la perdono. Non ce la fari.

Crescendo, Yashi si era accorto che gli atteggiamenti infantili non facevano più presa sui demoni che lo circondavano e allora aveva semplicemente cambiato strategia. E quando si sentiva vulnerabile, quando lo attaccavo e, per un qualche motivo, non poteva rispondere sul piano fisico, rispondeva con la voce tagliente e quel pesante sarcasmo. Disarmante a volte; capace di ferire quasi sempre. Forse più dei suoi artigli. Perché era spiazzante vederlo mutare all’improvviso, e la solarità dirompente che lo caratterizzava virare, trasformarsi in un qualcosa di irriconoscibile e pericoloso. In quei momenti, gli occhi di Yashi sfumavano in un colore vinaccia e la sclera si assottigliava in modo pericoloso; era l’avvertimento, il segno tangibile di non stuzzicarlo ulteriormente, di fare attenzione. L’impulsività di Yashi poteva essere pericolosa, soprattutto quando era nella sua forma animale. Pericolosa; e letale.

Ma, in quel momento, Shin si accorse con dolore che Yashi non voleva essere né sarcastico né provocatorio. Era solo amareggiato. Profondamente abbattuto. E se ne stava rannicchiato sul futon, incapace di decidersi a voltarsi e affrontare quella conversazione come un demone adulto. Perché, di tutto quello che Shin gli aveva detto e continuava a dirgli, nel tentativo di spiegarsi, Yashi aveva afferrato solo una cosa. Fondamentale. Shin se ne andava. Shin tornava a casa, sul Continente; e non lo voleva con sé. Shin non lo voleva più al suo fianco. Se ne sarebbe andato, magari assieme alla yasha con cui lo aveva visto intrattenersi più volte sull’engawa. La figlia di Kumamtoto-sama; Homore-hime-san gli sembra di ricordare. Suo fratello l’avrebbe presa con sé, e avrebbe lasciato lui a Nihon. Lui e il regno.

Già; il Kansai. Sarebbe andato a lui. Yashi, Principe del Kansai. Ma cosa se ne faceva, del regno, se non c’era Shin? Poteva anche accettare l’idea di salirci, su quel trono, e che suo fratello non se la sentisse e abdicasse. Ma restare da solo; restare da solo in una terra che, in fondo, anche se era la sua patria d’origine, era solo terra straniera. Con la sua impulsività; con la sua precipitazione che, ne era certo, avrebbe solo portato ad attriti e risentimenti con altre famiglie.

No. Yashi non era ancora pronto. Non se la sentiva di lasciar andare Shin e mettersi a camminare da solo. Poteva essere egoista, era di certo un ragionamento egoista, ma in fondo non era ancora un cucciolo? E Shin non era sempre stato il suo aniue? No; non voleva lasciarlo andare. Non poteva lasciarlo andare. Ma, mentre lo osservava di sfuggita rimescolare il tè e starsene zitto e cercare quelle parole che avrebbero potuto se non persuaderlo almeno inclinarlo al dialogo, Yashi si accorse di non avere la forza di trattenerlo. E che, in qualche modo, qualcosa era successo e aveva perso Shin. Perso; smarrito; fuggito. Shin era in quella stanza; era attento ai suoi movimenti, ai suoi sospiri; lo studiava con una punta di apparente noia e indifferenza, ma bastava scivolare lungo i nervi del collo per accorgersi della tensione che li attraversava, facendoli vibrare a piccoli scatti. Quand’era stata l’ultima volta che lo aveva visto così…Insicuro. Sì; insicuro. E fragile e addolorato e diverso. Yashi non la ricordava, una volta in cui suo fratello aveva avuto paura a sostenere una conversazione. Nemmeno davanti a loro padre, nemmeno quando era in ginocchio e i capelli cadevano e cadevano al taglio netto del tanto.

 

Yashi sospirò e si lasciò ricadere sul futon. Il frinire delle cicale e quel silenzio pesante. Yashi avvertiva la stanza pesargli addosso, contorcersi e rimpicciolirsi a volerlo inghiottire. E non ce l’aveva, la forza, per alzarsi o solo mettersi seduto, puntare le mani e urlare forte, molto forte, che non gli bastava un ho deciso così, come risposta. Non avrebbe mai potuto trattenerlo, e sentiva un ringhio roco e fondo montare in gola a quel pensiero; ma l’idea di lasciarlo andare così era ancora più insopportabile. E, si sorprese a pensare, non accettava che suo fratello potesse preferire una yasha a lui. Si coprì gli occhi col braccio. Shin lo avrebbe lasciato rimuginare tranquillo; avrebbe aspettato anche tutta la notte, seduto sull’engawa. Aspettato.

Se suo fratello rinunciava anche a poter vedere Homoe-hime doveva davvero tenerci, a quel loro colloquio. Yashi arricciò il naso. Homoe-hime; Homoe-sama; Homoe-san. Homoe. Homoe. Homoe. Non lo sopportava più, quel nome. Non ne sopportava il suono; non tollerava la presenza ingombrante e minacciosa che evocava sempre. Riusciva a guastargli l’umore in un attimo. E, soprattutto, non gli piaceva come lo pronunciava suo fratello. Shin aveva scosso le spalle, quando glielo aveva fatto notare. Vedi cose che non esistono aveva detto. Ma Yashi no; Yashi era sicuro di essere troppo impulsivo e poco propenso all’attesa, ma nessuno lo avrebbe convinto di essere stupido. E di aver iniziato a sognarsi le cose. Soprattutto se il qualcosa riguardava Shin. Ed erano anni che non sentiva aniue pronunciare il nome di una yasha in quel modo; quasi assaggiando ogni suono e abbassando il tono di voce. Di poco, vero. Un’inflessione impercettibile, perlopiù. Nessuno se ne sarebbe mai accorto. Ma Yashi non era nessuno. E la voce di Shin-oniisama la conosceva bene. E quando parlava di Homoe-hime Shin era contento. E Yashi non riusciva a digerirlo.

 

Soffocò un verso a metà fra un singhiozzo e una risata. Possibile? Avrebbe davvero potuto…Ma no! Che assurdità! Insomma: non era un bambino; e Homoe-sama non sarebbe stata la prima. Cosa c’era di diverso? Non era la prima per Shin; e nemmeno lui non era estraneo ad un simile interesse. Perché mai avrebbe dovuto essere…Yashi inghiottì rumorosamente. Non riusciva nemmeno a pensarla, quella parola. Era semplicemente impossibile. E Shin, allora, come avrebbe dovuto reagire quando lo trovava fra le braccia di una yasha? Cosa avrebbe dovuto fare? No. Non era possibile. Si stava sbagliando. Non voleva che Shin andasse; e basta. Con o senza Homoe-san Yashi non voleva che suo fratello lo lasciasse. Era quello; solo quello.

Perché. Perché…Yashi lasciò scivolare la mano attorno al collo. Il sangue martellava nella giugulare, rimbombava nelle tempio. Correva veloce, il sangue. Troppo veloce. Yashi si scoprì in agitazione, si accorse delle mani sudate e attraversate da un tremito leggero; quasi la debolezza di una malattia che serpeggia nella carne e si irradia, con sadica lenta studiata lentezza. Cercò di riprendere padronanza di sé; un respiro, due, tre. Con calma: inspirare; trattenere il fiato; espirare. Va bene. Daccapo. Inspira di nuovo. E ripensa.

Shin vuole andarsene. Va bene. Shin vuole lasciarlo a Nihon, come principe. Va bene. Lui non vuole. È una certezza. Perché. Perché non si sente pronto, ecco. Perché è egoista. E perché…

 

“Vuoi portare Homoe-san con te, vero?

Adesso che c’è lei, io sono di peso, giusto? Ti vuoi disfare di me. Ma io…”

 

“Homoe-san non verrà con me”

 

Il labbro si increspò appena, in un sorriso a metà fra il sarcasmo e l’autocommiserazione. Shin avvertiva la sorpresa che attraversava suo fratello; lo vedeva: la bocca socchiusa, mentre le parole si spegnevano e diventavano respiro sempre più lento e trattenuto; le mani bloccarsi, fermarsi nel gesto frenetico che sempre accompagna Yashi quando parla. Una gestualità forte, accesa che doveva essersi pietrificata; e le mani e le braccia, ferme, fanno male, sono pesanti. Ecco: adesso le aveva fatte ricadere e le teneva inermi lungo il corpo. Ci avrebbe messo ancora qualche istante ad assorbire quelle parole. Perché, Shin ne è consapevole, non è da lui rispondere in quel modo. Non è da lui affrontare un argomento delicato come quello; se Yashi in passato gli chiedeva delle sue amanti, Shin taceva o sviava il discorso. Era consapevole che suo fratello sapesse, ma non confermava né smentiva. Era una delle regole per Shin: riservatezza, chiunque fosse stata la compagna.

Non era da Shin una presa di posizione precisa, un’ammissione che, Yashi se ne accorse, non era stata gettata lì solo per troncare il suo sproloquio. Shin-oniisama non parla oltre il necessario; non concede mai più di quello che vuole. E voleva che lui sapesse quello: Homoe-san non andrà nel Continente. Per il momento, almeno.

Yashi si stropicciò gli occhi. Aveva imparato con gli anni a leggere dietro le semplici parole di suo fratello; una sola frase di Shin poteva contenere più di un significato, e talvolta il messaggio vero non era quello che appariva più lampante. Quindi: Shin non sarebbe partito con Homoe-san. E i motivi potevano essere due: Homoe-san lo aveva rifiutato o Shin-oniisama non glielo aveva chiesto. Non ancora, almeno. Yashi sperava nella prima, ma razionalmente era più propenso a scegliere la seconda ipotesi. Il punto, però, restava: Shin se ne andava, e lo lasciava lì. E Yashi non riusciva a capire perché.

 

“Perché, oniisama? Per una volta, dimmi perché”

 

Shin sospirò e ruotò sulla posizione seiza; aveva un’aria così formale e compita, un’austerità antica e capace di soggiogare anche in quelle vesti semplici e quotidiane che Yashi avvertì l’impulso di assumere un atteggiamento più formale e di abbassare gli occhi. Ma non lo fece; aveva sempre guardato suo fratello in faccia, e avrebbe continuato a farlo. Il rispetto lo aveva sempre dimostrato in altri modi, e Shin lo sapeva. Era inutile, era ipocrita, cambiare così, all’improvviso. Solo per la stupida idea di impedirgli così di parlare e poterlo, in qualche modo, fermare. Incatenare. Come se il non pronunciare la sua decisione la vanificasse, l’annullasse. Yashi sospirò e cercò comunque di incrociare le gambe e ottenere una maggiore stabilità. Va bene: era pronto a parare il colpo.

 

“Sai cos’è un principe, ototo?”

 

Yashi strinse gli occhi. Che razzo di domanda gli faceva, adesso? Certo che sapeva cosa fosse un principe. Shin era un principe; e anche Sesshomaru-sama. E lui sarebbe diventato principe se Shin gli lasciava il Kansai. Certo che sapeva cosa fosse un principe: era il vertice del clan, il membro primo della stirpe, l’erede di una dinastia pura e antica. Il discendente diretto degli youkai che avevano abitato la terra appena l’ultima goccia d’acqua cadde dalla lancia di Izanagi. Era il perno attorno cui rotavano loro inoyoukai, il fulcro, il modello. L’essenza.

Yashi arricciò le labbra in un ringhio di insofferenza. Non aveva né la voglia né la forza di reggere uno degli estenuanti ragionamenti cervellotici e contorti di suo fratello. Gli aveva chiesto una cosa, e una sola, e voleva una risposta chiara, precisa. Concisa. E invece, Shin stava sorridendo della sua impazienza, delle sue parole snocciolate con noia, ripetendo una nenia, una cantilena insegnata fino allo sfinimento.

 

“Devi ancora crescere, ototo.

Ma sono sicuro che imparerai cosa significa essere un oujisama

 

 

*****

 

 

Era una sensazione strana; quasi malinconia.

I fianchi stretti contro il pelo lungo e soffice; il ritmo del cuore e del respiro che palpita sotto le mani, strette al garrese; e il vento. La sensazione di libertà e fresco e istinto che si mescolava nell’aria sbattutagli in faccia, assieme ad un odore pungente, quasi selvaggio. E poi…Cos’altro c’era, di diverso? C’era il suo cuore. Il ritmo innaturale e prolungato; il battito cadenzato e l’affanno; la sorpresa della bocca socchiusa nel cercare di regolarizzare il respiro, di calibrare energia e sforzo, di equilibrare l’opposizione del corpo all’aria e l’appiattirsi sul dorso del lupo.

 

Koji socchiuse gli occhi.

Era diverso. Completamente diverso. Sentiva ogni fibra del suo essere palpitare e fremere e vivere. Sì, vivere. Come se riconoscesse le sensazioni, come se riuscisse a percepire, nonostante il movimento veloce e frenetico, ogni atomo della vegetazione che scorreva in fretta, quasi macchia indistinta. Eppure. Eppure erano anni che non montava un lupo, sempre che lo avesse mai fatto, da cucciolo. Era avvezzo a cavalcare gli stambecchi e i cervi. Sul Continente, una volta, aveva tentato di domare anche un kirin, senza molto successo. Ma un lupo. Un lupo no, non aveva mai immaginato di poterlo, volerlo, cavalcare.

Eppure era stato tutto così naturale; istintivo. La mano che si allunga al naso umido e fremente; la sensazione di attesa e fremito che si era irradiata in tutto il suo corpo mentre il lupo lo annusava e lo valutava. E Koji si era scoperto in trepidazione, ansioso di conoscerne il giudizio e improvvisamente impaurito di un possibile rifiuto. Il lupo però aveva solo soffiato forte, scosso la testa grande e squadrata e si era limitato ad offrirgli il dorso, mansueto, quasi avrebbe detto onorato. Salirgli in groppa, appiattirsi sul suo dorso, scendere con una mano ad accarezzargli il collo forte e i muscoli attraversati dal desiderio di correre era stato un tutt’uno, immediato e istintivo.

 

Con i cervi e gli stambecchi è diverso. La schiena, in primo luogo. La schiena la devi tenere eretta, ma le spalle vanno rilassate; stringi le gambe e lasci che il busto assecondi il corpo della cavalcatura. La testa, infine. La testa dritta e gli occhi ben fissi in avanti. Mai guardare in basso; mai scappare dalla strada: si guarda solo avanti. E senti il fremito dei muscoli che scattano; avverti il loro contrarsi nello sforzo e il respiro si trasmette nelle briglie e nel morso. Devi imparare a essere dentro il cervo o lo stambecco, e allora saprai cavalcarlo. Saprai domarlo.

Con quel lupo era stato diverso. La schiena che si curva e la simbiosi quasi naturale, immediata. Koji si accorse di sapere cosa dire per incitarlo, che parole (ma erano davvero parole?) usare per impartigli ordini, come tranquillizzarlo e trasmettergli la sua euforia. E più il tempo passava, più la corsa proseguiva, più la sensazione di completezza e di pienezza si irradiava nel suo corpo, saliva dallo stomaco e stringeva i polmoni pieni d’ossigeno.

 

Koga sorrise, mentre stringeva i fianchi del suo lupo e lo incitava a raggiungere il compagno. Chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni l’aria fresca e umida della foresta di bambù. Nelle ultime settimane, restare confinato a palazzo era stato estenuante. Scalpita e desiderava più di ogni altra cosa trovare una scusa per evadere e mettersi in caccia. Non gli interessava cosa potesse essere la preda. Un cervo, un cinghiale, andava bene anche un coniglio. Ma voleva l’odore della terra nel respiro, gli artigli sentire ogni più piccolo filo d’erba piegarsi al suo passaggio, i sensi tesi allo spasimo a captare il minimo movimento e quel rivolo di sudore scendere sulla pelle accaldata e immobile in un brivido intenso di piacere. Le zanne schiudersi in un ghigno e scattare e afferrare e affondare. Il sangue riempire violento e caldo la bocca, scendere a grattare la gola e colare lungo il mento. La carne offrire debole resistenza e cedere; lo strappo netto dei fasci muscolari ripetersi ancora e ancora nel silenzio della caccia, mentre assapora la preda, la sua preda.

 

Se lo era immaginato tante volte; il degno coronamento di quella piccola fuga che, lo sapeva, prima o dopo avrebbe fatto. Adesso, invece, non gli interessava nulla di caccia, prede e adrenalina che sale nell’attesa e nell’agguato. Adesso Koga aveva solo la figura di suo fratello a riempirgli la testa: il corpo che assecondava i movimenti possenti e armoniosi della sua cavalcatura e gli ordini diventare sempre più sicuri, in un suono basso e gutturale, quasi roco, che gli riempiva il petto di orgoglio. Probabilmente non se ne accorgeva, ma Koji stava lentamente ricordando la sua lingua originaria. I ringhi sommessi si facevano via via più sicuri e fermi; gli ordini scanditi con sempre maggior autorità e fermezza. Koji stava ricordando, stava riacquistando la sua identità di ookami. Ma, Koga lo sapeva, era un processo che richiedeva ancora tempo. Molto tempo. Appena si fossero fermati, Koji avrebbe ripreso a esprimersi normalmente, senza nemmeno ricordarsi di aver usato un’altra lingua, un’altra impostazione vocale.

 

Non importava.

Per una volta, per suo fratello, Koga era disposto a imparare cosa fosse la pazienza. Era rassegnato ad ascoltarlo raccontare della sua vita sul Continente, di ricordi che non avrebbe mai voluto conoscere e di una vita diversa e lontana, molto lontana. Era disposto anche a parlare con quegli inuyoukai che lo avevano allevato e che Najiya chiamava fratelli.

Koga strinse con stizza il pelo del suo lupo, digrignando i denti in una smorfia frustrata. Si era sentito ribollire il sangue nelle vene quando aveva trovato al capezzale di Najiya Shin-san. Forse era stata solo la stanchezza a impedirgli di reagire con veemenza e lo aveva costretto solo a ringhiare un vattene disperato e perentorio. E Shin-san aveva piegato la testa, indugiato sul volto pallido di Koji e se ne era andato. Senza dirgli una parola; senza disprezzo o alterigia. E Koga aveva sentito tutta la rabbia e l’adrenalina scendere davanti a quella ritirata dignitosa e così austera.

 

Aveva immaginato di dover combattere, per riavere suo fratello. Aveva pensato alle discussioni, agli scontri non solo verbali, alle urla che, lo sapeva, ci sarebbero state. Aveva immaginato di dover far valere a forza la sua autorità, forse anche a dover ricorrere al titolo e alla posizione che gli erano proprio. Mai, nemmeno nelle sue previsioni meno accese, aveva mai pensato di ritrovarsi semplicemente seduto accanto al capezzale di suo fratello, lì dove fino a pochi istanti prima sedeva un altro demone, un altro youkai che Najiya aveva a lungo chiamato aniue.

 

Invece. Invece tutto era avvenuto in modo naturale, quasi necessario.

Homoe-san che gli si avvicina appena rientrato dalla battaglia; le veloci parole scambiate con Ayame e la certezza di lasciarla in mani sicure perché fosse medicata. Era cresciuta, la sua piccola Ayame. Koga l’aveva guardata allontanarsi, il passo un po’ claudicante e una mano a comprimere la ferita al seno; aveva visto il braccio spazzare l’aria e allontanare chiunque cercasse di offrirle appoggio e il mento alzarsi altero e irriverente, il viso accennare di lato e indugiare su di lui, con gli occhi languidi attraversati da orgoglio e stanchezza. La sua piccola Ayame.

No, non era più la piccola Ayame. Koga se ne era accorto in quell’istante: mentre i capelli scarmigliati e sporchi di terra e sangue assecondavano il movimento elegante della testa e lasciavano scoperta, per un istante, la nuca flessuosa. Lì dove l’aveva morsa; lì dove le aveva impresso il suo marchio. E Ayame non era stata più la bambina, non era stata più il cucciolo con cui scherzare, con cui giocare a rincorrersi. Ayame era diventata altro: e Koga aveva avvertito prepotente il desiderio di stringerla lì, nella piazza d’armi, davanti a tutti. Stringerla, baciarla e recidere i pochi lacci che ancora supportavano la sua corazza lacera.

L’avrebbe spogliata lì, davanti a tutti, strappando ornamenti e pelliccia bianca. E poi. Poi l’avrebbe avvolta nel suo mantello, nei colori del suo clan. E Ayame non sarebbe più stata la bambina; Ayame sarebbe stata la yasha. La sua compagna.

 

Era stato il capogiro violento e il sangue che era rifluito improvviso al cuore a impedirgli di muovere un solo passo e a costringerlo a guardarla allontanarsi verso uno dei palazzi di Sesshomaru-sama. Forse sarebbe anche stato costretto a piegare un ginocchio a terra, tanto le forze fluivano veloci dal corpo assieme al sangue e all’eccitazione che scemava. Aveva vinto, ma non era stata una battaglia facile. Dopo che Sesshomaru-sama aveva lasciato il campo di battaglia, lo scontro si era protratto ancora per ore e solo alle prime luci della sera i suoi lupi erano riusciti ad avere la meglio dell’ultimo drappello che resisteva.

Koga si lisciò le labbra e strinse gli occhi. Gli sembrava di risentire in bocca il gusto del sangue; la terra secca e la polvere invadergli la gola e rendergli fastidioso il respiro. E la ferocia e la follia montare al cervello quando, proprio all’ultimo, un kamaitachi era scivolato fulmineo oltre la cerchia di lupi e aveva aggredito Ayame. La sorpresa invadere il viso della yasha mentre scivolava a terra, i koshi-ate spezzati e il sangue che sprizzava copioso da una ferita profonda e sottile come il taglio della katana. Era stato un attimo: la distrazione e la sorpresa di un istante e il kamaitachi aveva sollevato il vento e puntato alla gola, incontrando invece il braccio che Ayame aveva alzato a riparo per istinto. Gli artigli graffiare e stridere sulla corazza, infrangerla e affondare nella carne tenera del seno, mentre i denti premevano e stringevano attorno all’osso che andava incrinandosi.

Il vento acquietarsi un istante in un silenzio innaturale, i piccoli occhi neri del kamaitachi assottigliarsi per l’improvviso silenzio e poi aprirsi nell’improvvisa consapevolezza del pericolo; il corpo scattare trascinando gli artigli nella carne viva del petto e nell’urlo di Ayame che aveva riempito le orecchie di Koga. Il kamaitachi aveva avuto forse il tempo di scorgere l’iride di Koga virare all’oro prima che gli artigli dell’ookami affondassero nella gola e tranciassero di netto la testa.

 

Aveva pagato; quel demone aveva pagato con la sua vita l’offesa e il sangue di Ayame. Koga aprì e chiuse la mano, accarezzandosi il palmo con il artigli. Era stata una sensazione strana: non era certo la prima volta che uccideva, ma dilaniare quel kamaitachi era stato assieme liberatorio e frustrante. E più strappava e avvertiva pelle e viscere impigliarsi nelle mani e poi subito sfuggire, più la testa gli urlava, continua, non smettere, non perdonare. Erano state le braccia di Ayame e la sua voce contro la schiena a risvegliarlo da quello stato catatonico, ritrovandosi inginocchiato nella terra ormai rossa di sangue e cosparsa di resti di carme e ossa. Uccidere va bene; uccidere è normale per uno youkai, ma Koga si era fissato gli artigli e si era accorto di tremare e della gola che bruciava per lo sforzo, le grida e i ringhi continui. Koga si era accorto, e la sensazione era ancora viva e pulsante nel suo corpo, cosa volesse dire avere davvero paura. E non quel timore che ti può prendere quando affronti un avversario e ti accorgi all’improvviso, per un movimento, per un accenno di sorriso, per un guizzo negli occhi, che sei con le spalle al muro e basta un errore, un minimo movimento sbagliato, e sarai morto. Non è la stessa sensazione: non ti senti braccato, bloccato in un angolo e non combatti con la testa la paura e l’agitazione che ti montano nel petto e sono pericolose perché ti portano ad agire senza pensare, di portano ad un passo dagli artigli dell’avversario. Non è la stessa sensazione, eppure il respiro se ne resta lì, annodato nella gola e il sangue rimbomba e corre e offusca i sensi e nella testa c’è solo una parola: pericolo. E sussurra e urla e ringhia e piange. E ti accorgi che devi fare qualcosa e sai esattamente cosa fare, anche se è disperato pensarlo, anche se è insensato tentarlo. Lo fai e basta, perché non ce la fai a testare fermo e pensare e valutare e quella parola, pericolo, che martella in testa fa male, è fastidiosa, e vuoi solo metterla a tacere.

 

Koga non aveva pensato, e del kamaitachi erano rimasti solo alcuni grumi pulsanti e caldi di carne; non aveva pensato, mentre aveva stretto Ayame fra le braccia, l’aveva fatta montare con sé sul suo lupo e lasciava con passo solenne il campo di battaglia. Non aveva pensato ed era rientrato a testa alta nel palazzo di Sesshomaru-sama, aveva affidato Ayame a Homoe-san e solo quando era stato certo che la yasha era ormai stata medicata e riposava nella loro tenda aveva permesso a Yaone di slacciargli la corazza e tamponare l’emorragia al fianco e ricucire il largo squarcio che gli percorreva il torace. Per l’occhio non c’era stato molto da fare e Koga si era dovuto rassegnare: non ne avrebbe perso l’uso, Yaone era stata rassicurante, ma avrebbe dovuto imparare a convivere con una vista ridotta di almeno la metà per l’occhio destro.

Scrollò le spalle e si sfiorò la benda che gli fasciava la testa e scendeva sul volto. Aveva smesso di portarla dopo nemmeno una settimana, ma Ayame lo aveva costretto a rindossarla almeno per il tempo della sua piccola fuga: l’occhio non era ancora del tutto guarito e affaticarlo e costringerlo a sopportare il vento e la polvere non gli avrebbe per nulla giovato.

 

In verità, Koga sapeva bene di essersi interessato poco o niente alla sua salute in quei mesi. Appena aveva avuto le forze per reggersi in piedi e restare cosciente, si era precipitato nelle stanze che Jacken aveva riservato ai principi del Kansai. E si era maledetto mille e mille volte per essersi dimenticato, ad un certo punto, preso dalla foga della battaglia, di suo fratello. Era rientrato a palazzo con la convinzione che si fosse ritirato insieme ai pochi demoni sopravvissuti, o che al massimo fosse stato catturato. Ma non avrebbe mai immaginato che Najiya si trovasse a palazzo, ferito e febbricitante, e che vi fosse arrivato su una barella assieme a Yashi e a Kyoko-sama.

Suo fratello. Dopo che Shin si era ritirato, Koga non aveva più lasciato il futon di Koji se non per poche ore, il minimo per sapere come si evolvessero le condizioni di Alessandra e per sincerarsi di quelle di Ayame, Inuyasha e degli altri. Aveva affidato Koji ai suoi lupi quando, dopo la fuga di Sesshomaru e la partenza di Inuyasha, i demoni della corte avevano usato violenza ad Alessandra e lui aveva solo potuto restare immobile in mezzo al corridoio, gli artigli conficcati nella carne e il labbro stretto fra i denti per tentare di dominare la voglia di saltare alla gola di quegli inuyoukai. Ma c’era la bambina: Rin con un artiglio premuto alla gola e terrore e suppliche negli occhioni dilatati.

 

L’aveva tenuta un po’ con sé, dopo quel giorno terribile. La prendeva per mano e si faceva accompagnare nella stanza di Najiya. Diceva che era per distrarla, ma in realtà Koga ammetteva a se stesso che la presenza di Rin era un espediente comodo e sicuro per non restare troppo da solo con suo fratello. Koji aveva ripreso conoscenza, e lentamente stava anche recuperando le forze. Le sue ferite si erano rivelate meno gravi del previsto e la debilitazione cui il suo corpo era stato preda andava pian piano scomparendo.

Koga strinse con forza il pelo della sua cavalcatura e la spronò lungo il pendio erboso, nella nebbia leggera e pesante che saliva dalle risaie deserte. Restare con Koji significava o parlare o restare in silenzio, ed entrambe erano soluzioni che Koga non si sentiva pronto ad affrontare. Parlare voleva dire essere disposti a mettersi in gioco, ad ascoltare parole che, lo sapeva, gli avrebbero fatto male, e il silenzio sarebbe stato un logorio forse peggiore. Con Rin, invece, era come se cercasse di riabituarsi alla voce di suo fratello. Najiya era affabile con la piccola ningen, l’ascoltava parlare e parlare e rispondeva alla sua curiosità, ma c’era sempre quello sguardo che scappava, che si rifiutava di fermarsi sull’ookami e preferiva fissare cocciuto le venature dei ramma. Non accadeva spesso che Rin si allontanasse, ma quando succedeva Koga si era accorto del crepitare dell’aria e della sensazione di attesa che riempiva la stanza. Sapeva di dover esser lui a fare il primo passo, a cercare di intavolare una discussione; sarebbe stata sufficiente anche solo una domanda neutra, così, per avviare il discorso e cercare di entrare un po’ in confidenza. Le poche volte che Najiya era stato costretto a rivolgergli la parola lo aveva sempre chiamato Koga-ouji-sama; ma quando Shin compariva discreto nella stanza per sincerarsi dei suoi miglioramenti e portargli informazioni di Yashi, Koga aveva visto il viso di suo fratello abbandonare la rigidità dell’imbarazzo e del sospetto e allargarsi in un sorriso o indugiare in una complicità intensa e familiare che lo aveva ferito. Con Shin, Najiya rideva; con Shin, Najiya ascoltava e discuteva e parlava e si fidava; con Shin, Najiya usava oniisama e quando l’inuyoukai si allontanava allungava una mano quasi a volerlo trattenere.

 

Koga strinse gli occhi e arricciò il naso. Gli dava fastidio; un maledetto fastidio. Non riusciva a sopportare quella confidenza, quell’atteggiamento di complicità e sicurezza che si veniva a creare quando era presente l’inuyoukai. Si sentiva escluso, relegato in un angolino e dimenticato. Era come se, in quei momenti, una gigantesca bolla lo avvolgesse e per quanto picchiasse, urlasse e si dimenasse la sua voce non fosse altro che un sussurro, doveva e poteva solo guardare suo fratello riprendere vigore e rimettersi e sentire sulla pelle, in bocca, nella testa, esplodere la consapevolezza che era con Shin che Najiya voleva stare; era la visita di Shin quella che aspettava, sbirciando le shoji e trasalendo al più piccolo movimento, alla più fugace ombra che si proiettasse sulla carta di riso. Non era scontroso, Koga doveva riconoscerlo. Ma c’era quel muro. Quel muro invisibile che non riusciva a scavalcare, in nessun modo. Aveva deciso di non avere fretta; sapeva che sarebbe stato da sciocchi pretendere che Najiya capisse e accettasse tutti i cambiamenti e le verità da un giorno all’altro. Avrebbe avuto pazienza, si era ripromesso; e si stava impegnando. Ma c’erano giorni in cui era stato costretto a lasciare la stanza di suo fratello per non urlare; scappare come un codardo, entrare nello studio di Sesshomaru, afferrare Inuyasha per un braccio e costringerlo a battersi. Costringere se stesso a sfogare la rabbia e la frustrazione in qualcosa che non fossero parole taglienti o strepiti. E, Koga se ne era accorto, Inuyasha sapeva e non protestava. Era diventato un rituale; o qualcosa di molto simile. Quando il non detto e le questioni in sospeso diventavano troppo pesanti e rischiavano di soffocarlo, Koga aveva preso l’abitudine di affacciarsi allo studio; Inuyasha lo vedeva, lo aspettava probabilmente, lasciava carte e scartoffie a Jacken e lo raggiungeva. Non combattevano sempre; c’erano state volte in cui semplicemente aveva camminato fianco a fianco nei giardini del palazzo, senza parlare. Koga era cosciente che non si sarebbe mai lasciato andare a plateali manifestazioni di dolore e sofferenza, ma andava bene lo stesso. C’era un tacito accordo fra loro, un modo nuovo e che cresceva piano piano di sostenersi e farsi forza a vicenda. C’erano occhiate complici e mezzi sorrisi; un pugno mimato e una battuta pungente per risollevare il morale e alleggerire la tensione. C’erano le loro litigate, le zuffe davanti ad una scodella di riso che si concludevano con i rimproveri di Kagome e Ayame e la voglia di scoppiare a ridere perché, in fondo, era un modo per dire: non siamo cambiati.

 

C’era complicità fra loro; un rapporto cresciuto col tempo e fatto maturare. Koga aveva imparato a mantenere nei confronti di Inuyasha un’avversione che era solo di facciata, quasi una corazza dietro cui trincerarsi per non esporsi e ferirsi, per conservare quel rapporto fatto di pugni e di sicurezza reciproca. Sospirò e si lasciò scivolare a terra, incrociando le braccia dietro la nuca. Il suo lupo gli si era accucciato accanto e gli offriva il fianco come appoggio, mentre Najiya accarezzava la sua cavalcatura e sembrava studiarne gli artigli e le zanne e confrontarli con i propri.

Complicità. Koga lo avrebbe voluto davvero, un rapporto di complicità con suo fratello. Recuperare la sensazione di sicurezza che ti attraversa la pelle; il sorriso che increspa le labbra nell’accorgerti che i passi che senti sono certi e conosciuti; il brivido che coglie i muscoli nella consapevolezza, in battaglia, di avere le spalle coperte. E allora, non devi più tendere i sensi al massimo, non devi più spaziare il campo di battaglia in ogni direzione ed essere pronto a scattare, perché non sai da dove potrebbe arrivare l’attacco. Allora sai semplicemente che devi guardare davanti a te, perché alle spalle hai qualcuno che ti protegge.

 

Complicità. Quando erano cuccioli, Koga ricordava il modo in cui Najiya si appoggiava a lui; c’era poca differenza d’età fra loro, ma Koga lo aveva sempre visto come un lupacchiotto spaurito. Eppure. Eppure qualcosa era successo. Qualcosa che gli aveva permesso di vedere di nuovo Najiya come un fratello, come il cucciolo che gli ruzzolava alle spalle durante le corse nei boschi, e che lo aveva spinto a proporgli quella cavalcata fuori dal palazzo. Koga raccolse un filo d’erba e iniziò a masticarlo lentamente.

Non era stata solo la sua immaginazione, ne era sicuro. Quello che era successo. Era stato istinto, certo. Qualcosa di istintivo, che ti prende lo stomaco e non ti lascia più andare. Il fremito nella pelle, i sensi tendersi e i muscoli prepararsi a scattare; l’indugio di un istante, gli occhi che fuggono indietro, oltre la spalla. Uno sguardo, forse solo un cenno, il riflesso di un movimento, e sapere che andava bene e potersi allontanare. Quasi…quasi rassicurato.

Era stato tutto così improvviso: il silenzio innaturale che aveva percepito nel dormiveglia, e poi le urla ovattate esplodergli in testa. Koga aveva riacquistato piena lucidità nello spazio di un istante e anche Najiya aveva cercato di assumere una posizione di guardia nel futon. Le shoji spalancate e gli occhi che corrono al padiglione centrale del castello, mentre la notte inizia a schiarire. E poi, quando ormai le grida sono sfumate e nella testa resta solo un’eco d’incomprensione, il fumo salire denso e nero, le fiamme lambire i tetti e frustrare l’aria con un sibilo assordante. Koga ricordava di aver percepito l’odore di Sesshomaru e Inuyasha mischiarsi a quello del fuoco e del sangue; ricordava di aver spinto indietro Najiya, di avergli ringhiato un resta qui, guai a te se ti muovi e di essersi fermato un istante a cercare una conferma: il viso di Najiya indurirsi ed un cenno affermativo.

 

Koji sospirò e si lasciò cadere accanto a Koga. Non sapeva nemmeno lui perché, mentre il palazzo centrale era avvolto dalle fiamme, mentre lo divorava il desiderio di alzarsi e mettersi a correre, aveva semplicemente annuito all’occhiata sfuggente che il Principe degli Yoro gli aveva rivolto. Un gesto di complicità che gli aveva fatto correre un brivido sulla pelle e lo aveva proiettato indietro, su un campo di battaglia sul Continente, accanto ai suoi fratelli mentre fronteggiavano un bashe. La tensione che sale, il respiro corpo e quel modo che Shin e Yashi avevano di inclinare la testa e storcere la bocca. Perché era ancora giovani e un serpente di quelle dimensioni lo potevano uccidere solo attaccandolo assieme. Koji aveva ricordato il lampo negli occhi di Shin: la katana scattare in avanti, rimbalzare sulle squame e il corpo subire il contraccolpo mentre Yashi puntava alla testa e veniva inforcato dalle corna del serpente e sbalzato indietro. E infine, la gola: coperta, molle, perfetta. Koji lasciò scorrere una mano lungo le vene del collo. Quella volta, in quella prima importante battaglia, aveva affondato i canini appuntiti senza pietà o compassione: ricordava il cuore che pulsava e pulsava e sembrava scoppiare, lo scatto dettato solo dall’istinto e dalla lucida innata consapevolezza di cosa avrebbero fatto Shin e Yashi. Era stato come se si fossero limitati a riprodurre una combinazione strategica abusata. L’attacco frontale di Shin, l’elemento di distrazione di Yashi e infine il colpo di grazia, dato da lui: Koji.

Sarebbe stato un loro cavallo di battaglia negli scontri, un loro elemento di forza: la capacità di assecondarsi in modo fluido sul campo di battaglia, di ingaggiare con naturalezza scontri singoli ma, all’occorrenza, riuscire a muoversi con la velocità e la precisione necessarie come fossero un corpo solo. Non era sempre stato lui a portare l’affondo finale, ma spesso accadeva. Shin sapeva perfettamente che suo fratello era portato per lo scatto e la corsa veloce, di natura. E aveva riconosciuto in lui da subito una propensione alla collaborazione, quasi l’abitudine istintiva di cercare e fidarsi dei compagni. Probabilmente, Koji realizzò in quel momento, Shin lo aveva sempre saputo: la sua natura di ookami non poteva essersi dissimulata in un istante e per quanto tempo Takakumi avesse impiegato per portarlo da Nihon sul Continente, doveva essere arrivato al palazzo di Morigawa con ancora evidenti i segni della sua origine.

 

Eppure. Eppure lo aveva accolto e cresciuto; lo avevano posto sullo stesso piano di Shin e Yashi; per gli youkai sotto il controllo di Morigawa, lui era il terzo principe. Più discreto di Yashi, meno portato per il comando di Shin, ma un principe, un possibile erede nel caso fosse successo qualcosa ai suoi fratelli. Koji sospirò stancamente. Se fosse successo qualcosa. Se fossero restati sul continente, se Morigawa non avesse progettato quella folle vendetta che li aveva riportati a Nihon e li aveva gettati in una guerra per una supremazia di cui Koji ancora non riusciva a cogliere appieno il peso e il significato. Se. Se. Se. Cosa sarebbe successo? Avrebbe continuato a ignorare la sua origine e sarebbe rimasto al seguito dei suoi fratelli? Oppure, prima o dopo, la sua natura di ookami si sarebbe ridestata? E, in quel caso, cosa avrebbe fatto? Sarebbe riuscito a reggere il dissidio che lo avrebbe attraversato o forse, forse…No; si sarebbe allontanato da palazzo, era ovvio. Forse non vi avrebbe più fatto ritrono e avrebbe consumato l’esistenza vagando nel Continente. È una terra così vasta e differente, con i deserti fertili di bei, gli sterminati campi di riso di nàn, il mare brulicante di dong e le vette innevate dell’xi; una terra che aveva imparato a conoscere e amare, così diversa dal piccolo Nihon, una collana di isole che salgono dal mare. Gli sembrava piccola, la sua terra d’origine, in paragone ai ricordi del continente. Piccola e finita e stupido, forse insensato, rimanerci e sperare di trovare un posto, un luogo definito.

 

Koji stiracchiò le braccia, con cautela. La spalla lussata era tornata a funzionare perfettamente e anche il gonfiore era sparito in poco tempo; nonostante le torture e gli stenti cui era stato sottoposto, doveva ammettere a se stesso di esserne uscito meno malconcio rispetto a Yashi. L’elemento più preoccupante e fastidioso era stata la febbre che non accennava a diminuire, complice anche il caldo umido e pesante di quei mesi, e che lo aveva tormentato per giorni, e le fitte di dolore che ancora gli attraversavano a sorpresa la gola ustionata, costringendolo a smettere di parlare o affievolendogli la voce fino a poco più di un sussurro. Yaone non era stata troppo rassicurante al riguardo: i tessuti muscolari si era riformati in gola già durante la prigionia, ma i continui sforzi cui le corde vocali erano state sottoposte li avevano notevolmente indeboliti. Prova ne era il fatto che, anche dopo il suo arrivo a palazzo, Koji era stato costretto più volte a vomitare sangue, tanto i tessuti interni della gola erano fragili e soggetti a rompersi alla minima sollecitazione. Con il tempo e molto riposo Yaone era fiduciosa che la youki di Koji avrebbe permesso una guarigione quasi, se non del tutto, perfetta. Per il momento, però, doveva accettare il fatto di esser costretto a limitare notevolmente la sua capacità discorsiva; e non era certo un elemento che Koji aveva accettato con sollievo. C’erano molte questioni di cui avrebbe voluto parlare, molte domande da fare e cose da raccontare. C’era da rassicurare Yashi e convincerlo a restarsene tranquillo nel futon anche se scalpitava e si dimenava all’idea di essere il solo, fra loro tre, ad essere ancora costretto ad una rigida convalescenza; c’era Kyoko, cui Koji avvertiva pressante la necessità di rivolgere domande e dubbi, possibilmente all’ombra degli aceri, nella calma dei giardini o delle sue stanze, intrecciando le mani in grembo e lasciandosi distrarre dalle ombre della sera che ne avrebbero definito il profilo sottile e austero.

 

Kyoko. Sua madre. La yasha che per tanti anni gli aveva fatto da madre.

Ecco. Quella era un’altra questione da affrontare. Un pungolo continuo nella mente, e che aveva l’aspetto fastidioso dell’ookami che, quella mattina, aveva aperto la fusuma della sua stanza senza cerimonie, lo aveva afferrato per un braccio sbraitando qualcosa che non era riuscito a capire verso Shin e lo aveva fatto montare a viva forza su un lupo, costringendolo a quella folle corsa fra boscaglia, bambù e pianura. All’inizio, Koji doveva ammettere a se stesso il sottile panico che lo aveva attraversato nel non riuscire a domare la cavalcatura; le mani che si stringevano spasmodicamente al pelo e il tentativo di appiattirsi contro il corpo dell’animale per offrire meno presa al vento e quindi alla possibilità di essere sbalzato di sella. Con il trascorrere dei minuti, però, si era accorto di sapere cosa dire e come fare; aveva percepito le sue mani muoversi con sempre maggiore sicurezza sulla pelliccia folta e la sensazione di sapere cosa fare e quando ancor prima che il cervello elaborasse l’ordine.

E Koga al suo fianco. L’ookami aveva cavalcato accanto a lui per tutti il tempo; finchè non aveva avuto la certezza che non corresse pericoli e riuscisse a mantenersi saldo, se non proprio a controllare completamente il lupo. Solo allora Koga aveva inclinato appena la testa con un mezzo sorriso e lo aveva superato, quasi invitandolo a seguirlo e imitarlo.

 

Si era lasciato andare. Avvolto dal tepore del corpo del lupo, dall’odore ferino e istintivo della sua cavalcatura e dall’aria piena di terra ed erba, Koji aveva spronato il lupo, e si era ritrovato a sorridere entusiasta e…Sì; avrebbe potuto dire felice. Appagato.

Ma il problema rimaneva. E Koji sapeva che quell’uscita non era stata dettata al principe degli Yoro solo dal desiderio di respirare un’aria diversa da quella del palazzo; un’aria che non sapeva di viziato e malumore. Se fosse stato solo per quello, Koga avrebbe potuto scegliere chiunque altro come compagno; Ayame-san o Inuyasha-sama. Avrebbe anche potuto preferire la solitudine alla compagnia; di certo, non avrebbe scelto lui solo per il piacere di trascinarselo dietro e vederlo montare un lupo. C’erano una sottile tensione e agitazione nell’aria, molto diverse dal brivido di piacere che scorre sulla pelle e scende giù, lungo la spina dorsale, al momento di uno scontro. C’era qualcos’altro, un sentimento di insicurezza misto a imbarazzo che entrambi avevano solo ritegno a definire come paura. Quella paura che ti coglie quando sai di doverti confrontare, ma sei altrettanto cosciente del fatto che zanne e artigli e abitudine al combattimento in quel frangente non ti saranno d’aiuto. Puoi solo aspettare, o deciderti ad aprire quella bocca diventata improvvisamente troppo secca e pesante e ricordarti che l’aria può diventare voce, deve diventare voce, e che le domande e i perché hai diritto di porli e di sapere. Basta anche iniziare con una battuta; forse un insulto blando, per alleggerire un po’ la tensione. Basta poco, in fondo; l’importante è evitare di guardarsi. Ecco: concentrarsi su quelle nuvole oppure sul solletico che scorre sul braccio al soffio del vento.

Non ci vuole niente, nero? È facile; è maledettamente facile.

 

“Ricordi il tuo nome?”

 

“Najiya”

 

Strascicato, quasi doloroso, sentire quel suono sfuggire dalle labbra e rimbalzare nel silenzio del paesaggio. Un nome. Un nome così diverso; estraneo. Fa male, pronunciare quel nome; fa molto male. Perché Koji lo sente lontano, lo sente nemico e forte, nel petto, il cuore batte e supplica di non togliergli anche quello, di continuare ad essere chiamato solo Koji. Come lo ha chiamato Kyoko-sama; come lo chiamano Shin e Yashi.

Koji; solo Koji.

E assieme non può ignorare: la fitta inconscia alla testa e la consapevolezza del qualcosa, di quel passato, che scivola assieme a quel nome. Ricordi confusi che col tempo riesce a riallineare; prima e dopo, giusto e sbagliato. Koji socchiuse gli occhi. Quanto ricordava esattamente del suo passato prima di arrivare sul Continente? Doveva avere circa…In anni umani sarebbero stati quattro, al massimo cinque anni.

Ricordare. Un cucciolo che caracolla incerto, rincorre un bambino di poco più grande; le mani strette al pelo di cuccioli di lupo, le risate e le cadute. Mani che lo stringono e risate infantili. Il calore di una schiena con il vento fresco sul viso e una voce adulta con una punta di ironia.

Sospirò. Strano. Ricordava qualcosa di Koga e riusciva, seppur a fatica, a intravvedere il viso di suo padre nelle pieghe luminose della sua testa. Ma. Ma sua madre? C’era solo Kyoko-sama nella sua mente, un accostamento divenuto abitudine. Ma la sua vera madre? Non riusciva a ricordare nulla; il calore del suo seno o la sua voce. Assolutamente nulla.

Strinse le ginocchia al petto. Koga continuava a suonare il filo d’erba, gustandosi il tempo che si dilatava nelle ore del primo pomeriggio, pesanti sotto quel cielo troppo azzurro. Azzurro. Come gli occhi di Hidoshi; come gli occhi di Koga; come i suoi occhi. Koji mordicchiò il labbro; sua madre aveva occhi azzurri? Non ricordava. E – e fu un pensiero improvviso- soprattutto era ancora viva? Sapeva che suo padre era morto; quando Naraku aveva riferito a Morigawa la notizia che anche un principe degli ookami combatteva al fianco di Sesshomaru-sama, sua padre non aveva avuto difficoltà dalla descrizione a riconoscere in Koga il figlio di Hidoshi. E Koji ricordava ancora nitido il giorno in cui, ancora cucciolo, era arrivata al palazzo la notizia della morte di Hidoshi-ookami-ooujisama. Ricordava il viso di Morigawa cementarsi in un’espressione furiosa per poi rilassarsi improvviso e abbandonarsi ad una risata che, Koji lo aveva sentito per istinto, era pericolosa e cattiva. Una risata che gravava nelle volte e si rifletteva negli occhi entusiasti e folli d suo padre.

Hidoshi era morto; e Koji aveva appreso la notizia per un capriccio della sorte, con la leggerezza con cui avrebbe reagito se gli avessero parlato di una guerra sui confini occidentali. Hidoshi era solo un nome, alle sue orecchie di cucciolo. Un nome rubato per caso e lasciato passare nella mente senza danno. Anche se. Anche se, a ripensarci, l’occhiata che Morigawa gli aveva ricolto dopo, con le zanne scoperte in un’espressione assieme terribile e grottesca, forse avrebbero potuto metterlo in guardia. Perché, in quello sguardo, c’era un guizzo di soddisfazione e trionfo. Perché forse Morigawa aveva sempre saputo che lui era un figlio di Hidoshi; e crescerlo e accudirlo doveva essere solo un modo per prendere una vendetta anche sul clan degli Yoro.

Forse. Forse. Forse. Morigawa non avrebbe più potuto rispondere, e Koji non voleva porre certe domande alla yasha che lo aveva cresciuto. Il passato è passato, si ripeteva. Inutile cercare; inutile sperare; inutile farsi del male. Quello che Morigawa poteva sapere, se non intuire, quello che forse sperava e progettava era meglio lasciarlo sepolto, dimenticarlo. Non sarebbe servito, Koji ne era cosciente. Poteva portare solo maggior confusione e lacerazione.

 

Lacerazione.

Non era bella, quella sensazione che gli stringeva lo stomaco da quando si era svegliato. E Koga era accanto a lui. Koga era quasi sempre con lui. E se all’inizio la gola lesa era stato un ottimo espediente per mantenere il silenzio, col tempo era diventata una costrizione snervante. Col tempo, avrebbe preferito qualsiasi parola al mutismo che li caratterizzava quando erano soli in stanza. Quella sospensione carica di attese e aspettative che veniva semplicemente abbandonata a metà strada fra di loro, dove nessuno voleva arrivare e dove entrambi speravano che l’altro lo avrebbe trascinato.

Koji accarezzo il muso del suo lupo e si concesse un respiro profondo. Koga aveva fatto il primo passo. Incerto e vacillante; ma era pur sempre un primo passo. Lo aveva trascinato fuori dal palazzo e aveva provato a intavolare un qualche dialogo. Sembrava imbarazzato e teso quanto lui, Koji ne era consapevole. Ma ci aveva provato lo stesso; e adesso toccava a lui fare un gesto, una mossa, anche solo un cenno che superasse quel nome strascicato, masticato e quasi sputato a fatica che si era lasciato sfuggire.

 

“Come devo chiamarti?”

 

Koga sentì quella domanda bruciare sulla lingua, ma ignorò il senso di nausea e soffocamento che gli avevano dato. Se voleva parlare a suo fratello, doveva trovare il modo di farlo. Se voleva stare con suo fratello, doveva poterlo fare. E se riaverlo indietro, riuscire ad avvicinarsi, significava dover sacrificare un nome, il nome che loro padre aveva scelto, Koga non riteneva che fosse una perdita troppo pesante da sopportare. Un nome si può perdere e riprendere. Un legame no. Un legame lo si deve ricostruire, e se fai un passo falso, se sbagli una mossa, puoi anche rovinare tutto.

 

“Non lo so. Ancora non lo so”

 

Koji strinse forte le braccia. Scegliere? Doveva davvero scegliere? Non poteva restare semplicemente Koji e Najiya insieme? In definitiva, quello che era diventato aveva davvero bisogno di un nome? Era sempre lo stesso, sia come Koji sia come Najiya. Non cambiava nulla, no? Poteva chiamarlo come voleva. Era solo un nome; uno stupido nome dato per convenzione. Lui restava lui. Najiya era l’ookami; Koji era l’ookami cresciuto come inuyoukai. E lo youkai che era diventato, che aveva pienamente scoperto di essere, non poteva restringersi ad uno solo dei suoi aspetti. Restare solo ookami significava tradire e perdere tutti gli anni trascorsi sul Continente; i ricordi dell’infanzia e la crescita difficile e insieme spensierata con Yashi, sotto lo sguardo di Shin. Dall’altra parte, Koji era consapevole che non poteva più essere un principe del Kansai. Shin non avrebbe obiettato; Yashi non avrebbe smesso di arrabbiarsi con lui. Ma Koji sentiva che sarebbe stato lui per primo a non riuscire più a trovare un equilibrio in quell’universo. Perché sarebbe bastato un odore diverso, un atteggiamento scivolato quasi con noncuranza, lo scatto durante una caccia o il naso che, fino, reagisce più veloce di quello dei fratelli per ricordargli che anche vivendo con loro, anche vestendosi e comportandosi come loro, per quanto si potesse inchinare e chiamarli niisama, la sua stirpe d’origine era diversa. Lui era diverso. E nulla lo avrebbe cambiato.

 

“Hidoshi-sama”

 

“Otosama”

 

Koji ingoiò a vuoto e, istintivamente, annuì. Otosama. Hidoshi otosama. Sì, suonava bene; poteva accettarlo, in fondo. Non faceva così male, non faceva affatto male. Morigawa era stato un buon padre all’inizio. Quando era ancora un cucciolo che correva per il palazzo, Morigawa aveva sempre avuto con lui lo stesso atteggiamento che con Shin e Yashi. Non voleva, non poteva, immaginare che tutto, fin dall’inizio, fosse stata solo una messa in scena per avvicinarlo a sé e poterlo usare in seguito. Manipolato, raggirato e poi ridotto a merce di scambio, ad asso nella manica. No; non era possibile. Non era vero: le mani che lo avevano sollevato quando era caduto; gli insegnamenti impartiti con serietà e leggerezza, tenendolo sulle ginocchia mentre Shin ridacchia e Yashi strepita perché non è giusto, proprio no, che sia sempre Koji a finire sulle ginocchia di otosama.

Koji morse il polso, con forza. Faceva male. Faceva maledettamente male. E i ricordi cozzavano e andavano in frantumi. Eppure. Eppure lo ricordava troppo bene: il sorriso ferino di Morigawa che si piegava su di lui, nella sua tenda; la mano che gli afferra i capelli e strattona indietro la testa. Koji si era sentito impotente e perduto, in confronto alla potenza che sentiva aleggiare attorno a Morigawa. E aveva aspettato di sentire solo le zanne conficcarsi nella giugulare, il respiro diventare rantolo e il corpo un formicolio lontano. Perché Morigawa lo voleva uccidere; perché Morigawa lo avrebbe ucciso. E loro erano stati degli stupidi a precipitarsi nella sua tenda senza pensare, senza farsi seguire da alcuni soldati, senza valutare le conseguenze. Ma era Shin lo stratega, fra di loro; loro sono quelli che agiscono e basta. Tanto c’è Shin a coprire loro le spalle; c’è Shin, e gli sbagli e le azioni troppo avventate lui le sa correggere e anche una fase di crisi la rovescia in un attimo in vittoria.

Ma Shin quella volta non era alle loro spalle, non avrebbe protetto la loro fuga. Quella volta, la tenda si era chiusa e, Koji lo ricordava, lui e Yashi avevano solo pensato a sottrarre Kyoko-sama a Morigawa. Quando avevano sentito le urla e le youki non avevano più pensato; si erano solo slanciati fuori dalla loro tenda e avevano fatto irruzione in quella del padre. Kyoko era lì a terra, scarmigliata e con le vesti strappate e ringhiava e graffiava e, anche se stordita, cercava di allontanare in tutti i modi l’inuyoukai che la picchiava e picchiava e ruggiva e premeva e strappava e pretendeva.

 

Koji ricordava il respiro che si ferma, la vista traballare e per un istante, un solo maledetto istante, tutto farsi grigio e poi nero e poi rosso. Ricorda la youki invadere il suo corpo con violenza selvaggia, i muscoli tendersi in tensione e le gambe scivolare indietro nello slancio, mentre le zanne di allungano e per istinto cercano di colpire un punto scoperto. In quel momento, mentre il corpo di Kyoko sussultava alle percosse di Morigawa, Koji era scattato e, in una frazione di secondo, aveva avuto la consapevolezza di muoversi non come gli era stato insegnato, non come per anni si era mosso, ma come un ookami. E l’istinto lo guidava: avanzava, cercando di colpire, di ferire, e subito scartava di lato, lontano dal pericolo, cambiandolo angolazione e non fermandosi mai, non lasciando a Morigawa il tempo per anticipare le sue mosse. Era istinto. Puro e semplice istinto, fuso con la sua proverbiale velocità. Scartava, graffiava, azzannava, scartava di nuovo. Sembrava combattere alla cieca, ma attacco dopo attacco era riuscito a costringere Morigawa ad arretrare e lasciare la presa sul corpo di Kyoko, di poco, ma sufficiente a permettere a Yashi di allontanare la madre.

Perché, in fondo, quello che premeva loro più di ogni altra cosa non era la vittoria, il trono o lo scontro; in quel momento, l’unica cosa che aveva importanza era l’incolumità di loro madre. Ripensandoci a mentre fredda, Koji sapeva perfettamente che quel suo modo di attaccare, quel serrare l’avversario e impedirgli di reagire prontamente era qualcosa che aveva solo sentito di dover fare, che era giusto fare, e che era la strategia migliore da applicare per permettere a Yashi di agire. Finchè c’era stato istinto, era andato tutto bene. Ma quando, con la coda dell’occhio, aveva visto Kyoko al sicuro, la distrazione e la tensione che si allentava erano stati fatali. Si era ritrovato gli artigli di Morigawa nella spalla e la pressione di tutto il peso del demone schiacciarlo a terra. Non ricordava esattamente cosa fosse successo: Yashi doveva essere intervenuto. E poi. Poi anche lui doveva aver reagito, in qualche modo. Non ricordava bene; troppo veloce; troppo istintivo.

Ma alla fine il risultato erano stati sua madre e suo fratello catturati dai demoni di Naraku che, Koji non ricordava quando, era apparso nella tenda, e il suo volto di fronte a quello del padre. E quelle parole, prima di sentirsi scaraventare lontano e perdere conoscenza. Quelle parole che gli erano bruciate dentro come fuoco; perché Morigawa sapeva chi fosse, sapeva di chi era figlio e, glielo aveva detto: lo aveva allevato solo per vederlo combattere contro suo padre e la sua stessa razza. Per diletto. Per vendetta. E quella consapevolezza, quella verità sbattuta in faccia con quel sorriso pieno e tronfio gli aveva fatto ribollire il sangue e pregare i Kami di avere ancora la forza per un ultimo attacco. Non gli era interessato cosa potesse accadergli dopo; l’unica cosa che gli premeva era colpire. Colpire e ancora colpire. Non era sciocco, ed era perfettamente cosciente della disparità di forze; eppure, nella sua testa, l’unica cosa che si ripeteva, ossessiva, era: tradito.

 

Koji sospirò e la mano si concesse di indugiare sugli occhi chiusi. Sì, poteva iniziare da lì; poteva chiedere di Hidoshi-sama, di suo padre, a Koga-san. Un passo alla volta, prendendo il discorso da lontano, distinguendo le sensazioni e iniziando ad aggiungere elementi. Un passo alla volta, risistemare le cose: il nome di suo padre, il viso di sua madre, il rapporto con suo fratello. Un passo alla volta, riesumare il passato e cercare di trovare un equilibrio con il presente. Perché rinnegare Morigawa era possibile; rinnegare un padre fasullo che ti ha allevato per divertimento è facile. Fa male, ma ce la puoi fare. Ma il resto. Tutto il resto. Tutte le certezze, i ricordi, le sicurezze. Koji non era affatto sicuro di volerli perdere o cambiare o modificare. In fondo, lo sapeva, non poteva fare altro, in quel momento, che ascoltare. Ascoltare la voce di Koga che gli raccontava della loro infanzia, che indugiava nei particolari. La luce che si infrangeva sulla roccia quando, da cuccioli, nella caverna, si svegliavano; la linea sinuosa delle labbra della madre; il portamento eretto e l’atteggiamento scanzonato di Hidoshi. L’aria che ti entra nei polmoni durante una corsa e la sensazione di dominarla, quella terra antica, mentre gli artigli si rinforzano nel tempo e impari a riconoscere dal fruscio dell’erba la preda.

 

“Assomigli a okasama, ototo”

 

La mano si era fermata sullo zigomo; Koga non sapeva esattamente cosa fare. Non sapeva nemmeno perché si fosse avvicinato a quel modo. Parlare era possibile; parlare era necessario. Instaurare un dialogo, un rapporto verbale di qualche natura. Parlare. Ma un contatto fisico. Come avrebbe reagito Najiya ad un contatto fisico? In quelle settimane, nonostante il tempo trascorso insieme, non si era mai azzardato a sfiorarlo nemmeno per sbaglio, nemmeno con una scusa. Perché…Perché. Perché aveva paura; una maledetta paura. Che reagisse male; che scappasse; che andasse in pezzi. Sì, anche che suo fratello potesse sentirsi minacciato e non reggesse alla pressione, fosse anche solo uno sfiorarsi lieve o la pressione della mano. Come in quel momento.

Eppure. Eppure non ce l’aveva fatta, a fermarla, quella mano; era risalita al viso e aveva disegnato nell’aria il profilo che sfuggiva verso il mento, il naso dritto e il contorno alto delle sopracciglia. Si era accorto di sfiorare realmente la pelle quasi per scherzo. Nella sensazione di pizzicorio e calore che aveva avvertito sotto i polpastrelli; assieme al fremito nel realizzare cosa esattamente stesse facendo; fin dove esattamente si fosse spinto.

Era stato precipitoso, va bene. Ma adesso cosa doveva fare? Restarsene lì fermo o ritirare la mano? E Najiya? Come avrebbe interpretato il suo gesto? Rifiuto, invadenza, costrizione, nostalgia…Ce ne erano troppe, di possibilità. Maledizione a lui e al suo modo di fare! Rischiava di rovinare tutto. Tutto.

 

Forse, se si fosse mosso piano, lasciando scivolare lentamente le dita; ecco, adesso abbassi gli occhi. Anzi, no; gli fai fuggire. Perché te ne vergogni, vero, di quello che hai fatto? È stupido e insensato, ma te ne vergogni. O almeno lo fingi; fingi che ti dispiaccia, che sei rammaricato. Fingilo solo, perché in realtà è stato bello, non è vero? È stato bello risentire quella pelle e dentro, nel petto, la voglia di afferrare e stringere e premere in un abbraccio montare e doversi sforzare per ricacciarla indietro e non cedere anche a quello. Anche se lo vorresti.

Va bene; fai scivolare la mani, abbassa lo sguardo. La bocca, ora. Devi aprirla, lo sai vero? Devi aprirla e dire: scusa. Va bene anche se la voce non esce. Va bene anche se non lo sente davvero. Basta il movimento delle labbra. Basta che glielo dici, che glielo fai capire. È facile Koga. È davvero facile. Devi solo provarci. Perché Najiya non si muove; e i suoi occhi sono spaventati. Perché Najiya non si muove; e tu non riesci a capire se hai davvero sbagliato tutto o se è lui che non vuole accettarlo. Ti sei ripromesso pazienza, Koga. Non venir meno all’inizio; non subito. Imparerai anche tu: i tempi di tuo fratello, i gesti che lo calmano, la rabbia che sale, la voce che cambia. Imparerai. Con il tempo.

 

“Koga-san.

Com’era okasama?”

 

 

*****

 

 

È stato interessante.

Non ha ottenuto tutti i risultati sperati, ma non può dirsi deluso. Proprio no. È riuscito ad acquisire nuove informazioni, e nonostante il tempo in cui ha dovuto assecondare le follie di quello youkai, ridendo della sua egocentrica forza, è riuscito comunque a sfruttare la situazione, rigirandola con maestria. Lo ha usato, in definitiva. E gli è piaciuto; molto. Una piccola vendetta, un assaggio di quello che, presto, potrà ottenere. Quella sensazione piena e appagante di completezza, di dominio, di potenza. È stato anche frustrante, in certi momenti. Avere quel potere lì, davanti agli occhi; vederselo sbattere in faccia di continuo e sentire, forte, premere il desiderio di allungare la mano e prenderlo. Così; con leggerezza. Con noncuranza. Perché sarebbe stato facile, stringere la corda attorno al collo. Perché sarebbe bastato un attimo, per rovesciare la partita e fare il predatore preda. Sarebbe stato facile. E non avrebbe funzionato. Per inconscia consapevolezza, non avrebbe funzionato. Perché non è facile vincere uno youkai; neanche uno youkai ormai smarrito e perduto com’era Morigawa.

 

Il labbro si sollevò malizioso, in un mezzo sorriso. Era divertito. Forse quasi sorpreso. Di come avesse avuto sotto il suo diretto controllo un esercito di taiyoukai e li avesse poi, semplicemente, fatti scivolare dalle mani. Era un esercito potente, migliore di qualsiasi altro che fosse riuscito a organizzare. Ben addestrato, assoggettato; abituato a eseguire gli ordini con negli occhi un fremito di indipendenza e servilismo. Era diverso dal suo esercito; i demoni che da sempre usava negli scontri erano pedine di poco contro, pezzi sacrificabili e che poteva sostituire con irrisoria facilità. Carne da mandare al macello; non allo sbando, certo. Anche farli uccidere doveva sempre avere uno scopo. Per quanto una pedina possa essere insignificante, meglio che si distrugga per un qualche motivo. Per un suo vantaggio.

 

Naraku rigirò la Sfera. Era quasi completa; pochi frammenti ancora, e finalmente. Finalmente avrebbe ottenuto quella completezza, quella conoscenza, quella forza che era stato costretto a riverire per mesi sotto Morigawa. Mai più si era ripromesso anni prima. Mai più si sarebbe piegato; avrebbe permesso a qualcuno, uomo o demone, di fargli chinare la testa. Mai più. Dalla sua nascita. Da quando il fuoco aveva mangiato brandello dopo brandello la sua carne umana e corrotta; da quando, immobile, non faceva altro che aspettare nella caverna umida e buia, mentre il corpo marciva e le bende e le piaghe erano fetore e ogni nervo si ribellava e la voce restata chiusa in gola, nonostante le urla rimbombassero forte, troppo forte, nella sua mente; nella caverna era morto. Ed era nato. Rinato. E aveva detto: mai più.

Perché sono i ningen che devono piegare la testa; sono i ningen ad essere sciocchi e a non capire. Sono i ningen che desiderano, e non conoscono nemmeno l’essenza del loro desiderio. I ningen non conoscono e, riflettendoci, Naraku li considerava come youkai. Perché, in fondo, entrambi sono mossi da istinti: bassi, volgari, immediati i ningen; perfetti, eterei, assoluti gli youkai. Ma è sempre e solo istinto: quella sensazione che ti scorre dentro al fremito di una foglia; il calore che ti invade nell’ira; la brama di una donna solo per continuare, per mantenere la propria vita; il desiderio di conoscere e comprendere. Sì; ningen e youkai sono uguali. Creature che anelano.

 

Naraku scostò l’eri dello yukata. Lo squarcio si stava ricomponendo, anche se ci sarebbe voluto ancora del tempo prima di recuperare completamente le forze. Ma andava bene anche così. Aveva tempo. Aveva bisogno di tempo: per riflettere. Doveva pianificare bene le sue prossime mosse; doveva individuare il nascondiglio di quello youkai di cui aveva sentito parlare da Morigawa. E poi. Poi doveva in un certo senso rielaborare tutte le nuove informazioni che aveva acquisito in quei mesi.

Perché, in definitiva, non poteva ritener sprecati quei dodici cicli lunari che aveva dedicato a Morigawa. I fucili erano andati perduti, e anche quel particolare filtro che Yaone gli aveva mostrato era ormai considerato un progetto da scartare. Doveva essergli rimasta ancora qualche fiala della mistura modificata che aveva causato la cecità a Sesshomaru, ma era comunque troppo poco per essere di reale aiuto e lui non aveva le capacità di riprodurlo. Strinse la mano e risistemò il kimono. Non era piacevole dover ammettere le proprie debolezze, le proprie mancanze, ma Naraku non era sciocco e sapeva bene che, se voleva battere i demoni, se voleva diventare uno youkai, anzi, più potente di uno youkai, una cosa che doveva imparare era riconoscere i propri limiti. Solo se fosse stato perfettamente conscio di se stesso, senza elogio e senza svilimento, avrebbe sempre potuto avere sotto controllo ogni situazione; capire fin dove spingersi, quanto osare e percepire l’istante più propizio in cui ritirarsi, in cui cedere e andarsene, senza infamia, con la consapevolezza di esser comunque riuscito a infliggere delle ferite e di aver guadagnato qualcosa: un frammento in più; una soddisfazione in più; il cogliere il sottile divario che ancora lo separa dalla piena coscienza di uno youkai e sapere perfettamente quale sarà la prossima mossa.

 

Se avesse potuto. Se fosse riuscito.

Ci anelava. Anelava quella perfezione, quella compiutezza da quando aveva riaperto gli occhi e la grotta era fuoco e l’aria era sulla pelle, fresca, con odore di cenere; da quando si era accorto che le mani erano di nuovo sue, che ogni fibra del suo corpo era stata rigenerata ed era diventata nuova, qualcosa d’altro, qualcosa di sconosciuto e appagante. All’inizio. All’inizio la parte umana, Onigumo, era ancora forte. E sentiva e percepiva e avvertiva. I sensi per prima cosa: il mondo come attraverso l’acqua, o nelle sfaccettature del quarzo. Percepiva. Sì; si era accorto di percepire in modo diverso. E c’erano suoni o forse erano voci. La prima volta, non aveva capito. La prima volta, era stato dolore e sgomento e confusione. Rumori. Tanti; troppi. Si riversavano caotici nella testa, nella bocca, nel petto. Entravano nel corpo e risuonavano, rimbombavano. Erano echi, sussurri, grida, pianti. E non serviva tapparsi le orecchie, gridare, pensare. Non serviva nulla. Quelle voci continuavano, rimbombavano, ossessionavano. Erano diventate un’ossessione, esplosa all’improvviso, dopo esser rinato. Non subito, no. C’era voluto del tempo. Forse erano solo minuti, forse erano stati giorni interi. Naraku non lo ricordava e non gli interessava ricordarlo. Gli bastava la sensazione di soffocamento, di costrizione che ne era derivata. C’era voluto tempo. Tempo per capire; tempo per imparare a filtrare e discernere i suoni. Tempo per riconoscere i suoni e scoprire che il fulmine è l’urlo del cielo, il vento il pianto degli alberi, i frutti il sorriso della terra. C’era voluto tempo, ma aveva imparato. E i suoni non erano più stati solo suoni. Erano diventati voci, parole, frasi ben articolate. Erano diventati altro, e non più un rumore continuo di sottofondo che lo aveva quasi fatto impazzire, che lo aveva costretto a piegarsi a terra, le mani strette alla testa e la bocca aperta e asciutta, senza forza per urlare ancora, senza voce per provarci. C’era voluto tempo, per abituarsi al nuovo corpo, per percepire di nuovo le distante e dare volume a quello che vedeva. Prima macchie indistinte e imprecise; poi figure deformate. Poi era stato il contorno, nitido e percorso da una specie di fluorescenza. Imparare le diverse tonalità; riconoscere il pericolo prima di vederlo; riuscire a prevedere mosse e azioni solamente facendo affidamento sulla propria intelligenza. Con la sicurezza, perfetta, di non sbagliare.

 

Ecco. Naraku non sopporta l’errore. Naraku non sopporta di non riuscire a prevedere. Non riuscire a prevedere l’atteggiamento degli youkai. Alcuni sono elementari; così immediati da plasmare e attirare che anche un cucciolo di ningen al confronto è più istintivo davanti al pericolo. Sono deludenti, ma sono utili. Per distrarre, per attirare l’attenzione, per difendere. Per ricreare il suo copro. Naraku respirò a fondo l’aria pesante della notte: Satsuki era finito da molto. Non sapeva esattamente quanto tempo fosse passato dalla battaglia con Sesshomaru e dalla morte di Morigawa. E dalla sua fuga. Ma la stagione delle piogge era passata; era venuto il caldo e l’odore pesante del riso a mollo nelle risaie. E anche l’aria ormai stava diventando più fresca. Strinse la ceramica e il guinomi gli si frantumò fra le dita, mentre il sakè gocciolava sul tatami. Era fuggito. Non era stata una ritirata strategica; non era stato un volger le spalle calcolato e ponderato, con la sicurezza di aver ottenuto qualcosa e la consapevolezza di lasciarsi dietro rabbia e frustrazione negli avversari.

Quella volta, Naraku dovette ammettere a se stesso di aver riavvertito un brivido corre nel corpo, come quando era ancora un ningen. La sottile avvisaglia di un pericolo, di una consapevolezza evidente e che non accetti subito, cui non ti rassegni nell’immediato. Nonostante il suo cuore fosse al sicuro; nonostante fosse perfettamente conscio che, per quanto venisse dilaniato, smembrato, fatto a pezzi, sarebbe stato necessario solo tempo per ricostruire il corpo.

Eppure. Eppure la testa aveva iniziato a ronzare e, dentro, ogni fibra urlava e premeva e diceva solo: scappa. Perché se ti affronta, muori. Perché lui non è come gli altri demoni, lui è diverso. Lui è qualcosa che non hai mai visto: osservalo, ma a distanza; studialo, ma al sicuro. Non hai mai incontrato qualcosa di simile. Non hai mai immaginato che esistesse qualcosa di simile. Sesshomaru. Sesshomaru era il modello: il demone da eguagliare, da osservare, studiare, e superare, mettere in scacco e dimostrargli, affondargli nella carne, la superiorità, la tua essenza completa.

Il brivido però lo aveva avvertito; ancora e ancora. Crescere fino a diventare fremito irragionevole nelle membra, fino ad accorgersi con stupore del tremore delle proprie mani e del sudore freddo e della bocca socchiusa e asciutta. Come quando aveva incontrato Sesshomaru per la prima volta. Il fremito da reprimere sotto la pelliccia, nel disagio di quegli occhi che guardano. E sapere e percepire cosa esattamente vedono, assieme alla consapevolezza di non poter ingannare uno youkai. Di non poter mentire. E allora. Allora la strategia deve cambiare. Perché raggirare un ningen è facile; ingannare uno youkai è impossibile. Allora. Allora Naraku aveva imparato: come uno schermo nei suoi pensieri. Aggirare le intenzioni incasellando azione dopo azione; imparare la velocità del ragionamento, l’abilità nel formulare e nello scartare ogni possibilità, ogni mossa, senza concedersi un’esitazione, un tentennamento. Non sotto gli occhi di uno youkai; non sotto gli occhi di Sesshomaru.

 

Quella volta.

Quella volta, invece. Se li era sentiti addosso, degli occhi. Diversi da quelli di Sesshomaru; e altrettanto pericoloso. Ma non era la stessa sensazione; non era il disagio creato dal pensiero di essere spiato, scrutato, studiato. Era come una mano. Un mano con artigli che prima volteggiava, sadica, divertita. E poi, all’improvviso, Naraku l’aveva sentita affondare nelle carni, quella mano. E scavare e scavare e sentire il sangue gorgogliare dentro il corpo e il calore andarsene dalle mani e dalle gambe. Un formicolio fastidioso serpeggiare nel corpo, e intanto quella mano scavava e scavava. O forse non era una mano; ecco: un serpente. La sentiva: la testa che spinge e spinge per farsi spazio fra i fasci muscolari e i vasi sanguigni. Ecco: adesso era nei polmoni; dentro i polmoni. E saliva ancora. In gola. No. Nel collo; da qualche parte, nel collo. Dentro il collo. Mirare alla testa. Cercare qualcosa nella testa. E il sibilo della lingua era una risata. E nelle viscere un gorgoglio fondo e il sangue uscire. Uscire anche se, lo sapeva, non aveva ferite, non aveva nulla e la pelle, sotto la corazza lucida, era intatta. E non era a terra; non si stava dimenando in preda agli spasmi e al dolore; non si stava liquefacendo. Lo sapeva. Si vedeva: era ancora in piedi, ne era certo. E guardava nella pianura.

 

Il puntino bianco alla sua destra, accerchiato. Sesshomaru probabilmente. Gli ululati e il nero di una pelliccia saettare fra il lucore delle armi. Koga degli Yoro mieteva; ovunque passava, si lasciava dietro brandelli di carne e un terreno scivoloso per il sangue. E poi. Poi c’erano loro: quei due immensi cani che si azzuffavano ad una distanza irrisoria; li poteva vedere bene.

Morigawa grondava sangue da un occhio, il muso solcato da una profonda artigliata schiumava per il veleno; sembrava come esitare e non semplicemente riequilibrare il fiato prima di un nuovo assalto. Era successo… Sì; Morigawa, se non si sbagliava, stava per conficcare le zanne nel corpo di Sesshomaru, inerme sotto i suoi artigli. Le fauci che si schiudono, la lingua che accarezza la bocca e la soddisfazione e il trionfo negli occhi. Naraku aveva assunto inconsciamente una posizione di attacco, mentre la mano lentamente si trasformava in artiglio e la bocca si socchiudeva quasi pregustasse il piacere di affondare nella carne tenera, fredda e altera di quello youkai. Aveva inghiottito a vuoto, la testa si era appena alzata tendendo al limite i muscoli, pronta a scendere in sincronia perfetta.

Morigawa era scattato. E il corpo che rotolava lontano; il guaito roco e frustrato assieme ad un rumore quasi elettrico, come quello del fulmine che si schianta a terra; o come una pioggia di sassolini rimbombare sul fondo di un secchio vuoto. Morigawa era stato sbalzato via, e Naraku si era accorto della tensione delle membra, e che sarebbe bastato un respiro a coprire la distanza che lo separava da Sesshomaru ed essere lui, proprio lui, con le sue mani, con quelle mani che Sesshomaru aveva sempre guardato con un accenno di divertita compassione, ad affondare nel petto, o nello squarcio alla spalla, e strappare quel cuore troppo altezzoso. O forse era meglio partire dagli occhi. Naraku si era passato la lingua sulle labbra, flettendo appena le ginocchia. Strappare gli occhi a Sesshomaru; sentire le sue grida, mentre l’artiglio penetra il bulbo e si stringe sul molle e tira e i centri nervosi sono recisi in modo perfetto. Lo pregustava; con una soddisfazione lenta che risaliva in tutto il corpo. Sarebbe bastato un istante. Un singolo istante.

 

Invece. Invece si era ritrovato bloccato, con quella sensazione di essere stato trapassato e di aver quella mano, quel serpente, quel…quel qualcosa a scavargli dentro. Ma lo sapeva che non c’era niente. Si vedeva: ritto, esterrefatto, tremante. Il sudore formarsi in goccioline ai lati delle tempie, sopra il labbro, nell’incavo leggero del mento. Crescere: da sensazione a corpo che scivola lungo la pelle asciutta, troppo asciutta forse, e fredda. Come non ricorda di averla mai sentita. Nemmeno quando Sesshomaru aveva fatto accuratamente a brandelli il suo corpo; nemmeno sull’Hakurei, mentre sceglieva, scartava, provava fra mucchi di carne palpitante. Nemmeno da ningen. Quella sensazione, quel corpo che è pesante e non riesci a muoverlo e lo senti tremare ma è lontano, non è nemmeno più il tuo corpo e ti aspetti solo di sentirti cadere e ti odi perché lo farai e ti detesti perché non vuoi, ma sai che non riesci a fermarti, a bloccare le ginocchia che si piegano sempre di più, l’equilibrio che ti abbandona e quel maledetto terreno farsi vicino, sempre più vicino.

Gli era rimasto solo quello: aspettare il momento. Rincorrendo un brandello di consapevolezza, di necessaria conoscenza. Scoprire perché, cosa lo rendesse così, all’improvviso…Vulnerabile? Sì; vulnerabile. Indifeso. Più di un bambino. Lui. Lui che non si era piegato nemmeno ai grandi Kami; lui che aveva creato, frammento dopo frammento, la sua strada e il suo riscatto. Oh, ci sarebbe arrivato, un giorno, al riscatto. E allora. Allora sarebbero stati gli youkai. Sarebbero stati loro a guardare alla sua essenza; alla sua perfezione. Un giorno.

Ma prima ci sarebbe stata la caduta. E Naraku aveva odiato se stesso per non aver la forza per impedirla.

 

Ma alla fine il suolo era rimasto suolo; e il corpo era rimasto corpo eretto e Naraku non era caduto. Perché quella mano che scavava e scavava, dentro, nella sua testa, e rimescolava i suoi pensieri e le sue percezioni, quella mano era sparita. Plop. L’aveva sentita: staccatasi con un rumore sordo e secco. Plop. Quando un sasso si tuffa nell’acqua. Plop. Quando schiacci la pelle secca di una cicala. Plop. Anche la sua testa aveva fatto plop. Ed era tornato a respirare, senza nemmeno sapere se davvero avesse trattenuto il fiato fino a quel momento o se anche quella fosse l’ennesima percezione conficcata a forza nella sua testa.

Plop. E Naraku si era lentamente riappropriato delle sue facoltà, mentre nella pianura i due inuyoukai lottavano e mordevano e graffiavano e i ringhi era profondi e i latrati salivano a riempire il cielo pesante. Naraku aveva respirato, a lungo; con gli occhi socchiusi e i nervi tesi. Ascoltava: il respiro sempre più pesante di Morigawa; l’aria fendersi veloce al passaggio dell’altro demone. Gli artigli strappare la carte come corteccia di betulla; i denti: nella carne e nel sangue, conficcati; e stringere e lacerare. Ascoltava: gli ululati dei lupi e i ringhi e la frustrazione dei demoni; il silenzio attorno a Sesshomaru; il sibilare del veleno nell’aria e lo schiocco della frusta nell’impatto.

Ascoltava.

Hakudoshi materializzarsi vicino all’altura; la naginata scivolare nell’aria. Il tempo. Ecco: che suono ha il tempo? Naraku lo sentiva. L’incresparsi dell’acqua. Il tremito della foglia. Il tempo ha un suono così preciso. Lo avverti nella pelle come una carezza. La mano di una donna: malefica e suadente. Il tempo seduce. Con eleganza e leggerezza; ma ti prende e ti costringe. Non puoi scappare al tempo. È come la vittoria. Sono amanti esigenti. Quando ti prendono, non ti lasciano più andare. Ti tradiscono; ti amano. Ma non ti sono fedeli. Basta un istante, e le perdi.

 

Naraku odiava il tempo. Da ningen odiava scorgere i cambiamenti del suo corpo. Le cicatrici segnare una pelle che piano piano sarebbe diventata grigia e coperta di macchie. Il viso smagrirsi negli stenti e i solchi sempre più profondi ai lati della bocca. Quelle fossette che la yotaka che una volta lo aspettava nel futon amava sfiorare, baciare, tormentare.

Naraku odiava il tempo. E nemmeno da youkai avrebbe potuto sfuggire. Lo odiava; ma aveva imparato a sedurlo. Ad assecondarlo. Perché puoi odiare quello che vuoi, ma è stupido odiare e basta. Odia, ma impara. Odia, ma manovra. Odia, e utilizza. Odia e riconosci.

E nel suono di quel tempo, nel respiro della terra e nella risata della youki, Naraku aveva ascoltato altro: lo stupore. Ed era stato come la detonazione di un fucile; come un urlo che aveva riempito il cielo ed era rimbombato per ogni anfratto. Ancora e ancora. Rimbalzato, amplificato; fastidioso. Sì; tanto fastidioso e snervante che si era deciso ad aprire gli occhi. Per vedere una ningen – no, quella ningen- rotolare a terra scomposta, Sesshomaru scattare e poi. Poi niente.

 

Perché quella mano era ritornata. E adesso aveva occhi. E lo guardava. Occhi sottili dalla pupilla affilata e tagliente nell’iride dorato. E no, non era un bel colore, quello. Non era un luccichio che si deve seguire. Anche se attrae. Come l’oro.

Naraku aveva avvertito come un rimasuglio di coscienza umana agitarsi da qualche parte, in fondo, nel suo corpo. E il brivido di interesse serpeggiare nelle mani e l’idea, folle, pazza, insensata, di allungare le braccia e cercare di prenderli, quegli occhi che sembravano due pezzi d’oro. E lasciarseli scappare era da pazzi, giusto? Anche se sapevi che qualcosa di sbagliato c’era. Perché a te, adesso, dell’oro non interessa più; perché adesso, su un campo di battaglia, di oro non dovrebbe starci nemmeno il riflesso. Eppure. Eppure quel cerchio era giallo e ti chiamava. Vieni, ti diceva. E Naraku si era accorto con orrore di volerlo seguire; e che il suo corpo era pronto a muovere ogni muscolo se solo l’ultimo spiraglio di consapevolezza si fosse zittita e fosse riuscito a relegarla in un angolino profondo e impenetrabile della sua mente. Perché quel giallo, quell’occhio, era dannazione.

Gli occhi di Sesshomaru sono gialli; la luce che, da ningen, scorgeva, accecante, fra il fogliame era gialla; le fiamme erano gialle. Le fiamme che lo hanno mangiato. E Naraku aveva avvertito il desiderio premere e spingere e la mano allungarsi e dentro, nella testa, rimbombare una voce flebile: scappa. E poi. Poi qualcosa. E si era ritrovato senza respiro e con il cielo a fissarlo. Mentre sangue, youki, vita se ne stavano andando. Mentre l’armatura crepitava e si frantumava pezzettino per pezzettino, lasciandogli sentire contro la pelle ustionata del torace ogni piccola crepa allargarsi: partire lì, dalla spalla, da dove c’era la spalla, e scendere lente, colare quasi, sull’addome. E il buco. Il buco che aveva avvertito nello stomaco. Il serpente, la mano. Quella cosa. Quella cosa era ancora lì; di nuovo. E adesso non era più solo la sensazione; adesso non era più solo la mente. Lo sentiva, netto, un peso contro il corpo. Un altro corpo; anche se, lassù, il cielo continuava a restare azzurro e attorno a lui non c’era nessuno. Ma era lo stesso. Qualcosa c’era; e premeva e alitava sul suo viso e scendeva con uno stridio sulla corazza e sulla pelle; affondava nella carne delle gambe, dentro fino a ricordargli la fragilità delle ossa che si sbriciolavano. E c’era, se n’era accorto quasi per capriccio, quell’odore nauseante, di carne che si liquefà. Prima era lontano; prima era diverso. Umano.

 

Era riuscito a far scivolare la testa di lato; nella pianura, aveva distinto il karigiru di Inuyasha, la figura bianca di Sesshomaru e la sicurezza di una terza figura, stretta fra di loro. Aveva sorriso; quasi. Perché l’aria fremeva, lo percepiva anche se i suoi sensi si rifiutavano di rispondergli correttamente; anche se la voce restava un ricordo e il corpo (lo aveva ancora, un corpo?) era solo assenza. Aveva sorriso; perché qualcosa doveva esser riuscito, in quella folle stupida insensata strategia. Qualcosa che, bene o male, prima o dopo, Naraku sapeva che avrebbe potuto usare a suo vantaggio. Doveva solo riuscire a capire cosa fosse esattamente; scoprire perché Sesshomaru se ne stesse andando, mentre, lo aveva sentito chiaramente, la battaglia ancora infuriava. Andarsene; mentre Morigawa latrava e il suo ringhio frustrato percorreva l’aria. Andarsene; rinunciando (possibile?) alla vittoria. Rinunciare a lui. Perché Sesshomaru lo sapeva che era presente anche lui, su quel campo di battaglia. Perché era stato un istante: prima che Morigawa schioccasse le nocche e arricciasse compiaciuto le labbra; prima che Morigawa scendesse in campo e la vittoria, seduttrice, gli concedesse l’ombra del successo. Era stato solo un momento; lo spazio fra il respiro che scende nei polmoni e quella sottile increspatura che attraversa le labbra. Era stato un niente; ma Naraku era persuaso che in quel niente Sesshomaru lo avesse visto, e gli avesse, di nuovo, promesso una cosa: morte.

 

Sesshomaru è fatto così, Naraku lo conosce bene.

Gli affronti non può dimenticarli; solo eliminarli. E lui, la sua esistenza, la sua irrita tante sfacciata melliflua prepotenza è un affronto. Perché gli hanyou non possono aspirare; non possono desiderare. Gli hanyou sono come i ningen; sono peggio dei ningen. E devono solo trascinare la loro esistenza senza concedersi il lusso di un pensiero, di un riscatto.

Un hanyou è un irritante fastidioso pensiero che ronza in fondo alla testa. Come il sangue che ti resta addosso dopo che la mano scivola dalla ferita; come il filo di incenso che s’insinua nella brezza calda di metà estate; come la cenere che affonda, irriverente, nel manto nevoso. Una semplice contrazione degli occhi; una macchia da sorpassare senza prestarci tanta attenzione.

 

Naraku era stato una macchia, lo ricorda bene.

Da ningen. Da Onigumo. Una macchia scura e grande nella testa della gente. Si era acquistato una discreta fama, da ningen. E quello che gli interessava lo prendeva; con la forza. Ridacchiò nel frinire assordante delle cicale. Era strano concedersi simili rievocazioni. Ma in fondo aveva tempo, no? Per una volta, non era lui a dover soppesare le mosse. Per una volta, Naraku aveva superato Sesshomaru. E il piano, il suo progetto, procedeva e si formava sempre più nitido: Mimisenri. Quando Kagura fosse riuscita a localizzarne il nascondiglio, tutti i tasselli sarebbero tornati al loro posto; e l’ultimo frammento della sfera tanto vicino da dover solo decidere quando allungare la mano e premere. Lo avrebbe stretto, forte forte; con i bordi scheggiati a conficcarsi nella carne e la sensazione del sangue che si raggruma contro la pietra. Trovarsi a fissare il taglio sul palmo, e compiacersi della sensazione di fastidio che avrebbe percorso il corpo. Sì; avrebbe goduto appieno di quell’ultimo preziosissimo frammento.

 

E intanto.

Intanto avrebbe aspettato. Perchè, se c’era una cosa che la sua rinascita come demone gli aveva insegnato, era la pazienza. Affrettarsi è inutile; e pericoloso. Da ningen si affrettava; da ningen sentiva sempre il tempo graffiargli la pelle, lì sulla nuca. Scivolare nell’ebbrezza del sake e stravolgere anche le notti più spensierate. C’erano notti, in cui cacciava la yotaka, si rivestiva in fretta e se ne andava. Ed era sobrio. Ma quelle notti, quando la gola gli si chiudeva, quando dentro qualcosa premeva e premeva e sembrava solo voler uscire e squarciava il petto e la testa; quelle notti, Onigumo le passava da solo, a fissare la luna irriverente e il cielo maledetto. Perché il tempo passava, e con lui la consapevolezza che qualcosa andava semplicemente svanendo. Naraku socchiuse gli occhi; non aveva eliminato completamente la sua memoria umana. Nonostante il suo corpo fosse stato ricostruito più e più volte, non era mai stata toccata la scatola cranica. Quasi avesse paura di dimenticare quella parte umana che tanto odiava e che aveva imparato, istante per istante, pezzettino per pezzettino, a riconoscere e che aveva estirpato con minuzia.

 

Ma la memoria restava. E c’era un demone, in quei ricordi.

Una futakuchi-onna. Ed era bella; di quella bellezza pericolosa e attraente che sa adescare gli uomini sorridendo con un lieve rossore da dietro una finestra socchiusa. Era bella, la futakuchi-onna; ed era affamata. Naraku lo sentiva ancora, il suo respiro caldo e umido, con un accenno di zolfo, scendergli in bocca e stordirlo; i capelli, troppo lunghi, troppo neri, avvolgerlo e stringere sempre di più. C’era una bocca, fra quei capelli. Una piccola linea rosata, quasi una cicatrice. Si era divertito ad accarezzarla, a ricalcarne con l’indice il contorno preciso e sottile. Quando la donna era ancora una donna; quando gli occhi erano neri e liquidi e promettevano solo piacere. Quegli occhi. Erano diventati rossi, nella sera; e lui aveva pensato ad uno strano riflesso del sole che infuocava la stanza. Li aveva trovati belli, quegli occhi rossi che si allargavano e dilatavano, con la pupilla sempre più piccola e distante. Li aveva trovati belli, e aveva riso. Perché quegli occhi erano una bocca e lo stavano assaggiando, entrando nella pelle, nel respiro, nel profondo. Occhi rossi. Naraku rise senza allegria. La sua memoria umana non era sempre spiacevole. C’erano momenti, pochi, ma c’erano, in cui il segmento che faceva capolino nelle sue elucubrazioni era accolto con sollievo. Con compiacimento, quasi. Perché era curioso osservare i ningen attraverso se stesso; e accorgersi dei progressi e dei mutamenti fatti. Ricordare. E fissare il cielo o le venature di un tronco e adesso, adesso, sapere. Percepirne il respiro e gli eterni discorsi che intessevano l’aria. Sentirli dentro di sé, con la fuggevolezza ossessiva di una cometa.

 

Erano un’ossessione, i ricordi.

Un’ossessione piacevole cui concedeva tempo. E il ricordo della futakuchi-onna era il più prezioso. Perché era stato il primo. Il primo demone che avesse davvero incontrato. Onigumo non ci aveva mai creduto davvero, agli youkai. Nei santuari ci entrava solo per rubare e di demoni ne conosceva molti, ma erano tutti di carne e di sangue e si arrabbiavano quando li provocavi e chiedevano pietà se la katana premeva loro la gola. Di demoni ne aveva conosciuti tanti, Onigumo. Ashura che un tempo chiamavano ningen, e che avevano venduto (forse davvero forse erano solo voci) l’anima a Enma.

Gli youkai. Non ci aveva mai creduto; eppure. Eppure le dita affilate della futakuchi-onna le ricordava. Premevano la gola; incidevano e lasciavano segni lividi sulla pelle, mentre le labbra diventavano cianotiche per la mancanza d’ossigeno. La stanza era diventata tutta luce; tanta e tanta luce che gli dava fastidio. E dentro lo sapeva che era stupidaggine, perché era il tramonto e il sole era già sceso dietro la costa della montagna. Era una stupidaggine. Ma quella luce lo abbagliava ancora, nei suoi ricordi (o forse sono sogni?). E c’erano occhi rossi, in fondo a quella luce. Tanti occhi rossi. E no, non era più la futakuchi-onna. Non era solo lei. C’era stato qualcos’ altro; doveva esserci stato qualcos’ altro. Perché la presa era sparita senza una ragione; perché il corpo che lo premeva a terra e la lingua si erano dissolti. Perché il tatami sapeva si chiuso e di polvere. E polvere, strana, trasparente, Onigumo se ne era ritrovato addosso tanta. Troppa perché fosse stata solo trasportata dal vento. Gli aveva fatto paura, quella polvere; negli ultimi frammenti di luce, gli era sembrato di vedere tante bocche. Labbra sottili allargarsi in sorrisi troppo piacevoli per essere inoffensivi. Ridevano. Quella polvere. Rideva. Di lui. Di qualcosa che lui non sapeva.

 

Era fastidiosa, quella sensazione. E, ripensandoci, era la stessa del campo di battaglia. Quella mano che ti penetra dentro e scava e cerca e smuove e non ti lascia finchè non è soddisfatta, finchè non ha trovato. Cosa, lo vorresti sapere anche tu. Ma Naraku, quando era Onigumo, aveva sentito solo dolore. Le viscere contrarsi e la gola bruciare e il respiro (respirava ancora?) diventare ricordo. E poi. La bocca aperta e le mani strette convulse alla fusuma, tossendo e rincorrendo il respiro irregolare, mentre il cuore batteva e batteva e non li sembrava quasi più di avere un corpo. Solo il cuore. Tu-tum; tu-tum. In gola, nella testa, nelle braccia. Perfino negli occhi, tanto faceva male tenerli aperti e fissare la macchia scura e nauseante vicino al gradino di pietra. Con addosso quella sensazione strana e il sospetto, forte, che se fosse riuscito a girarsi, se invece di lasciarsi cadere nudo sull’engawa fosse riuscito a far scivolare la testa di lato, anche solo a smuoverla un po’, ci sarebbero stati occhi rossi a fissarlo. Tanti occhi rossi.

 

Col tempo. Con il tempo aveva imparato anche a discernere i ricordi che conservava. Quelli umani da quelli degli youkai che avevano formato il suo primo corpo. Col tempo, quegli occhi rossi erano tornati. E lo fissavano beffardo e ridevano di lui e gli ricordavano che, in fondo, quello che era diventato lo doveva ad una pulsione troppo umana per non disprezzarla. Voleva Kikyo e un nuovo corpo. Voleva un corpo per avere Kikyo. Perché, anche se Onigumo non era uno sciocco, cosa significasse poter diventare altro, essere altro, che esistesse davvero qualcosa d’altro non lo capiva. Dopo la futakuchi-onna ai demoni ci credeva, ma non gli erano mai interessati. Fino a quella notte. Fino a quando il dolore per le ferite e l’impotenza, al costrizione e la frustrazione non erano diventate un miscuglio pesante e soffocante e non si erano fusi con la sua stessa carne martoriata. Quella notte, nel silenzio umido, Onigumo aveva desiderato qualcos’altro per la prima volta. Aveva desiderato un corpo che non invecchiasse; aveva anelato ad una forza che non si esaurisse nella vita di un ningen; aveva immaginato cosa potesse significare percepire più di un ningen. Mentre l’occhio sano vagava affamato sotto le bende chiazzate, l’aveva sentito. Di nuovo. Quello sguardo. Quella mano che ti prende e di schiaccia a terra. E la sensazione era diventata corpo e occhi rossi e zampe lunghe e pelose e odore. Un odore pungente e ferino che si mescolava a quello del sangue marcio, del miso freddo e della polvere. Lo aveva nauseato e lo aveva amato. Perché era una promessa e lui aveva capito; e si era accorto di aver sempre aspettato. Da quando la futakuchi-onna era diventata polvere, lui aveva aspettato. Di risentire quegli occhi trapassargli la pelle e poterli fissare. Sei occhi rossi e lucidi; grandi come la caverna, come il cielo, come ogni pensiero che gli riempiva il cervello. C’erano stati solo quegli occhi nella sua testa, per tanta e tanto tempo. E una voce senza bocca che rideva e chiedeva cosa desiderasse.

 

Perché lo tsuchigumo è scaltro, ma con Naraku non aveva più potuto giocare. Perché la risposta la vedeva e la sapeva: la leggeva nel desiderio e nella lussuria che tendeva le bende sul viso ustionato, nel fremito violento che percorreva i fasci muscolari scoperti. Naraku ricordava un sorriso. Non lo aveva visto, ma era certo che lo tsuchigumo avesse sorriso. Il sorriso di un ragazzino, di un ningen in quell’età sospesa fra l’infanzia e la maturità, quando i corpi sono sottili e acerbi e il rossore infiamma il viso e gli occhi si chinano per pudore e vergogna. Un sorriso semplice, che lo aveva fatto rabbrividire, mentre la tela che da sempre lo aveva avvolto si stringeva e gli cadeva addosso, nel suo groviglio luccicante di seta e bava calda. E lui, imprigionato in quella morsa che incideva e graffiava e sfrigolava, aveva riso. La bocca senza labbra aperta e una tosse isterica e cadenzata a confondersi con le parole. Perché aveva capito che forse si può tornare indietro; perché aveva capito che c’era ancora qualcosa che poteva fare, con quel corpo morto. Perché lo tsuchigumo lo fissava e sorrideva e prometteva vittoria. E Onigumo aveva detto hai. Mentre la carne spariva pezzo per pezzo; mentre le ossa si spezzavano in bocce grandi e affamate; mentre la voce diventava urla e la risata era un singhiozzo. E il fuoco cresceva e mangiava il sangue e distruggeva la tela e gli occhi rossi dello tsuchigumo lo fissavano e ridevano.

 

Naraku si massaggiò la fronte, prima di abbandonare la testa contro lo stipite. Lo tsuchigumo. Lo aveva raggirato con maestria. E aveva fatto in modo che lui, Naraku, non dimenticasse mai cosa fosse; a chi dovesse la sua nascita. Rigirò la sakazuki e il sake rimandò un’ombra rossa. Un cenno sulle labbra e il sapore dolciastro in bocca. I suoi occhi. I suoi occhi erano rossi. Gentile omaggio. Gentile ricordo. Li odiava, quegli occhi. Ma per quanto cambiasse il suo corpo, per quanto braccia, gambe, organi, sangue cambiassero e fossero restituiti, c’erano due cose che non era mai riuscito a eliminare: la cicatrice sulla schiena e quei maledetti occhi rossi.

Ma in definitiva sarebbero stati il suo riscatto: fissare Sesshomaru agonizzante ai suoi piedi, la sua superbia imprigionata nei lineamenti eleganti deformati dal dolore e dalla rabbia, dallo sconcerto della sconfitta. Fissarlo con quegli occhi, gli occhi che erano di un ningen e che adesso sono di uno youkai. Occhi diversi e così uguali. Perché potevano vedere le medesime cose, percepire il fremito dei riflessi nell’acqua che si increspa; la luce che si spezza in ogni singola goccia di pioggia; l’ombra che si allunga nei fiori che crescono lentamente.

 

Naraku sorrise, mentre la Sfera di smaterializzava.

Aveva perso il vantaggio acquisito con Morigawa; aveva perso un filtro capace di uccidere Sesshomaru e i fucili; aveva perso contro quella mano che lo aveva bloccato a terra su quel maledetto campo di battaglia. Aveva perso anche contro Sesshomaru. Perché il demone non aveva raccolto la sua provocazione e gli aveva semplicemente voltato le spalle, come se fosse un insetto senza importanza, di cui non preoccuparsi minimamente. Aveva perso, doveva ammetterlo a se stesso. E si sorprese della soddisfazione che sentiva crescere in fondo al petto. Perché adesso sapeva come rintracciare l’ultimo frammento della sfera; perché adesso le mosse erano ben delineate nella sua mente e, passo dopo passo, le sue mani si stringevano attorno al collo di Sesshomaru. Perché sarebbe stato presto. E Sesshomaru non si sarebbe mai più preso la libertà di ignorarlo; non avrebbe più potuto concedergli solo un annoiato cenno. Presto. Presto sarebbe diventato un’ossessione, per Sesshomaru. La prova, tangibile, concreta, sfacciata, delle sue mancanze, dei suoi limiti.

 

Cambiamento.

I demoni non conosco il cambiamento, e Naraku sapeva di poter giocare con quella mancanza. Gli youkai percepiscono l’assoluto; e l’assoluto è completezza. Perfino l’avvicendarsi delle stagioni non è altro che lo scorrere di un tempo inesistente, rannicchiato su se stesso. Avvertono il fluire del tempo, certo. Ma non dicono cambiamento. Non esiste il cambiamento. Le cose mutano, ma non cambiano. Naraku arrotolò alla mano il sigeo. Era strano. Nonostante fosse uno youkai; nonostante si fosse esercitato per anni nel sondare i ragionamenti dei demoni, ne avesse studiato le mosse e le inclinazioni, c’erano ancora delle cose che gli sfuggivano. E quella distinzione fra cambiamento e mutamento lo irritava più di altre. Perché significava, nonostante tutti gli sforzi fatti, essere ancora legato alla parte umana, ad Onigumo. Sbuffò. Per quanto estirpasse carne e cervello, per quanto cambiasse e sostituisse parti del suo corpo; per quanti scarti intrisi di parti umane espellesse, qualcosa riusciva sempre a sfuggirli e restava lì, annidata come un parassita dentro di lui. E lo fermava. Perché permetteva che il divario rimanesse; e lo schiacciava giù. Lo relegava più in basso degli youkai. Migliore dei ningen; ancora inadatto agli youkai.

 

Andava bene lo stesso.

Aveva tempo; e avrebbe imparato anche a impiegare al meglio quelle irritanti limitazioni che la parte umana gli imponeva. Se ne sarebbe liberato, prima o dopo. Lo sapeva. Sarebbe diventato come Sesshomaru e Morigawa. Anzi: migliore di loro; perché il suo cervello avrebbe continuato a cercare, a lavorare a fremere. Sarebbe stato. Sì; sarebbe stato come quel demone che lo aveva vinto sul campo di battaglia; mentre era impegnato in uno scontro era riuscito ad abbattere anche lui, con l’irrisoria facilità con cui si rompe un rametto secco. Ecco: sarebbe diventato come quel demone. Capace di elevarsi sopra tutto il resto; e avrebbe sorriso beffardo. Perché, in fondo, quello che desiderava era il desiderio stesso. Quello stupido irritante desiderio di migliorare se stesso che era diventato il centro, il fulcro unico, della sua esistenza.

 

Vendetta? Che parola irrisoria. Quella lezione l’aveva imparata dai demoni; da Sesshomaru. È sciocco cercare la vendetta; soprattutto in rapporto all’eternità che ti senti scivolare addosso. C’è l’orgoglio, da difendere. Il petto che si gonfia e la testa, altera, alzarsi a sfidare. C’è la consapevolezza da salvaguardare. E allora gli artigli si allungano; la lingua sfiora, compiaciuta, le zanne e dentro il cuore pompa risoluzione e youki. C’è la consapevolezza; non la vendetta. E uno youkai attacca per ripristinare un equilibrio incrinato, per riaffermare se stesso. Nell’istante; nella sua completezza.

 

Frustò l’aria in un gesto di stizza. Era ancora presto, ma fremeva. Perché razionalmente riusciva a percepire le differenze; le ripercorreva, precise, nella mente, le classificava e le elencava. Razionalmente, avrebbe saputo sempre cosa di lui era mutato e cosa era rimasto. Ma nell’immediato. Nell’istante in cui agiva, la linea di confine spariva e tutto ritornava confuso; troppo confuso. E l’istinto umano si mescolava alla razionalità demoniaca. Lo sapeva; e lo irritava. Perché, quando si trovava in difficoltà, la testa ragionava in fretta e i pensieri erano ancora pensieri da ningen. Mentre la sensazione di trappola si stringeva alla gola, Naraku odiava la sua testa che ripeteva e urlava: sopravvivi. Perché gli youkai non pensano sopravvivi; gli youkai pensano solo vinci. Perché di morire non se ne curano, gli youkai. Perché conosco se stessi e la propria potenza.

 

Naraku della morte aveva paura. Come un ningen.

Perché sarebbe stata la sconfitta definitiva; perché avrebbe significato dar ragione a Sesshomaru e al suo irritante sorriso di scherno. A Naraku la morte non piace; perché non la puoi ingannare. E sapeva che, non fosse stato per Morigawa e la sua rabbia feroce, o forse solo per semplice fortuna, quel demone lo avrebbe ucciso. E non avrebbe visto le spalle di Sesshomaru né i latrati singhiozzare come una risata.

Ma adesso. Adesso stava imparando. E quei cicli lunari avrebbero fruttato più di quanto si fosse mai aspettato. Era ad un passo dal vincere, adesso. E avrebbe vinto. Aveva raccolto i pezzi; aveva pianificato le mosse. Mancava poco. Così poco.

L’ultimo frammento. Ancora un frammento, e poi. Poi. Pregustava già la luce della sfera aumentare d’intensità e irradiarsi nel suo corpo. Quel calore colargli nelle membra e rinvigorire e cambiare e sconvolgere e rinascere. Forse non avrebbe più avuto quella cicatrice sulla schiena; forse anche gli occhi non sarebbero stati rossi.

Sarebbe nato. Completo, questa volta. E Sesshomaru lo avrebbe visto piegato; premuto a terra e costretto a strisciare, a riconoscerlo come un suo pari.

 

Mancava poco, ormai. Molto poco.

Naraku sorrise allo spicchio di luna. Aveva imparo che la vittoria si assapora lentamente, restituendo pezzettino per pezzettino gli smacchi subiti. Aveva imparto la pazienza.

 

  
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