La piccola comitiva di teatranti era giunta alle
porte di Forum Lepidi in tarda serata. Il Sole era già tramontato, il cielo
pareva un morbido velo di velluto nero teso sopra alle teste degli uomini, le
stelle brillavano di una fredda luce metallica. L’unica luce calda era quella
delle torce, appese lungo la cinta. Le mura e i bastioni della città erano alti e possenti, i mattoni non erano rossi ma di quel
chiaro marroncino tipico dei castelli medievali e dei coevi palazzi comunali.
Quelle fortificazioni toglievano il fiato, così massicce e imponenti, parevano inscalfibili e gettavano nelle persone un senso di nullità:
che cos’era un piccolo uomo, destinato alla morte, a confronto di quelle solide
pareti millenarie? Qualcuno tra gli attori lo domandò, più per celia che per
filosofia, tuttavia Astrea rispose:
“Le persone, caduche e destinate all’oblio,
valgono molto più di qualsiasi edificio mozzafiato, se vivono davvero. L’uomo è
emozione, passione, sentimento; se non si pone freni, se si lascia trasportare
da sé stesso, se non si cura dell’apparenza e di ciò che vuole il maledetto
senso comune, allora davvero vive. Se, invece, ha
paura, se si lascia condizionare, se cerca disperatamente l’approvazione
altrui, allora non fa altro che far sopravvivere il proprio corpo. L’uomo
libero è infinitamente superiore a queste mura e a qualsiasi altra cosa di
questo mondo materiale; l’uomo timoroso ne è schiavo.”
Alcuni degli attori scossero la testa: era sempre la
solita filosofa; altri invece annuirono approvando tali parole e iniziando
discussioni impegnate tra di loro.
Entrarono in città, si fermarono coi carri in uno spiazzo vicino ai giardini pubblici, si
sistemarono un poco, accesero un fuoco per scaldarsi e cucinare; stanchi per il
viaggio e in vista della loro prima esibizione a Forum Lepidi, si coricarono
tutti quanti abbastanza presto. Prima di mettersi a dormire, tuttavia, Astrea
guardò il teatro più importante della città, il terzo più
bello della nazione, era stato eretto poco più di due secoli prima, proprio
accanto al parco. Lo guardò e tra sé e sé si chiese se i suoi pieni avrebbero
mai calcato quel palcoscenico; al momento doveva accontentarsi dei ciottoli
delle strade, ma infondo forse era meglio così, in questo modo poteva far
emozionare molta più gente ed era ciò che più voleva.
La mattina seguente, di buon ora,
gli artisti si recarono in Piazza Alta, montarono alcune tende affinché
fungessero da quinte e camerini, poi fu la volta della modesta scenografia; si
misero in costume, si truccarono e si prepararono ad entrare in scena. Il più giovane dei teatranti, un ragazzino di sedici anni, pieno di
vita e allegria, mascherato da giullare, inizio a suonare la tromba e a
richiamare l’attenzione dei passanti con battute di spirito, giochetti di
prestigio e altre facezie; quando si fu radunato un pubblico alquanto
consistente, ecco che l’attore iniziò a pronunciare il prologo, il sipario si
aprì e lo spettacolo ebbe inizio. La folla guardava entusiasta e si
lasciava trasportare dalla scena, rideva, piangeva, applaudiva.
D’improvviso, però, giunsero soldati in armi che a
gran voce intimavano: “Largo, largo! Sgomberate il passaggio, sta per giungere sua eccellenza il
Duca Agakrathos e i suoi fratelli, le loro grazie Halkemidos e Timao. Presto,
presto, cedete il passo, fate spazio!” Tutta la gente
iniziò a farsi da parte, si accalcò da un lato o l’altro della piazza, aprendo
così un ampio corridoio tramite cui sarebbe passato il piccolo corteo. Soltanto
gli attori non si erano mossi, pur occupando un tratto della strada, anzi
continuavano la loro rappresentazione senza esitare, senza batter ciglio, come
se nulla fosse. Irritati, i soldati fecero irruzione sulla scena, ribadirono l’ordine e scaraventarono a terra qualche
teatrante che, tuttavia, per un poco rimasero calati nella parte ed
improvvisarono. Le guardie erano terribili e irremovibili e si fecero ancor più
tremende quando giunsero le tre portantine che
trasportavano il Duca e i suoi fratelli e che si dovettero arrestare poiché
l’improvvisato palco intralciava il loro tragitto. Halkemidos,
seduto alla destra del signore di Forum Lepidi, con calma e freddezza domandò
al capo delle guardie che cosa stette succedendo, ma non ottenne da quello una
risposta, ci pensò Astrea. La giovane, infatti, camminando impetuosa, con
grandi falcate si pose davanti alla portantina centrale e, senza neppure
riconoscere i vecchi amici, da quanto era furiosa non aveva
neppure fatto caso ai nomi che i soldati avevano annunciato, iniziò a
dire: “Non si spezza un’emozione. Non si infrange un
sogno. Non si rompe una magia. Avete interrotto uno spettacolo teatrale: che
grande errore!” Fissò dritto negli occhi il Duca che aveva assunto
un’espressione arcigna e di disgusto, quelle folte ciglia aggrottate, quell’indignato sguardo altezzoso
le ricordavano qualcuno e finalmente lo riconobbe. Guardò rapidamente gli altri
due e il proprio stupore crebbe a tal punto che non
poté fare a meno di esclamare: “Voi? Tu…. Tu sei diventato Duca?” Agakrathos era sbalordito da così tanta spavalderia e da
modi così liberi ed irrispettosi, per cui, con la voce
vagamente segnata dall’ira, ma pur sempre calma, calda e distaccata, domandò:
“Come osi rivolgerti a me in questo modo? Anzi come osi rivolgerti a me?! Tu non dovresti neppure guardarci: abbassa gli occhi, non
sei degna.” Astrea si lasciò andare a
una fragorosa risata e ribatté: “Ma come? Così mi tratti, dopo tutte le volte
che abbiamo cenato assieme?”
Agakrathos stentava a credere alle
proprie orecchie: non poteva tollerare che una popolana, anzi, ancor meno, una
nomade, si permettesse di rivolgersi a lui in quella maniera e che affermasse
certe cose per di più! Egli, il Duca, che sempre s’era accompagnato
esclusivamente con la creme
de la creme, a cena con una del volgo? Impossibile! Che affronto tale insinuazione! Tuttavia c’era qualcosa che
non lo convinceva, in effetti quella voce non glie era
nuova… e quei lineamenti morbidi e decisi, quei profondi occhi ardenti come
tizzoni, quei capelli castano scuri e rosso fiamma, lunghi e boccolosi…… Tutto questo gli ricordava qualcuno, eppure
nella mente non gli riaffiorava alcuna memoria ben definita.
Halkemidos era stato gettato nel
medesimo stato d’animo del Duca, anche lui era convinto di aver già conosciuto quell’impertinente attrice, questa certezza gli era data non
tanto dall’aspetto fisico, ma dall’atteggiamento sprezzante e risoluto.
Solo Timao l’aveva
riconosciuta, solo lui la ricordava, ma non ne era
sicuro, erano passati ben quattro anni, ella comunque era un po’ cambiata
esteriormente; egli sperava in cuor proprio che quella fosse la sua vecchia
amica, ma il timore di essersi sbagliato, di essersi illuso, lo tratteneva dall’esclamare
il nome di Astrea.
Tutti questi pensieri attraversarono la mente dei
tre fratelli in un lampo e nessuno di loro ebbe il tempo di dir nulla per
replicare, infatti la teatrante s’era d’improvviso
ricordata di un’importantissima questione, per cui s’affrettò a dire: “Uh,
scusate un attimo, devo prendere una cosa prima di dimenticarmene, torno
subito, attendete un secondo, non di più.” La giovane si infilò
dentro a una delle tende e ne uscì recando con sé una busta che porse a Timao annunciando: “Da parte di un carissimo amico comune.”
Il nobile lesse rapidamente l’intestazione: A
Timao Aristidei, da Duccio.
Ora aveva la conferma che quella ragazza era quella ch’ei
credeva; si alzò in piedi tutto contento esclamando: “Ma allora sei tu!” Con un
balzo che poco si addiceva alla propria posizione sociale, saltò giù dalla
portantina dicendo gioioso con la sua profonda voce: “Astrea, Astra! Quanto
tempo! Perché non mi hai mai scritto?” La ragazza
ricambiò i saluto lietamente.
Nel mentre gli altri due Aristidei si scambiarono un’occhiata che in parte era
preoccupata: conoscevano bene il carattere della vecchia semi-amica. Agakrathos
iniziò a ricordare tutte le discussioni che avevano avuto, l’astio, tutti i
contrasti che erano nati tra loro: monarchia vs
democrazia, società piramidale vs uguaglianza sociale,
pugno di ferro vs tolleranza e così via. Il Duca
sapeva bene che Astrea non lo avrebbe lasciato in pace, sapeva che lei era d’indole
ribelle e sediziosa, sapeva che in lei pulsava uno spirito libero, non disposto
ad essere domato, che non si sarebbe piegato a lui, che non lo avrebbe mai ossequiato.
La soluzione migliore e più razionale era certamente quella di prevenire ogni
altra alzata di testa facendola arrestare e fustigare, così come aveva già
compiuto con altri soggetti ostili. Tuttavia c’era qualcosa che lo tratteneva,
qualcosa che stranamente non era dettato dalla formalità o l’apparenza, bensì
da un benevolo sentimento sincero, generato dalla memoria di altri
momenti del tempo che fu: era vero, avevano avuto molti animati dibattiti, ma
mai veri e propri litigi e spesso avevano anche dialogato serenamente sia di
cultura, sia dei reciproci problemi personali. Agakrathos,
che era sempre stato intransigente circa il rispetto che gli si doveva
tributare, che mai s’era fatto scrupoli nel punire chi si mostrava indocile,
che ormai era noto a tutti per la propria durezza, non riusciva, in nome di quell’antico e debole legame, ad ordinare di mettere ai
ferri quella giovane. come agire, dunque? Doveva trovare
un modo per evitare a lei la galera e a sé stesso di rovinarsi la reputazione.
Intanto, sapendo anch’egli che doveva dare l’impressione
al popolo che quella giovane indisponente, si comportasse
in un modo così libero, non per ribellione, ma perché legata a loro, Halkemidos fece cenno di abbassare la propria portantina,
si levò in piedi e col capo alto e l’incedere del passo elegante e distinto,
che quasi parea brillare di luce propria, avanzò e
raggiunse Astrea e, mostrando un sorriso luminoso ma ipocrita, le strinse la
mano cordialmente dicendo: “Carissima, che piacere rincontrarti dopo così tanto
tempo. Come stai?”
“Benissimo, non posso certo lamentarmi. Voi,
invece? Non mi pare ve la passiate male…”
“Non ce la
passiamo male? Mio fratello è Duca! Oserei dire che la nostra vita sia
ottima.”
“Convinto tu…” replicò Astrea lasciando intendere
che assai dubitava che un uomo di governo potesse
esser lieto. Prima che si potesse aggiungere altro o cadere
in un imbarazzante silenzio, Agakrathos, dall’altro
del proprio trono, annunciò: “Oggi, sarai nostra ospite a pranzo, così potremo
parlare a lungo; adesso non possiamo trattenerci oltre, abbiamo questioni
importanti da sbrigare. A più tardi.”
I due Aristidei minori
risalirono sulle loro portantine, il corteo era pronto per ripartire, quando il
capo delle guardie osservò: “Ma il paesaggio è ancora ingombrato da questi
attori….” Halkemidos, sapendo
che insistere per liberare la strada avrebbe causato soltanto problemi inutili,
con finta naturalezza rispose:
“Non essere ridicolo, questi teatranti dovrebbero smontare tutto, perderemmo un
sacco di tempo. Se tu ci avessi informati prima
avremmo variato fin da subito il nostro tragitto, infondo noi siamo promotori
dell’arte e ci dispiace aver interrotto uno spettacolo, lascia che lo
riprendano e noi avviamoci per una strada più corta.”