Il
figlio del demonio
*La
nonnina della porta accanto*
Quando Ivan si svegliò non
ricordava di preciso dove fosse.
Si girò per un po’ nel letto, togliendosi di scatto le coperte provato
dal troppo caldo.
Ci mise un po’ a rendersi conto che quella non era la sua camera, e
quando notò con orrore che il cuscino al quale fino a poco prima era
abbracciato, era tutto bagnato dalle sue lacrime, gli riaffiorò
completamente la memoria.
Si ricordò del buco di paese in cui era confinato, dei due pazzi che sarebbero
stati suoi coinquilini a tempo indeterminato, e soprattutto gli tornò in mente
il motivo per cui era lì.
Lo stesso motivo per cui a quanto pareva aveva pianto nel sonno.
Lui, che piangeva!
Gli sembrava assurdo anche solo prenderlo in considerazione, ma a quanto pareva
lo aveva fatto.
Con un moto stizzito si alzò a sedere, allontanando da sé il cuscino umido.
Odiava sentirsi vulnerabile e in quel momento…
Improvvisamente tutti i suoi pensieri si fermarono, bloccandosi su un
particolare che aveva appena registrato: era nudo.
O almeno quasi: aveva addosso solo i boxer neri. Per il resto
nient’altro.
Si passò le mani sul viso, chiedendosi se stesse impazzendo: si era messo a
letto vestito, ne era certo. E a meno che non fosse arrivato al punto da
svestirsi nel sonno… no, non era possibile!
I men in black?! Lo avevano spogliato loro?
Ivan inarcò le sopracciglia, valutando tutte le ipotesi, alla fine
l’unica conclusione a cui arrivò fu che non gliene importava. Non in quel
momento: aveva il bisogno impellente di farsi una doccia, lunga, molto lunga,
per togliersi di dosso quella sensazione di sporco ed inadeguatezza che si
portava dietro da San Francisco. Sempre che un getto d’acqua sarebbe
riuscito nell’intento.
Ne dubitava, ma ci avrebbe comunque provato.
Si alzò in piedi, e a causa di un giramento dovette poggiare una mano contro il
muro, tentando di ritrovare l’equilibrio. Nel frattempo si concesse due
minuti per studiare la stanza in cui si trovava: non era grande, ma nemmeno troppo
piccola, era giusta.
Con il parchè, come notò con piacere, e poi una scrivania e una cabina armadio.
Lanciò uno sguardo alla finestra alla sua sinistra: indeciso se aprire o meno
le tapparelle. Si risolse alla fine ad aprirle giusto un po’, lo stretto
necessario per capire almeno approssimativamente quanto tempo avesse dormito.
Si ritrovò a guardare lo stesso paesaggio di quando erano arrivati di mattina:
di fronte aveva un’altra villetta e di lato la strada. Il sole era ben
alto in cielo, quasi prossimo al tramonto: aveva dormito più di dodici ore.
Raggiunse la cabina armadio in pochi passi, con ancora in mente
l’immagine di quella che doveva essere la sua vicina di casa:
un’anziana signora, bassina e rotondetta, con i capelli bianchi raccolti
in una crocchia, che stendeva i panni nel cortile. Non riusciva a crederci: non
si vedevano nemmeno più nei film scene così. Una nonnina dolce e materna che
stendeva il bucato…
Stava ancora rimuginando su quanto gli sembrasse assurda come cosa mentre
apriva le ante dell’armadio. Non sapeva cosa aspettarsi in realtà, ma
sperava in un qualche miracolo: se l’avesse trovato vuoto, come temeva,
sarebbe dovuto scendere seminudo al piano di sotto e la prospettiva non lo
attraeva nemmeno un po’.
Restò perciò profondamente sorpreso e sollevato nel trovarne l’interno
fornitissimo: giacche, pantaloni, camicie, tute… c’era di tutto.
Prese un jeans e lo appoggiò contro la gamba, notando con piacere che era della
sua taglia. Iniziò ad aprire i vari cassetti, scoprendo di volta in volta
asciugamani, intimi, perfino delle cravatte che guardò con un misto di orrore e
divertimento. Aprendo l’ultimo cassetto però il cuore gli mancò un
battito e senza rendersene conto fece un precipitoso balzo all’indietro:
non c’erano vestiti ma un arsenale in piena regola.
Scuotendo la testa lo chiuse con un calcio: a quanto pareva mentre dormiva i
fratellini non se ne erano stati con le mani in mano.
Afferrò al volo una camicia nera e uscì dalla camera, alla ricerca del bagno.
Lanciò uno sguardo intorno, osservando alternativamente le tre porte sul
pianerottolo: una doveva pur essere il bagno. Il problema era: quale?
Con uno sbuffo spazientito si avvicinò a quella alla sua diretta sinistra,
sperando di essere talmente fortunato da indovinare al primo colpo: non osava
pensare a se avesse sbagliato, aprendo quella della camera di uno dei due
federali, disturbandoli semmai in… qualcosa di privato.
Per sicurezza bussò leggermente con le nocche, attendendo qualche istante prima
di spalancare la porta: entrò nel bagno reprimendo a mala pena un sospiro di
sollievo.
Stette per quelle che gli sembravano ore sotto il getto di acqua calda:
quando uscì distese gradevolmente le braccia, provando i muscoli ora ben
rilassati. Con la mano disappannò lo specchio, e rapido infilò i vestiti.
Prima di uscire diede un’ultima occhiata al suo riflesso: i jeans e la
camicia gli cadevano a pennello.
Le occhiaie violacee che aveva visto la sera prima, sembravano aver perso quel
colore così acceso, e per quanto il viso avesse un’aria ancora parecchio
stravolta, non era più esageratamente pallido.
Si passò una mano sul mento, sentendo sotto le dita il pizzicore tipico della
barba che accennava a ricrescere; la fece poi salire fino ai capelli,
scompigliandoli in modo da farli asciugare un po’.
Fu un caso se uscendo notò il taglio profondo che aveva sul collo: tornò un
attimo sui suoi passi, osservandolo meglio allo specchio. Era brutto, ma non
proprio orrendo. Girò il collo per vedere fino a che punto gli facesse male:
tirava, e bruciava anche parecchio, ma niente di insopportabile.
Con un’alzata di spalle scese al pian terreno.
La televisione in salotto era accesa: un uomo sui quaranta stava parlando di
una qualche tragedia successa nei pressi di una ferrovia. Ivan fece per spegnerla,
dato che non c’era nessuno a guardarla ma venne bloccato da una voce
pacata e perentoria:
-No-
Si girò verso la cucina, dove vide che a parlare era stato Terence.
Lo osservò, senza riuscire a nascondere la sorpresa probabilmente: indossava
dei sandali, pantaloni bianchi in lino e una camicia a mezze maniche. Come se
non bastasse quello a lasciarlo basito, stava anche cucinando, tutto
concentrato nel mescolare una qualche brodaglia rossa.
Ivan si avvicinò titubante al tavolo della cucina, già preparato per tre
persone: quel cambiamento lo aveva preso in contropiede.
-Ben svegliato-
Era stato sempre Terence a parlare: lo stesso uomo che giocando con uno degli
orecchini dell’orecchio sinistro si piegò a controllare a che punto di
cottura fossero le teglie che aveva nel forno.
Ivan annuì di rimando, concentrato sulle voci provenienti da fuori: la porta
finestra si aprì lasciando entrare Jeremy. Anche lui privo della divisa di
lavoro: jeans e una maglietta a mezze maniche militare i suoi nuovi vestiti.
Ivan si passò una mano sul viso, cercando di focalizzare quelle nuove immagini.
La voce di Jeremy gli giunse pimpante alle orecchie, costringendolo a riaprire
gli occhi:
-Ehilà, Ivan! Guarda che bella-
Nel dirlo gli mise sotto il naso una torta di zucca che sembrava appena
sfornata.
-Ce l’ha data la nostra vicina: una signora simpaticissima. Dice che ci
ha visti troppo deperiti e che ora ci pensa lei a farci riprendere-
Ivan annuì, immaginando già la cara nonnina tutta intenta a sfornare decine di
torte.
Con una mano scostò una sedia, sedendovisi di peso. Con voce atona chiese:
-Che ora sono?-
-Le sei-
Gli rispose candidamente Jeremy, studiando la sua espressione. Il sorriso che
aveva stampato in viso a un certo punto si spense leggermente e il giovane si
avvicinò ad Ivan. Gli afferrò fra due dita il mento, sollevandolo. Si piegò
sulle ginocchia, scrutando il taglio che aveva sul collo:
-Fa male?-
Ivan fece per negare, ma l’altro non gliene diede il tempo: poggiandoci
lievemente l’indice sopra fece scattare il ragazzo all’indietro.
Jeremy si rialzò, sorridendo ed ignorando apertamente l’espressione
arrabbiata di Ivan:
-Non si è infettato: tutto bene-
Ivan continuò a guardarlo con aria contrariata, poi con voce piccata disse:
-Mi sono svegliato con indosso solo i boxer-
Jeremy, prendendo posto di fronte a lui, quasi si strozzò con un’ oliva
che aveva appena messo in bocca. Ancora tossendo, accennò con la testa verso
Terence ai fornelli.
-Sì: Terry diceva che se non avessimo messo al più presto i vestiti a mollo
nell’acqua fredda, non si sarebbero tolte le macchie di sangue-
Ivan si morse il labbro inferiore a quella risposta: le macchie di sangue.
-Ad ogni modo te li restituiremo come nuovi-
Il ragazzo tornò a guardare il suo interlocutore realizzando con che soprannome
aveva chiamato il fratello. Sorrise, pensando alla possibile coppia:
“Terry e Jerry” Si astenne però dal vocalizzare i suoi
pensieri: potevano anche star fingendo di essere normali, ma non era così e
Ivan ci teneva ad arrivare incolume al processo.
Quando Terence portò a tavola un altro piatto strapieno di cibo, Jeremy ammiccò
verso Ivan, e bisbigliò, in modo da non farsi sentire dal fratello:
-Prima faceva il cuoco: in uno dei ristoranti più importanti di Manhattan-
Detto questo gli avvicinò un’insalatiera piena di un qualcosa che Ivan
non riuscì a definire.
-Perciò mangia-
Stavolta era stato Terence a parlare, glielo aveva quasi intimato mentre alzava
il volume al televisore. Ivan ubbidì, rispondendo più che altro al brontolio
del suo stomaco e data la prima forchettata, continuò a mangiare con appetito,
sorpreso dalla bravura dello chef che alle sue spalle sorrideva compiaciuto.
-Terry… e cambia! Fanno Titti e Silvestro sul terzo-
Ma il televisore rimase fisso sul telegiornale, e Jeremy con un sospiro affogò
nel ketchup le sue patate dolci. Al primo stacco pubblicitario Ivan si decise a
parlare, chiedendo una cosa che gli ronzava per la testa da quando aveva
sentito il cronista annunciare l’ultimo attentato terroristico:
-Non… non se ne parlerà?-
Quelle furono la parole che biascicò, senza alzare lo sguardo dal suo piatto,
vergognandosi quasi di averlo chiesto. Ma lo aveva fatto perché ci teneva a
saperlo, voleva prepararsi nel caso in cui ne avrebbero parlato anche in
televisione.
Entrambi i giovani al tavolo con lui intuirono subito che si riferiva a quello
che era successo la sera prima. Non diedero segni di sorpresa, però. Quasi come
se si aspettassero la domanda.
Il primo a rispondere fu Terence:
-No-
Coinciso come sempre, pensò Ivan. Poi intervenne anche Jeremy, non appena
ebbero incrociato lo sguardo: Ivan lo vide sorridere con fare rassicurante e
scuotere la testa:
-Certo che no. Almeno non finché non si saranno calmate le acque. Se ne
parlassero sulle reti televisive, tutto quello che stiamo facendo andrebbe a
farsi fottere-
Spiegò in poche parole. Ivan annuì sollevato: non era minimamente preparato a
sentir raccontare da altri la sua tragedia personale. Alzandosi per mettere il
suo piatto a lavare, chiese un’ultima cosa:
-Devo stare all’erta? … Cioè, corriamo qualche pericolo?-
Questa volta non risposero subito, e fu in parte la loro reticenza, in parte
l’occhiata che si scambiarono prima di parlare, a fargli capire che non
avrebbe potuto prendere come vere le loro parole:
-No, tranquillo Ivan. Che ci staremmo a fare noi, altrimenti?-
Jeremy intuì il suo scetticismo, perché continuò, quasi sarcastico:
-Credi che ti faremmo mai ammazzare? Tranquillo, sul serio. Va a giocare in
salotto, che ho installato la play station 3-
Ivan si dovette mordere la lingua per non rispondere male: ma quanti anni
pensava che avesse?
Che credeva, che dicendo va a giocare alla play avrebbe risolto qualcosa?
“Va a giocare in salotto…”
Gli sembrava di essere regredito a dieci anni prima.
Si sollevò le maniche fino ai gomiti, con gesti nervosi e irritati. Senza
guardarli nemmeno negli occhi si diresse alla porta a vetri:
-Vado a fare un giro-
Mormorò infastidito, alzando gli occhi al cielo quando sentì la risposta che
gli arrivò alle spalle:
-Non ti allontanare-
Scese i tre scalini, diretto in giardino, sbattendo i piedi con rabbia.
Spingendo a fondo le mani nelle tasche, piegò la testa all’indietro
accogliendo quasi con piacere il dolore sordo al collo che lo distrasse dai
suoi pensieri.
“Non ti allontanare”
Ma dove diamine sarebbe potuto andare in quel buco di paese?
In meno di un quarto d’ora si percorreva a piedi tutto, da un capo
all’altro.
E loro gli dicevano di non allontanarsi! Stavano decisamente degenerando!
Aprendo con disappunto il cancelletto, Ivan iniziò a prendere in considerazione
l’ipotesi di andare ad affogarsi nel fiume. Con un sorriso però mise da
parte quell’idea: in fondo, fortunato com’era, capace che lo
ripescavano…
*