DON.
Le campane avevano appena cominciato a scandire i
tredici rintocchi che annunciavano l’orario, erano quelle del campanile del
duomo, massiccio edificio romanico che tuttavia presentava alcuni elementi
gotici, ad esempio il rosone e altissime trifore decorate con vetrate
variopinte che narravano le vite di molti santi. La basilica si trovava nella
piazza centrale di Forum Lepidi, che era anche quella del mercato.
DON.
Nella parte più a Nord del centro della città si
ergeva il palazzo Ducale, non era una fortezza, bensì un elegante edificio
neoclassico, con molte marmoree colonne ioniche con capitelli corinzi lungo la
facciata azzurra su cui si aprivano finestre dai molti bianchi stucchi.
DON.
Davanti ad esso si apriva una vastissima piazza
priva di monumenti o fontane, in essa spesso sfilavano i militari, per questo
era chiamata piazza d’armi.
DON.
Dietro, invece, cresceva rigogliosamente un
immenso parco, attraversato da vialetti di candida ghiaia e solcato da un ruscelletto che formava pure un piccolo laghetto: un vero
paradiso.
DON.
Astrea era in piedi, ferma immobile, dal lato
opposto della piazza ed esitava ad attraversarla. Da una parte aveva voglia di
rivedere gli Aristidei, passare del tempo con loro immergersi
nuovamente, per un poco, in un ambiente aristocratico, acculturato, ma falso;
dall’altra tremava, non sapeva perché, forse per il fatto che i tre fratelli
non fossero più quelli che aveva conosciuto, o forse era solo l’emozione, ma
tremava.
DON.
Si decise ad andare. Attraversò la piazza, incerta,
molti ricordi si susseguivano rapidamente nella giovane mente: le cene da
Eduardo, le chiacchierate, i concerti di musica classica dei tre fratelli che
rispettivamente suonavano il pianoforte, l’oboe e il violoncello.
DON.
Era davanti al portale a sesto acuto, retto da due
telamoni scolpiti in maniera estremamente realistica, precisi nel dettaglio: muscolatura
perfettamente definita, un morbido panneggio increspato nei veli che li
avvolgevano, la barba e i baffi scompigliati, lo sguardo e l’espressione di chi
fatica a reggere un grande peso.
DON.
Davanti all’ingresso vi era un drappello di sei
soldati, indossavano una divisa blu notte con bottoni color dell’oro. Erano armati
di tutto punto con spade, pugnali, mazzafrusti e lì accanto, pronti ad essere
impugnati, si trovavano archi, balestre e fionde.
DON.
Astrea allungò la mano, l’appoggiò sul pomello d’ottone
e ancora indugiò: e se le avessero fatto del male? Ricordò quando, pochi mesi
prima di finire il liceo, durante la gita scolastica, esasperata perché la
ignorava, lei aveva chiesto ad Agakrathos: “Ma ti sto
antipatica?”
“No…… Sono stanco.”
“Non è questione di adesso, è in generale. Capisco
che, forse, ti possa essere sembrata assillante ultimamente, ma è solo perché,
comunque, una volta avevamo un buon rapporto, ora invece non ci parliamo più e
a me piacerebbe rinsaldare quel legame.” Egli aveva ascoltato tutto quanto
impassibilmente, la osservò imperturbabile per un istante, poi fece il segno
della croce dicendo: “Ti do la benedizione papale.”
DON.
No, non avrebbe potuto farle più male d’allora.
Astrea avrebbe preferito mille volte che l’Aristideo,
in quell’occasione, le avesse detto di odiarla,
infondo l’odio era comunque una forma di rispetto e di considerazione. L’indifferenza
faceva male più di ogni altra cosa.
DON.
No, non l’avrebbero ferita, sarebbero stati soli,
non c’erano altre persone, non dovevano mantenere un prestigio davanti ad altri
amici, erano solamente loro quattro… Inoltre erano passati alcuni anni, anche
gli Aristidei erano cresciuti e se ciò non li aveva
fatti maturare, almeno erano diventati i signori della città e non dovevano
rispondere a nessuno delle proprie azioni e delle proprie frequentazioni.
DON.
Astrea varcò la porta e attraversò un lungo
corridoio decorato in stile barocco: l’oro si sprecava! Un maggiordomo, esageratamente
elegante per il proprio ruolo, la scortava e le mostrava la strada da
percorrere per raggiungere la sala da pranzo. Ovunque ci erano quadri,
sculture, arazzi e specchi.
DON.
La porta della sala da pranzo si aprì, erano già
seduti Halkemidos e Timao. Il
posto di capotavola era libero, riservato per il Duca, quello alla sua destra
era appunto occupato dal fratello mediano, quello a sinistra era stato
destinato all’ospite che aveva accanto anche il più piccolo dei nobili.