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Autore: Aurelia major    19/01/2010    7 recensioni
Stralci dalla teoria alla pratica, quando l’amor conteso, inseguito, ipotizzato e alla fine compiuto, si trasforma in convivenza. E la vita comune si sa, non è mai una passeggiata…
Genere: Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Haruka/Heles
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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“Cosa c’è di peggio”, pensò Haruka, alzandosi e sbuffando infastidita, “del telefono che squilla mentre sei lì, lì per mangiare?”

Di sicuro poteva esserci di peggio d’una chiamata inopportuna, ciononostante, in quel preciso momento, l’incomodo era tale da farle sanguinare il cuore. E non tanto per l’ignoto che la cornetta poteva celare, quanto perché intempestivo lo squillo andava ad interrompere l’indugiare voluttuoso, protratto fino allo spasmo, che precedeva l’assestamento del fatal morso alla baguette farcita che aveva davanti.

In effetti, nei riguardi di quello sfilatino, Haruka si sentiva un po’ come Giulietta che, pensando a Romeo, filosofeggiava al balcone. Del resto, si diceva annuendo compunta, se è vero che una rosa è tale anche se chiamata con altro nome, allo stesso tempo la sua  era una cena e non lo era. O perlomeno, non solo. Eh sì perché giungendo  dopo un'intensa giornata lavorativa, trascorsa perlopiù a digiuno, quello che ad occhi profani poteva sembrare un semplice pasto, era invece il coronarsi d’un sogno lungamente vagheggiato, d’una chimera covata in segreto ed assaporata fino a quell’istante soltanto con la fantasia. E per questo, non appena varcata la soglia di casa, si era prodigata in ogni modo possibile per dar corpo all’ideale. Tanto che ne aveva curato amorevolmente gestazione e nascita, poiché, checché ne dicesse la pubblicità,  una miserabile merendina nulla poteva contro la fame. Soprattutto contro ad una fame atavica come la sua.

Detto ciò facile arguire quindi che, nel momento in cui il telefono trillava, era con sommo diletto che la nostra s’apprestava a celebrare, dello spropositato panino, il rituale di morte e resurrezione. Posto che, per quest’ultima, Haruka supponeva ci volesse qualche istante in più, ma non molto. Giusto il tempo di sintonizzarsi sulla partita e poi, complice la birra facente funzione di prefica col quale intendeva accompagnarlo, ne avrebbe cantato il de profundis con un rutto pieno di soddisfazione.  

Propositi da camionista? Giusto un filo, ma il boato che si proponeva d’effondere sarebbe stato reso ancora più gratificante dal dettaglio che  Michiru era fuori casa da giorni e altrettanti ne sarebbero passati prima che tornasse. Il che voleva dire che finalmente poteva indulgere nel gratificare la propria natura squisitamente animale senza correre il rischio di essere per questo deplorata. Di conseguenza, considerato la totalità delle delizie che la maledetta telefonata stava interrompendo sul nascere, il mix d’improperi e parolacce che le scaturirono dalle sottili labbra, trovavano molto più che una semplice giustificazione. E quindi fu ruminando contumelie che alzò il ricevitore.

“Chi è?!” Abbaiò pronta ad azzannare verbalmente, se non letteralmente, l’incauto interlocutore.

“Risposta sbagliata.” Fece Michiru con un tono tale che ad Haruka parve di vederle mettere su il broncio come se ce l’avesse avuta davanti.

“E che volevi sapere quanti fagioli ci sono nel barattolo?!” Ribatté sarcastica per prendere tempo. Porca zozza, che s’era scordata stavolta? Il loro anniversario? La commemorazione nazionale della giornata del violino, viola e violoncello? La prima dentizione di suo nonno?  L’annuale sagra del tofu sul bassopiano dell’Hokkaido? Ma perché, perché si era scelta una donna che insisteva a complicarle la vita con una serie inimmaginabile di dettagli del tutto superflui?!

“Ci avrei giurato che te ne saresti dimenticata!” Venne rimbrottata  immediatamente, al che, onde scoprire l’arcano e con spirito sacrificato, Haruka s’apprestò alla lapidazione che, lo sapeva, ne sarebbe conseguita. Già, in genere le toccava almeno un quarto d’ora di lamentele e recriminazioni inerenti la sua scarsa sensibilità prima che si decidesse di venire al punto.

“Hai assolutamente ragione.” Assentì con voce da penitente per farla corta e, con sommo spirito di rassegnazione, si riaccomodò sul divano tirando a sé il tavolino su cui era posata la cena. Perché, d’accordo sorbirsi tutta la manfrina, ma aveva intenzione di continuare a rifocillarsi mentre quella la metteva in croce. “Perdonami amore mio, ti prego scusami se puoi.” Aggiunse con accenti patetici afferrando saldamente il telecomando e sintonizzandosi sul primo canale, giusto in tempo per vedere le squadre che scendevano in campo. “Come posso fare ammenda?” Chiese infine mentre partivano gli inni nazionali e stappava la birra.

“Facciamo sesso telefonico?” Fu la risposta che ne ebbe e che rischiò di farla strozzare, giacché dalla sorpresa le andò di traverso il boccone. E fu sputacchiando a coda di pavone che capì che a nulla sarebbe valso obiettare, anche se, nei giorni precedenti alla separazione, di quello gliene aveva data una dose tale da persuadersi che sarebbe stata sufficiente a placarla almeno per sei mesi. Beata ingenuità! Pensò facendosi beffe di sé stessa. Ma come poteva essere altrimenti, visto che, dopo appena una settimana, quella ninfomane vanificava la totalità delle sue prestazioni chiedendole una performance da hot line?

Ora, si disse dopo un’abbondante sorsata, atta sia a mitigare la meraviglia, che salvarla dal soffocamento, non che una sedicente pudicizia le impedisse di prestarsi. Però, chiosò guardando con cupidigia il festino che s’era con tanta cura preparata, poteva mai posporre la cena, scordarsi della partita e rimandare il concerto di flati a cui teneva tanto per darsi ad una simile sceneggiata?  Ma non esiste proprio! Pensò risoluta. E alé, in un colpo solo aveva salvaguardato sia la dignità che l’appetito. Eppure, aveva voglia di sopportarne poi le conseguenze? Se la sentiva di passare attraverso la trafila di ripicche, dispetti e rotture che ne sarebbero conseguite? Ne valeva davvero la pena? Decisamente no, si disse sospirando, anche perché Michiru era un’indiscussa maestra quando si trattava di farle pagare con ogni mezzo il fio di quelle che reputava le sue mancanze. Per cui l’unica era assecondarla e far finta che.

In fondo, pensò Haruka scrollando le spalle e ormai arresa all’idea di simulare la focosità della copula, ogni donna prima o poi ha finto.

Così fu che decisero di comune accordo di mettere giù e ricominciare daccapo con tutti i santi crismi. Va’ da sé che, siccome le sciagure non giungono mai da sole, Haruka era fermamente convinta di poter sostenere quello show seguitando, senza difficoltà alcuna, a fare quanto stava facendo. Tanto che ne poteva sapere Michiru se, mentre ci dava dentro di libido, all’altro capo del filo lei banchettava e drinkettava? Nulla ovviamente. Di conseguenza, quando il telefono trillò nuovamente, Haruka a cuor leggero poté risponderle suadente: “Salve, qui è lo studio del dottor Lingua, come posso aiutarla?”

Ottimo esordio non c’è che dire, peccato che, mentre Michiru le spiegava nel dettaglio la natura del suo problema, illustrandole con dovizia di particolari come soccorrerla, Haruka commise l’errore di mettere il vivavoce. Del resto, come accidenti poteva tenere in mano contemporaneamente cornetta, panino e birra?

“Dì un po’, non avrai mica la tv accesa?” Le chiese Michiru mutando registro vocale. In effetti il timbro passò dal tono de la favorita dell’harem a quello sospettoso di un investigatore del filone noir degli anni 30.

“Macché scherzi?” Replicò impunita l’altra mentre lesta, e solo momentaneamente, depositava sul tavolo le vivande per abbassare il volume. Senza spegnere naturalmente. E come avrebbe potuto? L’attacco patrio infatti aveva appena preso possesso della palla e stava superando la linea di centrocampo. A parte questo comunque, le restava sempre d’occuparsi della sua vogliosa fidanzata, quindi si riscosse un attimo e, affettando una cadenza ardente, per prendere tempo le chiese di descriverle nel dettaglio le sue azioni.   

“Ora mi spoglio…” Le rispose Michiru voluttuosa.

“Sì…” Fece mentre seguiva intenta la serie di dribbling cui si stava producendo il suo attaccante preferito.

“Ho su della biancheria molto sexy e ho caldo, tanto caldo…” Continuò la novella Messalina andandoci pesante quanto a celati sottintesi.

“Sì…” Mormorò Haruka piena d’ansia, non tanto per le aspettative che Michiru credeva di star generando, quanto perché quel cretino si era fatto imballare in mezzo a due difensori.

“Devo toglierla?” Chiese persuasa di star aumentando in modo esponenziale la suspense di quella che credeva essere un’appassionata compartecipe.

“Vai… vai porca puttana, vai!!” Ululò Haruka all’indirizzo del giocatore, che finalmente si era liberato, senza pensare alle conseguenze del suo urlo primordiale. Anzi, quando la palla entrò in rete, si produsse perfino in una sequela ininterrotta di  che infiammarono viepiù la sua bollente interlocutrice. Già perché, sebbene trovasse tutto quell’entusiasmo spropositato, si convinse seduta stante che tale era la mancanza che straziava la sua dolce metà, da infiammarsi d’entusiasmo persino ad un accenno appena, appena succinto. Pensiero questo che la riempì di delizia e la convinse maggiormente a calcare i toni.

“Sono nuda adesso, cosa mi fai?” Chiese invitante come avrebbe potuto chiederlo Lola-Lola in reggicalze e a cavallo della sedia.

“Mmm.” Fu l’oscura risposta che ne ebbe. Naturalmente lo prese per un sensuale invito a seguitare, quand’invece era il mugolato di chi finalmente stava saziando l’appetito. In effetti Haruka stava mangiando con gran gusto e a suo modo davvero stava sperimentando l’estasi. Tanto che, dopo un silenzio prolungato, interrotto solo dal rumore lieve prodotto dalle mascelle che tracimavano, capì che doveva assolutamente uscire da quell’impasse. Purtroppo per lei però non aveva affatto seguito il filo del discorso e non riusciva proprio ad immaginarsi fin dove si fosse potuta spingere Michiru nel suo delirio. Per sua fortuna però un break pubblicitario arrivò provvidenziale a darle manforte, giacché, innanzi ad uno spot dell’ortofrutta ebbe l’illuminazione.

“Che pere!” Esclamò, suggerita sia da quel che vedeva che dal suo stomaco ruggente. “Che spettacolo, me le mangerei.” Aggiunse improvvida staccando vigorosamente un boccone e triturandolo, talmente tanto, che l’eco inequivocabile di quella strage mangereccia giunse anche all’altro capo del filo. In effetti stava producendo lo stesso rumore di un’impastatrice industriale e Michiru, la quale era certa non avessero aperto  un cementificio sugli Champs Elysees, immediatamente subodorò.

“Che stai facendo?!” Urlò intimidatoria dopo gl’istanti di silenzio, atti alla comprensione e carichi di significato, che le erano occorsi a realizzare che l’evidente lussuria, con delizia ravvisata giusto qualche istante prima nella compartecipazione di Haruka, nulla aveva a che fare con lei.  

“Nulla!” Ribatté la sospettata mentre nel suo immaginario la sagoma di Michiru, da senza veli che era, si rivestiva immediatamente del saio vermiglio di Torquemada.

“Balle, tu ti stai ingozzando!” Dichiarò stentorea quest’ultima puntando l’indice accusatore innanzi a sé, come se davvero avesse potuto cavarle gli occhi seduta stante. Ma il peggio fu che in quel momento catartico, durante il quale Haruka avrebbe dovuto impegnare la totalità delle sue facoltà cognitive per trarsi d’impaccio, la sua attenzione purtroppo venne prepotentemente richiamata da un rumore sospetto. E così, mentre tentava di convincere la sua collerica metà d’essere oltremodo coinvolta in quel giochetto telefonico, imbastendo motivazioni mirabolanti tese a difendere l’indifendibile, con un piede cercava di allontanare la gatta che nel frattempo le era saltata addosso, attirata com’era dal profumo del pingue spuntino.

“Ma ti pare che in un momento simile possa pensare al cibo?” Affermò suadente, avendo pure la faccia tosta d’insinuare nella voce una punta di stupore offeso, intanto che posava piatto e bottiglia sulla poltrona e afferrava saldamente la micia per la pelle del collo.

“Haruka dimmi la verità!” L’ammonì a quel punto Michiru, la quale era preda d’un profondo conflitto interiore in quanto, se da un lato era fortemente persuasa di piantarle un casino per quell’evidente presa per il sedere, dall’altro era assai tentata a soprassedere e riprendere da dove si erano interrotte. Magari, si disse tentando di tenere a bada l’impazienza, poteva tornarci sopra più in là e castigarla come si meritava. Ma adesso... Indi e per cui pose la questione in modo tale da salvare capra e cavoli, ovvero, di gratificare corpo e amor proprio indignato.

“Giurin, giuretta.” Fece Haruka ormai talmente in bambola, presa com’era tra svariati fuochi, da non sapere più se badare alla partita, lanciare in terrazza la gatta (che aveva ancora tra le braccia), sollevarsi dall’arsura che la stava prendendo a causa del nervoso (bevendosi tutta una cassa di birra e vaffanculo) o di buttare tutto nella mondezza, telefono compreso.

Per questo, e solo per questo, giacché solo chi davvero ama ha il nerbo di dire l’indicibile, si sentì chiedere dalla gentildonna all’altro capo del filo: “Allora dimmi dove hai le mani!”

 A questo punto, visto che Michiru voleva la verità e che effettivamente dicendoglielo sapeva di farle cosa gradita, nonché di salvarsi dal capestro, fu sincera.

“Nel pelo!” Rispose, omettendo di chiarire che si trattava di quello della gatta. In fondo si trattava d’un peccatuccio d’omissione, ma sufficiente da riportare il sereno.  

“Di già?” Rispose infatti la violinista sorpresa, in effetti, essendo quella la loro prima performance telefonica, non pensava Haruka si prestasse così facilmente e soprattutto si spingesse con tanta velocità in zona Cesarini. Pure così pareva e non poteva che compiacersene. E bontà sua che era convinta di quello giacché, nel frattempo, buttata fuori dalla stanza la gatta, quest’ultima ormai stremata da quella manfrina, lanciandosi cadere di peso in poltrona e dimentica d’averci poggiato vivande e beveraggi, diede un gemito frustrato.

“Tesoro, tutto bene?” Chiese Michiru allarmata.

“Sono tutta bagnata!” Sbottò Haruka fregandosene delle conseguenze, troppo infatti l’aveva shoccata la tragedia di ritrovarsi i resti del suo glorioso panino spiaccicati alle terga. Ma Michiru non poteva sapere, né lei poteva confessarglielo, perciò, quando si sentì dare pure dell’egoista, non le restò che accasciarsi al suolo, prendersi la testa nelle mani e lasciar scorrere amare lacrime di delusione e rimpianto.

“Hai pensato solo a te!” Stava concludendo intanto la sesso-defraudata, al che la nostra, seduta in una pozza di birra, col culo imbrattato di maionese e la serata completamente rovinata, era ormai definitivamente matura per dar voce al sentimento. Perché, d’accordo che le cose importanti son sempre le più difficili da dire, ma per tutti alfine giunge il momento di emulare Kevin Costner e lasciar fluire le parole non dette.

“Michi, gioia”, mormorò infatti con ingannevole calma, “fammi la cortesia”, aggiunse perdendo via, via  la compostezza, “guardati un porno e non mi rompere i coglioni!”

Le intimò e senza attenderne riposta, con somma soddisfazione, buttò giù. Dopodiché staccò telefono, spense il cellulare, la connessione internet,  sradicò il citofono e, tanto per essere sicura al cento per cento, andò pure a sparare ad un paio di piccioni che volteggiavano da quelle parti.

Fatto ciò pareva aver riacquistato una certa tranquillità, ma quando dalla tv riecheggiò la voce di Stevie Wonder e le prime note di I Just Called To Say I Love You, non le restò che sparare un colpo anche a quella.

“Domani me la ricompro.” Si disse mentre si dirigeva in cucina per prepararsi qualcosa d’altro da mangiare, intanto che molti dei suoi condomini provvedevano ad avvertire la polizia.

 

   
 
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