Two Pairs of Chilling Eyes
21:
La Pared.
Era riuscita a smettere di
piangere, ma continuava a restare rannicchiata nel letto freddo, abbracciata al
cuscino.
Si sentiva spezzata, sfibrata,
come se quegli occhi di ghiaccio, così carichi di disprezzo nei suoi confronti,
avessero cancellato qualsiasi traccia di linfa vitale.
Vuota come quell’appartamento
spartano e freddo, quando l’avrebbe voluto riempito da almeno un’altra persona.
Che invece se ne era andata
sbattendo la porta, lasciandola sola.
Sola, come quando scappava dagli
americani che la braccavano, prima che venisse colpita da quel (benedetto) proiettile nella gamba.
Sola come a Dublino, bersaglio dei
suoi ricordi, della pioggia e della primavera umida e timida dell’Irlanda.
Sola come nell’entrata dell’Hotel
Supreme, con il fucile in braccio, mentre nella stanza di fianco si festeggiava
la nascita di suo nipote, quando lui era
venuto di persona a recuperarli.
Sola
come nella
prigione di Alexandersson, quando ormai era certa che
per lei fosse arrivata la fine, in compagnia del dolore, delle allucinazioni e
della febbre, quando lui l’aveva portata via, mandando a quel paese tutto e
tutti, pur di salvarla.
Sola
buio del coma, Sola con i test di gravidanza tra le
dita, Sola sull’aereo per e da
Nassau, Sola ad uccidere un uomo
davanti a sua figlia, Sola in quella
casa, a lasciarsi inghiottire dalle proprie lacrime.
Ed adesso?
Lo sguardo di Sergei
era stato eloquente. Disprezzo, disgusto, rabbia.
Si era voltato perché non sopportava di vederla davanti agli occhi. Doveva sparire.
La sua fiducia era qualcosa di
prezioso, liquido raro spillato per poche persone, tra cui lei.
E non era solo una questione di
fiducia. C’era di più –altrimenti non avrebbe avuto quella reazione, altrimenti
non le avrebbe lanciato quello sguardo
terribile.
Qualcosa che lei non aveva
compreso ed apprezzato sino in fondo. Che diavolo si aspettava, gesti plateali,
dichiarazioni da film?
Pensava di avere in mano della
sabbia, ed invece era polvere d’oro quella che si era lasciata sfuggire tra le
dita. E quando se ne era accorta, era troppo tardi, e il palmo era vuoto.
Stupida.
Chi è causa del
suo mal, pianga sé stesso.
Idiota.
Si alzò dal letto
come se fosse stata un automa. C’era solo una cosa da fare.
Non aveva più
senso restare in quella casa, non aveva più senso ferirsi con quelle lame
azzurre che sino a pochi giorni prima le rivolgevano sguardi molto diversi.
Aprì la valigia
sul letto, era ancora piena dei vestiti che si era portata alle Bahamas. Non li
tolse, ma la riempì ulteriormente con tutti gli altri suoi vestiti presenti
nella camera.
Poi si trascinò
nella loro camera (no, nella camera di Dragunov) a
prendere quelli che le mancavano.
Ne aveva un paio
in quell’armadio. Si fermò un attimo a fissare la divisa di ricambio di Sergei appesa.
Gliel’aveva mai
detto che quella divisa gli stava alla perfezione, e che adorava quando abbandonava il berretto sul tavolo e si sfilava al
volo la cravatta, senza smettere di guardarla negli occhi, avvicinandosi a lei?
E che quando
partiva sentiva sempre una fitta nello sterno, perché aveva sempre quel blando
timore di non vederlo tornare?
E perché solo
adesso notava che il braccio che Sergei gettava sul
suo fianco quando si addormentavano sfiniti dalla passione era diventato un
abbraccio sicuro e gentile?
Che i suoi baci
non erano solo quelli con cui divorava le sue labbra nel mezzo della passione,
ma anche quelli che percorrevano le sue mani, che saggiavano la sua pelle, che
la salutavano al mattino e alla sera?
Si sedette sul
letto.
Non aveva capito
niente, e aveva rovinato tutto.
Sarebbe stato
magnifico, se solo lei avesse fatto incrinare quella parete di ghiaccio che si
era costruita.
Perché
lui per lei l’aveva fatto.
E se lei fosse stata
un pochino meno stupida e più umana, dentro di lei ci sarebbe ancora stato un
figlio dall’uomo che…
… amava.
E avrebbe corso il
rischio di essere lasciata, di litigare, di finire nei guai, per proteggere ciò
che più li avrebbe uniti.
Ma non era stata
abbastanza forte.
Aveva bisogno di
parlare con Anna. O forse no, con Steve.
No… suo figlio stava vivendo la sua
vita magica, lontano migliaia di chilometri, perché intristirlo
o farlo preoccupare?
E Anna… ora a Nassau era notte inoltrata, svegliarla sarebbe
stata una cosa stupida.
Scivolò sul
copriletto.
Sarebbe andata al
comando e avrebbe presentato le dimissioni, chiedendo di lasciare il paese.
Si, il dopo-Sergei doveva assolutamente cominciare dall’altra parte
del mondo, senza neve e senza freddo, perché nessuno l’avrebbe
più riscaldata.
E se non le
avessero concesso di dimettersi… beh, che almeno le
dessero un altro alloggio.
Lì non poteva più
restarci.
Faceva troppo
male.
La chiave che
girava nella toppa la scosse dai suoi pensieri. Aveva passato ore e ore sul
letto, pensando e ripensando a tutti i momenti, in quei due anni, vissuti Sergei.
Si alzò di scatto,
il fiato che le mancava. Percorse lentamente, quasi come se fosse nel bel mezzo
di una missione, impegnata a non dover fare il minimo rumore,
pena la propria vita.
Nina si affacciò
alla sala, conscia che stava aprendo il capitolo conclusivo, che era arrivata
alla resa dei conti. Sergei Dragunov,
seduto sul divano, sembrava attenderla.
La donna rimase
appoggiata allo stipite, mantenendo le distanze, temendo ogni singola parola,
gesto, espressione che le sarebbe stata rivolta.
Dopo un lungo
silenzio, fu lui il primo a parlare.
“Ho pensato a
tutto quello che è successo.” Fece una pausa, guardandola vagamente, quasi
senza incrociare il suo sguardo. “E credo proprio che non si possa continuare
così.”
Nina annuì. “Hai
ragione. Chiederò al comando di accettare le mie dimissioni e di permettermi di
lasciare il paese. Oppure” Prese respiro e forza, cercando disperatamente di
cancellare quel leggero tremolio della voce: “di assegnarmi un altro alloggio.
Così non funziona, è distruttivo.”
Dragunov rimase immobile un istante, come
se stesse soppesando le sue parole, se le stesse metabolizzando, poi si
alzò in piedi, raggiungendola a passi lenti. “Vorresti davvero andar via?”
“Si.” rispose
veloce. Poi però si morse le labbra, serrando le ciglia, intrappolando le
lacrime al suo interno. Non era vero. L’unica cosa che voleva davvero era
tornare indietro nel tempo alla sera prima, anzi, alla settimana precedente,
digli subito che era incinta, parlare subito con lui e trovare una soluzione,
un accordo, qualsiasi cosa. Ma non esisteva nessun tasto REWIND da nessuna parte.
Non si azzardò ad
aprire gli occhi, neppure quando sentì il fiato di Sergei
sul suo volto e le sue mani tra le sue, le dita che si intrecciavano.
“Sono successe
tante cose, Nina, e ci siamo spinti troppo oltre. Sarebbe meglio rientrare nei
ranghi, riprendere il controllo, non trovi?”
Nina annuì di
nuovo, abbassando il volto. Il Capolinea.
Le labbra di Sergei premettero sulla sua fronte. “Andarsene, restare… La decisione spetta a te. Io la mia l’ho già
presa. E spero tu sia d’accordo.”
Sfiorò le sue
labbra con le sue, le accarezzò, le assaporò, come se fosse la prima (e non l’ultima)
volta che le sentiva sulle sue. Le sue mani si chiusero a pugno su quelle di
Nina, che tentava disperatamente di imprimere dentro di sé, nella sua mente,
nella sua memoria, il tepore di quel bacio.
Si staccò
lentamente, come se volesse prolungare quell’attimo il più possibile. Appoggiò
la fronte sulla sua. Un secondo. E poi si staccò, si voltò, riprese il berretto
della divisa dal mobile su cui l’aveva abbandonato e uscì.
Sola.
Sola di nuovo con
le lacrime che scendevano dagli occhi, con il suo profumo nelle narici e le
labbra che sapevano ancora di lui.
Fu solo dopo un
istante che si rese conto che aveva entrambi i pugni chiusi, stretti al suo
petto.
E che c’era
qualcosa dentro la sua mano sinistra. Qualcosa di duro, circolare. Una moneta, forse.
Qualcosa che Sergei aveva fatto scivolare sul suo
palmo mentre la baciava.
Nina Williams
schiuse le dita della mano. E scivolò per terra lungo lo stipite della porta,
la bocca spalancata, il cuore che sembrava esploderle nel petto.
Aveva in mano la
decisione di Sergei Dragunov.
C’era un anello
sul suo palmo.
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PAUUUURA
EH????
TEMEVATE,
EHHHH????
Ecco
il PENULTIMO (?)capitolo di questa fortunata serie!
Capitolo
molto introspettivo, triste… e anche sdolcinato. (e
OOC---soprattutto nel caso di Nina)
Scusate,
ma avevo dimenticato il sadismo giù in cantina. Lo vado a riprendere? Meglio,
eh?
Vi
ringrazio per la penultima volta, voi, miei fedeli recensori…
e anche chi ha seguito questa storia, chi l’ha messa tra i preferiti, chi l’ha
leggiucchiata e l’ha chiusa arricciando il naso…
Insomma,
tutti quelli che hanno cliccato su Two Pairs of Chilling
Eyes.
Il
titolo è una (splendida) canzone di Shakira.
Alla
prossima… ma non temete, non ho intenzione di
sparire. Non tanto presto, almeno. ;)
EC