The only living pirates in
London
(Part 2)
“Homeward Bound”
Era sera.
Lucy
sarebbe dovuta essere a casa già da un bel pezzo.
George
parcheggiò davanti a casa, con John per mano, e si avvicinò alla porta, ancora
intento a cercare le chiavi nella custodia della chitarra.
-Papi...-
-Un
secondo, John-
-Papi...-
-John! Ho detto
un...-
-E' aperto-
George
abbassò lo sguardo sul figlio, che, molto simile a paperino da piccolo, con il
ciuffo spettinato in stile Quarrymen e lo sguardo da
sognatore che avrebbe fatto tanto piacere allo zio John, lo guardava
sorridente.
-Giusto-
commentò, per darsi un contegno.
Era bello
tornare a casa.
Certo,
anche se per lui e Lucy le cose sembravano essere rimaste a dodici anni prima,
quando, nel 1960, potevano comportarsi come una quattordicenne e un
diciassettenne si sarebbe comportato, anche se di indole più ribelle degli
altri, alcune cose erano cambiate.
Adesso era
un chitarrista di successo, un cosidetto “uomo
impegnato”.
E Lucy
persisteva nel suo comportamento da ragazzina di quindici anni, quel
comportamento immaturo e infantile che George aveva sempre adorato, ma che poco
si addiceva a una quasi ventisettenne madre di tre figli.
Forse la
cosa era semplicemente dovuta al fatto di essere diventata madre a quindici
anni, senza avere il tempo di crescere, ne di cambiare.
Forse era
proprio il suo carattere, il suo modo di essere e di fare, che faticavano a
morire, anche col passare degli anni.
Forse
avrebbe dovuto parlargliene, forse avrebbe dovuto fare qualcosa.
L’unica cosa
che sapeva, in quel momento, era che non vedeva l’ora di vederla.
Come quando
giri tutta la città in motorino, senza sapere dove andare, senti il cuore
battere forte, troppo forte, e tutto il mondo intorno accelerare, fino a
prendere il sopravvento sulla ragione… ecco era così
che George sentiva il bisogno di rivederla.
-Johnny...tu dici
che la mamma è ancora troppo bambina??- chiese a un certo punto il chitarrista
al figlio, passandogli un fazzolettino ricamato per pulirsi dagli sbaffi di
gelato che aveva sul naso e sulle labbra.
-Uhm...-
rispose il bambino, con un sorriso divertito.
-E intanto
che ci pensi, pulisciti con questo. E' di Lucy, ma non penso che avrà la stessa
reazione di Otello...- aggiunse, mentre si apprestava a far girare la chiava nella
toppa.
Con un clic prolungato
e cigolante la porta si aprì.
George posò
la sua chitarra sul divano, dopodichè tornò a
guardare John, ancora in attesa della sua risposta.
Certo,
forse un bambino di cinque anni era la persona meno adatta per rispondere a una
domanda del genere, ma George sapeva che, certe volte, John sapeva essere
persino più maturo di Lu'.
-A me la
mamma piace così com'è... Però a volte mi sembra un po' pazza!- disse John, con
una risatina.
-Non sai
quanto, John, non sai quanto...-
-Papiiiii!!- gridò
Jim, scendendo dalle scale di corsa per corrergli incontro e abbracciargli le
gambe.
Ma, prima
ancora di dare al padre il tempo di rispondere, chiese:
-Dov'è la
mamma??-
George
sentì una strana fitta al petto, come un presentimento che diventava realtà.
-Non è
ancora tornata??-
-Pensavo
che fosse con te...-
-Ma io ero
in studio!-
George
estrasse dalla custodia della chitarra la cassetta su cui aveva registrato “What is Life”, pensando a Lucy...
ma Lucy non c'era.
George si
sedette sul divano, soppesando la situazione con lo sguardo.
-Chiamiamo Keith-
-Zio Keithy?? Perchè?!- gridò Jim.
-Forse lui
l'ha sentita...forse l'ha chiamato... Lucy sa che il mio telefono è spento,
quando sono in studio... A proposito!! Dov'è Ray??-
-Ehm...-
Jim reclinò il capino a terra, incapace di guardare
negli occhi il padre.
-Jim! Dov'è tuo
fratello?-
-E' uscito
a cercare la mamma...-
-Da solo??-
-Ha
telefonato a Dylan...credo che sia con lui-
-Ma Martha
è a casa?? C'era anche lei, al consiglio di classe-
-Non lo so-
ammise Jim.
George non
se lo sapeva spiegare, ma aveva come il presentimento che la risposta alla sua
domanda sarebbe stata affermativa.
-Telefoniamo
a Keith- ripetè infine,
indicando il telefono a Jim.
-Telefono
io??-
-Poi
passamelo- disse soltanto, prendendosi la testa tra le mani e lanciando diversi
sguardi al muro, su cui aveva già appeso alcuni dei bigliettini del collage che
gli aveva regalato John quel pomeriggio.
Sapeva che
la maggior parte del lavoro l'aveva fatta Ray, era lui l'artista di famiglia,
dopo Lucy.
Guardò i
due bambini avvicendarsi al telefono e sentì come l'irrefrenabile desiderio di
stringerli tra le sue braccia.
Poi lanciò
un'altra occhiata all'orologio.
Erano quasi
le sette, ormai.
Il
consiglio di classe era finito da più di un'ora.
Sfiorò con
un dito le pareti polverose di Arnold Grove, e il
primo dei bigliettini che avevano incollato John, Ray e Jim.
Girl, we couldn't get much higher.
Yes, I know, I'm a lucky guy.
Il
biglietto che le aveva scritto dopo la nascita di John.
Si
ricordava bene che, esattamente nove mesi prima, aveva sussurrato a Paul,
badando bene a non farsi sentire da Keith, che sicuramente non avrebbe gradito:
“Da che parte è l'Alaska??”.
Paul gli
aveva indicato la sala asportazioni gessi, dove si era imbattuto in un
vecchietto sulla sedia a rotelle che bestemmiava e gridava di essere Giacomo
Leopardi.
E, George
lo sapeva, avrebbe potuto benissimo essere davvero lui.
Non si
sarebbe sorpreso più di nulla, ormai.
Soltanto
che ormai Giacomino stava entrando sempre più spesso
e sempre più insistentemente nelle loro vite.
Incollata
alla parete, c'era una cartina dell'Alaska.
Allora
aveva cominciato a sospettare(ma in fondo l'aveva sempre saputo) che Paul
avesse seri problemi d'orientamento.
Era il
1967.
La sua Arnold
Grove non era cambiata, da allora.
I'm sittin' in the
railway station
Got a ticket for my destination, mmm
On a tour of one night stands
My suitcase and guitar in hand
And every stop is neatly planned
For a poet and a one-man band
Era sempre
la stessa, polverosa, stretta e quasi soffocante, ma al tempo stesso accogliante casetta di periferia, la casa dove un ragazzino
non troppo ricco di Liverpool era nato e cresciuto...
George non
avrebbe mai voluto lasciare Arnold Grove, quella che
suo padre era solito chiamare Harold Grove.
Era casa
sua, era una parte di se.
Anche Lucy
amava Arnold Grove.
Non era mai
stato un posto particolarmente lussuoso, una casa con poche stanzette per gente
di poche pretese.
Sicuramente
non era il posto che la maggior parte della gente avrebbe immaginato per il
chitarrista dei Beatles e sua moglie.
Semplicemente,
era il posto a cui era più affezionato al mondo.
Homeward Bound
I wish I was
Homeward Bound
Home, where my thought's escaping
Home, where my music's playing
Home, where my love lies waiting
Silently for me
Quei
quattro muri lo conoscevano meglio di chiunque altro, avevano registrato ogni
suo movimento e ogni suo passo come nemmeno la miglior mente umana sarebbe
riuscita a farlo, combattendo perfino i limiti del tempo, che pure cominciavano
a farsi sentire, su quelle crepe appena accennate, che davano l'idea di una
casa “sofferente”, ma immensamente buona.
Arnold Grove era quel posto gelido che faceva accapponare la pelle
dal freddo, in inverno, ma che sembrava scusarsi non appena cominciavi a
guardare quei quattro muri con altri occhi, con gli occhi spalancati e attenti
di un figlio che guarda la madre per la prima volta.
Every day's an endless stream
Of cigarettes and magazines
And each town looks the same to me
The movies and the factories
And every stranger's face I see
Reminds me that I long to be
George
poteva sentire tutto l'affetto di Arnold Grove per
lui soltanto sfiorandola...ed era una bella sensazione, la sensazione di essere
a casa anche con il corpo, la mente e il cuore ad anni luce da lì, una stilla
della sua vita sarebbe rimasta per sempre lì, scolpita nei muri di Arnold Grove,
e così sarebbe stato in eterno.
Homeward Bound
I wish I was
Homeward Bound
Home, where my thought's escaping
Home, where my music's playing
Home, where my love lies waiting
Silently for me
Se quella
casa fosse crollata, nelle sue ultime ceneri, avrebbe potuto leggere il suo
nome.
A quella
casa George sentiva di appartenere come a nessuno, conscio che avrebbe potuto
chiedergli qualsiasi cosa, e la casa, silenziosamente, gli avrebbe risposto.
Era in quel
mondo da solo ventinove anni, e quante avventure aveva passato, in quei
ventinove anni, quanti sorrisi, gesti d'affetto o di rabbia, schiaffi e baci,
litigi e abbracci aveva visto quella casa?
E come
sarebbe stata Arnold Grove, Liverpool stessa, senza
di lui, senza la sua casa, senza quei suoi squallidi, adorabili quattro muri?
Homeward Bound
I wish I was
Homeward Bound
Home, where my thought's escaping
Home, where my music's playing
Home, where my love lies waiting
Silently for me
Silently for me
La vera
essenza di Arnold Grove era racchiusa nel suo cuore,
e così sarebbe stato per sempre.
Anche loro,
Ray, Jim, John e Lucy, avrebbero mai imparato ad amarla come la amava lui?
George
sperava di sì.
George
sperava che Lucy tornasse a casa.
Quella era anche casa sua.
Tonight I'll sing my songs again
I'll play the game and pretend
But all my words come back to me
In shades of mediocrity
Like emptiness in harmony
I need someone to comfort me
Sfiorando
quel muro, George si era accorto che anche la casa doveva risentire della
mancanza di Lucy.
Doveva risentirne
terribilmente.
I'm looking through
you, where did you go?
Nel
frattempo, una tale Algisia, nota anche come Elvira, stava
prendendo a dentierate in
faccia(nel senso che ormai Ron aveva lo scalpo della
dentiera impresso sul muso) un disperato
e piagnucolante Ronnie Wood.
In
incognito, naturalmente.
Anche se
ormai, Ronnie lo sospettava già da un pezzo, quell'incognito doveva
essergli sfuggito di mano.
-Infedele!
Eretico!- lo accusava la vecchia, stracciando davanti ai suoi occhi i falsi
volantini di Geovah.
Ovviamente,
Algisia non aveva fatto il minimo caso al fatto che
quelle su cui accaneva, in realtà, non erano altro
che pagine scelte a caso(e pure ritagliate male!) di Donna Moderna.
-Lei
sicuramente non sarà mai una “Donna Moderna”, signora Algisia!-
gli rispondeva lui, cercando invano di difendersi con il casco del motorino di
Keith.
Sul casco
lampeggiava una scritta: Goodbye, Ruby Tuesday.
Presto la
dentiera della signora Algisia avrebbe cambiato la
frase in: Goodbye, Ronnie Wood.
Kristin Richardson, invece,
si stava esibendo in una serie di improvvisati numeri acrobatici con il suo
motorino, quando squillò il telefono.
-Corpo di
mille Tutankhamon imbalsamati! Chi diavolo...-
-Z...zietto Keithy??- fece la voce di
Jimmy.
-Tuuuutankhamon
imbalsamato number one??-
gli fece eco George.
-Sono gli
Harrison!- gridò.
-THEIR
SATANIC MAJESTIC REQUEST!- strillò Duncan Mick, iniziando a saltare e a
ballare a ritmo di Start Me Up per mezza Trafalgar Square,
mentre I giornali scandalistici di Londra scattavano foto su foto.
Julian Zimmerman, che in realtà era il foto-reporter di un
giornaletto semi-sconosciuto, si affrettò ad annotare il titolo dello scottante
articolo che sarebbe uscito il giorno dopo in tutte le edicole della galassia.
“Mick Jagger alle prese con
l'ennesima overdose di aspirine.”
Poi
corresse:
Keith Richards posseduto da
un motorino(probabilmente posseduto anch'esso) e Ron Wood messo al tappeto da
una dentiera.
Parla una nostra
concittadina: Algisia Mc...ehm...facciamo prima a
dire una vecchia(e SDENTATA) londinese.
-No, non
l'ho sentita, Lucy!- gridò Keith, esasperato.
Julian continuò a
scrivere, imperterrito.
Presto sposerò Lucy Richards.Viiiiva me!!
Per tutta
risposta, gli arrivò la dentiera in faccia.
-AHI!-
-Convertiti
a Geovah, CRETINO!-
-Su...subito!
E' gratis?-
Ron gli
rivolse un sorriso smagliante.
-Una
firmetta qui e, per adorare il mitico Geovy, pagherai
soltanto la bellezza di cinque centesimi all'ora...per I
prossimi vent'anni!!-
Julian sorrise,
da bravo ebete che era.
-Allora
firmo subito!-
Ron alzò lo
sguardo al cielo e gli Arcangeli incominciarono a ballare furiosamente sulle
note di Twist and Shout.
-Il primo
in vent’anni!-
-Deo gratias!-
George fece
per chiudere la telefonata, quando lo sguardo gli cadde su Jim, che stava
saltando sul divano gridando:
-Vorrei
cantare come Biagio Antonacci!- mentre John lo accompagnava alla chitarra.
-C’è Ron?-
-No che non
c’è- rispose Keith, risalendo sul motorino. –Qui c’è soltanto Ronald Duck, il messaggero di Geovah!-
-Passamelo
comunque!-
-D’accordo…-
-Ronnino??- chiese,
quando fu sicuro che Ron avesse preso il telefono.
-Ronnino, sono Geo. Ti ricordi di me??-
-Argh…ahm…e come
potrebbe essere diversamente??- rispose Ron, leggermente inquieto.
-Giusto… allora,
fai una cosa per lo zio Geo: inserisci il vivavoce!-
-Per…perché?-
-Fallo e Geovy sarà fiero di te!-
-Come vuoi…-
-L’hai
acceso??-
-Sì-
-Bene…allora stammi
bene, vecchio, caro, ancora un’altra volta fregato RONALD
DAVID WOOD!- gridò, mentre Jim e John, accanto a lui, gli facevano il coro.
Solo allora
Ron capì.
-No, no,
no, NO! Dimmi che non l’hai fatto ancora, dimmi che non…-
George fece
appena in tempo a sentire l’odiosa voce di Julian Zimmerman gridare:
-Ehi,
ragazzi! Avete sentito?? Non è un testimone di Geovah!
E’ il vero Ron Wood!-
Poi la
comunicazione cadde.
George
lasciò cadere il telefono sulla scrivania, con un sorrisetto diabolico dipinto
sul viso.
-Povero
Ron…-
Poi reclinò di nuovo lo sguardo, con un triste sorriso.
Aveva cercato di distrarsi, ma era stato per un attimo soltanto.
Non riusciva a smettere di spensarci.
-Dobbiamo trovarla-
Completamente
da un’altra parte della città, invece, Lucy stava facendo il punto della
situazione.
Fino a cinque minuti prima stava sfogliando un libro di Leopardi, nella
libreria di Chanel Song.
Era davvero sorprendente, quella libreria.
Quel pomeriggio stesso Ray aveva portato a casa un libro di poesie di Socrate…e quello che stringeva tra le mani adesso, fino a
prova contraria, non era un libro di poesie.
Ma era firmato Giacomo Leopardi.
“All come to look for America”.
Giacomo Leopardi aveva scritto anche romanzi d’avventura?
Lucy era confusa.
Quel libro era l’unica cosa che le era rimasto di quello che era
successo prima.
E tutto perché, non avendo avuto il tempo di posarlo, le era rimasto in
mano.
“All come to look for America”.
-Cosa significa?-
Lucy si ricordava anche un’altra cosa.
-Tu non sei in una libreria,
Lucy Harrison- le aveva detto una voce che aveva riconosciuto come quella di Cin Song, ma non era sicura.
Eppure, sentirsi chiamare Lucy Harrison da quella voce, le aveva fatto uno strano effetto.
Così come le
faceva uno strano effetto pensare a George, a Ray, a Jim, a John, a Keith e
qualsiasi cosa riguardasse la sua vita…era come se le
facesse male, un dolore inspiegabile che non le permetteva di formulare un
pensiero sensato.
Solo quando guardava il libro e si concentrava su di esso, si sentiva davvero in pace.
In pace con il mondo intero…ma non con se
stessa.
Dentro di lei continuava a sentire quella strana angoscia le impediva
quasi di muoversi, come di una consapevolezza che gravava su di lei.
Un’ inevitabile consapevolezza.
Perché era
lì dentro?
Perché era nella stanza segreta della libreria dei Song,
quella che tutti spacciavano per un bagno, ma in cui nessuno aveva mai messo
piede, quella stanza con il cartello con scritto “DANGEROUS”?
Perché in quella libreria si trovavano sempre le cose più assurde,
libri che gli autori segnalati, effettivamente, non avevano mai scritto?
C’era
qualcosa che non le tornava.
Non c’era niente che le tornasse.
Di nuovo quella voce.
-Vorresti tornare a casa,
Lucy Richards?-
Se il “Lucy Harrison” le aveva fatto uno strano effetto, quel “Lucy
Richards” era ancora peggio.
Guardare giù era peggio.
Perché giù, senza nessuna spiegazione logica, senza nessuna spiegazione e
basta, c’era il fiume.
Il Mersey, probabilmente.
Ma non poteva esserci il Mersey lì dentro.
E non era tutto.
C’era come una forza che la attirava verso il basso…
E quella voce, quella voce che aveva sentito, proveniva dal basso.
Ray e Dylan, nel frattempo, stavano cercando Lucy nei dintorni della
scuola.
-Mamma! Mamma, dove sei??-
-Ray! Aspetta, Ray! Chiediamo a Song!- esclamò Dylan a un certo punto, indicando l’ometto ricurvo su una pila
sbilenca di riviste ingiallite dal tempo.
-Signor Song! Signor Song!
Ha visto Lu…- Dylan s’interruppe, voltandosi
lentamente verso Ray, con gli occhi spalancati.
-Ray!-
-Cos’hai visto, Dyl?-
-Il Signor Song… non è il Signor Song!-
Ray scosse la testa, divertito.
-Ma dai, Dyl! E chi dovrebbe ess…-
-Ray! Dylan!-
-Mamma!-
-Lucy!-
Ray stava per gettarsi tra le braccia della madre, quando sentì una
specie di irresistibile richiamo verso il basso.
Lucy si alzò in piedi, giusto in tempo per afferrare per un braccio il
figlio, impedendogli di cadere.
Solo allora si accorse che Dylan non c’era più…e
che stava precipitando nel fiume.
Nel fiume, o in quello che
era.
-DYLAN!- gridò, ma non ricevette alcuna risposta, se non il gorgogliare
dell’acqua.
Lanciò un’occhiata angosciata alle onde, che si muovevano a velocità
impressionante, come ipnotizzata.
E allora sentì uno scricchiolio alla caviglia, su cui si era improvvisamente
concentrato tutto il suo peso, attirandola giù come un’enorme, mortale calamita e facendola scivolare.
-Lucy, attenta!-
Lucy si sentì tirare per una manica del vestito e subito dopo sbattè violentemente la schiena contro il muro.
Era ancora lì, su quella sporgenza di roccia levigata che spuntava
dalla parete, a cui si stringeva con tutte le sue forze per non cadere.
Solo che non erano più in alto, vicino alla porta…
erano caduti al piano di sotto.
Proprio così.
C’era tutta una serie di “panchine”, posizionate a mo’ di scala, l’una
sotto l’altra, che continuavano fino all’ultimo scalino…fino
al fiume.
Accanto a lei, Dylan le aveva appena impedito di cadere.
-Mamma…ti stavi per buttare!- gridò Ray, cercando invano di sovrastare il rumore
del fiume.
-Dylan! Ma allora non sei…-
-Caduto? Lo credevo anch’io. Ma poi…è
spuntata questa…questa cosa-
In un flash di luce, Lucy risentì la voce del figlio.
E si accorse che proveniva sopra.
-RAY!- gridò. -Ray è ancora di sopra!-
-Ray, buttati!- gli urlò Dylan, leggendone l’espressione di terrore negli
occhi.
-Ray, ti prego… non avere paura. Pensa al divano
di casa nostra…pensa che siamo solo io e papà…non
ti succederà niente- gli sussurrò dolcemente Lucy, stringendo così forte i pugni da
conficcarsi le unghie nella carne.
Ray sobbalzò, nel sentire che la voce della madre le suonava
terribilmente vicina, come se fosse accanto a lui, e non sotto di lui.
Il suono, così amplificato, gli provocò una sensazione di confusione e stordimento
tale da costringerlo a chiudere gli occhi.
Si buttò.
Ma stavolta
sentì solo il vuoto ad accoglierlo.
Buona sera
a tutte!!
Sono
tornata poco fa dalla piscina e…che altro dire…mi ha ispirata xD
Prima di
tutto, lancio il quesito della settimana: da che
canzone è preso il titolo del “romanzo” di Giacomo Leopardi??
Vincita un
volantino di Geovy disegnato da Ronnie in persona…xD
Ebbene sì,
i libri saranno sempre presenti in questa storia…soprattutto
per svelare il mistero della libreria dei Song…nel
prossimo capitolo ;)
E presto
assisteremo anche all’entrata in scena di Potamak,per capire cos'è successo a Lucy, Ray e Dyl…
Passando
alle recensioni…
Zaz:Infatti, ne ho parlato anche
nella risposta di Marty, Lucy deve diventare
più matura...uhm...credo che potrebbe prendere lezioni da Rub,
anche se dico già che quest'ultima avventura la cambierà parecchio...(anche se
io ho letteralmente adorato Rub quando ha
rotto il naso a Ronnie, in “Angie”)...
Già, chissà...chissà se anche
il caro Rayuccio diventerà un pittore come la sua
mamma...e come Stu! Chissà, chissà... ;)
Thief:Sì sì, dovremmo proprio
chiamare Lo Stucliffe(Stuart
+ Sutcliffe xD)'s Lonely Hearts Club Band per la Yells...
Già, Cin Song...in
questo capitolo però si è comportato in moto un po' strano, non credi? XD
Speriamo solo che non sia in
qualche modo complice di PePotamak...(da come
parlo non sembro neanche l'autrice della storia xD) (George:che
genio!) (No, dico, adesso ci si mette pure lui!!)...e sono contenta che I
bigliettini ti siano piaciuti!!
La seconda parte del tema la
metterò nel prossimo capitolo(spero), perché ho dimenticato il quaderno a casa e adesso
non sono a casa mia...xD
Ma tanto torno domani, quindi penso che lo ricopierò e metterò nel prossimo…
Comunque mi fa piacere che vi
sia piaciuto! Pensavo fosse troppo stupido...xD
Marty(voce della verità-o della
coscienza di Lucy): Visto che influenza ha avuto
la tua recensione su questo capitolo?? xD No, scherzi
a parte, grazie mille. Mi ha fatta davvero riflettere... Non avevo ancora
pensato a modificare il suo carattere da “Revolution”,
ma avrei dovuto farlo... anche se forse la cosa dipende anche dal fatto che
Lucy, essendo diventata madre a quindici anni, ha dovuto, in un certo senso,
crescere più in fretta e il suo carattere e il suo comportamento è rimasto
quello di una quindicenne...
Anche George, infatti, se n'è
accorto(ma sempre DOPO di me xD) e adesso...Lucy
imparerà a sue spese a diventare “grande”...penso che questa storia la cambierà
molto(in meglio, spero xD)...e grazie ancora per
avermelo fatto notare!! ;)
A presto!
Marty