Yay, aggiornamento in anticipo! :D
Ho scritto questo
capitolo un bel po’ di tempo fa; il prompt
è stato uno dei primi a ispirarmi, e i due personaggi coinvolti non
potevano essere che quelli… Ad ogni modo, se ci
ho messo tanto a pubblicarlo è per via della scarsa stima che ho nei
confronti di gran parte dei miei lavori. In qualche modo, mi sembrava e mi
sembra tuttora che in questo breve episodio ci sia dell’incompleto, del
non detto. Ma ragionandoci ho capito che è giusto così,
perché quando si parla di Death
Note c’è quasi sempre
qualcosa di non detto. ^^ Ulteriore nota: il pairing
non va assolutamente inteso come romantico – cioè, non voglio dire
che non sia possibile trovare delle affinità romantiche tra i due
(soprattutto per le amanti dello yaoi xD), ma non c’è alcun romanticismo in questo determinato contesto. u.u
Ringrazio tutti i
lettori; e per le recensioni:
Elos: Sono felice che la shot ti sia piaciuta anche se non conoscevi CCS *-* In
effetti sì, anch’io ho trovato un po’ scioccante l’inizio
dell’anime, quando sembrava che Shaoran e
Sakura condividessero una cotta per la stessa persona…
E posso solo immaginare quanto possa esserlo stato per te! ^__^’’ Per
quanto riguarda Shaoran, beh: lui è incantevole. Sempre. E sentirmi
dire che è incantevole anche
come l’ho reso io, lo considero un serio motivo di orgoglio. *///* Ti
ringrazio ancora!
Dany92: Waaa, sono lieta di sapere della tua gita nell’assolata
Spagna *-* Spero tu ti sia divertita tantissimo!! Ma quale perdono?! Anzi,
grazie mille per le tue dolcissime parole ^///^ Per me è un onore
ritrovare intatti i tuoi complimenti, dopo aver tralasciato CCS per una vita;
temevo seriamente di averci perso la mano x’DD Ti abbraccio forte, Dany-chan!
Vi lascio – buona
lettura a tutti!
Una cosa da bambini
Fandom: Death Note
Personaggi: Near / Nate River, L Lawliet
Genere: Introspettivo, Malinconico
Rating: Verde
Ambientazione: Durante
l’infanzia di Near alla Wammy’s
House
Prompt: #1. Teddy bear (Orsacchiotto)
Mucchi
di stoffa lisa sul pavimento scuro. Il ragazzino biondo aveva fatto davvero un
ottimo lavoro; la sua caratteristica rabbia distruttiva aveva ancora una volta
lasciato il segno. L’imbottitura bianca e soffice come ovatta era
fuoriuscita quasi del tutto dall’ampio strappo, i fili restavano sciolti
sotto le cuciture saltate, e le membra del pupazzo sembravano appassite,
abbandonate.
Al
bambino era piaciuto tanto, quel pupazzo. Ma, come molte cose che gli erano
piaciute, anche quello apparteneva già al passato.
Eppure
non riusciva a scacciare quella brutta sensazione dolorosa agli angoli degli
occhi.
Rimase
sorpreso quando una mano pallida – quasi
quanto le sue – entrò nel suo campo visivo, sfiorando con un
dito l’orsetto di peluche squarciato. Non aveva sentito entrare nessuno.
Poi alzò gli occhi, e comprese.
Quel
ragazzo strano – ma in fondo erano tutti
strani in quel posto, no? – che aveva già avuto modo di conoscere
se ne stava lì curvo, gli occhi neri fissi sull’orsacchiotto. La
sua espressione era vagamente impressionata, come se non avesse mai immaginato
che qualcuno potesse ridurre in quello stato un semplice giocattolo.
Era
naturale che non l’avesse sentito. Girava sempre a piedi scalzi. Proprio
come lui.
Si
rese improvvisamente conto di quanto dovesse sembrare infantile al famoso, al grande, all’unico L trovarsi a tu per tu con uno degli
orfani destinati a seguire le sue orme e vederlo piangere per un pupazzo scucito.
Si passò la manica troppo lunga del pigiama bianco sugli occhi, sperando
che il ragazzo non avesse notato nulla.
«
Non ce n’è bisogno. »
Alzò
di nuovo lo sguardo, sorpreso.
L
si era accovacciato di fronte a lui. Aveva preso l’orso in grembo, e
sembrava che lo studiasse, ma le sue parole chiarirono che, sì, aveva
notato le sue lacrime.
«
È una reazione naturale, non c’è motivo di vergognarsene.
» Per la prima volta lo guardò, inespressivo. « Piangere non
è una cosa da bambini. È una cosa da persone. Persone che sanno
cosa significhi essere bambini e sanno cosa significhi crescere. »
Riprese
a soppesare il peluche, rigirandolo lentamente da tutti i lati. Nate
fissò il suo viso neutro – quasi
quanto il suo – e forse fu grato di non poterne incrociare di nuovo
lo sguardo.
«
Succede anche a te? »
L’aveva
chiesto senza pensare, senza volere. Il ragazzo, inspiegabilmente, sorrise.
«
A volte. »
Nate
non ebbe il tempo di essergli grato di non averlo guardato, mentre pronunciava
quelle parole.
Lui
portò una mano dietro di sé, cercò qualcosa nella tasca
posteriore dei pantaloni. Quando tornò a toccare l’orso, il
bambino vide un oggetto lucente e puntuto tra le sue dita. Il ragazzo aveva gli
occhi bassi, ma parve notare comunque la sua curiosità.
«
Qualcuno mi ha insegnato che non fa mai male portare con sé un ago e del
filo. »
Nate
si era avvicinato impercettibilmente. Aveva paura di porre la domanda
successiva; ma questa volta la risposta arrivò da sola, senza soste e
senza remore – come se anche lui
avesse bisogno di tornare bambino, ogni tanto.
«
Una donna a cui volevo molto bene. »
«
Sei L? »
«
Sì. E tu chi sei? »
«
… »
«
… »
«
Non posso dirti il mio nome. »
«
Ma davvero? »
«
Bisogna tenersi stretta la propria identità. È più sicuro
così. »
«
… Cominci già ad assomigliarmi, piccolo. »
Si
scambiano un’occhiata, e Nate River non è sicuro di vedere
approvazione in quegli occhi neri.
Il
ragazzo si chinò, tagliò il filo con i denti e rimise l’ago
in tasca. Poi lo guardò e gli tese l’orso, in silenzio.
Il
bambino rivide il pupazzo com’era prima che il ragazzino biondo lo distruggesse.
La stessa stupida stoffa sorridente che gli aveva fatto compagnia senza
chiedere nulla in cambio, lo stesso inutile involucro morbido che quel giorno
– per la prima volta da quando era arrivato lì – lo aveva
reso triste e ora lo stava facendo sorridere.
Pensò
che l’orsetto era come L.
Pensò
che L era come lui.
Forse
fu per questo, forse no. Seppe soltanto riconoscere le lacrime che
ricominciavano a premere agli angoli degli occhi, e che stavolta non si
fermarono lì.
Non
si curò di asciugarle, non più. Non si vergognava di piangere di
fronte a L. Anche L piangeva. L sapeva cosa significasse crescere. Crescere soli.
Passò
sotto le sue mani tese, strisciò verso le sue ginocchia sollevate e
piano piano le costrinse verso il pavimento. Quando
trovò i suoi vestiti troppo larghi – quasi quanto i suoi – vi premette contro il viso e vi si
aggrappò con le mani, soffocando i singhiozzi.
L
sussultò appena, ma non lo respinse. Abbassò soltanto le braccia
e lo ascoltò piangere.
In
fondo, L era come lui.