But I'll be with you 'til the
end
I remember all the good times
Sometimes I'd wonder would it last
I used to dream about the future
But now the future is the past
I don't wanna live in
yesterday
Cross my heart until I die
Don't wanna know just
what tomorrow may bring
Because today has just begun
No matter whatever else I've done
I'm here for you
So now I sit here and I wonder
What ever happened to my friends?
Too many bought a one way ticket
But I'll be with you 'til the end
You're my religion, you're my reason to live
You are the heaven in my hell
We've been together for a long long
time
And I just can't live without you
No matter what you do, I'm here for you
Here For You – Ozzy Osbourne
« No, aspetta un attimo ».
Rachele si voltò a guardare la sua amica,
nonché compagna di banco, con un’espressione visibilmente seccata.
« Spiegami ancora perché oggi, invece di
fare ricreazione come tutte le persone normali, ho dovuto ascoltare uno Jacopo
decisamente e anche stranamente arrabbiato che mi elencava i venti motivi per
la quale non dovrebbe interessarsi a te ».
Rachele sbuffò sonoramente, continuando a
camminare decisa verso casa sua.
« Te l’ho già detto », disse. « Oggi ho
invitati a cena. E, anzi, considerando che sono le sette, probabilmente sono
già a casa. Non posso uscire con Jacopo ».
Lisa le rivolse uno sguardo di fuoco.
Rachele sospirò: dopotutto, non era certo colpa sua se quel ragazzo tartassava
la sua amica ogni qual volta avessero qualche problema.
« Va bene », disse Lisa, cercando di
mantenere la calma. « E ieri? Perché non ci sei uscita, ieri? »
« Perché dovevo studiare. Ricordi, oggi,
compito di matematica? Non posso farci niente se lui è un genio e non deve
studiare per il compito ».
Rachele fece una pausa. Davvero, non ne
poteva più di quella situazione. Avrebbe parlato chiaro, sì, conscia del fatto
che la sua amica avrebbe rivelato tutto a Jacopo per farlo stare tranquillo.
« Senti, Lisa », disse. « A me piace
Jacopo, davvero. Però è troppo oppressivo e comunque io non gli ho mai promesso
niente. Siamo usciti insieme solo una volta ».
« Mmh, è vero, te ne do atto. Comunque..
», fece, pensierosa. « Chi viene a cena da te? »
« Un’amica di mia madre con suo figlio.
Beh, sono arrivata. A domani ».
Rachele salutò la sua amica con un cenno
del capo e si avviò verso casa sua, dall’altro lato della strada. Mentre
camminava velocemente pensò che quella sera sarebbe stata noiosa come tutte le
volte che quelli là andavano a cena
da loro, ovvero una volta ogni anno.
In primis perché sua madre non faceva
altro che riportare a galla avvenimenti che erano successi quando lei e la sua
amica erano giovani. Fatti che, Rachele si chiedeva costantemente perché, facevano
morire dal ridere entrambe. L’unica cosa probabilmente buffa era lo sguardo
omicida di suo padre che, scontrandosi bruscamente con le sue sopracciglia
aggrottate, stava a dire “ridi anche tu, piccola ingrata”.
In secondo luogo, quando venivano loro a
cena c’erano delle regole ben precise. La tv doveva essere rigorosamente spenta
e Rachele non poteva alzarsi da tavola quando voleva, giusto per citarne
alcune.
Come se non bastasse, c’era il figlio di
questa donna che era un vero musone. Dunque non poteva neanche fare
conversazione con qualcuno.
La rincuorava solo il pensiero che,
probabilmente, suo fratello – Stefano, tre anni – ne avrebbe combinata una
delle sue, tanto per cambiare.
Girò la chiave e aprì la porta.
« Sono tornata », mormorò, notando che il
ragazzo si era già appropriato del suo
divano.
Oddio che
palle.
Era questo il pensiero che invadeva la
sua mente all'incirca ogni due minuti. Che palle, esatto.
La stanza era calda e un chiacchiericcio
continuo riempiva la sua mente, impedendogli di concentrarsi su qualcos'altro.
Il libro aperto appoggiato alle sue gambe sobbalzava ad ogni suo movimento, e
lui si assicurò che stesse ben fermo, tenendolo con una mano, mentre continuava
a pensare: che palle.
I suoi pensieri galoppavano, e pensava
che avrebbe potuto trovarsi nella sua stanza, a casa sua, sulla sua scrivania,
a ripetere, a sottolineare le righe di quel libro con il suo evidenziatore
giallo fluorescente, a ripassare. Con quell'esame di storia moderna, che
l'indomani mattina alle ore otto in punto l'avrebbe aspettato trepidamente
dentro una delle polverose aule della sua università, non si scherzava. Il
professore aveva l'aria di essere crudele e cinico, e lui lo sapeva. Sapeva che
non poteva essere rimandato né racimolare uno scarso diciotto. Aveva studiato,
ma c'era davanti tutta la notte per mettere a punto le ultime cosette. Ed invece,
purtroppo, non si trovava nella sua stanza di casa sua: si trovava lì, in
quella casa a lui totalmente estranea se non per quella volta all'anno in cui
ci entrava, costretto a stare seduto in quel - comodo, sì, era vero, questo
doveva ammetterlo - divano, ma impotente, totalmente fuori luogo con quel libro
sulle ginocchia, mentre davanti ai suoi occhi due donne - tra cui una molto
conosciuta, sua madre - sorseggiavano del buon vino rosso parlando allegramente
del più e del meno. Voleva andarsene, era scocciato, non sopportava quei
discorsi e il dover essere lì in quel momento. Cosa c'entrava lui se sua madre
era amica con quella donna, e se suo padre era amico con il marito di quella
donna? Non potevano lasciarlo stare? Cortesia, dicevano. E' buona educazione.
Beh, cortesia un corno. Che palle.
Un rumore improvviso spezzò le risate
delle sue donne, e lui sobbalzò. La porta dell'ingresso si era aperta e ne era
entrata una ragazza: la figlia dell'amica di sua madre. Ma come si chiamava?
Non ricordava, non aveva memoria per queste cose, e c'era da considerare il
fatto che aveva parlato con quella ragazza una volta, al massimo, e per
chiederle di passargli il pane per giunta. Alzò lo sguardo dal libro per un
secondo, osservando la ragazzina che entrava nella propria casa. I capelli
ricci e rossi le sobbalzavano allegramente sulle spalle quando si muoveva.
« Tesoro, sei tu? Ciao. » disse la donna
alla propria figlia, con un sorriso.
Gianluca
scrollò le spalle, e riabbassando lo sguardo tornò alle cause della Guerra
Fredda. Sua madre lo guardava con le sopracciglia all'insù, evidentemente
contrariata dal suo atteggiamento.
Rachele
si tolse distrattamente il cappotto e lo appese nell’appendiabiti, dopodiché
andò in cucina per salutare gli ospiti.
« Salve
», disse, dando i due soliti baci sulla guancia all’amica di sua madre. Poi,
rivolta a quest’ultima, chiese: « dov’è papà? »
«
Tornerà tardi, tesoro, ha una cena di lavoro » rispose. « La cena sarà pronta
tra quindici minuti! » disse poi, un po’ più ad alta voce per farsi sentire
anche dal ragazzo che studiava seduto comodamente sul divano.
Rachele
andò controvoglia a sedersi sul tappeto. Si diede mentalmente della stupida, ma
si vergognava realmente a sedersi sul divano, dato che era già occupato.
Un
rumore disordinato di passi e un grido capace di perforare il cervello - «
Cheeeeeeleee! » - annunciò l’entrata quasi teatrale di suo fratello che, a
giudicare da come le fosse saltato addosso facendola letteralmente sdraiare sul
tappeto, era molto felice di vederla.
« Sì,
sì, ciao anche a te », rise Rachele. « Adesso per favore levati di dosso ».
«
Facciamo un castello di carte? » chiese suo fratello, sventolandole sotto il
naso il mazzo.
« Certo
».
Rachele
si accorse con disappunto che il ragazzo seduto sul divano – Gianluca? – aveva
storto il naso.
Perché sono così sfigato?
Fu questo il secondo pensiero che attraversò
la mente di Gianluca, cancellando il primo. Sua madre si era allontana con
l'amica in cucina, probabilmente per aiutarla con la cena, ed adesso quei due
dovevano mettersi a giocare proprio davanti a lui, che aveva ben altri
problemi? In fondo erano a casa loro, ma lui era l'ospite, ed aveva sempre
ragione. O forse era il cliente ad avere sempre ragione? Beh, a lui non
interessava. Automaticamente storse il naso, anche a costo di essere scortese,
ed alzò lo sguardo proprio verso la suddetta ragazza - Chele? Ma che razza di
nome aveva, diamine? - e il fratellino più piccolo, che finché non parlava e
non dava fastidio, era adorabile. La sua voglia di fuggire si fece più intensa.
E poi perché stavano per terra? Sul divano c'era ancora posto. Non capiva, e
non vedeva l'ora che la serata finisse.
***
Quello
che Rachele non capiva – e che probabilmente non avrebbe mai capito – era
perché in casa sua dovessero osservare le buone maniere soltanto quando c’erano
ospiti. Dopo un brusco cenno del capo di sua madre, infatti, si vide costretta
a mettersi il tovagliolo sulle gambe, proprio come una brava fanciulla educata.
« Buon
appetito! » squittì l’amica di sua madre, dopo aver servito il primo piatto a
tutti ed essersi seduta. « Allora, Rachele.. » cominciò, costringendo la
ragazza ad un violento movimento del capo. « A che punto sei con gli studi? »
Rachele
ingoiò velocemente un boccone e si schiarì la voce. « Faccio il quarto anno »,
disse.
« Oh,
ma allora sei diventata grande! » la donna – che Rachele ricordò
improvvisamente chiamarsi Maria – rise insieme a sua madre. La ragazza dovette
reprimere una smorfia e mordersi la lingua per non dire “sì, di solito succede,
con il tempo”.
« Il
mio Gianluca, » continuò, facendo un cenno del capo in direzione di suo figlio
« quest’anno è all’università e indovina? Proprio in questa città! E’ stato
così difficile lasciarlo andare via di casa.. quando sarai grande e avrai dei
figli, Rachele, te ne accorgerai.. però è giusto così, bisogna lasciarli
crescere.. »
E lì
partì con un monologo sull’importanza dei figli in una coppia sposata, su
quello che faceva e non faceva suo figlio, su quanto fosse intelligente e
bravo, interrotto ogni tanto da qualche commento di sua madre - « Oh, come ti
capisco! » « Complimenti al nostro Gianluca, sei proprio un caro ragazzo! » «
Sì, è vero. Rachele quest’anno ha notevolmente migliorato i suoi voti.. » - e
reso divertente dall’espressione esterrefatta di Gianluca ogni qualvolta
dicessero il suo nome.
“Quanto
durerà questo strazio, Dio?”, pensò Rachele, alzando gli occhi al soffitto.
Gianluca sobbalzò ogni singola
volta che sentì pronunciare il suo nome. Non perché fosse imbarazzato, ma
perché era sorpreso. E anche un po' infastidito che si parlasse così di lui. In
fondo, loro non sapevano niente , niente di
lui. Quella che indossava in quel momento, era solo una maschera. Una delle
tante. E, sopra ad ogni cosa, odiava quando sua madre cominciava con i suoi
sproloqui, interminabili, e che - tra l'altro, miracolosamente - attiravano
sempre l'approvazione di chiunque l'ascoltasse. Come in quel momento.
In una maniera terribilmente lenta, la cena finì e tutti si spostarono verso
il salotto, dove venne servito il caffè. Gianluca sprofondò nuovamente sul
divano col suo libro, nervoso ma sollevato al pensiero che la cena fosse
finita.
Mentre sorseggiava il suo caffè seduta sul tappeto – e questa volta c’era
un motivo valido: sul divano si erano sedute anche Maria e sua madre -, Rachele
si chiese se quello fosse uno di quei momenti infiniti, di quei momenti che
durano per sempre.
Suo fratello era intento a fare capriole sul tappeto e a guardarla ogni
tanto in cerca di approvazione. Rachele annuiva e diceva « bravo! » ogni volta
che i suoi occhioni imploranti si posavano su di lei.
« Maria », esclamò ad un certo punto, sua madre, facendola sobbalzare. «
Non immagini neanche cosa ho trovato due giorni fa! »
« Che cosa? »
« L’album di fotografie del nostro primo anno di liceo, ricordi? Ce l’ho in
camera da letto, vieni.. »
Si alzarono continuando a parlottare e salirono le scale. Rachele sbuffò.
« Scusa? »
“Oh”, pensò la ragazza, sorridendo tra sé e sé. “Allora sa parlare.”
« Dimmi », disse, attorcigliandosi un boccolo tra le dita.
« Potrei avere un bicchiere d’acqua? »
Rachele lo guardò, e quasi trasalì scontrandosi con l’azzurro dei suoi
occhi. « C-c-cosa?! » balbettò, come un’idiota.
La ragazza rimase immobile per qualche secondo, prima di riordinare i
pensieri. Non aveva mai guardato Gianluca negli occhi. Anzi, in realtà non
l’aveva mai guardato in generale. L’aveva “visto”, sì, ma non l’aveva mai
“guardato”. Non si era mai soffermata a lungo sulla sua figura, e non aveva mai
notato che quell’azzurro fosse così terribilmente simile all’azzurro dei suoi occhi.
Riemergendo dai suoi pensieri, poi, notò che in quel momento, quegli stessi
occhi la stavano guardando con aria preoccupata.
« Tutto bene? », chiese il ragazzo, sistemandosi una ciocca di capelli
dietro l’orecchio.
« Sì, certo! » rispose lei, forse troppo velocemente, alzandosi e
rassettandosi la gonna. « Volevi un bicchiere d’acqua? E che bicchiere d’acqua
sia »
« Ehm.. ok », disse lui, scettico, seguendola in cucina.
Mentre la ragazza versava l’acqua nel bicchiere, irruppe nella stanza
Stefano.
« Cheeele! » gridò. « Guarda, in questo foglio c’è disegnato un signore con
un fucile! »
Il bambino aveva in mano un foglio strappato, e lo agitava furiosamente
cercando di attirare l’attenzione dei due ragazzi.
Rachele notò che Gianluca aveva stretto i pugni così tanto da far diventare
le nocche bianche.
« Non è possibile », sussurrò. « Non è vero ».
Era impossibile
che tutto questo stesse capitando a lui, proprio a lui.
Quel bambino,
Stefano, stringeva nella manina chiusa a pugno un lembo di un foglio del libro.
Il suo libro, che aveva lasciato
incustodito per cinque secondi, sul divano, per un bicchiere d'acqua.
Improvvisamente,
si accorse di non avere più sete.
« No, cacchio! »,
si lasciò sfuggire con poca eleganza, con un tono di voce che salì di
un'ottava. Lui non diceva mai parolacce, e se le diceva era per un solo motivo:
era veramente arrabbiato.
Rachele notò
tutto questo e cercò di rimediare in qualche modo.
« Ops, scusa! Ma
lo sai, è solo un bambino.. »
Gianluca sembrò
esplodere. « Solo un bambino? Solo un bambino?! Io, domani, ho un esame! E il
libro mi serve! » ribatté, con un tono di voce troppo stridulo.
Stefano sembrava
non capire perché il ragazzo reagisse così, e continuava a tenere il foglio il
mano. Gianluca fece qualche passo avanti e gli si avvicinò, così Stefano lo
fissò con i suoi grandi occhi scuri, come quelli della sorella.
« Vuoi vedere
anche tu il signore con il fucile? »
« No! » esclamò Gianluca, « Non mi interessa! » e
cercò di riprendersi il foglio, con una certa forza. Ma il bambino, prendendolo
per un gioco, scoppiò a ridere e scappò via, uscendo dalla cucina. Gianluca
fece una specie di verso rabbioso, e si sbatté una mano sulla fronte.
« Io al posto tuo
non ne farei una tragedia.. Mi disp-» stava per dire Rachele, ma Gianluca la
bloccò.
« No, tu non puoi
capire, e comunque non c'è bisogno che ti scusi, adesso, il danno è stato
fatto. »
Lui sapeva di non
essere per niente gentile né cortese, ma quando era troppo era troppo. Non solo
era costretto ad andare in quella casa di malavoglia, ma pure quella peste
doveva rovinargli la serata, più di quanto non fosse già rovinata? Quello era
troppo per uno come Gianluca. Per non contare che quella ragazzina - Chele?
Rachele? Mio Dio - gli stava dando sui nervi. Che ne sapeva, lei?
Rachele alzò un
sopracciglio con aria infastidita.
« Beh, scusa se
ho cercato di essere gentile. La prossima volta sarò io a dire a mio fratello
di stapparti tutto il libro, e non solo una pagina, che ne dici? »
Gianluca la fissò
dritto negli occhi con un'aria gelida e la ragazza sembrò smarrirsi un attimo.
« Non ci sarà una prossima volta» , disse a denti piuttosto stretti. Rachele
stava per ribattere, quando sulla porta della cucina fece capolino Anna, la
madre di Rachele e Stefano.
«Gianluca! »
esclamò, « Mi dispiace immensamente, ma quel tornado di mio figlio non sa
ancora come comportarsi, scusalo.. Ma è piccolo.»
Gianluca sospirò
e seppe di odiarli tutti quanti. Non rispose neanche, si limitò a scrollare le
spalle ancora una volta, e poi afferrò la pagina strappata che Anna gli
porgeva.
«Grazie,»
mormorò, « Adesso possiamo andare? » disse invece rivolto alla madre, che
seguiva Anna nel corridoio.
Era davvero molto
stanco. Non ne poteva più. E quella era l'ultima volta che sua madre lo
trascinava in quelle cene del cavolo. Mai più! Del resto, non avrebbe sentito
la mancanza di nessuno di loro.