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Autore: kiku77    05/12/2009    4 recensioni
Sanae e Tsubasa si sono sposati e vivono a Barcellona con i loro due gemellini. Sembra una favola, ma forse c'è qualcuno che ancora sta cercando se stesso...... Ce l'ho fatta........!!buona lettura!
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sanae Nakazawa/Patty Gatsby, Tsubasa Ozora/Holly
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quando fu l’ora di andare a dormire, lui la guardò in modo molto dolce e chiese: “ Ti dispiace se….?”

Per Sanae fu come una liberazione: “No,…. lo sai che piace tanto anche a me….”

Allora Tsubasa andò nella cameretta dei bambini e uno ad uno, sollevandoli senza svegliarli, li portò al centro del loro letto e vi si sdraiò accanto. In quel momento  le si gonfiò il petto e pensò a quanto fosse bella quell’ immagine, di lui così protettivo verso i suoi bambini. Ormai non riusciva a immaginarsi lontana da loro, al di fuori di quel quadretto familiare. E sentiva che non era per niente un quadretto scontato: sentì che era autentico e che aveva lottato tutta la sua adolescenza per arrivare fino a lì.

 “Allora perché ho tanto male dentro?Che cos’è quest’ inquietudine? Perché mi sto sentendo così?”

Andò in bagno e pianse, cercando di non farsi sentire.

 

Non riuscendo a chiudere occhio, scese al piano di sotto dove aveva portato le ultime cose da infilare in valigia e cominciò a mettere a posto. Pulì i mobili e la cucina, mentre i goccioloni le rigavano il viso. Ogni tanto le veniva un sussulto e pensò che più tardi si sarebbe sentita meglio. Si fece il tè quando ormai era l’alba e si addormentò dopo poco sul divano.

Tsubasa, sentendo la sveglia suonare e vedendo che lei non c’era, si allungò per spegnerla. Scese di sotto sbadigliando e la trovò già vestita, in piedi, al suo posto preferito, di fronte alla finestra della cucina. Uno spiraglio di luce le filtrava fra il braccio e il fianco sinistro, facendo risaltare il contorno del suo corpo. Al pensiero di toccarla, gli saliva dentro una specie di ansia, proprio come quando doveva scendere in campo. Lo stesso stato d’animo; lo stesso impulso cardiaco. La salutò abbracciandola in vita e spingendola affinché si girasse. La baciò sulla bocca, poi sugli occhi e giù sul collo chiedendole quando si fosse svegliata.

 

“Molto presto. Ho già preparato tutto, così dobbiamo solo occuparci dei bimbi…..”

“Sembri molto stanca. Vedrai che in Giappone ti potrai riposare: i nonni faranno a gara per tenere i nipoti, così potrai dedicarti un po’ a te e magari compriamo anche la casa questa volta, eh?”

Già.. la casa… era la seconda volta che avrebbero provato a comprare una casa tutta loro in Giappone. L’anno precedente non erano riusciti perché Tsubasa era stato sempre via, prima con la nazionale, poi col suo procuratore in giro fra  sponsor  ed eventi vari. Anche stavolta sarebbe stato uguale,  lo sapeva già. E questa volta, per il quieto vivere, avrebbe deciso tutto lei.

Lo trovava così squallido: comprare da sola, senza consultarsi con lui, con i soldi che aveva guadagnato lui, una casa per la loro famiglia. Eppure non c’era altra via. Sapeva che suo padre non l’avrebbe lasciata in pace fino a quando non ne avesse acquistata una. Quindi, pur annuendo al marito, si mise il cuore in pace. “Io dovrò comprare la casa, non tu”, pensò.

Ci fu tutto il tempo per fare con calma: Tsubasa riuscì anche a fare due tiri con Pinto e i suoi amici in giardino. Sua madre invece aiutò Sanae a finire di preparare la borsa a mano. Avrebbe voluto darle delle spiegazioni e dirle perché il giorno prima si fosse comportata in quel modo; ma non era ancora in grado di fare dei discorsi profondi in spagnolo. Allora preferì tacere.

Dopo poco  si diressero verso l’aeroporto. Il viaggio andò abbastanza bene: i bambini erano stati buoni; il vantaggio di averne due della stessa età era che giocassero tantissimo fra di loro. C’era un chimica incredibile fra i due. Se erano insieme erano degli angioletti. I problemi se mai venivano in quelle rare occasioni in cui dovevano restare separati, anche solo per qualche ora.

Sanae lo aveva pregato, una volta atterrati e arrivati al teminal, di non fermarsi con i giornalisti. Odiava sentirsi tutti gli occhi addosso. Non amava essere fotografata per i giornali o cose del genere. Negli ultimi periodi aveva anche cominciato  a frequentare meno lo stadio. Odiava sedere nelle tribune Vip con le altre mogli dei giocatori. Le uniche con cui aveva un po’ legato erano come lei e allo stadio non andavano proprio. Per lei era un sacrificio stare a casa perché adorava il calcio e l’atmosfera delle partite allo stadio era come una specie di droga. Però spesso si era sentita sotto esame. Le dava fastidio come le guardavano i vestiti o il taglio di capelli e il trucco. Sanae non era una fotomodella, non era un’attrice; non era la classica ragazza del calciatore famoso. Era per molti aspetti una persona atipica. Non era cambiata per niente rispetto ai tempi del liceo: aveva la stessa ingenuità, lo stesso modo di porsi. Non c’era malizia, non c’era voglia di apparire.

Certo era molto bella: ma di una bellezza senza sovrastrutture.

Inoltre da quando c’erano i bambini, era diventata più schiva: forse era un modo per proteggerli, per non offrirli all’esterno come trofei.

Purtroppo  il volo aveva fatto ritardo e ad aspettarli c’era un sacco di gente. Giornalisti, fotografi, fans, tifosi, vari gruppetti di ragazze urlanti. Tsubasa era diventato un gran bel ragazzo; lo era sempre stato, ma crescendo era anche diventato affascinante: aveva molte ammiratrici. All’inizio Sanae ne era stata molto gelosa e ne aveva anche sofferto. La gravidanza l’aveva però ammorbidita e non si curava più di molte cose: ad aiutarla comunque ci pensava Tsubasa, che non dimostrava alcuna attenzione a questi aspetti del suo lavoro. Lui, più passava il tempo,  più sembrava invece dipendere da lei, desiderandola sempre molto.

La trovava bellissima, anche se non glielo diceva mai, perché in fondo era rimasto il ragazzo timido e impacciato di sempre. Solo nell’intimità, quando erano soli, senza parlare, riusciva a tirare fuori i suoi istinti, la sua voglia di stare con lei.

Arrivati a destinazione, fu tutto un rumore assordante e persone che scattavano foto coi telefonini e chiamavano “Tsubasa” affinche’ si fermasse. Lui salutò sorridente e, tenendo il piccolo Hayate in braccio, mentre Sanae proteggeva Daibu con la mano, si diressero verso i genitori che con le braccia alzate cercavano di far capire la loro posizione. Come sempre, l’unico a mancare era il signor Nakazawa.

Non molto distante c’era un signore con gli occhiali scuri e la divisa della nazionale.

Si abbracciarono tutti: i nonni fecero una gran festa ai bambini e la Signora Ozora sembrava la più emozionata.

 

“Benvenuto Signor Ozora”

Tsubasa salutò calorosamente l’uomo che era venuto a prenderlo.

“Purtroppo dobbiamo andare : la riunione preliminare sta per cominciare. Comunque fra un paio di giorni avrete la serata libera, quindi potrà stare con la sua famiglia”.

Sanae lo guardò delusa.

“Come? non può neanche venire a casa?”

“Dai Sanae, lo sai come funziona in nazionale….. ci vediamo tra due giorni, mica fra un mese!”

In quel momento lo odiò. Era stato umiliante sentirlo parlare in quel modo e soprattutto con quel tono: come per dire “dai, non fare la bambina”.

Era talmente preso dalla sua maglia numero 10, che preferiva andare ad una stupida riunione preliminare, piuttosto che starsene con loro.

Ma questa volta non si lasciò intimidire.

“Lo so benissimo come funziona la nazionale! Solo che mi sembra ridicolo che tu non possa venire neanche un attimo a casa dei tuoi. Tutto qui. Se a te invece sembra che abbia senso, vai pure!”

Si allontanò staccandogli di dosso Hayate e andò verso l’uscita.

Tutti rimasero male per la  sua reazione. Soprattutto Tsubasa. Non la rincorse però; e nemmeno la chiamò: era troppo imbarazzante in quel momento.

“Le passerà….” fece guardando sua madre “e’ molto stanca; cercate di pensare voi ai bambini in questi giorni. Ha bisogno di riposarsi un po’”.

 

“Stupida! Stupida!” si disse, imprecando in mille modi per  la reazione “scomposta” che aveva avuto e la scenata fatta. Non era una cosa da giapponesi: la cultura spagnola la stava un po’ troppo contagiando… cominciava a scaldarsi sempre molto facilmente per delle cose che prima avrebbe catalogato come sciocchezze.

 

In macchina i toni si stemperarono e nessuno fece domande o commenti riguardo all’episodio appena successo.

“Perchè papà non è venuto?” chiese a sua madre.

“E’ fuori per lavoro. Ha di mezzo una causa importante; sai com’è fatto…...”

Sanae non disse nulla: in fondo c’era da aspettarlo; non era che un fantasma nella sua vita. A stento riusciva a ricordare l’ultima loro conversazione al telefono  o l’ultima volta che si fossero visti seriamente, come padre e figlia.

“Dunque….” Disse il Signor Ozora, “ dove andiamo? Starete  da noi o preferisci da tua madre? Abbiamo preparato sia di qua che di là, quindi sentiti libera di fare come vuoi.”

Ogni due secondi doveva prendere una decisione e cominciava ad essere stufa di dover pensare per due, mentre era sola.

“Beh…. se non vi dispiace, io  preferirei stare dai miei genitori in questi giorni. Poi magari quando Tsubasa avrà finito con i suoi impegni, veniamo un po’ anche da voi. Può andar bene?”. In questo modo le sembrò di non fare un torto a nessuno. A tutti parve la soluzione migliore. Così si diressero a casa Nakazawa.

Rivedere la sua camera fu scioccante. I bambini  si guardarono in giro, studiando ogni oggetto, ogni posto.

Lei invece conosceva quel piccolo mondo a memoria. Ogni singola sfumatura di colore, ogni riflesso di luce significava un momento, uno stato d’animo, un’emozione. Si diresse verso la finestra  e pensò a tutte le volte che piangendo, aveva cercato il volto di Tsubasa oltre le distanze chilometriche che li dividevano. Adesso erano insieme. Eppure lei si sentiva distante, così infinitamente lontana da lui, che tutto il paesaggio immaginario che si era sempre sognata dalla finestra, le pareva insignificante.

Capì quanto le prospettive potessero cambiare in poco tempo.

Sentì quanto i ritmi interiori e il proprio mondo segreto fossero come uno scrigno che si apriva piano piano a qualcosa di nuovo e come questo qualcosa potesse investire tutto ciò che provava e viveva.

 

   
 
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