Capitolo
2:
Blues’
Crisis
Via, via come il vento.
Le mie mani si muovono
agili per questo corpo infranto dall’incidente.
Che incidente?
L’incidente che è
costato la vita a dozzine di persone.
Un’autocisterna di
benzina si è schiantata in piena autostrada contro un
camion, coinvolgendo
qualcosa come sette macchine.
Le ambulanze sono
arrivate volando, ma per molti dei feriti era decisamente troppo tardi.
A nulla sono valse le
manovre disperate dei medici, che si sono attardati su quei corpi
spezzati e
già morituri.
E io, io che sono un
chirurgo di fama mondiale, persino io ho potuto poco.
E come al solito questo
ha fatto male, anche se nessuno l’ha capito.
Anche se nessuno ha
intuito che sotto i miei occhi neri e indifferenti
c’è un cuore pulsante e
dannatamente ferito.
Le mie mani hanno
clampato vene, oggi.
Hanno sistemato gambe,
braccia, costole.
Le
parole pneumotorace
ed emolisi sono qualcosa che oggi
ho
detto troppe volte, ho pronunciato troppe ore del decesso.
E, ora, sono in sala
operatoria. Per l’ennesima volta, ma forse quella buona.
Ann
Josephine Kent.
Quindici anni, i
genitori ricchi entrambi, capelli biondi ed occhi azzurri. Fisico da
urlo,
gambe perfette e chilometriche. Ora
volto sfregiato quasi irrimediabilmente, genitori morti tra atroci
sofferenze,
una fortuna di cui non saprà che farsi e una gamba talmente
tanto malridotta
che forse tornerà a camminare, non certo a sfilare.
Chiudo l’ultima ferita,
un rapido sguardo all’elettrocardiogramma ed
all’anestesista.
Una carezza solitaria a
quei capelli dorati, uno sguardo triste a quel volto tanto bello una
volta e
ora rovinato.
Mi allontano dal corpo
della giovane che sarà presto vestito e trasportato nella
sua camera da
infermieri e specializzandi.
Tolgo i guanti, esausto.
Li getto, bianchi e
coperti di sangue, nel
cestino apposito
della sala operatoria, sopra tamponi rossi del sangue perso in ore ed
ore di
intervento.
Faccio lo stesso con la
cuffia blu che mi trattiene i capelli, che si riversano come una marea
argentata sul mio volto sudato e stanco.
Tutto comincia a girare
leggermente, so benissimo il perché.
Sono semplicemente
troppo stanco, troppo stranito da questa continua orgia di morte e
sangue, un
orgia che mi porta sempre più ad essere uno di quei fantasmi
sul tavolo
operatorio.
Come Asuma.
Scaccio questo pensiero,
cerco di scuotermi, passo una mano sull’occhio sinistro nel
tentativo, misero,
di liberarmi di questo pensiero
insistente.
Esco da quella stanza
barcollando, vengo investito dall’odore fortissimo di
nicotina che non fa che
ricordarmi il mio amico perduto.
Devo farmi una
sigaretta.
Uno sguardo alla ricerca
di qualcuno che voglia sapere qualcosa di quella giovane.
Un ragazzino moro,
probabilmente il suo ragazzo.
Non sento nemmeno le
parole che dico, la diagnosi purtroppo corretta ed il dolore che devo
trasmettere.
Non sento cosa dico,
sono troppo esausto per curarmi troppo delle parole ripetute sino alla
nausea.
E le parole di conforto?
Solo circostanza.
Ma neanche troppo.
Mi sono trovato anche io
dall’altra parte della barricata un paio di volte. Sia da
quella del parente
che del paziente.
Le ultime parole, quelle
dette da essere umano e non da medico, quelle sono reali.
Così faccio da
messaggero di morte, scrocco una sigaretta e mi dirigo verso il
balconcino dell’ospedale,
quasi fossi un automa. Non so che fare in queste situazioni. Gli
abbracci sono
bruscamente reali, troppo vicini, ci si scotta. Le parole, invece, sono
troppo
distanti e fraintendibili.
Certe volte preferirei
non dover essere un dannato becchino.
Apro la porta antipanico
e trasparente che da sul balconcino, il pavimento sozzo di cenere.
Con la testa che gira mi
avvicino la sigaretta alle labbra, la prendo in bocca, con le mani
cerco un
accendino nelle tasche del camice ancora sporco di sangue altrui.
Armeggio con la fiammella
artificiale, sino a che la sigaretta non si accende, poi mi concedo
quel vizio
maledetto.
La zaffata di nicotina
mi penetra nei polmoni, mi rilassa, mentre chiudo gli occhi e tento di
salvarmi
dalla mia stessa coscienza che mi impone di pensare a … quel
dannato giorno.
La mano libera artiglia
la balaustra, l’altra tenta di non tremare nel avvicinare la
sigaretta alle mie
labbra, mentre faccio un tiro.
La testa mi scoppia.
Merda.
Non sono stato in grado
di fare nulla di buono, per lui.
Per lei.
Soprattutto per lei.
Artiglio ancora di più
quella balaustra, sentendo i muscoli della mano contrarsi quasi da far
male.
- Kakashi… -
Mi volto, nascondendo in
fretta e furia la smorfia di dolore che mi attraversa il volto.
- Yugao…-
Capelli viola, un volto
quasi sempre inespressivo, grandi occhi violetti che sembrano quasi
sondare l’anima
delle persone.
- Detesto disturbarti,
ma una ragazza ha chiesto di te.-
Non c’è
l’ombra di un
sorriso giocoso, come quello che ci sarebbe se fosse una visita di un
certo
tipo.
Mi volto, spaventato.
Non può essere quello
che credo…
Non può essere lei, non
può!!
Tra tutte le ragazze che
conosco…
- Ha un bambino piccolo.
Kakashi… temo che non sia molto in sé.-
E’ come se mi si
spezzasse qualcosa. Temo che non sia
molto in se. Quanto feriscono queste parole? Decisamente
troppo.
Lancio la sigaretta giù
dal balconcino, soffocando un’imprecazione che mi sale alle
labbra.
Non vorrei davvero che
lei fosse venuta qui, forse perché questo ospedale
è una sorta di porto franco
da lei, un posto in cui mi posso abnegare per diventare qualcun altro
di
diverso.
O, forse, è
perché ho
paura che i timori che mi tengo dentro possano trovare conferma in uno
sguardo
insano o malinconico.
Non vorrei che lei fosse
qui, perché ho paura.
Ho paura che non faccia
più ritorno a casa.
Chiudo gli occhi con un
sospiro, faccio segno alla mia visitatrice di condurmi.
Giù per le scale, via
per i corridoi.
E’ tutto irreale e
falsato, quasi sbiadito e di corsa. Non voglio pensare, voglio essere
vuoto.
Sarebbe più facile non provare davvero nulla, come pretendo
di fare.
Non voglio provare
dispiacere, né paura.
Non voglio essere umano,
alle volte.
Essere una macchina
sarebbe più facile, non si farebbero errori, non si farebbe
morire la gente.
Non si ferirebbe la gente nell’intimo.
Semplicemente si sarebbe
macchine autonome, che non lasciano tracce della loro presenza sul
mondo,
neanche per caso. Solo foglie leggere che si guardano senza davvero
vedere, che
spariscono senza provocare tristezza, che svaniscono senza rendersene
conto.
Per vivere e lasciare un
segno ci vuole più forza e più ego.
La mia guida si ferma
davanti ad una porta, l’ambulatorio di pronto soccorso, la
bile mi sale in
gola, ho un orribile presentimento.
Yugao mi guarda negli
occhi, come se si aspettasse una chissà quale reazione, poi
china la testa e mi
sussurra di entrare, perché la ragazza ha chiesto solo di
me, e non si fa
sfiorare da nessun altro.
Spingo la maniglia, apro
la porta, la chiudo alle mie spalle, senza nemmeno guardare chi ci sia
dentro.
Non voglio saperlo.
Alzo gli occhi.
La vedo.
Tiene
il bimbo piccolo stretto al petto, con
una violenza tale da far temere che il piccolo possa risultarne ferito, una mano contratta sulla
copertina che lo
avvolge, contratta in modo nervoso; L’altra mano poggiata in
grembo, ferita ed
avvolta in uno strofinaccio da cucina.
E poi quegli occhi…
Il volto sfatto, le
labbra rosse morse a sangue e spaccate, la pelle cerea, le occhiaie
marcate e
violacee, gli occhi carmini lucidi e rossi dal pianto, animati da una
scintilla
allucinata.
I capelli annodati e
sciolti sulle spalle.
Sconvolta.
E poi quel bimbo con gli
occhi chiusi, stretto come se potesse scivolarle da un secondo
all’altro.
Qualcosa dentro di me si
rompe.
Come posso credere
ancora che sia tutto normale? Come posso illudermi che la scenata di
poco tempo
fa sia stata solo un caso indotto dagli ormoni? Come posso credere che
non sia
successo altre volte?
Come posso non vedere che
la maschera finta è caduta?
Come posso non capire
che il volto che vedo oggi è il volto che questa donna ha
sempre avuto, coperto
da un cerone immateriale e fragile?
Silenzioso, col cuore
grave, le prendo la mano ferita con dolcezza, nonostante lei tenti di
ritrarla.
Disfaccio la bendatura
di fortuna, che rivela un taglio regolare che le attraversa il palmo
della
mano, profondo e sanguinante.
Non la guardo, mentre
pulisco la ferita dalle fibre dello strofinaccio, mentre tampono il
sangue.
Poggio il tampone, le
faccio un’iniezione di antidolorifico e comincio a suturare.
Alzo gli occhi,
incontrandone lo sguardo.
Una lacrima scivola per
il suo volto, facendomi morire.
- Come te lo sei fatta?-
Silenzio, imperterrito,
un gemito, gli occhi che si colmano di lacrime ed il figlio che viene
stretto
ancora più violentemente.
- Rispondimi, Kurenai.
Come te lo sei fatta?- La mia voce è dura, forse anche tesa.
- Se te lo dicessi…- la
tua, di voce, è debole, rotta dal pianto.
Non serve che tu
risponda, ho già capito come te lo sei fatta. Ma voglio
sentirlo da te, voglio
rendermi conto di quanto tu sia consapevole di ciò che stai
facendo. Perché tu
sai cosa succederà, ora. Tu sapevi cosa sarebbe successo a
venire da me in
queste condizioni, eppure sei venuta lo stesso.
- Dimmelo. – Potrei
essere più delicato. Potrei essere dolce e gentile. Ma sono
stanco. Sono stanco
di vedere la gente crollare, di rimanere in piedi, e poi di portare i
rimorsi
nella tomba.
- Io… il
coltello…-
Potresti mentire,
potresti salvare la tua precaria situazione, io ti crederei, e lo sai.
Non per
altro, semplicemente per non guastare questo idillio fallace e finto,
per non
assumermi altre responsabilità.
Ma tu non lo farai. Lo
intuisco da come il tuo sguardo si fa deciso, da come serri tuo figlio,
disperata.
- Mi sono…
tagliata… il
coltello… è scivolato…-
- Te lo sei fatta da
sola?-
Uno sguardo, le lacrime
che scivolano.
Un cenno e capisco.
Te lo sei fatta da sola.
Dannazione.
Finisco la sutura, ti
bendo la mano, mentre vieni scossa dal pianto. In questo momento vorrei
non
essere da questa parte della barricata, vorrei essere un amico e non un
medico.
Ma io sono un medico. In questo luogo, sono prima di tutto un medico e
poi un
essere umano, un amico, una persona che ti da un’ importanza
che non puoi
nemmeno immaginare.
Mi alzo e faccio per
prendere un antidepressivo qualsiasi dall’armadietto dei
medicinali. Ma mi
blocco, non posso farlo. Non posso chiudere gli occhi e far finta di
nulla. Non
posso essere così cieco.
Io sono un medico.
Ed ho più doveri che
diritti.
Apro la porta
dell’ambulatorio, mentre i tuoi occhi mi seguono, speranzosi.
Credi che me ne
possa andare e far finta di non aver visto?
No, non posso. Ma,
fidati, lo vorrei con tutto me stesso.
Yugao si volta,
catturando il mio sguardo.
Chissà come devo essere
ridotto male.
Chissà cosa devo
esprimere in questo momento.
Terrore.
Sconfitta.
Rimorsi.
Solitudine.
Mi guardi, capendo da un
solo sguardo.
- Credo… che sia una tua
paziente, ora.-
Sai quanto mi costi
dirtelo, tu sei una psichiatra e dannatamente brava. Ma sei una terza
persona.
Tu sai quanto detesti delegare queste cose a qualcuno che non sia io
stesso, tu
sai che devo tenere alla data persona troppo.
Mi segui, senza una
parola, senza un gemito.
Apro la dannata porta da
cui sono appena uscito.
Kurenai la vede, si
contrae in una smorfia di dolore, tradita.
Credevi che avrei
risolto tutto con un colpo di magia? No, non posso farlo.
Non posso aggiustare la
tua vita come per magia, non posso aggiustare le cose che si rompono
con un sinuoso
gesto. Io opero i corpi, io mi bagno del sangue della gente, io sono il
primo
ballerino in un’ opera di sangue.
Ma la mente, quella, non
la posso aggiustare.
Mentre quella porta si
chiude, mentre il vagito di un bambino rompe l’odioso
silenzio, sento il mondo
crollare.
Ma non io.
Io rimango fermo,
immobile, ad aspettare che il tempo passi e che tutto torni come prima,
come se
fosse possibile.
Io resto in piedi,
infilo le mani in tasca, mi appoggio al muro.
In attesa.
Perché io non so fare
altro che guardare il mondo cadere e stare fermo, a crollare a poco a
poco con
i muri di questo mondo recluso e piccolo.
Attendo.
Null’altro.
Asuma…
ho fallito.
Ti avevo
giurato di proteggerla, l’avevo giurato ad un
morente.
Ed ho
fallito.
Per
l’ennesima volta.
E sotto questi occhi
neri e ciechi passano donne, bambini, uomini, infermiere.
Ma non li vedo davvero.
In questo momento non
sono il primario Kakashi Hatake. In questo momento sono solo un uomo,
un uomo
come tanti altri.
Un uomo in attesa di un
giudizio finale.
Medico e parente allo
stesso tempo.
Terribile.
Angolino di Brave:
Yama nihal : grazie mille dei complimenti, mi fanno sempre davvero molto piacere. Come mi fa piacere che ti piaccia l’ introspezione su Kakashi , i suoi problemi e il ripercuotersi del lavoro che svolge, il medico, sul resto della propria vita. Il mestiere del medico mi ha sempre affascinato e anche le conseguenze “psicologiche" e sociali che comporta. Davvero, mi fa piacere che tu abbia gradito l’ intro su questo argomento e che nn l’ abbia trovata banale o forzata.
Per quanto riguarda Kurenai, lei, la sua quasi pazzia, la patologia che l’ affligge, è stata la cosa più impegnativa ma se vogliamo più entusiasmante.
Grazie mille ancora delle recensione, sei un angelo^^
Grazie a chi legge, a chi ha commentato anche il primo capitolo, grazie a tutti.
E se non vi è spiaciuta eccessivamente le fic o se volete dire qualcosa a suo proprosito nn esitate a commentare^^