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Autore: Faith46    25/03/2010    2 recensioni
Ah, la vita universitaria. Dicono tutti che sia il periodo più florido dell'esistenza, ricolma di esperienze goliardiche; poco studio e tanto divertimento. Ebbene, siamo sicuri che sia realmente così? Ci sono due persone che non trovano esattamente valida questa teoria : tra scelte, dilemmi di piccola e media entità, euforici cambiamenti e distacchi, ci si trova spesso a fare i conti con una realtà ben differente da quella che raccontano ''le leggende popolari''. In fondo, però, è tutta questione di... punti di vista.
Genere: Romantico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Miroku, Sango
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Questione di punti di vista

“Ovvero quando sei uno spiantato studente universitario, e l’erba del vicino è sempre più fottutamente verde della tua”

 

 Note: I personaggi di Inuyasha non sono di mia proprietà, ma sono copyright di Rumiko Takahashi e delle istituzioni che pubblicano il manga e l’anime; questa storia non è scritta a scopo lucrativo ma per puro divertimento e piacere personale.

 

Capitolo primo

 

Quante di voi, seriamente, non hanno mai avvertito un senso di frustrazione così forte da mandarvi in bestia? Quando nemmeno le scarpe comprate nel negozio sotto casa, per le quali avete fatto salti mortali, riescono più a colmare quel fastidioso senso di incompletezza che vi divora.

Esattamente, sto proprio parlando di quella sensazione assurda che piomba nella vita di una ventitreenne quando le sue amiche sono già sistemate da anni, magari con uomini orrendi e totalmente privi d’intelligenza, tanto che una nocciolina apparirebbe sicuramente più arguta di loro. Eppure a guardarli insieme, pensi a quanto la tua vita sia maledettamente piatta e insulsa, mentre passi ore e ore davanti ad un computer a chattare con sconosciuti, o perdi intere giornate a guardare sitcom americane che credi ti possano risollevare il morale quando avverti le risate di sfondo che le accompagnano, come se anche tu, interiormente dovessi deridere con tutta l’anima quegli attori che magari nel retroscena sono sposati e schifosamente ricchi. Quindi sei seduta là, su quel divano che oramai ha preso la forma del tuo deretano, a masticare quintali di barrette energetiche, che dopo dieci minuti divengono quasi gomma in bocca a chiederti perché ogni pensiero che formuli equivarrà tra qualche mese ad un chilo in più sulla bilancia.

L’immagine di te è meravigliosa: e prontamente ti sorprendi quasi, nel vedere che il tuo riflesso s’intravede dallo specchio, che nemmeno a farlo a posta, è piazzato proprio alle tue spalle; pronto a suggerirti quanto, se un uomo si trovasse al tuo fianco ora, desidererebbe essere da un’altra parte, piuttosto che accanto ad un’informe massa umana avvolta in una mega coperta di pile, con indosso la classica tuta casalinga, con un grosso paio di occhiali sul naso e i capelli raccolti sulla nuca, e rigorosamente spettinati. Ti deridi, e se potessi, punteresti il dito su quella figura per chiederti chi realmente sia quella povera sciocca riflessa. Il problema è che dopo cinque secondi capisci di essere proprio tu, privata della seduta estetica di due ore e mezzo dinanzi allo specchio, come Dio t’ha fatta, semplicemente in fase ‘’rilassata’’.  Kagome Higurashi, ventitré anni suonati, studentessa di Letteratura alla facoltà di Waseda e assidua frequentatrice del suo lavoretto part-time, che mi consente, fortuitamente, di pagare la tassa universitaria che ogni anno sale alle stelle. Se credete che ventiduemila yen siano niente, non vi accennerò alcun che per quanto riguarda il costo reale della frequenza annuale.

La mia vita pare concentrarsi nel mio piccolo globo d’insoddisfazione, che si ramifica in tre parti fondamentali della giornata: mattina – studio – pomeriggio, – lavoro – sera, di nuovo studio. Rimpiango le superiori, dove almeno, tra esami d’ammissione e test d’ogni sorta e colore, avevo anche del tempo per godere, effettivamente, della mia vita da studentessa.  Vorrei proprio sapere chi dice che all’università tutto diviene più semplice. Quando mai? O almeno, non quando professori che nemmeno conoscono il tuo nome, hanno di te aspettative inimmaginabili, tanto che a loro parere dovrei presto raggiungere la notorietà di Noboru Takeshita o Yasuo Fukuda, di cui i volti impressi nel corridoio centrale della facoltà, mi ricordano giornalmente quanto io, a loro confronto, sia ancora dannatamente microscopica e invisibile.

Ore diciassette e quarantacinque, l’orologio pare avercela con me. Il suo assurdo ticchettio mi ricorda lo scandire lento, lentissimo, dei minuti che quando studi non passano mai. Più cerco di concentrarmi sul testo di seicentoventicinque pagine che dovrò aver imparato come un sutra buddhista entro mercoledì, più la mia mente si ostina a staccarsi dalle sue pagine per volare altrove, magari al karaoke giù in fondo alla strada, dove probabilmente ora le mie amiche staranno bisbocciando con i rispettivi compagni.  Sollevo le mani dietro la nuca, per raccogliere i capelli in una coda e trattenerli per qualche secondo uniti all’interno del pugno, stritolandone la massa scura per evitare di sfogarmi su qualcos’altro.

Sono ufficialmente frustrata. Mi ritroverò a cinquant’anni, in un monolocale di Kyoto a sorseggiare tè verde assieme ai miei venti o trenta gatti, ai quali leggerò qualche Aikido per tirarmi su di morale. Sbarro gli occhi, chiedendomi perché, ogni qualvolta la mia depressione sale alle stelle, io mi ritrovi a immaginarmi in questo modo. Ci potrebbe davvero essere una relazione tra quest’allucinazione e il mio futuro? Preferisco non pensarci.

Mi alzo, passando in rassegna con lo sguardo ogni minuzia che compone l’appartamento dove vivo al momento, con l’unico intento di far apparire più lungo il tragitto dalla stanza alla cucina. Parete, tavolo con sopra poggiata una cornice della festa del diploma, ancora una parete, cassettone stile settecento che mia madre mi ha costretto a comprare da un antiquariato alla modica cifra di sessantamila yen. Vaso di fiori vuoto, perché la pianta contenuta dentro qualche mese fa è defunta per esaurimento e mancanza perenne d’acqua. Non ho tempo di badare a me, figuriamoci alle piante!

Cucina. Dio, sono già arrivata? Getto una sguardata all’orologio e scopro che non sono passati più di cinque o sei minuti dall’ultima volta che l’ho guardato. Mi sento svenire …

Raggiungo il frigorifero trascinandomi come una mummia, che avrebbe sicuramente una cera migliore di questa povera donna. Apro il frigorifero, perché lo stomaco ha già cominciato a reclamare l’assenza di cibo perpetuata per almeno tre o quattro ore. Un algido freddo m’investe il volto, e rimango costernata nel denotare che l’interno dell’elettrodomestico è più vuoto della mia pancia. Sul primo ripiano sosta uno yogurt solitario, che non ricordo nemmeno di aver comperato. Sul secondo, una banana ed un limone mi osservano con tristezza, domandandomi perché ho avuto la malsana idea di sistemarli vicino al decotto palustre – che emana decisamente un odore nauseabondo – che mio nonno mi propina ogni mese contro l’influenza stagionale. Ultimo, ma non in ordine d’importanza, ecco apparire, avvolto nella carta stagnola, un dolce che risale al paleolitico probabilmente; che mi esimio dallo scartare per paura di verificare lo stato avanzato di decomposizione del cioccolato. Bene, dovrò uscire a fare la spesa. Sospiro, chiedendomi, forse per l’ennesima volta, quanto vantaggio ci sia stato nel volermene andare di casa alla “tenera” età di vent’anni. Avrei dovuto seguire l’esempio di Sango, alias la mia migliore amica, che ha preferito fossilizzarsi a casa dei suoi per i prossimi dieci anni.

Abbasso le spalle in un moto d’arrendevolezza. Farò una doccia e poi mi precipiterò al discount sotto casa. Dio! La mia vita somiglia a quella di una pensionata sui settant’anni, la cui massima aspettativa è quella di giocare a canasta con le amiche il sabato sera, o di godersi una telenovela brasiliana alle sette e mezzo di mattina. Chiudo gli occhi, contando sino a venti prima di trattenere un grido di disperazione e dirigermi a passo marziale verso il bagno.

Ah, il profumo di vaniglia. L’ho sempre associato a qualcosa di rilassante in vita mia, ed ha sempre accompagnato i momenti migliori di questa.  Apro le ante della doccia, richiudendomele dietro le spalle per far partire il getto d’acqua bollente che m’investe come un treno in corsa. Il mio primo giorno di scuola elementare, la volta in cui ho conosciuto Sango, il primo ballo in discoteca, il primo stipendio, la visita a casa di mia nonna per il mio diciassettesimo compleanno, la prima gita scolastica … il primo amore. Inarco le sopracciglia, girando la manopola per intensificare il getto d’acqua sulla schiena. Ecco la parola più scomoda del vocabolario dei ricordi, e anch’essa, purtroppo è collegata al piacevole odore della vaniglia. Non doveva ricordarmi i momenti gradevoli della vita?

Se il primo amore non si scorda mai, io ho tutta l’intenzione di farlo. Successe a quindici anni, quando ancora la mia povera testolina bacata era convinta che l’amore, nella vita reale, corrispondesse a quello delle favole. Disgraziata! Lui era carino, non eccezionale ma piacente. Il solo fatto che fosse più intelligente di me e che possedesse un vocabolario più che dignitoso per essere in terza media, lo rendeva ai miei occhi, il ragazzino più interessante del pianeta.  Si chiamava Hiroshi, non troppo basso, altezza giusta; il classico giapponese. Occhi scuri, con un delizioso taglio a mandorla, contornati dalle ciglia scure e spesse.  Un volto ovale, non rude, a tratti gentile con un sorriso amabile, di cui adoravo le fossette che si formavano ai lati delle labbra ogni qualvolta le incurvava. Eravamo una coppia nella media, anonimi ai più e felici nel nostro piccolo. Allora il rapporto che s’instaurava tra un ragazzo ed una ragazza non era come oggi, a quindici anni si è più timidi, e il massimo che ci si può aspettare da un appuntamento è tenersi per mano al cinema, o in un qualsiasi luogo appartato dove non si è visti. Credevo di esserne innamorata. Ecco. Ipotizzare le cose è assolutamente sbagliato, e lo è ancora di più cominciare a farsi film stupidi e poco probabili su di una possibile vita insieme: per sempre.

Mi tradì dopo sei mesi e mezzo con una mezza americana trasferitasi nella nostra stessa scuola proprio quell’anno. Quando dici, che la sfortuna ti vuole proprio male. Di quella relazione cosa ricordo? Un bacio. Forse il più bello che credevo d’aver mai ricevuto, l’unico di quell’epoca che sembra così lontana, ed invece si trova proprio dietro l’angolo, a pochi anni di distanza.  Cos’altro? Pianti, bollette chilometriche e salatissime, conseguenza delle ore su ore spese al telefono con Sango, che prontamente tentava di consolarmi come meglio poteva, e vagonate di fazzoletti di carta sparpagliati in camera. Ecco, cosa ricordo del mio primo amore.

Il secondo non è di certo stato più interessante, nemmeno il terzo e il quarto. Scappatelle, come hanno la moda di chiamarle ora, la più lunga delle quali è durata due mesi e mezzo.  Lui si chiamava Eichi, completamente differente dal mio primo fidanzatino. Era un “cantante” visual key, che si destreggiava più o meno egregiamente in piccoli concerti lungo la costa, e richiamava discreto successo col suo gruppo. Musiche che sono rimaste nel comprensorio di Shibuya, e non sono mai andate più lontano. Lo conobbi ad un concerto, al quale ero stata trascinata contro la mia stessa volontà, dopo il compleanno di un’amica. Aveva appena rotto con la sua ex, e quale modo migliore di sfogarsi se non abbordare la prima tipa che compassionevole, viene a domandarti cosa c’è che non va? A ricordarlo ora, non so proprio quale forza mi abbia permesso di uscire con un tipo del genere: giapponese medio, tinto, con i capelli tendenti all’arancio. Orecchini e piercing in qualsiasi porzione del corpo che potesse essere considerato un lembo di pelle; lenti a contatto bi crome: rispettivamente una azzurra e una verdastra. Cosa mi ha attratto di lui? Probabilmente la dolcezza che credevo, - e ripeto CREDEVO  - gli appartenesse. In quel periodo frequentavo le superiori, e potevo permettermi, nei weekend, di accompagnarlo nei suoi concerti, e all’occorrenza fare qualche viaggetto in treno da Tokyo a Shibuya. Quell’uomo, è stato il primo essere che si è impossessato della mia pura e onesta verginità. Gliela concessi perché ancora una volta, avevo chiuso gli occhi del raziocinio e aperto quelli del cuore, che proiettavano davanti a me, una sua immagine del tutto distorta. La nostra prima volta fu da dimenticare! Anzi, la MIA prima volta. Eravamo in una spiaggia, dopo un concerto. Quale posto più romantico dove immolare la propria genuinità? Fu dolce, anche troppo forse, e sarebbe dovuto essere proprio dinanzi a quell’innaturale grazia, che avrei dovuto accorgermi di quanto stronzo fosse nell’intimo. Mi rubò l’unica cosa per la quale avrei ancora potuto combattere, che avrei dovuto conservare per l’unico, non per uno qualsiasi. Probabilmente credevo che quell’unicità potesse risiedere proprio in lui: come sempre mi sbagliavo.

Dopo pochi giorni, ottenuta la festa, mi abbandonò. Non c’era un’altra nella sua vita, si era solamente voluto divertire. Me lo disse proprio in faccia, testuali parole: - “Perdonami Higurashi, ho bisogno di fare nuove esperienze ora. Ci siamo divertiti …” - e sparì. Rimasi costernata, amareggiata, avrei avuto voglia di dargli un bel calcio tra i gioielli. Non lo feci, perché per quanto io soffrissi, il mio cuore era ancora suo. Accettai a testa bassa il crudele destino che mi era stato imposto, non potevo ribellarmi, perché sarei risultata semplicemente infantile.

Ebbene, dopotutto questo è seguito, nella mia vita, un periodo di quiete assoluta, dove non desideravo accanto nessun’altra presenza tranne quella delle mie amiche. Almeno sino a quando non subentrarono loro; quelli che attualmente, rispettivamente da otto mesi e tre anni, sono i rispettivi “consorti” delle mie uniche ragioni di vita. Sono sola. Schifosamente, ironicamente, fottutamente sola. 

L’acqua lentamente scivola via dal corpo, inebriandomi di ricordi e di vaniglia. Esco dalla doccia, avvolgendo un asciugamano attorno al corpo per dirigermi in camera e scegliere alla rinfusa quel che dovrò indossare per il mio entusiasmante tragitto da casa al discount.

Ed eccomi qua, splendidamente avvolta in un’altra tuta, con i capelli raccolti in un semplice chignon, immancabilmente provvista di lenti a contatto, rigorosamente usa e getta senza alcun filo di trucco, così come se mi stessi avviando semplicemente al supermercato, cosa che non sto assolutamente andando a fare eh!  Le porte scorrevoli si aprono, prendo un enorme respiro e mi avvio verso il reparto – cibi in scatola – perché se avessi voglia di cucinare per una persona, sarei impazzita d’un tratto. Mi fermo, osservo placidamente le pile di scatoline e scatolette disposte per etichetta e prezzo sui ripiani; cogliendo col mio infallibile radar una confezione di ramen istantaneo che richiama a gran voce la mia attenzione.

“Oh, oh, oh! Sei mio!” incurvo le labbra come la più spietata dei cecchini, come se fossi pronta a far fuoco sul mio bersaglio, quando dall’altra parte della corsia, appare il nemico. C’è qualcun altro che a quanto pare ha avuto la mia stessa idea, e fissa, guarda caso, lo stesso innocente barattolino istantaneo. Ancora quell’energumeno! Da un anno e mezzo è sempre la stessa storia, qualsiasi cosa io adocchi, viene sempre prontamente riconosciuta dall’altro occhio esperto del mio antagonista. Mh, questa volta non la spunterai. D’un tratto la corsia dei prodotti istantanei diviene la stregua di una città fantasma, dove io e lui ci squadriamo come nella famosa scena di mezzogiorno di fuoco. Parte la musichetta, in modo quasi automatico nel mio cervello, che non ha di meglio da fare se non propormi allettanti background musicali.

“Se pensi che ti lascerò portare a casa il mio trofeo ti sbagli di grosso” sorrido spavalda, piegando il busto in avanti, pronta allo scatto.

“Keh! Se io mi basassi su ciò che tu pensi, sarei proprio sfigato” ribatte, incrociando le braccia al petto ad attendere la mia mossa, sicuro più che mai d’avere la vittoria in pugno. Una scossa di pura rabbia mi attraversa la spina dorsale, così forte che il braccio mi si solleva automatico a mezz’aria col chiaro intento di indirizzare il pugno chiuso su quel sorrisetto saccente.

“Ah, ah, ah. Peccato che tu lo sia già” non ho problemi a fronteggiare un attaccabrighe di tale portata, noi donne abbiamo il dono della pazienza, cosa che tu non possiederai nemmeno tra cent’anni razza di babbione con i capelli scoloriti! Un vago pensiero che mi attraversa celere, prima di scattare in avanti per tentare di accalappiare il prodotto per prima. Peccato che io non abbia fatto i conti con qualcosa di naturalmente evidente anche a occhio nudo …

“Nana” pronuncia vittorioso, limitandosi a compiere qualche passo in avanti e afferrare la scatola con facilità, mentre io, saltellando come una scema; rimango infine sconcertata a fissarlo dalla mia minuta posizione. Tu, razza di gigante col cervello impiantato al posto dei genitali, cos’hai detto? Rossa, percepisco di essere divenuta di un colore totalmente estraneo alla mia naturale tonalità lattiginosa. Per l’ennesima volta sono stata gabbata a causa della mia altezza, e dal fatto che i fottuti proprietari di questo posto si ostinano a sistemare il ramen in scaffali irraggiungibili ad una povera, piccola puffa come me.

“Dammelo! L’ho visto prima io!” continuo a divincolarmi, mentre il palmo della sua mano, posto ‘’gentilmente’’ a far da scudo contro la mia fronte, ad eventuali graffi, mi mantiene a debita distanza da attacchi d’isteria acuti. E’ la mia cena bastardo! Avevo voglia di ramen stasera, e tu hai lasciato sfumare anche l’ultima speranza del mio stomaco.

“Hai perso” mi mostra di nuovo quello sfacciato, quanto soddisfatto sorrisetto ebete, ed io non posso far altro che masticare e inghiottire la mia irritazione, da brava perdente quale sono. Gli occhi mi pizzicano di frustrazione, tanto che quando mi da le spalle vorrei saltargli addosso e martoriarlo di botte ed insulti fino a ucciderlo e vederlo riverso nel suo sangue. Troppo violenta dite? Quando si parla di cibo, posso divenire anche peggiore di così! No, questa volta non te ne andrai con il mio ramen, ti seguirò sino all’inferno per riprendermi ciò che mi spetta.

Prendo la rincorsa, chinandomi in avanti come un ariete pronto a sfondare una porta, dirigendo tutta la mia forza verso quel corpo che se ne cammina tranquillo di fronte a me. “Ti ho detto che è mi…oooo” spalanco gli occhi al denotare che sto correndo diritta verso una piramide di lattine di birra, disposte a regola d’arte proprio sulla mia traiettoria. Dov’è andato? Come cavolo si è spostato, ed io, come ho fatto a non accorgermene? “Dilettante” formula, con le spalle poggiate ad uno scaffale, e il barattolino di ramen che gli saltella allegro all’interno della mano.

No, diamine! Il tentativo di frenare trova riscontro solamente quando il mio corpo subisce un feroce schianto contro la palizzata di lattine, che rotolano tutte addosso a me, una dietro l’altra. Oltre al danno la beffa! Io mi ritrovo sommersa di scatolame, e lui che mi deride come se fossi il film più divertente dell’anno. Maledetto! Ho un’ultima risorsa alla quale attingere. Mi chino, appallottolandomi su me stessa come se fossi caduta in un pianto disperato, o come se mi fossi rotta tutte le ossa del corpo.

“… Quanto male faranno due o tre lattine? Sei fatta di carta?” si avvicina di soppiatto, aggirandomi guardingo per costatare se io stia fingendo o meno, e appurato che probabilmente il mio danno sia più grave del previsto, e probabilmente pervaso da sensi di colpa, si china di fianco a me. Oh, oh, oh. Quanto siete idioti voi uomini … bastano due lacrime ed una buona padronanza della recitazione per farvi cadere in panico come baccalà!

“F … fa male, non ho un corpo forte come il tuo, sono una ragazza, è … è normale che faccia male!” sbotto, col volto immerso tra le mani. “Davvero?” formula avvicinandosi, ecco, è il mio momento! La mia mano scatta, afferrando celere il barattolo per strapparglielo dalle mani. “Blahhhh!” gli mostro la lingua, sollevandomi d’impatto per fuggire via e conquistarmi così la libertà verso l’uscita. Ingannato!

Il suo volto si contrae in una smorfia, segno che non gli è piaciuto molto il mio scherzetto, e, infatti, se ne rimane là, immobile, vicino alla montagna di birre collassate ad osservarmi in silenzio. Ben ti sta, ben ti sta! Corro verso la cassa, per pagare il prodotto e tornarmene a casa a gustare il sapore della vittoria. “Bene signorina, fanno dodicimila yen” cosa? Com’è possibile che un oggetto così piccolo abbia un prezzo così assurdo?

“Scusi, ci deve essere un errore, le sembra che io abbia comprato così tanta roba? E’ un prodotto solo” il cassiere alza le spalle, indicando alla sua destra. “Assieme a quello deve ripagare anche tutte le birre che ha rotto signorina, siamo stati informati da quel ragazzo laggiù, non se la prenda con me” abbassa le palpebre, porgendo il palmo aperto in attesa di ricevere soldi.  Ribollisco di rabbia, le mie spalle si stringono così tanto che ho quasi l’impressione che mi si stia per rompere qualche osso. Lo odio! Bastardo! Schifoso stronzo!

Lui mi osserva con un sorrisetto compiaciuto in volto, aggirando la cassa per pormi una mano sul capo e carezzarla come si fa con i cani. “Volevi il tuo ramen?  Tutto tuo. Bye bye” e mi abbandona così, come una  carciofa, mentre le porte scorrevoli si richiudono alle sue spalle. Fisso per qualche secondo la porta, allibita, per poi sollevare lo sguardo al cielo, con le mani che formicolano di collera.

“SERIAMENTE, PERCHE’ VOIALTRI LASSU’ CE L’AVETE CON ME? IO ODIO, DETESTO, ABORRISCO GLI UOMINIIIII!”

  
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