Anime & Manga > Pandora Hearts
Segui la storia  |       
Autore: Shichan    30/04/2010    3 recensioni
«Non è cosa che ci riguardi. Latowidge vede studenti arrivare e studenti andarsene.»
«Quello è uno studente che non deve stare affatto qui.»
«Lo consideri una minaccia?» lo sfotté palesemente, sebbene il tono sembrava rimanere comunque piuttosto pacato, come poco prima. Un nuovo verso stizzito, simile ad uno schiocco di labbra che con la scarsa illuminazione non gli era possibile scorgere con lo sguardo.
Ma dopotutto, non aveva bisogno di vedere. Erano compagni da molti anni; sapeva “osservare” anche solo ascoltando.
«Non incrocerà la tua strada. E nemmeno la mia.» assicurò, concedendosi infine di chiudere gli occhi.

[Personaggi: Un po' tutti]
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nel mese durante il quale Alyster era rimasta in infermeria dopo il primo malore durante il ballo, c’era stato un via vai continuo, seppure sempre delle stesse persone

Poi, il tempo si ferma

 

 

As years go by

I race the clock with you

But if you died right now

You know that I'd die too

 

 

Nel mese durante il quale Alyster era rimasta in infermeria dopo il primo malore durante il ballo, c’era stato un via vai continuo, seppure sempre delle stesse persone.

Le volte in cui Oz vi si era recato aveva avuto modo di incrociare Elliot e Reo che ne uscivano, Keira Nightingale del quinto anno che aveva partecipato al concerto, Ada accompagnata da Karin e Gilbert, che però si limitava spesso ad una visita di passaggio che durava il tempo utile ad informarsi con cortesia della sua salute senza però fermarsi mai troppo a lungo.

Probabilmente era dovuto al fatto che non avevano la stessa confidenza che la ragazza aveva invece con Elliot, il quale – così gli aveva detto lei stessa in una delle prime visite – si tratteneva sempre abbastanza a lungo da parlare un po’.

Ovviamente, ad eccezione degli impegni assolutamente improrogabili, Sirjan viveva praticamente dentro l’infermeria, Aedan che lo sostituiva per quanto riguardava le ronde e tutto ciò che concerneva strettamente la disciplina; solo i documenti erano lasciati al capo dormitorio.

Per il resto, Oz sapeva per certo che anche Noah era andato a trovarla per il semplice fatto che spesso erano andati insieme; una delle volte in cui però era andato da solo, Alyster lo aveva sorpreso con una richiesta.

«Ci sono delle cose delle quali ti vorrei parlare.» aveva esordito la ragazza, il sorriso pacato sempre al suo posto, il corpo esile che vestiva una vestaglia sopra la camicia da notte, coperto fino alla vita dalle lenzuola bianche e pulite, il viso un poco pallido, ma tutto sommato sano.

«Forse Sirjan non condividerà, ma credo… sia il caso di parlartene. Sto solo anticipando di un poco il momento in cui ti avremmo raccontato comunque la cosa.» aveva proseguito, le dita delle mani intrecciate in grembo: «Sono cose che non dovresti sapere. E alcune regole mi impediscono di raccontarti i dettagli. Però ci sono cose, anche che non ti riguardano personalmente, ma che riguardano solo me e mio fratello, di cui… vorrei parlarti. Che vorrei tu ascoltassi.» aveva poi detto, osservandolo per studiarne la reazione forse.

Oz e la curiosità erano una cosa sola, ma a spingerlo ad annuire non era stato solo quello: era stata la profonda fiducia che in relativamente poco tempo aveva sviluppato nei confronti di Alyster, era stata l’espressione gentile e la parola di conforto che ogni volta lei aveva trovato il tempo di rivolgergli.

Era stata quella sensazione che intorno alla ragazza aleggiasse tanta gentilezza quanto qualcosa di più spesso e impenetrabile che non era mai riuscito a decifrare.

Lei aveva sorriso, ma in maniera diversa: sollevata, grata quasi.

«Voglio parlarti della mia famiglia e di quello che fa da generazioni, Oz.»

 

 

I Kolstoj non erano mai stati una di quelle famiglie il cui nome è presente nei registri di secoli e secoli prima; rispetto a molte altre casate avevano una storia più breve, ma fin da quando figuravano in società il loro compito era sempre stato lo stesso: non si seppe mai saputo se si fossero staccati da un ramo principale con un altro nome, o se avessero avuto origine dal matrimonio di un membro di una famiglia conosciuta con un qualche straniero.

Tuttavia, era pressoché impossibile fra le casate ducali maggiori che il loro nome non fosse più che conosciuto: tra queste, i Kolstoj erano stati chiamati in vari modi nel corso del tempo.

Ci fu un periodo in cui li chiamarono Recorder, “coloro che registrano”; il nome subì diverse variazioni nel tempo, si notava dalle informazioni che dal passato erano rimaste, spesso ad opera degli stessi capo famiglia in carica. Furono chiamati per un breve periodo “gli informatori”, nome abbandonato e ripreso solo più avanti, per poi essere mantenuto in modo più o meno definitivo e stabile.

Il ruolo del capofamiglia era un ruolo estremamente complesso nel suo genere: la famiglia dei Kolstoj, di generazione in generazione si occupava sempre della stessa cosa, ossia quello che veniva definito all’inizio “segreto di società”; le casate nobili più in vista, e nella fattispecie le cinque casate ducali maggiori, intersecavano le loro storie e le loro esistenze in una maniera tale che come in ogni ambiente di alta società denso di falsità e menzogne, non erano rari incidenti che avrebbero gettato la reputazione di chiunque in una fanghiglia così densa da non permettergli alcuna risalita.

Per sopperire a questi incidenti e perché venissero messi tutti completamente a tacere senza lasciare traccia, si ricorse a qualcosa di molto simile a dei “depositari” delle informazioni.

Questi erano i Kolstoj.

Generazione dopo generazione il capofamiglia si faceva carico delle vergogne peggiori delle altre casate, con l’obbligo di non rivelarle a nessuno e mantenere una posizione di assoluta neutralità: suo compito era di agevolare una soluzione al problema più semplice e discreta possibile, facendosi fautore dell’equilibrio fra le casate maggiori.

Ogni informazione sarebbe stata registrata nella persona stessa del capofamiglia, che avrebbe portato i segreti di cui era a conoscenza nella tomba, ad eccezione del suo successore, l’unico autorizzato a conoscere quanto accaduto fino a quel momento.

La successione – così fu deciso dal primo capofamiglia – avvenne sempre per età: qualora anche ci fosse più di un figlio e possibile erede, questi sarebbe stato scelto sempre attraverso quel parametro. Dunque ogni primogenito, già dalla sua nascita, sarebbe stato destinato a prendere il posto di suo padre.

La prima eccezione si ebbe nella seconda generazione della famiglia: il primogenito Maximilian morì assassinato che era appena ragazzo e il suo posto fu quindi preso dalla secondogenita Lilith.

La seconda, fu nel caso della quinta generazione: i figli del capofamiglia di allora erano gemelli. Sebbene l’uno fosse nato di qualche secondo prima dell’altra, non si poteva parlare di maggiore età fra loro.

Fu deciso perciò che la decisione sarebbe stata presa più avanti con l’età, basandosi sull’indole e le attitudini dimostrate da entrambi; tuttavia, nonostante non fu resa pubblica fino alla cerimonia di maggiore età a quindici anni, la decisione era stata presa già l’anno precedente in un modo tale che se fosse stato scoperto, probabilmente ci sarebbero stati diversi disaccordi in proposito.

Benché fosse in potere del capofamiglia cambiare alcune regole interne della famiglia qualora lo ritenesse strettamente necessario, quella della successione era rimasta intaccata per ben cinque generazioni.

All’età di quattordici anni, Sirjan Kolstoj chiese di essere l’erede del ruolo di suo padre.  

 

«Sirjan, Alyster, non correte!» sentirono esclamare poco dietro di loro; il ragazzino si fermò per voltarsi indietro, cercando con lo sguardo la figura della madre che li aveva richiamati. Allo stesso tempo, sua sorella lo raggiunse affiancandolo, la risata leggera e cristallina che si levava nell’aria mentre si fermava a sua volta.

«Non preoccuparti, madre!» assicurò lui di rimando, voltandosi quindi all’indirizzo della gemella e allungando una mano verso di lei, che la prese prontamente rivolgendogli un sorriso allegro.

«Ti accompagno dove vuoi! C’è un posto che preferisci, Alys?» domandò osservandola; lei parve pensarci su qualche istante, con grande attenzione: «Andiamo al fiume, fratellone?» propose quindi, l’espressione incerta. Sirjan le sorrise, l’aria divertita, spostandosi di qualche passo ed esibendosi in un perfetto inchino con tanto di baciamano.

Rialzò lo sguardo furbo su di lei, che sorrideva divertita: «Certo che sì. Ogni tuo desiderio è un ordine.» affermò.

 

Allora, Alyster camminava ancora; all’età di undici anni, lei e Sirjan erano due bambini la cui massima preoccupazione, come tutti i loro coetanei, era cosa fare nei pomeriggi assolati come quello in cui andarono insieme al fiume.

Situato vicino alla tenuta estiva dei Kolstoj, il corso d’acqua non era particolarmente capiente o conosciuto: scorreva attraversando delle parti di verde incontaminato, con vegetazione non troppo estesa che rischiasse di far smarrire la strada.

Quel pomeriggio, con l’ingenuità tipica di un bambino, Sirjan aveva pronunciato una promessa che, pur non potendolo sapere allora, avrebbe continuato a mantenere anche in futuro: i desideri della sorella, il suo stare bene, sarebbero diventati la sua personale priorità.

Forse anche per questo qualche anno dopo sarebbe stato lui stesso a prendere il posto del padre quando ancora non era stato deciso chi vi fosse più adatto fra lui e la sorella.

La giornata al fiume fu divertente: passarono quel pomeriggio sul prato, con i piedi per un po’ nell’acqua del fiume; Sirjan rischiò di farsi male quando per prendere un paio di frutti dall’albero cadde – per fortuna da un’altezza misera, scivolando mentre scendeva per tornare a terra.

Avrebbe potuto piangere come il bambino che era, ma per un motivo che sarebbe stato chiaro solo qualche anno dopo, il viso preoccupato della gemella aveva fatto sparire ogni possibile dolore, o l’aveva reso qualcosa di assolutamente irrilevante in quel momento.

Era stato importante soltanto ridere della propria goffaggine, lasciare che Alyster gli togliesse sollevata qualche foglia depositatasi fra i capelli e prendesse fra le mani quel frutto accennando anche lei ad una risata leggera che scacciasse via la preoccupazione.

Il resto, a distanza di una decina d’anni quasi, Sirjan nemmeno lo ricordava più.

 

Quando Alyster cominciò a stare male, non sembrò nulla di grave.

Non sarebbe stata la prima volta che, con un virus influenzale nell’aria, si ammalava per prima; era capitato anche in passato che la febbre fosse anche molto alta, o che le causasse qualche leggero dolore alle ossa dovuto alla spossatezza soprattutto.

Anche quella volta la febbre pian piano scese fino a sparire del tutto, ma rimase quel doloroso senso di torpore ai muscoli; a quasi quattordici anni, le gambe di Alyster Kolstoj si bloccarono a livello muscolare abbastanza da impedirle di camminare.

La notizia della sciagura che aveva colpito la famiglia si sparse in fretta in società; tuttavia nessuno si presentò alla tenuta per sincerarsi della salute della figlia femmina che era andata peggiorando in modo così drastico e terribile per una bambina che non aveva ancora fatto il suo ingresso in società.

Le parole che vennero indirettamente rivolte alla famiglia Kolstoj furono parole degne dell’ambiente delle classi agiate di cui erano entrati a far parte con quel loro particolare ruolo: malelingue che strisciavano sotto forma di pettegolezzi insinuandosi nei posti più angusti, raggiungendo l’udito anche di chi non avrebbe voluto ascoltare.

E dire che anche il figlio maschio deve ancora affrontare la cerimonia di maggiore età: sarà segnato dal destino toccato alla sorella., erano stati i commenti spietati che si erano riversati su di loro, riempiendo le mura di casa.

Sirjan sviluppò un rifiuto categorico nell’apparire in pubblico, giurando dalla prima volta in cui sentì quei commenti che mai si sarebbe sottoposto alla cerimonia senza la sorella.

Disse parole forti per un ragazzino della sua età.

Disse cose che andavano contro l’educazione ricevuta e la posizione per generazioni prima i suoi antenati avevano faticosamente conquistato.

Disse per la prima volta qualcosa con la rabbia e l’odio che si addicono ad un adulto.

Le pronunciò davanti all’unico aristocratico che in casa Kolstoj mise piede senza mentire, riversando su di lui quel disgusto che una cerchia di nobili aveva provocato, facendone il capro espiatorio.

Ma quell’aristocratico non si voltò come tutti gli altri.

 

«Ci è giunta voce della malattia che ha colpito vostra figlia.» sentì dire al giovane esponente che era probabilmente venuto fin lì per farsi portavoce della propria casata in vece del capofamiglia.

Lo aveva osservato guardingo da quando aveva messo piede lì; i capelli lunghi tenuti ordinatamente in una coda bassa legata da un nastro nero, il mantello che copriva le vesti e che non aveva tolto ancora di un colore piuttosto tenue.

L’espressione di chi trova quella formalità qualcosa di non troppo utile e che se la risparmierebbe volentieri.

Come tutti gli altri.

Falso.

Ipocrita.

Opportunista.

Di certo anche lui era lì per cortesia, per non inimicarsi la famiglia Kolstoj.

Di certo anche lui avrebbe rivolto parole disgustose a sua sorella.

«Sono qui, in rappresentanza di mio padre. Si scusa per non essersi presentato di persona, un impegno lo ha trattenuto. » gli sentì spiegare.

Prevedibile, proprio come aveva pensato.

Perché gente come quello… era lì?

«Ci tiene a comunicarvi che di qualunque cosa necessitiate, sarebbe ben disposto ad esservi di aiuto.» aggiunse, voltandosi poi in direzione dello stesso Sirjan, probabilmente sentendosi osservato.

Mentre il padre del più giovane ringraziava e lo pregava di riferire le proprie parole al padre, il ragazzo continuava ad osservare il figlio, attirando infine l’attenzione del capofamiglia che si sentì quindi in dovere di presentarli.

«Questo è mio figlio Sirjan.» iniziò, distratto dalla porta che veniva aperta da una cameriera lasciando entrare Alyster, la camicia da notte sostituita da abiti consoni a ricevere un ospite, i capelli legati in una treccia che poggiava morbidamente sulla spalla.

Sulla sedia a rotelle da cui non si sarebbe potuta alzare mai più.

«Lei invece è Alyster.» concluse il padre, lo sguardo di un genitore che scambierebbe volentieri il suo posto con il figlio pur di non vederlo in uno stato simile.

Sirjan non aveva smesso di guardarlo male nel momento stesso in cui l’ospite aveva posato il proprio sguardo sulla gemella; se soltanto avesse pronunciato parole che potessero in qualche modo offenderla, o sottolineare in maniera vagamente sgradevole la condizione in cui versava ora, giurò a se stesso che non gli sarebbe importato nulla dell’etichetta.

Lui l’avrebbe protetta: non importava a che prezzo.

Lo vide inginocchiarsi davanti alla sedia a rotelle della sorella, un ginocchio a contatto con il pavimento, l’altra gamba piegata; la osservò in silenzio, quasi studiandola e Sirjan si ritrovò a fare un passo avanti quando notò il disagio di Alyster iniziare ad essere visibile.

«Mi dispiace, per la vostra condizione.» gli sentì dire.

Affiancò la sorella, guardando quel tipo senza nemmeno l’ombra del rispetto che l’etichetta imponeva nei confronti di un ospite: «Non c’è niente di cui dispiacersi.» sbottò nell’immediato, senza avvertire lo sguardo di Alyster che si spostava apprensivo su di lui.

«Smettete di venire qui, voi e le altre famiglie. Di mia sorella non vi importa, e non fate altro che rivolgerle parole che non pensate. La trattate come non fosse normale. Allora potete anche andarvene se è per questo che vi siete scomodato a venire.» replicò affilato, il tono che tremava appena per la rabbia e l’incapacità – a tredici anni – di ferire con le parole come si potrebbe fare con delle lame, senza movimenti superflui e con accuratezza.

Piuttosto gli si rivolgeva goffo come chi in un duello mortale impugna la spada per la prima volta nella sua vita.

E quel tipo taceva.

E lo fissava come se non valesse nulla.

«Non sarete voi, piuttosto, a considerare vostra sorella una debole?» lo apostrofò, atono.

Sirjan avvampò, un po’ di rabbia un po’ di frustrazione: «Come…?»

«Perdonatemi, comunque, se ho dato quell’impressione.» riprese l’altro interrompendo ogni sua possibile replica.

E gli sorrise: un incurvarsi di labbra di chi ha trovato qualcosa di divertente che ha finalmente eliminato la monotonia delle sue giornate e quasi promette docilmente di riempirle almeno per un po’.

«Sirjan!» lo richiamò il padre, ma il giovane alzò una mano, come a far segno che non era accaduto nulla di irreparabile, lo sguardo che rimaneva su Sirjan, l’espressione immutata.

«Siete ancora piuttosto immaturo, ma in qualche modo divertente. Quando sarete cresciuto, forse potremmo anche trovare un punto d’incontro.» lo apostrofò provocatorio e criptico al tempo stesso.

Sirjan tacque, fissandolo ancora piuttosto irritato da quel comportamento, osservandolo anche mentre suo padre lo conduceva via da quella stanza in cui rimasero lui e la sorella.

«Perdonate mio figlio, è molto scosso per la sorella.» si scusò l’uomo una volta nel corridoio.

«Meglio di molti altri aristocratici, glielo assicuro.» fu il giudizio che Rufus Barma diede quella volta.

 

 

«Cosa?! Conoscete il professor Barma da così tanto tempo?» la interruppe Oz, osservandola sorpreso.

Alyster accennò ad una risata leggera, appena più flebile del solito, ma udibilissima e divertita come lo erano state altre.

«Sì. Il professor Barma è un vecchio amico di famiglia. Mio fratello all’inizio non lo aveva visto di buon occhio, ma… Barma è meno terribile di quanto sembri, davvero.» assicurò, ma dallo sguardo di Oz probabilmente capì che per il ragazzo immaginarlo era difficile.

E in effetti, evincerlo solo da quel che di Rufus Barma si vedeva in una classe non era facile – e in realtà dipendeva anche dal fatto che le condizioni in cui Alyster lo aveva conosciuto erano particolari, e che la ragazza era piuttosto incline a dire un po’ di tutti che si trattava di persone “meno terribili di quanto sembrasse”.

Oz ridacchiò appena: «Scusa Alyster, ma è un po’ difficile.» ammise sincero, e lei sembrò apprezzarlo, senza prendersela.

«Lo so. Però dico davvero, quando ti racconto di un Rufus giovane e gentile. Forse sarà cambiato con il tempo, ma per me e Sirjan è stato una figura importante. Mio fratello lo aggredì, ma allora era vero che molte delle persone che vennero a parlare con mio padre per la mia malattia lo fecero solo per falsa cortesia.» pronunciò, forse la cosa più severa che il biondo le avesse mai sentito dire.

Rimasero in silenzio per diverso tempo, in cui lui si limitò a lasciar vagare lo sguardo un po’ ovunque nell’infermeria, mentre lei aveva diretto il proprio fuori dalla finestra che si trovava abbastanza vicina al suo letto e aveva preso ad osservare qualcosa del giardino che forse ne aveva catturato l’attenzione.

Che spostò nuovamente su Oz quando ne avvertì le iridi chiare su di sé: «Non voglio che ti fai problemi con me, Oz. Se vuoi chiedermi qualcosa, fallo senza sentirti a disagio.» lo rassicurò, rimanendo quindi in attesa.

Lui si guardò le mani, che giocherellavano con il bordo dello sgabello su cui sedeva durante le visite come quella: «Non voglio chiederti qualcosa che ti metta a disagio.» rivelò sincero; anche prima lo era stato spesso anche senza averne l’intenzione con Alyster ma ora che stava male, o che sembrava comunque più debole del solito, a maggior ragione mentirle gli sarebbe sembrato in qualche modo meschino.

La vide sorridergli gentile ed incoraggiante al tempo stesso, e fare un cenno leggero del capo, come a spronarlo a non preoccuparsi di una cosa simile.

E a quel punto non avrebbe avuto più motivo di negarle quella domanda istintiva che gli era venuta in mente mentre l’altra raccontava l’episodio in cui un Rufus Barma poco più che adolescente aveva interagito per la prima volta con i Kolstoj.

«Alyster, tu… non eri spaventata?» le chiese, con quanta più calma gli riuscì, per non far apparire quella domanda come una richiesta di frettolosi chiarimenti.

Lei inclinò appena la testa lateralmente: «Da cosa?» chiese infatti; Oz soppesò qualche istante come porre la domanda in maniera più chiara.

«Pensavo al fatto che tu… mi sembri felice.» esordì poi: «Quando sei con Sirjan, ma anche con altre persone. Con Aedan, o con Elliot, o anche con me tu sorridi sempre. E mentre raccontavi, sembrava che da bambina tu fossi più spaventata da quanto Sirjan potesse arrabbiarsi che non dal fatto di non poter più camminare.» chiarì del tutto cosa intendesse con la domanda precedente.

Alyster assunse un’aria sorpresa, ma non negativamente, tanto che quasi subito lasciò che un sorriso addolcito le incurvasse nuovamente le labbra.

«Non ero spaventata, ma solo perché non mi rendevo probabilmente nemmeno conto dell’entità di quanto mi stava succedendo. Forse all’inizio, non lo avevo nemmeno capito davvero.» ammise: «Perciò all’inizio, la mia preoccupazione maggiore era che qualunque cosa mi fosse successa alle gambe, potesse davvero essere un problema per tutte le persone che mi circondavano, proprio come dicevano i pettegolezzi a quel tempo. Non solo Sirjan, ma anche i nostri genitori.» continuò, spiegandogli chiaramente e passo passo quali preoccupazioni le avessero riempito la testa in quel periodo.

Fece una pausa, lo sguardo che sostava su Oz, come a sincerarsi che avesse capito prima di proseguire: «Mio fratello è la persona che amo di più al mondo. Essere gemelli faceva già sì che ci fosse un legame particolarmente forte, ma Sirjan per me è stato tutto. È stato quella persona a cui affidarsi, quel qualcosa che ti proteggeva e che io stessa volevo proteggere. Suona un po’ come nei libri, ma è stato davvero la mia forza.» spiegò con la dolcezza nel tono di voce, lo sguardo che mostrava un amore incondizionato, che ad Oz ricordava più quello che spesso veniva attribuito ai genitori nei confronti dei figli che non a due fratelli.

«Sirjan è stato quel qualcosa che non è cambiato mai. Non era importante cosa succedesse alle mie gambe, cosa succedesse al mondo che c’era intorno. Sirjan non cambiava mai, lui era sempre lì. Anche se… in un certo senso, io sono stata egoista. Anche se più di una volta gli ho detto che non doveva rinunciare alla sua vita per stare sempre e solo con me, speravo che non andasse via. Non volevo la sua infelicità, ma istintivamente io desideravo che rimanesse.» rivelò, sincera e pacata, come se avesse fatto i conti con quella parte di sé già diverso tempo addietro e ormai avesse accettato la parte di sé che era stata egoista, in modo tale da non stupirsi più quando faceva la sua comparsa come in quel momento.

«In ogni caso, lui non ha mai abbandonato il mio fianco. Ed è anche giusto che io mi senta un po’ in colpa nei suoi confronti. Non per autocommiserazione, né per un atto di masochismo. Solo, ho pensato di dover sacrificare anche io qualcosa per lui. Perciò va bene così.» concluse, con un sospiro leggero.

Oz si chiese se non l’avesse stancata già troppo, per quel giorno; occhieggiò l’orario, facendo mente locale: Sirjan non arrivava mai prima di una certa ora, e notò che mancava una mezz’ora abbondante ancora.

Aedan era sicuramente occupato a dare una mano al capo dormitorio e dunque era difficile che venisse; allo stesso modo, Alyster gli aveva detto che Elliot era passato in mattinata.

Tornò con lo sguardo su di lei, deciso ad aspettare per non lasciarla da sola.

 

 

Semmai vi era stato il dubbio che la malattia che aveva colpito le gambe della figlia dei Kolstoj potesse aver indebolito gli arti inferiori solo per un periodo di tempo che potesse essere più o meno lungo, ben presto fu evidente invece che di qualunque malore si trattasse fosse destinato a rimanere permanente, impedendo così di nutrire una qualsiasi speranza di recupero sull’utilizzo degli arti.

La madre, a detta delle signore che spesso popolavano i salotti riempiendoli di chiacchiere concitate e pettegolezzi, aveva affrontato quell’avvenimento nefasto con forza e dignità.

Aveva fin da subito assistito la figlia in tutto: molti sostenevano che fosse stato fatto non solo per amore verso la bambina, ma anche per fa sì che il tutto non gravasse sul marito e sul figlio, che era apparso a quel punto l’unico possibile erede del compito del capofamiglia dei Kolstoj.

Contrariamente a quanto era stato lasciato trapelare tuttavia, non era stato ancora deciso affatto: nonostante le condizioni fisiche di Alyster avessero reso certamente più difficile l’assoluzione del compito che avrebbero dovuto ereditare, era per contro anche vero che sembrava lei dei due quella che possedeva un’indole tale da potervi meglio assolvere in futuro.

Ma Alyster era ancora una ragazzina: una quattordicenne che aveva a malapena preso coscienza del fatto che non avrebbe camminato mai più, che aveva sentito su di sé la pressione di ingiuste accuse su un futuro in cui non sarebbe stata altro che un peso; aveva visto suo fratello arrabbiarsi a quel modo per qualcosa che la riguardava, quel suo senso di protezione farsi estremamente più elevato di quanto non fosse mai stato e soprattutto lo aveva visto in piedi.

In una posizione tale per cui, passo dopo passo, sarebbe potuto andare via senza tornare mai più.

Alyster lo aveva visto nascondere il sorriso che di Sirjan le era sempre piaciuto tanto, per far spazio all’espressione di un adulto che sul viso ancora caratterizzato dai lineamenti morbidi aveva stonato terribilmente.

Aveva visto sparire quel sorriso, così come la possibilità di credere in un infantile “per sempre”.

E solo allora, da quando non era più stata in grado di camminare, Alyster aveva pianto.

 

«Sirjan, cosa c’è?» sentì chiedere al padre.

Lo osservò, in piedi nel suo studio, di fronte alla scrivania dietro la quale spesso aveva giocato senza permesso insieme ad Alyster.

Strinse appena la stoffa all’altezza dei pugni, le braccia lasciate lungo i fianchi.

«Padre, voglio essere io il tuo erede.» disse, deciso; sua sorella non avrebbe potuto farcela da sola, ma se lui si fosse fatto carico almeno di una cosa delle tante gravose che rischiavano di ricadere sulle spalle di Alyster, avrebbe potuto proteggerla almeno da quel qualcosa per quanto in suo potere.

Dietro la porta, Alyster ascoltava, le mani di sua madre poggiate sulle spalle per dare conforto e dire con un sorriso e un po’ di calore che sarebbe andato tutto bene.

 

A quattordici anni, Alyster Kolstoj capì che il mondo non sarebbe stato più quello che aveva potuto osservare.

A quattordici anni, Sirjan Kolstoj promise che almeno una parte di quel mondo l’avrebbe protetta lui. 

 

Il racconto di Alyster riprese, raggiungendo finalmente la parte che – a suo avviso – il fratello aveva taciuto fino a quel momento ma che, arrivati a quel punto, lei riteneva giusto che Oz sapesse.

«Ti ho raccontato tutto questo perché tu capissi il ruolo che abbiamo io e Sirjan, per eredità della nostra famiglia.» fu la sua premessa, per essere anche sicura che il biondo fin lì avesse capito.

Oz annuì: «Praticamente tu e Sirjan conoscete alcune cose riguardanti le famiglie dell’alta società e avete il dovere di tenerle per voi, giusto?» ripeté, riassumendo quanto detto e compreso finora.

Alyster annuì: «A volte anche andargli incontro, e fornirgli la soluzione più discreta possibile.» aggiunse alle parole del più giovane. Lo osservò quindi per qualche secondo, in silenzio, come soppesando per un’ennesima volta se fosse davvero il caso di parlargliene.

Infine, sospirò: «Ascoltami bene, Oz. Tu sai che Gilbert e Vincent Nightray sono stati adottati dal casato e non sono i figli naturali del Duca e sua moglie, vero?» chiese, lasciando Oz inizialmente perplesso, sebbene annuì meccanicamente a quella domanda che era stata quasi retorica.

«Il Duca e sua moglie avevano un primo figlio, Elliot, e accolto come unico altro bambino in casa Reo, che divenne il suo servitore personale. Poco dopo l’arrivo di Reo, trovarono Vincent. Il quale continuava a parlare di un fratello maggiore: fu la mia famiglia ad occuparsi di cercarlo e risultò che Gilbert era stato accolto dai Bezarius. Tra le due famiglie non corre buon sangue, ma si trovò facilmente un accordo, e Gilbert fu adottato insieme a Vincent dai Nightray.» riassunse la storia, dando ad Oz anche qualche particolare in più.

Fece una breve pausa, probabilmente per riordinare le varie informazioni di cui era in possesso, scegliendo accuratamente quali rivelare e dosando le parole.

«Questa storia la conoscono un po’ tutti: non è un mistero la loro adozione. Ma c’è… un’ombra, sul casato dei Nightray, di cui è a conoscenza solamente il Duca e la mia famiglia. Tra la nascita del loro unico figlio naturale e l’adozione degli altri due, c’è stato qualcosa di mezzo. Qualcosa che nelle famiglie altolocate non è motivo di vanto. I Nightray ne sarebbero stati screditati, se si fosse venuto a sapere ed è per questo che si è trovato il modo di insabbiare tutto.» continuò, l’espressione – nonostante i lineamenti rimanessero comunque morbidi e non eccessivamente tesi – seria.

Attese, quasi si aspettasse una domanda o volesse in ogni caso dargli il tempo di assimilare quanto gli stava dicendo; il biondo per contro pendeva dalle sue labbra, combattuto tra la naturale curiosità che era una sua caratteristica quasi peculiare, e la perplessità  mista ad un accennato senso di colpa al pensiero che stesse ficcando il naso nella storia della famiglia di Gilbert quando non avrebbe dovuto, o sarebbe stato il caso di chiedere al diretto interessato anziché lasciare che glielo raccontassero terze persone.

Tuttavia, le parole di Alyster, proprio perché pronunciate dalla ragazza apparivano impossibili da ignorare: non era mai stata, né aveva dato modo di pensare che lo fosse, una persona volta al pettegolezzo.

E se addirittura andava contro il ruolo del fratello e della sua famiglia, rivelando segreti che avrebbe dovuto tacere per dovere, doveva esserci qualcosa che davvero necessitava di essere comunicata a lui, Oz.

«Di cosa si trattava?» si decise quindi a chiedere, gli occhi chiari che non si spostavano dal viso della ragazza, cercando forse di evincere qualcosa della risposta prima che questa venisse pronunciata.

«Un figlio illegittimo, Oz.» replicò lei, il tono pacato.

Il biondo assunse un’aria confusa senza poterne fare a meno: «Aspetta, aspetta un attimo.» disse, lasciando ad intendere senza troppe difficoltà di aver perso il filo.

«I Nightray hanno un figlio, ossia Elliot rimane. Dopo di lui non ne nascono altri, ma Vincent e Gilbert vengono adottati. Ma prima di questo, era nato un figlio tra il Duca Nightray e qualcuno che non era sua moglie?» cercò in qualche modo di riepilogare.

Alyster annuì, ed Oz sgranò gli occhi con l’avvenuta conferma di aver capito bene: «E questo figlio chi sarebbe?» chiese di getto, senza pensarci troppo su.

La ragazza scosse appena la testa: «Questo non posso dirtelo. Però Oz, qualcuno lo aveva scoperto. Nessuno sa come, perché questa persona non ha mai interagito con me o mio fratello, né con nostro padre. E anche se lo avesse fatto, non avrebbe avuto alcuna conferma o informazione da parte nostra.» assicurò, ribadendo le “regole” sotto le quali la sua famiglia viveva.

Oz aggrottò le sopracciglia, come se gli stesse sfuggendo qualcosa da un po’.

«Credo che questa persona l’abbia scoperto dai Baskerville. In passato avevano dei rapporti di amicizia non indifferenti con il casato dei Nightray. Ho fatto un’ipotesi, ma… non è nulla di più. L’ho fatta per mio conto, anche se Sirjan sa che ho studiato la cosa per qualche tempo. Non ne abbiamo mai parlato direttamente, ma non ha mai smentito la mia teoria le poche volte che vi ho accennato.» spiegò, come per premettere che non necessariamente quello che stava per dirgli poteva corrispondere a verità.

Oz annuì, fattosi a sua volta serio: non avrebbe saputo dire esattamente perché, visto che non si trattava di qualcosa che le parole, il tono o l’espressione di Alyster gli avevano suggerito esplicitamente, ma aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di cui preoccuparsi.

E che corrispondesse in qualche modo a ciò che secondo la ragazza doveva essergli rivelato nonostante tutto, “regole” comprese.

«Il Duca Nightray ha un figlio illegittimo da una donna che non è sua moglie e si rivolge ai Kolstoj per nascondere il suddetto figlio e fare in modo che il tutto passi sotto silenzio. L’allora capofamiglia dei Baskerville, supponendo che fossero amici, lo aiuta. Non so se disinteressatamente o meno. È plausibile che il figlio dei Baskerville, Glen, lo sapesse o lo avesse scoperto. Non era uno sprovveduto, anzi era persino più brillante del padre. A quel punto, la persona in questione lo scopre da Glen. Io credo da solo, non penso che l’erede dei Baskerville glielo avrebbe detto di sua sponte. Anche perché credo che non se ne interessò mai più di tanto.» concluse.

Anche se dal tono usato ad Oz parve che avesse lasciato in sospeso qualcosa, quasi ripensandoci all’ultimo minuto e decidendo di non dirla nonostante avesse preso in considerazione di farlo.

La guardò interrogativamente e forse lei ne comprese il motivo.

«Alyster, puoi dirmi chi era questa persona che pensi abbia scoperto tutto da Glen?» domandò comunque più esplicitamente Oz, in modo che la richiesta fosse chiara ed Alyster non potesse eluderla.

«…Tuo fratello Jack, Oz. Lui incontrò il figlio illegittimo del Duca Nightray.» replicò lei.

 

 

Sentì bussare alla porta dell’ufficio, lo sguardo che alzandosi dai documenti che stava controllando incontrò quello della sorella, poco distante dalla scrivania dietro la quale sedeva lui – suo padre aveva insistito, una volta accordata la successione del figlio maschio al ruolo di famiglia, perché prendesse dimestichezza fin dal giorno dopo quella decisione.

Era stata data disposizione che entrambi apprendessero in fretta, l’uno per succedere al padre, l’altra per poterlo supportare nelle questioni più semplici e alla sua portata.

Dall’altra parte della porta li raggiunse la voce della governante annunciare una visita; Sirjan pronunciò un neutro “avanti”, interrompendo la lettura del documento che aveva sottomano.

La donna avanzò, con un inchino rivolto ad entrambi: «Signorino, Jack Bezarius richiede un colloquio privato con voi.» comunicò.

Lui e Alyster si scambiarono un’occhiata, prima che Sirjan annuisse: «Fallo accomodare. Anche qui andrà bene.» pronunciò, vedendo entrare pochi minuti dopo il biondo, primogenito dei Bezarius – così diceva il fascicolo sulla sua famiglia, già visionato tempo addietro all’inizio di quella loro istruzione.

Aveva l’aria di chi fa davvero una visita di cortesia ad un amico di vecchia data, notò Sirjan quando poté osservare il primo di una lunga serie di sorrisi spensierati che l’altro gli rivolse a mo di saluto.

Nulla di irrispettoso, anzi: a Sirjan diede la sensazione di qualcosa di molto sincero – e non la provava da anni nei confronti dei figli di buona famiglia con cui si era ritrovato ad interagire.

Tuttavia, era diventato qualcuno incapace di fidarsi ciecamente come avrebbe potuto infantilmente fare qualche anno prima, Sirjan; era ora il tipo di persona che arrivava al punto, senza girarci troppo intorno – ombra della schiettezza e della sincerità di un ragazzino di qualche tempo fa – e che voleva solamente svolgere il suo lavoro, ed essere poi lasciato libero di agire come preferiva.

Lui il cui ruolo imponeva più regole di quanto sembrasse e tra di esse alcune delle più difficili da rispettare – non tradire la fiducia di chi ti affida informazioni che non rivelerebbe ad altri, aiutare con quanta più discrezione possibile, fingere di dimenticare e invece ricordare tutto come su un registro che non finisce mai le pagine – voleva sempre liberarsi del lavoro prima possibile.

Quella volta, Jack si rivolse prima ad Alyster che non a lui: le si avvicinò, rivolgendole lo stesso sorriso con il quale era entrato, senza che l’espressione subisse alcun mutamento quando notò la sedia a rotelle; non ci fu la minima traccia di compassione nel suo sguardo, ma semplicemente fece un inchino educato come l’etichetta imponeva.

E ridacchiò, con fare quasi impacciato: «Ero venuto qui deciso ad impormi più possibile per sapere la verità, ma così non penso proprio di riuscirci.» dichiarò confondendo un poco entrambi i fratelli.

Al chiarimento su cosa intendesse richiesto da Sirjan, Jack Bezarius rispose con la gentilezza che lo contraddistingueva – come avrebbero entrambi compreso a breve – che: «Mi aspettavo un uomo burbero e severo, magari anche un po’ cattivo. Ma se i miei interlocutori sono due fratelli dall’aspetto tanto carino, come faccio a fare la parte dell’uomo senza scrupoli che vuole sapere qualcosa ad ogni costo?»

 

 

Oz aveva ascoltato con attenzione per tutto il tempo in cui Alyster aveva parlato e raccontato vari episodi che riguardavano il passato suo e di Sirjan.

Prima che parlasse anche di suo fratello Jack, Oz aveva ragionato a proposito di cosa la ragazza aveva detto del fratello: Sirjan purtroppo aveva dato poco modo di farsi comprendere appieno. Oz avrebbe potuto addirittura giurare di aver avuto occasione di studiarne il carattere solo due volte: per la precisione quando lo aveva visto interagire con Cheshire in quello che era stato – fortunatamente – l’unico incontro avuto con il felino fino a quel momento, e il conseguente chiarimento avuto quando si era trattenuto nella sala in cui il più grande e Alyster lavoravano come capo dormitori.

Nel primo caso, l’impressione avuta del ragazzo era stata quella molto distante da quanto un primo sguardo aveva potuto suggerirgli: se, infatti, al suo arrivo a Latowidge Sirjan gli era parso il classico studente più grande pacato e con quell’aura un po’ particolare che sapeva farti stare al tuo posto pur senza bisogno di un rimprovero esplicito da parte del ragazzo, in quell’occasione era stato diverso.

C’era stato un Sirjan che della gentilezza, anche solo quella rivolta agli altri per buona educazione e cortesia, non aveva nulla negli atteggiamenti e nelle parole; una persona che aveva provato disgusto e che, quando gli era stato chiesto il motivo per quel fastidio e quell’irritazione mal celati, aveva dimostrato un’attitudine abbastanza distante dalla comprensione.

Se fosse dovuto a episodi passati con i cosiddetti “spiriti” sulla linea di Cheshire o alla semplice non accettazione di qualcosa di così diverso, Oz non aveva saputo dirlo.

Eppure, dalle parole di Alyster, era in qualche modo sembrato tutto molto più complesso, come se facesse parte di un gioco: sovvertire le parti, mischiare le carte in tavola.

Il Sirjan dei ricordi che lei aveva condiviso con il biondo era stato dapprima un ragazzino come tanti altri, un bambino allegro e anche piuttosto vivace che giocava a fare l’adulto galante per divertire la sorella; si era lentamente trasformato come in una metamorfosi: dapprima il fratello che sorrideva alla caduta da un albero perché istintivamente per lui il sorriso della gemella era la cosa più importante, poi il quattordicenne che chiedeva di essere sottoposto alla pressione di un ruolo troppo gravoso per la sua giovane età nel timore che ricadendo sulla sorella avrebbe potuto rivelarsi un carico troppo oppressivo per lei che già doveva combattere con la presa di coscienza di non poter camminare.

Ed infine era diventato un adulto che l’aveva affiancata non per obbligo né per giocare a fare l’eroe dei romanzi famosi come Holy Knight: perché Oz non aveva potuto azzardare giudizi fino a quel momento sul capo dormitorio, ma una cosa sapeva riconoscerla ed era apparsa evidente fin da subito molto chiaramente.

Lo sguardo di Sirjan quando si posava sulla figura di Alyster era lo stesso che a volte aveva visto rivolgere a suo fratello Jack, spesso verso Ada: quello di una persona che guarda la cosa più preziosa che ha, quella che a tutti i costi vuole proteggere da tutto e da tutti.

L’espressione di Sirjan, spesso imparziale come la natura del suo ruolo nella famiglia, si velava di una dolcezza insospettabile probabilmente; non sembrava avere occhi né attenzioni per nessuno che non fosse Alyster, forse in modo iperprotettivo o che qualcuno avrebbe anche potuto definire inadeguato, ma lui non sembrava curarsene.

E, semplicemente, le voleva bene più che a chiunque altro.

Proprio per quello, nonostante Alyster si fosse incolpata dell’averlo privato di una parte della vita che l’altro avrebbe potuto fare, Oz era più convinto che nemmeno una volta Sirjan avesse pensato alla sorella come ad un peso o come ad un compito che gli era stato affidato e che doveva portare a termine per diligenza.

Quando Alyster aveva finito di raccontargli quanto poteva dirgli riguardo quel segreto che concerneva la famiglia Nightray, compreso il loro incontro con suo fratello Jack, era caduto un silenzio che durava anche in quel momento.

Oz si era soffermato a riflettere – non solo su Sirjan, ma anche sul resto – cercando di riordinare le idee più possibile.

Perché Alyster, che aveva esordito dicendo che non erano stati sicuri di potergliene parlare, gli aveva invece raccontato molto più di quanto Oz avrebbe anche solo potuto sospettare?

Doveva esserci qualcosa che forse solo lui poteva chiarirle, o che poteva scoprire per loro; e tuttavia se anche avrebbe potuto pensarlo di Sirjan, Alyster non gli era parsa qualcuno che potesse rivelare qualcosa per proprio tornaconto – quello gli faceva tornare in mente il dialogo avuto con Barma quando era entrato in possesso del diario di suo fratello Jack, ancora al sicuro nel cassetto del suo comodino.

Interruppe quel flusso di pensieri solo quando sentì la ragazza tossire e portò lo sguardo su di lei, notando che la mano che normalmente sarebbe salita a coprire le labbra per riflesso e buona educazione si era fermata a mezz’aria.

Probabilmente, pensò Oz, il colpo di tosse era stato troppo repentino.

La osservò con cipiglio preoccupato, facendo per alzarsi ed avvicinarsi un po’ di più in modo da aiutarla qualora ne avesse bisogno; Alyster però scosse appena quella stessa mano rimasta a mezz’aria, inspirando profondamente un paio di volte e riuscendo a calmare il colpo di tosse.

«Non preoccuparti.» gli assicurò accennando ad un sorriso leggero e che ad Oz parve un po’ debole: «La febbre mi fa venire la tosse da quando ero bambina.» aggiunse, forse per tranquillizzarlo.

Lui annuì, più per dar cenno di aver capito che perché rassicurato: «Alyster, se vuoi riposare puoi dormire, io ho comunque qualcosa da fare con me. Oppure se vuoi posso andare.» le disse, non volendo proprio stancarla più del dovuto visto che sembrava già abbastanza indebolita di suo, sebbene rispetto ai giorni precedenti avesse preso un po’ più di colorito.

La vide scuotere leggermente la testa in senso di diniego, in un gesto appena accennato: «No, c’è… ancora qualcosa di cui vorrei parlare con te.» ammise, osservandolo.

Il tono sembrava tornato serio come all’inizio di quella sequenza di rivelazioni, ma velato stavolta anche dalla preoccupazione; prese il silenzio di Oz per un incitamento a continuare e così fece: «Oz, ci sono delle cose di cui… vorrei che ti occupassi.» iniziò, lasciandolo in un primo momento perplesso.

Ma non chiese nulla, per non interromperla e lasciarle il tempo di spiegarsi meglio.

«Quello dei Nightray non è il solo segreto che in un modo o nell’altro riguarda anche te. O, meglio, che ha riguardato Jack. So che Rufus ti ha fatto avere il suo diario, e…»

«Sai del diario?!» la interruppe senza riuscire a frenarsi; lei lo osservò mantenendo la sua caratteristica pacatezza, come se si fosse aspettata quel genere di reazione.

Dopodiché chinò leggermente il capo: «Sì. Mi dispiace, il diario… lo avevamo io e Sirjan. Non volevamo tenertelo nascosto, solo non sapevamo se poterlo affidare a te già da quella volta in cui parlammo fino all’alba.» spiegò ed Oz, facendo velocemente mente locale, non poté quasi credere che già da allora fosse in mano loro.

«Ti chiedo scusa, hai il diritto di arrabbiarti se vuoi. Io e Sirjan speravamo di non doverti coinvolgere, speravamo entrambi che dopo l’aggressione di Cheshire non succedesse più nient’altro, e che tu non venissi messo in mezzo a qualcosa che non ti appartiene. Però dopo hai persino incontrato Glen Baskerville e… abbiamo capito che tenerti all’oscuro di tutto ancora a lungo poteva essere pericoloso per te. Anche per questo te lo sto raccontando.» confidò, la sfumatura preoccupata che rimaneva nello sguardo rivolto al più giovane.

Oz sentiva i pensieri affollare la mente e accavallarsi l’uno all’altro, alcuni collegandosi fra loro facendo un minimo di chiarezza come nell’esitazione di Sirjan nel parlargli di qualcosa sulla quale poi aveva soprasseduto quella famosa notte, altri farlo affondare ancora più in basso verso il punto che avrebbe segnalato il panico classico di quando le cose che non sai generano inevitabilmente paura.

«Come sapevate di… Glen Baskerville?» chiese, quasi boccheggiando; troppe cose gli sfuggivano in quel momento, per poter ostentare un atteggiamento sicuro. Non capiva come potessero sapere cose delle quali lui stesso aveva dubitato pur avendole vissute in prima persona.

«Mio fratello ti ha parlato di una sorta di patto che vige tra noi e gli “spiriti” che sono qui a Latowidge. Gli viene permesso di restare qui, giacché la maggior parte delle persone non li vede e i pochi che potrebbero farlo non vi riescono. Quando non vogliono essere visti, sanno nascondersi molto meglio di quanto ognuno di noi possa credere.» spiegò quasi lentamente per scelta, perché le rivelazioni che stava dispensando ad Oz non lo confondessero più di quanto non stessero già facendo.

«Loro, in cambio, devono mantenersi lontani dagli umani e non avere contatti con loro. Persino Sirjan li incontra solo quando succedono episodi come quello di Cheshire nei tuoi confronti, che però sono sempre stati rari. Al contrario di quanto si possa credere per i luoghi comuni, gli spiriti non hanno così tanta voglia di entrare in contatto con noi.» spiegò.

Oz avrebbe avuto da ridere su tutto quello: se si contava Cheshire, Glen Baskerville tramite Elliot – da quanto aveva capito a questo punto poteva praticamente esserne certo – e la ragazza intravista prima del ballo quando era in attesa di Echo, a quanto pareva gli spiriti non amavano mostrarsi ma avevano una certa predilezione per lui.

Anche se due incontri su tre erano stati sostanzialmente per minacciarlo e fargli passare un brutto quarto d’ora.

«Sirjan li vede?» domandò poi scioccamente, come si rese conto un attimo dopo aver pronunciato la domanda. Alyster annuì: «Da molto tempo. Forse anche per questo non li… ama particolarmente.» replicò, nella voce un’inclinazione breve ma che Oz colse ugualmente anche se per pura fortuna.

Gli parve un po’ tristezza e un po’ preoccupazione, e per quanto aveva imparato a conoscere la ragazza, azzardò nella sua mente l’ipotesi che fosse dispiacere.

Alyster sembrava decisamente capace di provare pena anche per spiriti un po’ violenti come Cheshire.

«Anche tu?» domandò Oz, visto che di questo non poteva essere altrettanto sicuro come nel caso di Sirjan; Alyster annuì una seconda volta, piano, come se dosasse persino i movimenti: «Ma ho iniziato a vederli solo recentemente. Mi sono fatta un’idea del perché, ma in fondo non è importante.» liquidò la questione e con la sensazione che fosse perché non volesse parlarne, Oz decise di non chiedere altro e di lasciare che la ragazza proseguisse con il discorso.

«Comunque» riprese infatti: «quando Glen Baskerville è entrato in contatto con te, è stato attraverso qualcun altro, per di più uno studente. Il patto che hanno con noi implica che un utilizzo del loro seppur lieve potere possa essere sentito, in modo che lo si possa bloccare prima che crei problemi. Quella di Glen Baskerville è stata a conti fatti una possessione. Agevolata inconsapevolmente da Elliot, ma lo è stata comunque. Sirjan l’ha sentita, ma è stata per un lasso di tempo breve abbastanza perché lui arrivasse quando tu stavi già tornando indietro illeso. Non ti ha seguito, ed è andato direttamente alla fonte.» concluse quella spiegazione.

«Alla fonte?» ripeté perplesso Oz, che pure non si era perso una sola parola.

Alyster annuì con un sospiro leggero: «Il luogo dal quale solitamente Glen Baskerville non si allontana mai.» replicò.

 

Ad un certo punto della visita, Aedan era passato in Infermeria, ma si era trattenuto poco: il tempo necessario a chiedere ad Alyster come stesse, e a comunicarle un messaggio da parte di Sirjan. Avrebbe ritardato, occupato da un incarico ricevuto direttamente dal padre. Mandava a dirle anche che la madre sarebbe arrivata a scuola nel pomeriggio, per occuparsi di lei personalmente.

Alyster aveva annuito, ringraziando Aedan.

Quando il ragazzo fu nuovamente uscito, Oz tornò ad osservarla, non sapendo se il discorso avuto fino a quel momento potesse considerarsi concluso oppure no; il dubbio sparì quando Alyster richiamò la sua attenzione, ottenendola immediatamente.

«Finora ti ho parlato anche come membro della famiglia Kolstoj, Oz.» iniziò «Però c’è una cosa che vorrei dirti da amica. Forse sarò un po’ troppo diretta, e ti sembrerò indiscreta, ma… posso?» domandò, rimanendo in attesa.

Oz annuì quasi subito, un po’ sorpreso da tutta quella titubanza da parte di lei, che a quel suo cenno del capo parve sollevata: «Io non so se tu hai incontrato qualcun altro come Glen e Cheshire, oltre loro. In ogni caso, se è successo o succederà, ricordati cosa ha detto Sirjan, perché su una cosa aveva ragione: per quanto tristi e soli, gli spiriti sono e restano tali. Indipendentemente da cosa abbiano fatto in vita, il loro tempo è finito. Ma tu, Sirjan, gli studenti… avete tempo.» disse e ad Oz parve, a prescindere dalla figura esile di Alyster che gli aveva sempre comunicato una sensazione di fragilità, che le parole da lei pronunciate racchiudessero una forza incredibile.

«Qualsiasi cosa ti possano dire, tu sei vivo, Oz. Devi ricordartelo.» concluse.

Oz non avrebbe saputo dire perché, tuttavia nel momento in cui tra loro calò nuovamente il silenzio, sentì lo stomaco chiudersi completamente; somigliava ad una sensazione simile a quando per la sorpresa faceva un buffo salto, in realtà metaforico perché fisicamente non era possibile.

Fu qualcosa di sgradevole, però, anche se Oz non seppe spiegarne il motivo.

Si limitò ad annuire, ritrovandosi poi a parlare istintivamente, quasi senza rendersene conto o facendolo in ritardo: «Ascolta, Alyster. Quando starai meglio, pensavo… di imparare anche io a suonare “Lacie”. Però, se lo chiedessi ad Elliot, lui la prenderebbe sicuramente male.» osservò, ridacchiando sommessamente.

«Mi daresti una mano tu?» aggiunse quindi il biondo.

Lei gli rivolse un sorriso che ad Oz sembrò straordinariamente familiare, ma prima che la ragazza potesse rispondere entrambi furono distratti da un bussare sommesso allo stipite della porta e, voltandosi, la voce del nuovo venuto li raggiunse prima ancora che potessero inquadrarne la figura, che riconobbero entrambi come quella di Elliot.

«Interrompo qualcosa?» buttò lì, Oz non seppe dire se ironicamente o meno; si chiese, piuttosto, se fosse lì da molto e avesse aspettato ad interromperli o se fosse semplicemente arrivato in quel momento.

Alyster gli sorrise, scuotendo la testa e invitandolo ad entrare: il castano si mosse quindi dalla soglia dove stava sostando, avvicinandosi a loro e fermandosi ai piedi del letto della ragazza. Portò gli occhi chiari sul biondo ed Oz tacque, quasi in attesa.

Non sapeva ancora dire se tra lui ed Elliot ci fosse la remota possibilità di un rapporto decente o se l’odio del più grande per i Bezarius avesse già pregiudicato fin dall’inizio quell’eventualità.

Ma era destinato ad essere sorpreso: Elliot, dopo quella che parve una pausa per soppesare al meglio le parole da pronunciare, si imbronciò appena – l’espressione classica di quelle persone che, impacciate, cercano piuttosto di apparire burbere.

«Dovrei parlare con Alyster, ti dispiace lasciarci soli per un po’?» domandò, la frase più educata che gli aveva rivolto dalla prima volta che si erano parlati probabilmente.

Forse scombussolato in parte proprio da questo, Oz annuì rivolgendosi quindi ad Alyster mentre si alzava dallo sgabello sul quale era rimasto per tutto quel tempo. Le rivolse un sorriso, assicurandogli che sarebbe ripassato o quella sera o il giorno seguente magari.

Fece quindi per dirigersi verso l’uscita, sentendosi comunque richiamare dalla ragazza: voltandosi con metà busto quanto bastava a poterla vedere, poté notare che Elliot aveva già preso posto sullo sgabello che aveva occupato lui.

«Oz, riguardo quello di cui ti ho parlato» esordì, il biondo che si aspettava una raccomandazione sul tenerlo per sé – non ne avrebbe parlato comunque, ma sarebbe stato assolutamente normale sentirsela rivolgere – e fu quindi sorpreso nel sentirla aggiungere: «se dovesse succedere di nuovo… vai a parlarne con Xerxes Break.» concluse, l’espressione che mal celava una vena di preoccupazione.

Sebbene incredulo, decise di annuire solamente ed uscire, lasciandoli parlare come Elliot gli aveva chiesto.

Si diresse lungo il corridoio che conduceva all’atrio, occhieggiando una volta arrivatovi il grande orologio che segnava quasi l’ora di cena: si mosse quindi lateralmente, puntando alla mensa, sentendosi fermare dopo nemmeno due passi da una mano che si era posata sulla sua spalla.

Voltandosi si ritrovò di fronte ad un Gilbert appena ansimante: «…Hai corso, Gil?» domandò perplesso, osservandolo annuire.

«Non proprio. Ti ho intravisto da fuori, volevo fermarti prima che entrassi in mensa.» rivelò il moro, occhieggiandolo mentre Oz si voltava completamente verso di lui in modo da essergli esattamente di fronte.

«Come mai?» chiese riguardo al bisogno di fermarlo: salvo che ci fosse qualche cosa di pericoloso – e ne dubitava, a meno che nel concetto di “pericoloso” non si includesse la possibilità che Alice ogni tanto cercasse di tirare qualche piatto contro il cugino Vincent – non vedeva il motivo di tenerlo fuori.

«Volevo chiederti come sta Alyster.» replicò l’altro, osservandolo.

Oz tacque, non cogliendo appieno perché dovesse chiederglielo in separata sede, ma lasciò perdere pensando a dargli una risposta: «…Non te lo so dire.» ammise inizialmente, abbassando impercettibilmente lo sguardo.

Gilbert non chiese niente, quasi avesse intuito che la replica vera e propria doveva ancora essere formulata: «Mi sembra che stia bene. O almeno, meglio di un mese fa. È ancora debole, però, e ha ancora la febbre.» rivelò il biondo.

«Dunque si può dire che sia stazionaria, giusto?» fece eco a quelle sue parole, come a volerle in qualche modo riassumere; ma qualcosa, nel debole e poco convinto annuire del più giovane gli suggerì che doveva esserci qualcos’altro.

Stava ponderando il modo migliore per chiederglielo ma, per una volta e stupendolo non poco, Gilbert non dovette chiedere; nonostante Oz non fosse incline a parlare di cosa lo preoccupasse, nemmeno quando le domande in proposito si facevano pressanti – soprattutto in quel caso, forse – parlò di sua spontanea volontà.

E nel momento in cui si sentì tirare appena per il braccio e abbassando lo sguardo poté notare che si trattava della mano di Oz che con due dita aveva afferrato la manica della divisa per tirarla appena e richiamarne quindi l’attenzione, Gilbert capì definitivamente che di qualunque cosa si trattasse, non era nulla di buono.

«Gil, secondo te, non… significa nulla vero? Il fatto che ultimamente alcuni sorrisi di Alyster siano… un sacco simili a quelli di Jack. Non significa niente di particolare, giusto?» mormorò.

Gilbert non seppe cosa rispondergli.

 

 

Vedendo il biondo uscire dall’infermeria, si voltò verso Alyster: «Andare da Xerxes? Sicura che si possa definire consiglio?» ironizzò Elliot riguardo la frase che aveva appena sentito rivolgere dalla ragazza ad Oz Bezarius.

Lei abbozzò un sorriso lieve, poggiando la testa al cuscino e rilassandosi finalmente contro di esso.

Elliot storse il naso: «Non dovresti sforzarti meno possibile?» la interrogò, nel tono una nota di rimprovero; lei si limitò a non mutare espressione.

«Quando mi vedono stanca, Oz e Noah si preoccupano di più.» fu la spiegazione piuttosto semplice e sommaria che riferì lei; Elliot fece schioccare le labbra, incrociando le braccia al petto: «In situazioni come questa dovresti preoccuparti di te stessa, non di quanto le persone possano stare in pensiero. Non sono mica dei bambini.» gli fece notare, schietto.

Lei non se la prese affatto, anzi cercò di sorridere un po’ più ampiamente.

Lui, osservandone l’espressione, si riscoprì incapace di tenere la propria dura e severa intatta. Scivolò via come una maschera, lasciando spazio ad uno sguardo preoccupato: «Sta… peggiorando?» mormorò.

E ad Alyster fece tenerezza, quell’Elliot preoccupato e tornato un po’ bambino che era così raro da vedere.

Sospirò lentamente: «Ho mentito ad Oz. Anche se non gli ho risposto, si può dire che io non sia stata totalmente sincera con lui.» ammise, socchiudendo gli occhi e rilassandosi.

«Mi faresti un favore, Elliot?» chiese quindi, senza dargli una risposta vera e propria, nemmeno dovesse dargli la dimostrazione pratica di quanto aveva appena detto di aver fatto con Oz; il castano si limitò ad annuire in silenzio, lo sguardo su di lei.

«Oz mi ha chiesto di aiutarlo ad imparare “Lacie” al pianoforte, per suonarla. Potresti aiutarlo? Ci tiene davvero.» assicurò. Se anche Elliot avesse voluto chiedere perché mai dovesse toccare a lui quel compito ingrato, fu anticipato dalla ragazza: aprì gli occhi, spostando lo sguardo – e l’attenzione di Elliot – sulla propria mano, adagiata in grembo.

Aggrottò appena le sopracciglia, rimanendo accigliata per qualche tempo prima di tornare a rilassare l’espressione.

E, infine, un sorriso mesto.

«Che succede?» chiese Elliot, ma barò. Barò perché sapeva cosa stava succedendo: era nell’aria, era quasi palpabile, come una cortina di un odore terribilmente sgradevole che non si riusciva a far passare nemmeno aprendo le finestre.

Era forse uno dei pochi a saperlo già da qualche tempo, a sapere un po’ tutto – com’era iniziata, come proseguiva e come sarebbe finita.

Anche se chiudeva gli occhi e fingeva di non vedere.

Anche se spesso non ascoltava, e fingeva di non sentire.

«Non riesco più… a muovere le mani bene.» soffiò lei con un tono tale che il castano non riuscì a fare nulla di più sensato che mordersi appena il labbro inferiore in un gesto di frustrazione.

«Da quanto?» sibilò, non per essere aggressivo verso di lei; e Alyster parve capirlo.

«Da un po’.» disse soltanto.

 

 

Più di qualche compagno di Alyster, nelle due settimane che seguirono, ebbe modo di vedere la madre dei fratelli Kolstoj attraversare i corridoi, in special modo quello che collegava l’infermeria alla mensa quando faceva qualche pausa allontanandosi dalla figlia per mangiare.

Era parso strano che la donna mangiasse dalla mensa, ma il mistero si era risolto brevemente nel momento in cui era stato chiaro che dovendosi recare lì comunque per il cibo della figlia, era sensato che anche lei ne usufruisse.

Si allontanava da Alyster solo durante le visite dei compagni, almeno alcune, approfittando forse del fatto che non fosse sola; il padre dei due fratelli era invece capitato più di rado, ma aveva fatto ugualmente visita alla figlia, sincerandosi delle sue condizioni, costretto a ripartire subito.

Oz aveva limitato le proprie visite, ritenendo più giusto – dopo averne parlato anche con Noah ed Alice – lasciare che Alyster passasse più tempo con i genitori ed il fratello che non costantemente accerchiata da qualche compagno.

Tuttavia persino per la ragazza era diventato impossibile ormai nascondere le proprie condizioni a chi l’andava a trovare: perciò anche se Elliot si guardò bene dal riferire la loro conversazione, il fatto che Alyster Kolstoj si stesse aggravando divenne presto qualcosa di quasi risaputo nella scuola.

Nessuno osava parlarne ad alta voce, né a trattare quell’indiscrezione come un pettegolezzo tra i tanti dell’istituto: somigliava ad un rumore di sottofondo quasi impercettibile, un po’ come quello della pioggia, che se non ci si presta particolare attenzione passa praticamente inosservato.

Probabilmente in larga parte era per rispetto: i due capo dormitori erano entrambi stati sempre ineccepibili nei confronti degli altri studenti, pertanto anche gli anni inferiori avevano sviluppato nei loro confronti rispetto ma anche affetto; inoltre c’erano davvero poche carogne tali da azzardare a trattare quella notizia senza delicatezza quando nei corridoi si sapeva di poter incrociare Sirjan.

Se, nel mezzo di uno scambio sull’argomento che riguardava la sorella il ragazzo veniva intravisto, le voci cessavano nascondendosi in un rispettoso silenzio; una volta Oz aveva assistito proprio alla scena, e se ne era accorto: Sirjan non era uno stupido, aveva anzi colto perfettamente il discorso.

Sembrava solo troppo stanco e preso da cose ben più importanti per fermarsi ad intimare di smetterla; inutile sottolineare quanto, dal malore durante il ballo, fosse rimasto lontano dalla sorella per il tempo necessario a quei compiti che non poteva evitare di svolgere.

Nonostante Aedan si fosse sobbarcato di una buona parte di impegni minori, c’erano cose che solo i Kolstoj potevano fare; ma, ad eccezione di quelli, Sirjan era rimasto sempre con lei, spesso assistendo anche alle visite di alcuni di loro.

«Sirjan?» mormorò, attirando nell’immediato l’attenzione dell’altro che alzò subito lo sguardo dal libro che leggeva rimanendole accanto: «Dimmi.» disse, osservandola.

Alyster, sdraiata e coperta, gli rivolse un sorriso leggero: «Ti si stancheranno gli occhi se leggi così tanto qui che c’è poca luce…» gli fece notare con la stessa premura che gli aveva sempre riservato, come se non ci fosse nulla che non andava.

Lui occhieggiò il libro, chiudendolo qualche istante dopo sistemando il segno alla pagina cui era arrivato, posandolo poi sul comodino affianco al letto della sorella. Lei mantenne il sorriso, parlandogli nuovamente: «Hai l’aria stanca.» osservò, una sfumatura di preoccupazione nella voce.

«Non tanto. Tu però dovresti riposare, Alys.» si premurò lui, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte.

Ebbe la sensazione che volesse ridacchiare, lei, ma che fosse fin troppo faticoso metterlo in pratica: «Mi mancava, questo nomignolo.» ammise, con dolcezza.

Lui la osservò, abbozzando un sorriso leggero: «Ti ci chiamo ancora, bugiarda.» la prese bonariamente in giro, la mano che sostava delicatamente vicina alla fronte di lei.

Alyster fece uno sbuffo leggero, un accenno di risata probabilmente, dopo il quale seguì una pausa.

Di quanto, Sirjan non avrebbe saputo dirlo: «Mi manca anche un po’ il periodo di quando eravamo bambini. Sorridevi un po’ di più.» disse con nostalgia.

«Non è cambiato niente, da quando eravamo bambini.» la riprese lui, accondiscendente: «Sei ancora la mia sorellina. E io sono sempre…»

«Il fratellone per il quale ogni mio desiderio è un ordine.» lo prese in giro con affetto; lui sorrise appena più ampiamente, annuendo.

«Vuol dire che posso esprimere un desiderio?» domandò dopo qualche minuto in cui erano rimasti fermi, in silenzio e senza aggiungere nulla. Sirjan annuì, rimanendo in attesa, lo sguardo su di lei senza metterle alcuna fretta, lasciando che articolasse la domanda con i suoi tempi: «Rimani qui a dormire con me, Sirjan?» diede quindi voce alla sua richiesta.

A Sirjan ricordò di quando erano bambini, e spesso era capitato che la sorella sgattaiolasse prima in camera sua, poi nel suo letto, spaventata dalle cose più insignificanti a volte – i tuoni, o un mostro che aveva proprio scelto il suo letto per nascondersi.

Annuì, semplicemente, perché non glielo avrebbe mai rifiutato anche se non fosse stata malata come in quel momento: «Certo. Dormi pure tranquilla, rimarrò qui per tutto il tempo.» assicurò.

Si sporse quindi verso di lei, andando a sfiorarle la fronte con le labbra, in un gesto dolce che non avrebbe potuto rivolgere a nessun altro oltre a lei: «Cerca di riposare.» pronunciò un sussurro, il tono morbido e conciliante.

 

Aprì gli occhi, le palpebre appesantite dal sonno e cercò la fonte di quel fresco piacevole che sentiva.

Le ci volle un po’ per mettere a fuoco la stanza dell’infermeria e suo fratello, le braccia incrociate sul materasso, lì affianco a lei, e la testa posata su di esse.

Dormiva placidamente, i lineamenti del volto rilassati.

«Non dorme profondamente, perciò parliamo piano, vuoi Alyster?» sentì pronunciare e, alzando lo sguardo, riconobbe la figura davanti a sé anche se il ricordo che conservava di lui risaliva a qualche anno prima.

Più in là, vicino all’ingresso, una luce soffusa – o quello le sembrava – le suggerì che non era solo: lo osservò cautamente, richiamando alla memoria i tratti di lui che ricordava perché il loro combaciare con quelli che vedeva la portasse alla giusta conclusione.

Così fu: «È la prima volta che riusciamo a parlare dopo tanto tempo, Jack.» pronunciò, il tono che sarebbe stato comunque flebile di suo se anche lei non si fosse comunque sforzata di parlare piano come consigliato dal biondo.

I capelli legati nella lunga treccia morbida, i vestiti semplici e da camera che doveva aver indossato quando era venuto a mancare nella propria stanza, Jack Bezarius sedeva compostamente sul bordo del letto opposto a quello cui poggiava Sirjan. O almeno, era la posizione che aveva, anche se chiaramente non vi era alcun contatto fra lui e il materasso.

Annuì in sua direzione, sorridendole gentile come la prima volta che si erano incontrati anni prima: «Tuo fratello è sempre stato molto più facile da chiamare. Ha una spiccata sensibilità e mi ha visto sempre, fin da quando sono venuto qui una volta morto.» ammise, posando lo sguardo per qualche istante su Sirjan che giaceva addormentato senza il minimo sentore di cosa stesse accadendo attorno a lui.

Alyster annuì impercettibilmente: «Se ne è sempre lamentato. Non gli piace vedere cose che non dovrebbe.» spiegò, quasi a scusarlo della sua condotta e spesso delle sue parole riguardo gli spiriti come Jack; quest’ultimo non sembrava essersela affatto presa, perciò non trovò necessario rispondere a quelle scuse implicite.

«Sei stata forte, oggi. A dire quelle cose ad Oz, nonostante la situazione. Ti ringrazio, di esserti preoccupata di mio fratello per tutto questo tempo.» disse sincero, osservandola con gratitudine.

Lei scosse appena la testa: «Oz è perso, senza di te.» mormorò, il tono di chi ha notato qualcosa ormai da molto tempo.

«Temo che sarà così anche per Sirjan. Vorrei che… Oz capisse davvero quello che ho voluto dirgli. E vorrei anche che lui e Sirjan riuscissero ad aiutarsi a vicenda su questo.» ammise poi.

Jack la guardò con dolcezza, con lo sguardo che un genitore potrebbe rivolgere ad un figlio vedendolo star male, sia anche per una cosa in sé banale: «Dunque te ne eri accorta da abbastanza tempo da decidere cosa dirgli.» sottolineò lui, ma non in maniera negativa.

Alyster sorrise mestamente: «La mia non è una malattia che guarisce. La migliore delle ipotesi è quando ti logora lentamente e ti permettere di vivere più di quanto non faccia quando invece deteriora il corpo in maniera fulminea.» pronunciò, il tono non esattamente incolore, ma come di chi ha preso ormai coscienza di qualcosa il cui svolgimento non dipende da lei.

«Lo sapevamo tutti. Io, mia madre, mio padre… e anche Sirjan.» aggiunse: «Jack, chi c’è vicino alla porta?» domandò quindi, non spaventata ma istintivamente sulla difensiva; il biondo, anche volendo, non avrebbe mai potuto sgridarla per questo.

Sapeva cosa si provava, sapeva quanta paura si potesse avere in un momento simile: era un terrore così personale, incontrollabile e carico di mille altre cose – la tristezza, la preoccupazione, il rimpianto – che rendeva mostruose anche le cose più normali nella propria quotidianità.

Le sorrise rassicurante: «Si tratta di Lacie. Lei è stata la prima di noi a sentirlo. Forse è perché siete due ragazze, o perché in qualcosa vi somigliate. È probabile che siate due anime abbastanza affini.» concluse, spostando lo sguardo sulla ragazza che rimaneva in disparte lì all’entrata dell’infermeria.

«Si è agitata al punto tale che il giorno del ballo si è persino mostrata di sua spontanea volontà a mio fratello.» la informò il biondo, l’incurvarsi di labbra che assumeva una connotazione quasi dispiaciuta.

«Mi dispiace di avervi agitati in quel modo.» si scusò Alyster, osservando a sua volta la sagoma di Lacie che riusciva solo ad intravedere da lì. Jack scosse la testa: «Non scusarti, non è colpa tua. È solo che quando una vita si sta spegnendo… lo sentiamo. Tanto più forte quanto più l’anima di quella persona è simile in qualche modo alla nostra. Ma non è colpa tua.» ripeté per tranquillizzarla.

Non avrebbe mai voluto essere lì per dirle quello, essere lì come presagio di una morte certa.

Eppure, per contro, aveva sentito quasi il dovere di raggiungerla e parlarne prima che il suo tempo si esaurisse, trasformandosi in eternità; perché era difficile, terribilmente, e quando si amava profondamente qualcuno che si doveva lasciare indietro, diveniva qualcosa che sembrava quasi impossibile.

Allungò una mano per accarezzarle i capelli, almeno simbolicamente, ancora per un po’: «Gli hai detto tutto quello che volevi dirgli?» domandò con dolcezza.

Sapeva che sarebbe stato ugualmente doloroso: l’unica cosa che poteva cercare di fare, era renderlo per lei meno… spaventoso, in un certo senso.

«Credo di sì.» mormorò piano, lo sguardo sul viso del fratello.

«Posso darti del tempo fino a domattina, se vuoi. Non devi necessariamente andare via ora.» tentò Jack, osservando entrambi alternativamente.

Ma Alyster scosse una testa: «So che c’è un tempo predefinito.» replicò.

«Il tuo scade all’alba.» rimbeccò Jack, non per essere duro, ma perché era una di quelle verità che non c’è modo di rendere meno sgradevoli: «Un’ora in più, sempre che non si svegli anche prima dell’alba, non sarebbe un problema.» aggiunse per spiegare meglio cosa intendeva.

Ma, nuovamente, Alyster scosse la testa: «Io non credo che… riuscirei a parlare di nuovo senza piangere, Jack.» fu la risposta completamente sincera che gli diede.

Abbassò appena lo sguardo e per la seconda volta da quando aveva pianto da bambina alla scoperta della malattia che l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita, Alyster si lasciò sconfiggere di nuovo da quel qualcosa molto più grande di lei che aveva sempre minacciato di allontanarla dalla persona per lei più importante.

Jack assunse un’espressione di dispiacere misto ad una profonda tristezza, mentre portava la mano a sfiorarle la guancia, sentendola più consistente sotto i polpastrelli che non avrebbero dovuto essere in grado di toccarla affatto.

Non riusciva ancora a sentire le lacrime che ora le rigavano le guance, ma una sensazione di leggero calore che doveva appartenere alla pelle chiara permaneva lì sulle dita: «Mi dispiace…» mormorò piano la cosa più banale del mondo.

Perché non esistevano parole adatte, quando qualcuno moriva.

La vide sussultare appena a causa di un singhiozzo: «Jack, se anche io diventerò uno spirito…»

 

«Non riesco a provare pena per loro.»

 

«…Sirjan finirà con l’odiare anche me?» pronunciò, il tono incrinato.

Dalla paura di un’idea dolorosa che può diventare molto più di un’idea e concretizzarsi dando finalmente forma al tuo incubo peggiore.

Jack portò la mano a carezzarle i capelli con affetto, come se fosse stata sua sorella, proprio come Ada.

Per difenderla, da quel dolore.

Almeno un po’.

Almeno all’inizio, che ironicamente coincideva con la fine; la vita, aveva un senso dell’umorismo davvero di cattivo gusto.

«Non ti odierà, Alyster. Qualunque cosa tu diventi, in qualunque posto finirai, qui dove siamo noi o altrove… Sirjan non sarebbe mai capace di odiarti. Ti vorrà sempre bene. Sarai sempre la sorellina che ha protetto con tutto se stesso fin da piccolo. Sarai sempre il motivo per il quale è diventato quello che è. Piangerà per te, perché sei stata e rimani importante, Alyster.» la rassicurò, mentre piangeva.

«Jack…» mormorò piano, ancora scossa, e le ossa che le provocavano dolore per quella malattia che sussulti non ne prevedeva senza infierire sul corpo: «se dobbiamo morire e dire addio, allora perché diventiamo spiriti che possono rimanere nel luogo in cui i vivi che amano soffrono la loro scomparsa?» articolò a fatica.

«Perché non scompariamo e basta, Jack? Questa è… una punizione?»

Jack non disse nulla: le sussurrò uno “shhht” per calmarla, e le posò un bacio leggero fra i capelli.

 

 

Pioveva quella mattina.

Quando Oz svegliandosi vide che Noah nel letto accanto al suo non c’era nonostante fosse domenica e, poco dopo, notò un biglietto per lui che lo avvisava di scendere.

Quando si vestì velocemente con la sensazione di una morsa allo stomaco e un brutto presentimento vecchio di cinque anni; era scuro il cielo che intravide dalla finestra del corridoio che percorse per raggiungere le scale.

Lo stesso che fu più chiaro e ampio quando percorse quel tratto all’aperto che portava all’edificio centrale, bagnandosi.

Pioveva quella mattina.

Quando l’istinto gli disse di dirigersi in infermeria e davanti vi trovò un Elliot che non lo aggredì e un Reo che poggiava la mano sulla spalla del castano; quando Gilbert abbassò lo sguardo vedendolo arrivare, mentre Noah sfregava un punto del viso – che Oz non identificò subito come gli occhi – con la manica, Marcus al suo fianco.

Il cielo era scuro fuori dalla finestra che dava su quel corridoio illuminandolo ben poco, e il rumore della pioggia in sottofondo era fastidioso mentre Oz chiedeva cosa fosse successo senza volerlo davvero sapere.

Era nell’aria, lo riconosceva.

Era l’odore di qualcosa che non gli sarebbe affatto piaciuta.

Pioveva quella mattina.

Quando un fastidioso nodo si era formato nella sua gola, quando lo sguardo aveva cercando istintivamente il pavimento; mentre Sirjan usciva dalla stanza osservandoli tutti senza guardare nessuno e un attimo dopo era lì a dare un pugno talmente forte al muro che Oz aveva giurato quasi di aver sentito le ossa rompersi.

Il cielo era scuro, ma fu illuminato da un lampo a cui seguì un tuono, mentre Oz pensava che in qualche modo quella pioggia stesse dando una mano a Sirjan e al tempo stesso si stesse burlando di lui: mentre illuminava quel corridoio in cui veniva mostrata l’espressione di chi della vita, persa la persona più importante, non sa che farsene e trova il dolore fisico una pallida ombra di quello che c’è dentro e che lo sta consumando ad una velocità che di umano non ha niente.

Illuminava il corridoio mentre qualcuno, di farsi del male, cercava di impedirglielo – e il tuono copriva un po’ la voce, che non era come le urla, era più bassa, ma era molto peggio.

Pioveva quella mattina.

Mentre Oz osservava Aedan disobbedire per la prima volta nel cingere con le braccia il corpo di Sirjan non in un abbraccio ma in quel tipo di stretta che ti inchioda le braccia lungo i fianchi e ti impedisce di ferire qualcuno, o magari te stesso.

Quando Sirjan gli ordinava di lasciarlo andare, in preda a qualcosa che non era rabbia, non era furia; era solo disperazione.

Il cielo fuori era ancora scuro, mentre Aedan gli rispondeva: «Mi dispiace, non posso.»

Si illuminò con un lampo, qualche istante dopo; ma poi il cielo fu di nuovo scuro mentre Aedan si addossava la colpa di pronunciare le parole che Sirjan non voleva sentire.

«Anche se ti distruggi… Alyster non c’è più da nessuna parte.»

Pioveva quella mattina.

Forse la pioggia aveva lavato via un sacco di cose – sembrava che solo il dolore fosse una macchia particolarmente coriacea – perché a distanza di due giorni ad Oz sembrava di non ricordare granché di quella mattina.

Non ricordava nemmeno se era andato a lezione, né se aveva incrociato qualcuno, né come fosse tornato in stanza dove era chiuso da quella domenica appunto.

Il cielo fuori era scuro anche quel giorno – non aveva ancora smesso di piovere salvo qualche ora con meno acqua e meno umidità – mentre Oz iniziava a chiedersi se continuando a lasciare aperto quell’orologio da taschino non avrebbe finito per esaurirsi la carica.

“Lacie” suonava in quel momento di un rumore metallico, ma immutata nella melodia che la contraddistingueva, mentre Oz guardava fuori: non sapeva nemmeno che ore erano.

Assurdo. L’orologio aperto, ma lui non sapeva nemmeno se era mattina, pomeriggio, o sera.

«Noah» chiamò mentre lo sguardo incontrava, in giardino, la figura di Sirjan che incurante della pioggia era di nuovo fuori a guardare per terra senza che ci fosse nulla da vedere: «secondo te si può impazzire per il dolore?»

Noah non rispose.

La risposta era dolorosamente “sì”.

 

 

Note

In primis, i disclaimer perché poi potrei sclerare e dimenticarli.

La frase in apertura è della canzone “Until the day I die” degli Story of the Year.

Parliamone: so che molti di voi vorranno uccidermi, ok?

Mi rendevo conto, mentre scrivevo, di stare prolungando i momenti con Alyster viva fino a ponderare di non farla morire affatto.

Ma la trama è questa, mi sono detta, e alla fine perdendo un po’ d’anima l’ho scritta.

Mi scuso se il capitolo risulta pesante perché troppo incentrato sui Kolstoj, ma fin dall’inizio avevo avuto in animo di includere nello stesso capitolo qualche flash sul loro passato e la spiegazione del ruolo della loro famiglia; Alyster sarebbe dovuta morire nel 15.

Ma francamente, mi sembrava di allungare la pappardella.

 

Purtroppo sono di fretta e dall’università, quindi scusatemi se non rispondo alle recensioni nella maniera solita

Un grazie per le recensioni a Yoko891, makotochan, Flamma Drakon, Gweiddi at Ecate, Gioielle.

Un grazie inoltre a LitaChan che so continua a seguirmi nonostante, povera, sia sommersa di impegni.

Grazie anche a makotochan e Talpina Pensierosa per aver espresso un voto a favore di Rinnega per il concorso di EFP sui migliori personaggi originali. Ne sono stata davvero lusingata <3

E ovviamente, grazie anche a chi legge soltanto e continua a seguirmi.  

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Pandora Hearts / Vai alla pagina dell'autore: Shichan