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Autore: bravesoul    13/01/2010    3 recensioni
Risorgere. Difficile. Ammettere di avere un problema, impossibile. Accettare che la donna che ami abbia un problema, è assurdo.
E quando non puoi rinascere e non puoi andare avanti, puoi solo sprofondare.
E mai più riemergere. Kakashi, Yugao e Kurenai.
fic classificata prima al contest "Mental" indetto da Globulo rosso e da Bimba_Chic_Aiko.
Genere: Dark, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Kakashi Hatake, Kurenai Yuhi
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Capitolo 2:

Blues’ Crisis  

Via, via come il vento.

Le mie mani si muovono agili per questo corpo infranto dall’incidente.

Che incidente?

L’incidente che è costato la vita a dozzine di persone.

Un’autocisterna di benzina si è schiantata in piena autostrada contro un camion, coinvolgendo qualcosa come sette macchine.

Le ambulanze sono arrivate volando, ma per molti dei feriti era decisamente troppo tardi.

A nulla sono valse le manovre disperate dei medici, che si sono attardati su quei corpi spezzati e già morituri.

E io, io che sono un chirurgo di fama mondiale, persino io ho potuto poco.

E come al solito questo ha fatto male, anche se nessuno l’ha capito.

Anche se nessuno ha intuito che sotto i miei occhi neri e indifferenti c’è un cuore pulsante e dannatamente ferito.

Le mie mani hanno clampato vene, oggi.

Hanno sistemato gambe, braccia, costole.

 Le parole pneumotorace ed emolisi sono qualcosa che oggi ho detto troppe volte, ho pronunciato troppe ore del decesso.

E, ora, sono in sala operatoria. Per l’ennesima volta, ma forse quella buona.

Ann Josephine Kent.

Quindici anni, i genitori ricchi entrambi, capelli biondi ed occhi azzurri. Fisico da urlo, gambe perfette e chilometriche.  Ora volto sfregiato quasi irrimediabilmente, genitori morti tra atroci sofferenze, una fortuna di cui non saprà che farsi e una gamba talmente tanto malridotta che forse tornerà a camminare, non certo a sfilare.

Chiudo l’ultima ferita, un rapido sguardo all’elettrocardiogramma ed all’anestesista.

Una carezza solitaria a quei capelli dorati, uno sguardo triste a quel volto tanto bello una volta e ora rovinato.

Mi allontano dal corpo della giovane che sarà presto vestito e trasportato nella sua camera da infermieri e specializzandi.

Tolgo i guanti, esausto.

Li getto, bianchi e coperti di sangue,  nel cestino apposito della sala operatoria, sopra tamponi rossi del sangue perso in ore ed ore di intervento.

Faccio lo stesso con la cuffia blu che mi trattiene i capelli, che si riversano come una marea argentata sul mio volto sudato e stanco.

Tutto comincia a girare leggermente, so benissimo il perché.

Sono semplicemente troppo stanco, troppo stranito da questa continua orgia di morte e sangue, un orgia che mi porta sempre più ad essere uno di quei fantasmi sul tavolo operatorio.

Come Asuma.

Scaccio questo pensiero, cerco di scuotermi, passo una mano sull’occhio sinistro nel tentativo, misero, di liberarmi di questo  pensiero insistente.

Esco da quella stanza barcollando, vengo investito dall’odore fortissimo di nicotina che non fa che ricordarmi il mio amico perduto.

Devo farmi una sigaretta.

Uno sguardo alla ricerca di qualcuno che voglia sapere qualcosa di quella giovane.

Un ragazzino moro, probabilmente il suo ragazzo.

Non sento nemmeno le parole che dico, la diagnosi purtroppo corretta ed il dolore che devo trasmettere.

Non sento cosa dico, sono troppo esausto per curarmi troppo delle parole ripetute sino alla nausea.

E le parole di conforto?

Solo circostanza.

Ma neanche troppo.

Mi sono trovato anche io dall’altra parte della barricata un paio di volte. Sia da quella del parente che del paziente.

Le ultime parole, quelle dette da essere umano e non da medico, quelle sono reali.

Così faccio da messaggero di morte, scrocco una sigaretta e mi dirigo verso il balconcino dell’ospedale, quasi fossi un automa. Non so che fare in queste situazioni. Gli abbracci sono bruscamente reali, troppo vicini, ci si scotta. Le parole, invece, sono troppo distanti e fraintendibili.

Certe volte preferirei non dover essere un dannato becchino.

Apro la porta antipanico e trasparente che da sul balconcino, il pavimento sozzo di cenere.

Con la testa che gira mi avvicino la sigaretta alle labbra, la prendo in bocca, con le mani cerco un accendino nelle tasche del camice ancora sporco di sangue altrui.

Armeggio con la fiammella artificiale, sino a che la sigaretta non si accende, poi mi concedo quel vizio maledetto.

La zaffata di nicotina mi penetra nei polmoni, mi rilassa, mentre chiudo gli occhi e tento di salvarmi dalla mia stessa coscienza che mi impone di pensare a … quel dannato giorno.

La mano libera artiglia la balaustra, l’altra tenta di non tremare nel avvicinare la sigaretta alle mie labbra, mentre faccio un tiro.

La testa mi scoppia.

Merda.

Non sono stato in grado di fare nulla di buono, per lui.

Per lei.

Soprattutto per lei.

Artiglio ancora di più quella balaustra, sentendo i muscoli della mano contrarsi quasi da far male.

- Kakashi… -

Mi volto, nascondendo in fretta e furia la smorfia di dolore che mi attraversa il volto.

- Yugao…-

Capelli viola, un volto quasi sempre inespressivo, grandi occhi violetti che sembrano quasi sondare l’anima delle persone.

- Detesto disturbarti, ma una ragazza ha chiesto di te.-

Non c’è l’ombra di un sorriso giocoso, come quello che ci sarebbe se fosse una visita di un certo tipo.

Mi volto, spaventato.

Non può essere quello che credo…

Non può essere lei, non può!!

Tra tutte le ragazze che conosco…

- Ha un bambino piccolo. Kakashi… temo che non sia molto in sé.-

E’ come se mi si spezzasse qualcosa. Temo che non sia molto in se. Quanto feriscono queste parole? Decisamente troppo.

Lancio la sigaretta giù dal balconcino, soffocando un’imprecazione che mi sale alle labbra.

Non vorrei davvero che lei fosse venuta qui, forse perché questo ospedale è una sorta di porto franco da lei, un posto in cui mi posso abnegare per diventare qualcun altro di diverso.

O, forse, è perché ho paura che i timori che mi tengo dentro possano trovare conferma in uno sguardo insano o malinconico.

Non vorrei che lei fosse qui, perché ho paura.

Ho paura che non faccia più ritorno a casa.

Chiudo gli occhi con un sospiro, faccio segno alla mia visitatrice di condurmi.

Giù per le scale, via per i corridoi.

E’ tutto irreale e falsato, quasi sbiadito e di corsa. Non voglio pensare, voglio essere vuoto. Sarebbe più facile non provare davvero nulla, come pretendo di fare.

Non voglio provare dispiacere, né paura.

Non voglio essere umano, alle volte.

Essere una macchina sarebbe più facile, non si farebbero errori, non si farebbe morire la gente. Non si ferirebbe la gente nell’intimo.

Semplicemente si sarebbe macchine autonome, che non lasciano tracce della loro presenza sul mondo, neanche per caso. Solo foglie leggere che si guardano senza davvero vedere, che spariscono senza provocare tristezza, che svaniscono senza rendersene conto.

Per vivere e lasciare un segno ci vuole più forza e più ego.

La mia guida si ferma davanti ad una porta, l’ambulatorio di pronto soccorso, la bile mi sale in gola, ho un orribile presentimento.

Yugao mi guarda negli occhi, come se si aspettasse una chissà quale reazione, poi china la testa e mi sussurra di entrare, perché la ragazza ha chiesto solo di me, e  non si fa sfiorare da nessun altro.

Spingo la maniglia, apro la porta, la chiudo alle mie spalle, senza nemmeno guardare chi ci sia dentro. Non voglio saperlo.

Alzo gli occhi.

La vedo.

 Tiene il bimbo piccolo stretto al petto, con una violenza tale da far temere che il piccolo possa risultarne ferito,  una mano contratta sulla copertina che lo avvolge, contratta in modo nervoso; L’altra mano poggiata in grembo, ferita ed avvolta in uno strofinaccio da cucina.

E poi quegli occhi…

Il volto sfatto, le labbra rosse morse a sangue e spaccate, la pelle cerea, le occhiaie marcate e violacee, gli occhi carmini lucidi e rossi dal pianto, animati da una scintilla allucinata.

I capelli annodati e sciolti sulle spalle.

Sconvolta.

E poi quel bimbo con gli occhi chiusi, stretto come se potesse scivolarle da un secondo all’altro.

Qualcosa dentro di me si rompe.

Come posso credere ancora che sia tutto normale? Come posso illudermi che la scenata di poco tempo fa sia stata solo un caso indotto dagli ormoni? Come posso credere che non sia successo altre volte?

Come posso non vedere che la maschera finta è caduta?

Come posso non capire che il volto che vedo oggi è il volto che questa donna ha sempre avuto, coperto da un cerone immateriale e fragile?

Silenzioso, col cuore grave, le prendo la mano ferita con dolcezza, nonostante lei tenti di ritrarla.

Disfaccio la bendatura di fortuna, che rivela un taglio regolare che le attraversa il palmo della mano, profondo e sanguinante.

Non la guardo, mentre pulisco la ferita dalle fibre dello strofinaccio, mentre tampono il sangue.

Poggio il tampone, le faccio un’iniezione di antidolorifico e comincio a suturare.

Alzo gli occhi, incontrandone lo sguardo.

Una lacrima scivola per il suo volto, facendomi morire.

- Come te lo sei fatta?-

Silenzio, imperterrito, un gemito, gli occhi che si colmano di lacrime ed il figlio che viene stretto ancora più violentemente.

- Rispondimi, Kurenai. Come te lo sei fatta?- La mia voce è dura, forse anche tesa.

- Se te lo dicessi…- la tua, di voce, è debole, rotta dal pianto.

Non serve che tu risponda, ho già capito come te lo sei fatta. Ma voglio sentirlo da te, voglio rendermi conto di quanto tu sia consapevole di ciò che stai facendo. Perché tu sai cosa succederà, ora. Tu sapevi cosa sarebbe successo a venire da me in queste condizioni, eppure sei venuta lo stesso.

- Dimmelo. – Potrei essere più delicato. Potrei essere dolce e gentile. Ma sono stanco. Sono stanco di vedere la gente crollare, di rimanere in piedi, e poi di portare i rimorsi nella tomba.

- Io… il coltello…-

Potresti mentire, potresti salvare la tua precaria situazione, io ti crederei, e lo sai. Non per altro, semplicemente per non guastare questo idillio fallace e finto, per non assumermi altre responsabilità.

Ma tu non lo farai. Lo intuisco da come il tuo sguardo si fa deciso, da come serri tuo figlio, disperata.

- Mi sono… tagliata… il coltello… è scivolato…-

- Te lo sei fatta da sola?-

Uno sguardo, le lacrime che scivolano.

Un cenno e capisco.

Te lo sei fatta da sola.

Dannazione.

Finisco la sutura, ti bendo la mano, mentre vieni scossa dal pianto. In questo momento vorrei non essere da questa parte della barricata, vorrei essere un amico e non un medico. Ma io sono un medico. In questo luogo, sono prima di tutto un medico e poi un essere umano, un amico, una persona che ti da un’ importanza che non puoi nemmeno immaginare.

Mi alzo e faccio per prendere un antidepressivo qualsiasi dall’armadietto dei medicinali. Ma mi blocco, non posso farlo. Non posso chiudere gli occhi e far finta di nulla. Non posso essere così cieco.

Io sono un medico.

Ed ho più doveri che diritti.

Apro la porta dell’ambulatorio, mentre i tuoi occhi mi seguono, speranzosi. Credi che me ne possa andare e far finta di non aver visto?

No, non posso. Ma, fidati, lo vorrei con tutto me stesso.

Yugao si volta, catturando il mio sguardo.

Chissà come devo essere ridotto male.

Chissà cosa devo esprimere in questo momento.

Terrore.

Sconfitta.

Rimorsi.

Solitudine.

Mi guardi, capendo da un solo sguardo.

- Credo… che sia una tua paziente, ora.-

Sai quanto mi costi dirtelo, tu sei una psichiatra e dannatamente brava. Ma sei una terza persona. Tu sai quanto detesti delegare queste cose a qualcuno che non sia io stesso, tu sai che devo tenere alla data persona troppo.

Mi segui, senza una parola, senza un gemito.

Apro la dannata porta da cui sono appena uscito.

Kurenai la vede, si contrae in una smorfia di dolore, tradita.

Credevi che avrei risolto tutto con un colpo di magia? No, non posso farlo.

Non posso aggiustare la tua vita come per magia, non posso aggiustare le cose che si rompono con un sinuoso gesto. Io opero i corpi, io mi bagno del sangue della gente, io sono il primo ballerino in un’ opera di sangue.

Ma la mente, quella, non la posso aggiustare.

Mentre quella porta si chiude, mentre il vagito di un bambino rompe l’odioso silenzio, sento il mondo crollare.

Ma non io.

Io rimango fermo, immobile, ad aspettare che il tempo passi e che tutto torni come prima, come se fosse possibile.

Io resto in piedi, infilo le mani in tasca, mi appoggio al muro.

In attesa.

Perché io non so fare altro che guardare il mondo cadere e stare fermo, a crollare a poco a poco con i muri di questo mondo recluso e piccolo.

Attendo.

Null’altro.

Asuma… ho fallito.

Ti avevo giurato di proteggerla, l’avevo giurato ad un morente.

Ed ho fallito.

Per l’ennesima volta.

E sotto questi occhi neri e ciechi passano donne, bambini, uomini, infermiere.

Ma non li vedo davvero.

In questo momento non sono il primario Kakashi Hatake. In questo momento sono solo un uomo, un uomo come tanti altri.

Un uomo in attesa di un giudizio finale.

Medico e parente allo stesso tempo.

Terribile.





Angolino di Brave:

Yama nihal : grazie mille dei complimenti, mi fanno sempre davvero molto piacere. Come mi fa piacere che ti piaccia l’ introspezione su Kakashi , i suoi problemi e il ripercuotersi del lavoro che svolge, il medico, sul resto della propria vita. Il mestiere del medico mi ha sempre affascinato e anche le conseguenze “psicologiche" e sociali che comporta.  Davvero, mi fa piacere che tu abbia gradito l’ intro su questo argomento e che nn l’ abbia trovata banale o forzata.

Per quanto riguarda Kurenai, lei, la sua quasi pazzia, la patologia che l’ affligge, è stata la cosa  più impegnativa ma se vogliamo più entusiasmante.   

Grazie mille ancora delle recensione, sei un angelo^^  

Grazie a chi  legge, a chi ha commentato anche il primo capitolo, grazie a tutti.

E se non vi è spiaciuta eccessivamente le fic o se volete dire qualcosa a suo proprosito nn esitate a commentare^^                                                                                                                                                                                                                                                                         

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          


  
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