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Autore: Ely79    17/06/2010    3 recensioni
Quante volte abbiamo sognato un lavoro diverso da quello che ci tiene occupati ogni giorno? Un lavoro che ci faccia sentire felici, gratificati, pieni di passione verso quel che facciamo? Ed ecco che ad Amelia, frustrata progettista, si palesa l'occasione di una vita. Ma cosa c'è dietro questa porta spalancata su una grande opportunità?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tavola I
L’ingombrante deretano azzurro del pullman sparì lentamente dietro un muro, lasciandosi alle spalle una nuvoletta nera e maleodorante.
Nella piazzetta -sempre che tale potesse essere definita viste le esigue dimensioni- il sole dei primi di giugno batteva come il pestello in un mortaio. Intorno non c’era anima viva, a parte qualche passero. San Francesco era una frazione fantasma. Appoggiò il borsone sull’unica parte apparentemente pulita della panchina e si guardò intorno sconsolata.
Quando il professor Martini le aveva comunicato d’avere finalmente un lavoro per lei, e che poteva mandare il suo capo a farsi un giro dove riteneva maggiormente opportuno, aveva fatto i salti di gioia. E se non fossero stati in un affollatissimo bar di Città Studi, sarebbe saltata in piedi sul tavolino urlando come una Valchiria. Certo, non era affatto lusinghiero essere chiamata perché il suo era l’ultimo nome rimasto nella lista, ma avrebbe sorvolato. Quello era un lavoro che pochissimi altri avrebbero potuto fare. In Italia erano sì e no una quindicina i professionisti in quel settore e lei ne faceva orgogliosamente parte, anche se non poteva andare a sbandierarlo ai quattro venti.
«Sei l’unica rimasta a disposizione che possa mettere mano a quest’edificio» le aveva detto, mostrandole un’acquaforte grande quanto una cartolina.
Il disegno era piuttosto grossolano, opera di una mano tutt’altro che versata nelle arti, ma dava un’idea per sommi capi dell’aspetto che la villa doveva avere circa mezzo secolo prima.
«Senza contare che hai studiato a lungo questa tipologia storica, la conosci alla perfezione, sai come muoverti, cosa aspettarti. Puoi lavorarci ad occhi chiusi e con le mani legate dietro la schiena»
Il docente non voleva affatto lusingarla, diceva la verità.
«Okay, ma mettiamo in chiaro le cose: quello che dico io si fa. Non ho intenzione di sentirmi dire dallo squinternato di turno che non so fare il mio mestiere. Io faccio il mio, lui il suo. Sono stufa di gente che ha da ridire sul mio modus operandi! Voglio che il proprietario tenga la bocca chiusa! Muto come se fosse morto e sepolto, un cadavere!» aveva risposto irritata.
Martini era uno dei pochi con cui si permetteva simili uscite. Era troppo arrabbiata per quel che era accaduto in cantiere e disgustata dalla sua mancata reazione alle invettive del suo capo, per aver ancora voglia di affrontare simili situazioni. Era davvero stufa di essere presa in giro da chiunque.
«Fagli almeno dire cosa vuole che tu faccia…» aveva osservato con tranquillità.
Il professore non le aveva dato molte notizie riguardo la persona che l’aveva contattato, tuttavia il fatto che avesse accettato senza problemi che fosse lei a condurre le opere l’aveva fatta ben sperare. Un po’ meno la lettera d’invito, arrivata a casa pochi giorni dopo. Una splendida busta di pergamena finissima, l’indirizzo scritto a mano con inchiostro seppia sotto al blasone stampigliato in un angolo. Era il contenuto a non essere incoraggiante.
Infilò la mano nei jeans e tirò fuori due biglietti sgualciti. Li rigirò tra le dita, incerta. Uno era delle ferrovie, l’altro dell’autobus. Non prendeva così tanti mezzi pubblici da quando andava all’università. Aveva dovuto cambiare tre treni locali, sporchi, affollati ed afosi, prima di approdare su quella corriera dai sedili duri e troppo piccoli. La prima classe era evidentemente un concetto astruso, almeno quanto l’imposizione che si recasse all’appuntamento senza mezzi propri.
Certo l’inizio di quel contratto lasciava un po’ a desiderare, ma doveva immaginarselo, visto con chi avrebbe avuto a che fare. In quel settore difficilmente avrebbe incontrato gente normale, ammesso che il termine fosse ancora applicabile all’umanità.
Spostò un po’ il borsone e sedette.
Il paese si trovava ad una decina di chilometri di curve a gomito in mezzo ai campi verdeggianti, ma da dov’era calcolò dovesse trovarsi a non più di tre o quattro chilometri in linea d’aria: intravedeva i tetti ed il campanile. Impressionante come anche nel cuore della Pianura Padana si producesse il medesimo effetto delle strade di montagna.
La frazione si chiamava San Francesco in onore dello striminzito oratorio cinquecentesco che l’aveva generata, come indicava il cartello giallo inchiodato alla buona accanto al portone della chiesa. Intorno c’erano poche case, qualche centinaio di abitanti in tutto, così ad occhio. Vecchie cascine ristrutturate, appiccicate le une alle altre come a sostenersi, gli intonaci già scrostati alla base per l’umidità del terreno. Una buca delle lettere rugginosa, un minimarket con la serranda abbassata, un fruttivendolo deserto, un bar tabacchi scalcinato. La chiesetta ottagonale di mattoni rosicchiati dall’edera. Di più non vedeva. Su ogni angolo regnavano il sole ed una gran quiete. L’asfalto trasudava calore e polvere. A consolarla, il profumo intenso e mielato dei fiori di tiglio. I grandi alberi stormivano dietro l’edificio sacro, scuri contro il cielo velato da sottili nubi.
Villa dei Gelsi non si trovava all’interno del modesto borgo, né tantomeno era raggiungibile a piedi e non perché le mancasse la voglia di camminare. Dopo più di quattro ore di trasporto pubblico sarebbe andata in ginocchio fino a Roma, pur di sgranchirsi. Il problema era di natura eminentemente pratica: non sapeva dove fosse. Le istruzioni che aveva ricevuto nella missiva la conducevano solo fino a quella sparuta pensilina. E la vista di Google non avrebbe potuto esserle d’aiuto in alcun modo. Anche se la dimora si fosse trovata in una zona censita dai fotopiani ad alta risoluzione, difficilmente si sarebbe potuto scorgere qualcosa di più d’una sagoma imprecisa e sfocata. E poi dovevano esserci delle colonne all’imbocco del viale d’accesso, stando a quanto aveva detto il prof. Quelle erano una bella gatta da pelare.
Prese un profondo respiro, riempiendo i polmoni con quell’aria dolciastra, e si stiracchiò. Un paio di giunture schioccarono, un fascio del trapezio urlò vendetta. Diede un’occhiata al cellulare. Segnale discreto, mezza batteria, nessuna chiamata o messaggio. Era passata una noiosissima mezz’ora da quando era arrivata.
Fu in quel momento che lo udì. Un rumore lontano, sfumato ma inconfondibile. Un’auto. Arrivava dalla parte opposta a dov’era sparito l’autobus. Poteva quasi indovinare il percorso che seguiva.
La grossa berlina schizzò rapida verso la piazza, superando la stretta curva con incredibile agilità. Il rombo del motore era ingigantito dagli echi che rimbalzavano sui muri troppo vicini alle fiancate. Riuscì a fare inversione in una sola manovra e si fermò davanti a lei, ingombrando gran parte della piazzetta. Doveva avere al massimo un mese di vita, a giudicare dalla targa. La carrozzeria blu scura era talmente lucida che vi si specchiava. Immaginò fosse qualcuno che aveva sbagliato strada: era troppo lussuosa per un posto simile, dove le ruote dei trattori mordevano giornalmente la strada.
La portiera del conducente si aprì e ne scese una figura alta e allampanata, che rimase immobile per qualche istante. I capelli lisci e scuri scendevano in due lame ai lati del volto allungato. Ad Amelia sudarono le mani, non tanto per la sorpresa o il timore d’essere interrogata sullo stradario locale, quanto per l’abito grigio antracite che quel tizio portava. Non aveva l’aria di essere particolarmente fresco, stretto ed abbottonato ad ogni asola. Anzi, l’esatto opposto. Potenza dell’aria condizionata.
Capì dall’insistenza con cui la stava squadrando che doveva avere a che fare con l’oggetto della sua visita.
«Buon giorno» salutò timidamente.
L’uomo girò intorno all’auto, scuro in viso. Camminava impettito, fluido e nervoso allo stesso tempo.
«Perdoni il ritardo, signorina. Un banale contrattempo» tagliò corto, aprendo lo sportello posteriore con un gesto imperioso.
Non la stava invitando a salire, quello era un ordine.
«Se era banale che  bisogno c’è di avere quella faccia incarognita?» si domandò sedendo.
L’interno della berlina era spaventosamente grande. L’odore di concessionaria dichiarava a caratteri cubitali la giovanissima età del mezzo. Immersa nel vuoto fresco del sedile posteriore, Amelia aveva una paura folle di graffiare la soffice pelle color avorio su cui sedeva o di imprimere una ditata sulla radica lucida delle finiture. Teneva il borsone sulle ginocchia, ma ben presto si ritrovò a stringerlo al petto: quell’uomo  imboccava le tortuosità della strada ad un velocità assurda. Provò il mal d’auto per la prima volta in vita sua, rimpiangendo di non averne sofferto in passato. Avrebbe avuto con sé qualche medicinale appropriato.
I campi filavano via, piatti ed uniformi nel loro distendersi. Grano ancora verde, mais, erba medica. Ad un tratto, un filare di pioppi s’innalzò lungo l’argine di un fosso, tagliando i profili di San Francesco, lontano sulla destra.
Dietro i tronchi vide ergersi quattro enormi pilastri solitari, sormontati da leoni di pietra. La strada piegò bruscamente a sinistra, passando fra la coppia centrale. I due passaggi laterali erano chiusi da inferriate su cui si arrampicavano le campanule selvatiche. Mentre superavano quel passaggio, uno strano pizzicore fece agitare la donna. Intorno il paesaggio non era cambiato. Il profilo dell’orizzonte era sempre piatto, verdi e azzurri erano identici a prima. Fra i piedritti non c’era traccia di chissà quali stranezze.
Guardò nel retrovisore. Lui, chiunque fosse, non la stava tenendo d’occhio, non la studiava come c’era da aspettarsi ad un primo incontro. Gli occhi bruni erano fissi sulla strada. Mostrava nei suoi confronti la stessa curiosità che si prova abitualmente per una cartaccia sul marciapiede.
Cercò di capire chi avesse di fronte, oltre ad un pilota di rally mancato. Dai modi sbrigativi e dagli abiti eleganti avrebbe potuto trattarsi del figlio del padrone di casa. Sembrava abbastanza giovane per corrispondere a quella figura. Il classico erede indispettito dalle scelte dell’anziano genitore. Ma un particolare l’incuriosiva: i guanti bianchi. Facevano tanto maggiordomo. Forse era uno dei domestici della villa. Non l’aveva visto muovere un muscolo mentre si avvicinavano al cancello d’ingresso, ma riteneva improbabile che la sensazione provata fosse frutto della sua immaginazione. Qualcosa era scattato, invisibile e rapido quanto l’auto. Avrebbe voluto prendere il Beloch-Jarnut dalla borsa per verificare un paio di supposizioni, ma la sua attenzione venne attratta dal palazzo apparso come dal nulla.

***

Villa dei Gelsi era un edifico massiccio ed imponente, a suo modo aggraziato. Si accedeva da un grande cancello incernierato su una coppia di pilastri simili a quelli che segnalavano l’inizio della proprietà. Questi erano addossati ad un alto muro di cinta che proteggeva tutto il fronte sud del cortile d’ingresso. Sul lato opposto, un altissimo portale bugnato immetteva nel portico della corte privata, fresco ed ombroso sotto le volte a crociera. Da lì si accedeva ai due piani della dimora attraverso imponenti scaloni che si aprivano nei due angoli contrapposti del loggiato. Gli scalini e la balaustra a colonnine panciute (forse in Bardiglio Imperiale) erano levigati dal passaggio secolare di servitori e nobili, tanto da essere pericolosamente lucidi in alcuni punti.
Grandi affreschi dalle tematiche bucoliche aprivano squarci nei muri e sui soffitti, dilatando lo spazio in ogni direzione. Quelli sulle pareti della stanza in cui si trovavano in quel momento riproducevano scene di caccia al cervo, mentre sul soffitto lo sfondato dava la possibilità di spiare sotto le gonnelle di ninfe leziose e sorridenti, le cui gambe penzolavano oltre la spessa cornice dorata.
Amelia osservava la stanza cercando di non far vedere le tonsille al suo interlocutore. Pesanti decori barocchi macchiati di vecchio impreziosivano i pochi arredi. L’ambiente doveva essere stato magnifico e sfarzoso, in grado di sbalordire gli invitati con la sua pigra e velata sensualità. Di tutto ciò era rimasta una traccia sbiadita seppur affascinante.
«Dunque, voi sareste l’Archimaga Amelia Veneziani» disse ad un tratto il suo accompagnatore.
Riprendendosi dallo stupore, la progettista si ricompose. Era la prima volta che qualcuno usava la sua vera qualifica.
«Esatto» sorrise.
L’uomo, seduto di fronte a lei, fece un cenno vago, privo di significato.
Di nuovo silenzio. Non che le dispiacesse, al contrario. Le dava il tempo di riordinare i pensieri, seguitando comunque ad ammirare quelle prestigiose vestigia, nell’attesa che il Duca facesse la sua comparsa.
Già. Tanto lei non era un architetto come gli altri, tanto i suoi clienti non erano gente comune. Amelia si occupava di architetture magiche, quelle create per ragioni oscure dai sacerdoti di antiche religioni ormai dimenticate, quelle che pur nel loro essere insignificanti racchiudevano poteri spaventosi o, più semplicemente, erano la dimora di negromanti di vario genere. Corrado Antonio Frasca di Cortenova era uno di questi. Il professor Martini le aveva detto che era stato una figura piuttosto importante negli anni Settanta per via delle sue ricerche sui Fluidi Incorporei. Uno dei pochi maghi capaci di maneggiarli e utilizzarli in sicurezza. Aveva cercato di leggere uno dei suoi trattati, ma obbiettivamente era fuori della sua portata: le sue nozioni di Teoria dei Portali Ectoplasmatici e Alchimia Esoterica erano piuttosto carenti. Dopotutto, non erano materie ordinarie dei corsi del Politecnico e neppure di quelli che lei aveva seguito sotto la guida del suo mentore.
Il tempo scorreva lento, trascinandosi sulle lancette di un pendolo tronfio e tarlato. Dal grosso contrappeso d’ottone ciondolava una ragnatela che ne seguiva diafana il dondolio.
«Scusate, ma… ero stata convocata per discutere delle opere con…»
«Cominciavo a dubitare volesse parlarne» rispose atono.
Amelia deglutì a vuoto. Cosa significava?
«Vuol dire che aspettava che mi facessi avanti?»
Lui annuì, affatto accomodante. Infastidito. Lei arrossì di timore. Possibile che la persona che aveva davanti fosse il suo committente?
«Credevo fossimo in attesa di un’altra persona»
Era troppo giovane per essere lui. Doveva avere al massimo quarant’anni. Ma se Martini aveva ragione, quell’aspetto poteva essere il risultato dei suoi studi e quindi aveva sbagliato tutto. Ma no, non era possibile. Gli Incantesimi Ringiovanenti erano un’utopia, l’aveva letto da qualche parte. Non c’era modo di ringiovanire per intero un corpo, tracce della vera età restavano ben evidenti sulle mani o attorno agli occhi. E non ne vedeva.
«Nessun altro ospite deve presenziare al nostro incontro. Saremo solo io e lei» spiegò, sistemandosi con movimenti lenti e misurati sulla poltrona di pelle e mogano.
«Solo… noi?»
«Solo noi» ripeté piatto.
Boccheggiò, inabissandosi ad una velocità impressionante nella vergogna più profonda. Ripetersi di star calma ed agire con razionalità non serviva ad un fico secco. Intanto lui controllava la perfezione della chiusura di un polsino. Si sarebbe impiccata volentieri a quel passante. Proprio un bel modo per cominciare un rapporto di lavoro con una figura tanto in vista. Sarebbe entrata negli annali come l’Archimaga che non aveva riconosciuto il Duca Frasca di Cortenova. Il Professore non le avrebbe più rivolto la parola, come minimo.
«Temo d’aver preso un granchio colossale. Pensavo di aver di fronte un’altra persona e non…insomma… lei» cercò si scusarsi, al colmo dell’imbarazzo.
Le grandi tavelle di cotto antico del pavimento sembravano un rifugio molto invitante, se solo avesse saputo come fare per appiattirsi come un foglio di carta velina ed infilarsi sotto di esse.
«Mi perdoni, Duca. L’avevo presa per un membro della servitù» ammise ad occhi bassi, sperando che la carta della sincerità giocasse a suo favore.
In genere i maghi apprezzavano questo tipo di esternazioni da parte di chi non era loro pari. Lo sapeva per esperienza personale.
«Credo ci sia un malinteso. Il Duca non è presente a Villa dei gelsi da almeno un mese e non lo sarà per diverso tempo. Io sono il suo attendente e maestro di palazzo»
La progettista ebbe la sensazione d’aver ricevuto uno schiaffo.
«Maestro di palazzo?» chiese, convinta d’aver capito male.
Era forse un modo elegante per dire maggiordomo? Tirapiedi? Valletto? Domestico particolare? Amelia non ne aveva idea. Era la prima volta che sentiva quella definizione e sì che di titoli bizzarri ne aveva sentiti parecchi. Persino il suo non era da annoverare tra i più comuni. Di certo non significava paggio: quel tizio era piuttosto cresciutello per quel ruolo. Senza contare che non possedeva né bei boccoli biondi né un espressione simpatica. A dirla tutta non aveva neppure un’espressione. quella cosa che sfoggiava sulla faccia era più simile ad una crosta di stucco.
«Esattamente»
«Mi perdoni, ma avevo degli accordi con il Duca. Il professor Martini mi ha detto che avrei dovuto trattare direttamente con lui e non…»
«Sarò io il suo referente, fintanto che milord non sarà di rientro» la zittì senza troppo cerimonie.
«E quando tornerà…»
«Questo non è affar suo. Ciò che conta è la sua presenza qui ed il pronto avvio dei lavori»
Ecco, proprio quello che avrebbe voluto evitare: qualcuno che la tiranneggiasse senza averne titolo. Insomma, dopo tutta quella strada le toccava la solita solfa? Non poteva accettarlo. Non doveva accettarlo.
«Veramente preferirei discutere con il Duca…» insisté inutilmente: il maitre non l’ascoltava.
«Fintanto che il mio signore non si trova sotto questo tetto, ho il compito di farne le veci. In ogni ambito della gestione domestica. Ciò include anche le opere di ristrutturazione dell’edificio di cui lei si occuperà»
Aveva l’aria di chi spiegava ad una sguattera molto stupida come avrebbe dovuto fare per svolgere in maniera appena decente i compiti assegnatigli.
«Per favore, mi lasci…»
«Riferirà a me ciò che riterrà opportuno ai fini dello svolgimento delle sue mansioni. Tempistiche, problemi organizzativi, necessità di documenti, assistenti, manodopera, materiali. Di volta in volta mi fornirà una lista con le sue richieste e farò quanto in mio potere per metterle a disposizione ciò di cui crede d’aver bisogno»
Ad Amelia quelle parole non piacquero affatto. Vi scorgeva dei fastidiosi sottintesi. Qualcosa del tipo “se deciderò di prendere in considerazione tali richieste e di certo non lo farò”. E data la poca predisposizione al confronto, già immaginava gli esiti delle liste.
«Ma…»
«Si è fatto tardi. Proporrei di rimandare a dopo cena la nostra discussione in merito alla ristrutturazione della villa» disse alzandosi e dirigendosi spedito alla porta da cui erano entrati. «Se ora vuol avere la bontà di seguirmi, le mostrerò la sua stanza. Potrà ritirarsi lì in attesa della cena, che sarà servita alle diciannove in punto nel salone accanto alla scalinata ovest»
Amelia si alzò a fatica, caricando il borsone sulla spalla. Dopo quella figuraccia, le sembrava stipato di pietre. Era indecisa se sentirsi avvilita o infuriata. Quel maggiordomo era la summa di ciò che detestava in un cliente.
«Posso almeno sapere con chi ho parlato finora? Nel caso non se ne fosse accorto, non si è ancora presentato» osservò.
Il tono che le uscì dalla gola aveva una punta asprigna di troppo, tanto che persino lei, nonostante fosse inviperita, lo ritenne sgradevole ed inopportuno. Per quanto quell’uomo risultasse indisponente, era pur sempre il tramite col suo vero cliente. Doveva cercare di tenerselo buono almeno in quelle prime fasi, anche se un “grandissimo cafone” alla fine della frase sarebbe suonato ad hoc.
Il servitore si voltò.
«Jarvis Alden Carew» scandì lentamente, prima di uscire dalla camera.


Prima di tutto, un ringraziamento chi ha cominciato a leggere questa fic, anche se ha preferito restare nell’anonimato, ma soprattutto a Columbine_Iceshimmer.
Mi auguro che col procedere dei capitoli vi facciate avanti per darmi un parere.
Per Gaea: grazie per aver recensito il primo capitolo. Ovviamente trattandosi di un originale, lo stile sarà un po’ diverso, i personaggi si dovranno sostenere da sé. Quanto alla magia… arriverà, vedrai!
   
 
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