Un passo in avanti – qualcosa si spezza
What
about now?
What
about today?
What
if you're making me all that I was meant to be?
What
if our love never went away?
What
if it's lost behind words we could never find?
Anche a distanza di un mese
abbondante, il ricordo della morte di Alyster era ancora vivido in molti di
loro.
Dalle persone che l’avevano
conosciuta più superficialmente, solo come il capo dormitorio femminile, a
quelle che invece erano state più coinvolte, amiche.
Il funerale, anch’esso ormai
lontano nel tempo di quasi trentatre giorni, era stato straziante.
Tutta la scuola aveva
osservato il lutto, e su richiesta della stessa famiglia Kolstoj, la funzione
funebre era stata celebrata proprio a Latowidge.
Le disposizioni, sembrava
fosse stato Sirjan a darle nonostante la presenza dei genitori.
La pioggia che li aveva
tormentati come nella scena drammatica di un libro la mattina della morte di
Alyster e i giorni successivi e che pareva aver scelto di dargli un po’ di
pace, quel giorno si era invece prepotentemente riaffacciata sul terreno della
scuola.
Nonostante questo, le persone
erano rimaste ugualmente all’aperto mentre un sacerdote recitava i passi dei
testi sacri adatti all’occasione.
Non erano in molti fuori;
aveva saputo – in un secondo momento – che Sirjan aveva richiesto
esplicitamente la presenza solo di alcuni di loro, senza coinvolgere tutti gli
studenti in un dolore che molti di loro, con tutte le migliori intenzioni del
caso, non avrebbero potuto condividere.
Per tutta la durata della
cerimonia, lo sguardo di Oz non aveva mai abbandonato la bara in legno scuro
adagiata nel terreno.
Prima che arrivasse,
tuttavia, aveva avuto modo di scorgere visi, o cogliere saluti; non ce l’aveva
fatta a rispondere a molti di essi, o forse addirittura aveva distolto
l’attenzione dal terreno dove si era fissato ancor prima dell’arrivo della
bara, solo per inquadrare la figura di Sirjan.
Seguito dai genitori e con
gli abiti da lutto come tutti loro, avanzava diversamente dal padre e dalla
madre senza l’ombrello.
Il signor Kolstoj sorreggeva
sia quello, sia la moglie, attaccata al suo braccio e singhiozzante già da
prima che giungessero lì.
Oz era certo della presenza
di Alice e Noah, giunti con lui, e di Marcus che aveva silenziosamente
mantenuto la sua posizione al fianco di Noah per tutto il tempo.
Sapeva che ad un certo punto
era arrivata Ada, che aveva preso posto al loro fianco, accompagnata da Karin:
Clifton e Sally, solitamente insieme le due, non li avevano raggiunti.
In breve, Oz sapeva che anche
Gilbert era arrivato, perché aveva sentito Ada rivolgergli un saluto che aveva
impiegato fin troppo poco tempo a tramutarsi in un singhiozzo.
Elliot e Reo li aveva visti
anche troppo chiaramente quando erano andati a rivolgersi ai Kolstoj nelle
condoglianze di rito.
Aedan, non aveva mai lasciato
il fianco di Sirjan, né aveva diminuito la distanza di due o tre passi che
c’era fra loro per dargli conforto: la sua figura era rimasta immobile e
silenziosa per tutto il tempo, sotto la pioggia senza ombrello come molti di
loro, rispettosa di un dolore addirittura palpabile.
Forse, c’era stato qualche
professore, magari alle loro spalle, ma Oz di questo non era certo.
Nessuno di loro si era mai
rivolto la parola per tutto il tempo in cui, sotto la pioggia, erano rimasti
lì.
Mentre il sacerdote
pronunciava sentite parole di rito, Oz guardava per terra senza riuscire né a
mutare espressione, né a distogliere lo sguardo dalla terra.
Persino Alice, che
inizialmente forse per istinto gli aveva preso la manica per dargli un minimo
di conforto, lo aveva lasciato quando aveva notato la totale mancanza di
reazione.
Anche a distanza di un mese,
Oz ricordava di non aver provato la rabbia solitamente dettata dall’impotenza
di fronte a qualcosa più grande di te.
Né quella tristezza empatica
nel sentire i singhiozzi e le parole strozzate della madre di Alyster, stretta
nell’abbraccio del marito.
Oz non aveva guardato Sirjan,
se non una volta sola: quella in cui aveva visto che l’altro, come lui,
guardava per terra con lo sguardo di chi non riesce a crederci.
Anche con la verità ad un
palmo dal naso, anche con parole di commiato per un defunto che risuonano
vicine alle proprie orecchie, anche con il pianto di tua madre accanto a te.
Oz sapeva come ci si sentiva.
Ad essere forti né per reale
forza interiore, né per la nobiltà d’animo che ti obbliga a resistere per
essere di supporto agli altri; Oz conosceva quella forza che è dettata da
niente di più che non sentire nulla.
Sei solo, semplicemente,
vuoto.
A combattere perché il magone
non spezzi la tua buona volontà che ti sta aiutando a non piangere.
Sei semplicemente lì, e non
c’è niente.
Né dolore, né speranza, né
rabbia.
Solo disperazione.
La vita era proseguita
ugualmente.
Per quanto fosse certo che
Sirjan lo trovasse insopportabile, Oz ben presto aveva dovuto ammettere che per
quanto difficile ed innaturale – soprattutto all’inizio – la vita stava
continuando anche senza Alyster lì con loro.
Se avesse affermato che
trovava difficile fare le cose che faceva prima ora che la compagna più grande
non c’era più, Oz era convinto che avrebbe mentito: non perché non le volesse
bene, ma perché sapeva già che per quanto il dolore potesse essere grande, una
realtà crudele rimaneva sempre la stessa, dividendo lui, Sirjan e tanti altri come
loro da quelle persone che non avrebbero mai potuto rivedere.
Loro respiravano.
Alyster e Jack non più.
«Forza, adesso basta.» sentì
pronunciare in corrispondenza di una poderosa pacca sulla schiena che lo fece
tossicchiare; voltandosi, non fu difficile riconoscere Noah che aveva un
cipiglio indecifrabile in quel momento, ma che Oz supponeva di non sbagliare
definendolo deciso, quasi rinvigorito.
Noah portò lo sguardo su di
lui: «Non posso dire che “so quant’è difficile”. Ma che non ho intenzione di
farti vivere come un vegetale per un altro mese sì. Forza, alzati.» lo esortò
nuovamente, gli occhi castani dritti nei suoi, la mano tesa in avanti.
Oz guardò prima quella, poi
il compagno, con espressione sorpresa.
Abbozzò un sorriso e fece per
dire qualcosa, ma di nuovo l’altro lo anticipò: «Non provare a rifilarmi che
“va tutto bene”. Potrei appellarmi al mio istinto materno e prenderti a sberle,
Oz. Non sono così stupido. O
insensibile.» dichiarò in una sottile minaccia.
Sbuffò quindi appena quando
notò che l’altro non si decideva e fece di testa sua, prendendogli il polso e
tirandolo appena verso di sé costringendolo ad alzarsi.
Ottenuto quanto voleva, prese
a muoversi in direzione dell’edificio scolastico, mentre la prima delle due
campanelle che suonava segnalava agli studenti di affrettarsi con la colazione
per dirigersi alle lezioni.
Oz si ritrovò a farsi tirare
come un ragazzino che fa i capricci; gli occhi chiari abbandonarono la mano di
Noah per andare a cercarne il viso, che data la posizione però non riusciva a
vedere.
«Noah… posso camminare anche
da solo, sai?» gli fece notare, con una sfumatura di ironia leggera. L’altro
non annuì, non si voltò, né si fermò.
Si limitò solo ad un: «Ovvio
che lo so.» dopo il quale allentò la presa sul polso solo per far scivolare la
propria mano a prendere quella del biondo. Non si trattava di quella stretta
significativa, di quell’intrecciarsi di dita più tipico degli innamorati.
Ad Oz non sembrò altro che la
stretta di qualcuno che cerca di farti forza, a prescindere dal vostro legame.
Si lasciò sfuggire un sospiro
lieve, che forse Noah sentì, vista la replica che parve rivolgere proprio a
quel suo gesto.
«Nessuno pretende che tu non
stia male.» fu la frase con la quale esordì mentre, entrato nell’edificio
scolastico, lo guidava verso la classe del professor Wayne per le prime due ore
di chimica: «Nessuno se lo aspetta da te. Noi sappiamo che tu, Shaye e Elliot
Nightray eravate i più vicini ad Alyster dopo suo fratello. Sappiamo che forse
continuerete a stare male ancora per un sacco di tempo anche se non lo
dimostrate o lo date a vedere in maniera diversa.» continuò, voltando il primo
angolo che portava alle scale.
Probabilmente, visti i pochi
studenti ancora intenti a salirle, la maggior parte si era già sistemata nelle
aule.
«Va bene se stai male, Oz. Va
bene anche se decidi di stare male quando nessuno ti vede e se con noi cerchi
di comportarti come sempre. È… un modo per andare avanti, o per provarci. Va
bene anche se deciderai di chiuderti in camera quando non ci sono e piangere
come un bambino. Però…» indugiò, a pochi passi dalla classe la cui aula era già
chiusa.
Si voltò a fissarlo, negli
occhi la preoccupazione e la solita sincerità che – nonostante fosse
prerogativa di Noah da quando lo conosceva – Oz si sorprendeva sempre di
ritrovare in maniera così limpida.
«Però Oz, non è colpa di
nessuno se Alyster non c’è più.» disse e tacque per qualche istante in cui
quelle parole raggiunsero la mente del biondo come se fosse la prima volta che
le ascoltava.
Sgranò appena gli occhi
chiari, in maniera quasi impercettibile, ma lo fece.
«Né tua, né di Sirjan. Né di
nessun altro. Era una malattia e… nessuno di noi, o di voi poteva fare niente.
Perciò dovresti smettere di comportarti come se invece fosse dipeso da te.
Sentiti triste per la sua morte, ma non addossartene la colpa. E credo che
dovresti dire anche la stessa cosa a Sirjan, tu che ci parli di più.» lo sentì
concludere, senza sapere cosa rispondere.
Vide e sentì la mano di Noah
posarsi sulla propria testa e scompigliarne energicamente i capelli, prima di
un: «Andiamo, che Wayne ci ammazza se siamo in ritardo.» dopo il quale Noah
aprì la porta dell’aula, mentre la seconda campanella iniziava a suonare.
Osservandolo, lo vide
ridacchiare dopo aver esordito con al posto del solito “buongiorno” «E anche
stavolta, miracolosamente, Noah Keynes è salvo!» che fece voltare e ridere
diversi compagni, di cui colse alcune repliche divertite ed ilari.
E mentre si intervallavano in
aula, poco distanti da lui, frasi come: «Ti sei salvato pure stavolta, Keynes,
che razza di fortuna!» oppure «Prima o poi Wayne ti beccherà e non te la farà
passare tanto liscia!» o ancora «Noah, io tifo per te tutte le mattine ormai!»
Oz sorrise.
Un sorriso lieve, non di
quelli soliti che gli incurvavano le labbra facendoti pensare che al mondo
andasse tutto a meraviglia o che nella vita di certe persone i problemi non
esistessero.
Ma era pur sempre un sorriso,
che ancora non sapeva esprimere la gratitudine che nella sua testa era andata
formandosi come unico pensiero alle parole del compagno, ma che sarebbe
cresciuto pian piano fino a diventare capace di dimostrare quel sentimento
senza necessariamente bisogno di dire a voce “grazie”.
Sente un rumore fastidioso sul comodino, ma lascia che
si ripeta incessantemente come fa ogni momento del giorno e della notte.
Odia gli orologi e tutto ciò che ha la stessa
monotona, irritante cadenza dei secondi che passano.
Le lenzuola del letto lo coprono fino alla vita.
Le braccia, sono mollemente lasciate inermi lungo i
propri fianchi.
Davanti a sé, c’è una parete bianca, con un armadio
incolore sulla sinistra e – se si volta – può vedere una finestra che fa
entrare luce in quella stanza.
Ma di guardare fuori non ha voglia.
Di stare lì, non ha voglia.
Nella stanza non c’è nessuno: Ada è uscita, a parlare
con quell’uomo che ogni tanto passa a trovarlo ma che in realtà sospetta vada
lì solo per sua sorella.
Non gli piace affatto quel tipo. Sua sorella è solo
una bambina, dopotutto, sotto quell’aspetto.
Scuote la testa, pensa di nuovo ad Alyster.
…O forse non vuole davvero pensarci e la sua testa si
sta prendendo gioco di lui.
Fa eccessivamente male pensarci.
Fa male sia al cuore, dove c’è una morsa che rischia
di farlo scoppiare, sia allo stomaco dove una stretta analoga gli contorce
quasi le viscere – è certo di non esagerare, checché ne dicano!
Non possono capire!
Loro che non hanno mai perso nessuno non possono
capire, non capiranno mai!
Fa male persino alle mani, perché una perdita simile
gli fa così rabbia che stringe i pugni, fa sbiancare le nocche e poi le unghie
affondano nella carne, nei palmi delle mani fino a ferire.
Vede qualcuno entrare di corsa, guardare le mani
sporche di sangue allarmata.
«Signor Bezarius! Signor Oz, la smetta di stringere!»
gli impone la ragazza al suo fianco – com’è il nome? Miranda Barma.
Non la sopporta, quella lì.
Dal modo in cui tratta i compagni, suoi studenti, al
modo in cui gli si sta rivolgendo.
«Signor Bezarius, si sente bene?» domanda, insistente.
Così insistente da essere terribilmente irritante.
È ovvio che non sta bene, lei dovrebbe saperlo, anche
se al funerale di Alyster non c’era.
Ma no, lei è estranea a cose simili vero? Magari non
le interessa nulla nemmeno del fatto che una sua studentessa sia morta.
Le persone così… gli danno davvero il voltastomaco.
«Stia zitta… zitta, zitta, zitta, zitta, ZITTA!» si
sente urlare, vede la propria mano afferrarle di scatto il braccio e stringerlo
più forte che può, fino a farle male.
Continua mentre si divincola.
Continua mentre smaniosa cerca qualcosa per chiamare
qualcuno.
Continua mentre la porta si spalanca.
E stringe, stringe, stringe sentendola dar voce a dei
lamenti di dolore.
Stringe finché non la allontanano.
E allora…
Spalancò gli occhi, alzandosi
di scatto a sedere.
Respiro affannato, occhi
sgranati per lo spavento, mano sul petto quasi a voler calmare il fiatone
rumoroso che riempiva la stanza, in contrasto con il respiro regolare e appena
percettibile di Noah poco più in là.
Inspirò diverse volte,
sentendo qualche goccia di sudore scivolare lungo la tempia e lungo il collo.
Portò un braccio, in
corrispondenza della manica, ad asciugare la fronte riscoprendola madida di
sudore; mentre il respiro andava lentamente regolarizzandosi, portò lo sguardo
in direzione della finestra, scostando le tende quanto bastava per sbirciare
fuori senza che troppa luce eventualmente svegliasse Noah.
Il chiarore fuori era leggero
e lo indusse quindi a portare lo sguardo sull’orologio sul comodino di Noah
che, tuttavia, a causa della figura del ragazzo a coprirlo in buona parte non
riuscì a scorgere.
Si alzò, quindi, riuscendo
infine a vedere l’ora: le cinque meno un quarto del mattino.
Sospirò, sentendo il compagno
di stanza rigirarsi nel letto durante il sonno.
Racimolò una felpa sulla
sedia della propria scrivania, indossandola. Nonostante il clima fosse ormai
sensibilmente migliorato ora che si affacciavano a Marzo quasi, alle cinque del
mattino l’aria era ancora abbastanza pungente.
Mise dei calzini e le scarpe
con cui era arrivato lì a Latowidge il primo giorno, dopodiché sgattaiolò fuori
dalla stanza, attento a non far rumore nel richiudersi la porta alle spalle.
Non sarebbe riuscito a
riaddormentarsi e piuttosto che passare più di un’ora rigirandosi nel letto
guardando il soffitto, tanto valeva andarci.
Lì dove stava la lapide –
ufficiosa, chiaramente – di Alyster.
Il percorso fu breve, dal
momento che a quell’ora tutta la scuola dormiva. Per i corridoi, così come per
il sentiero esterno che doveva percorrere per arrivare a destinazione, non aveva
incrociato nessuno.
Come aveva immaginato l’aria
era fresca, un po’ pungente anche se non ai livelli di quella invernale, ma
abbastanza da portarlo istintivamente a sfregare le mani su e giù in
corrispondenza delle braccia.
Forse, vedere in lontananza
la figura di qualcuno quando fu ormai in zona quasi, non lo sorprese davvero;
in realtà, una parte di lui sapeva che in un qualche momento della giornata in
cui non era visibile a tutti, Sirjan doveva passare del tempo lì da solo.
Ma in ogni caso, uno stupore
leggero da farlo rallentare lo colse ugualmente quando lo riconobbe.
Un po’ come la prima volta
che si erano incrociati, Sirjan sedeva per terra sull’erba fresca e umida della
rugiada mattutina: indossava qualcosa di pesante sopra quelli che probabilmente
erano i pantaloni del suo pigiama e poggiava la schiena al tronco dell’albero
che Oz aveva notato anche durante la celebrazione dei funerali, sebbene di
sfuggita.
Forse anche i capelli erano
un po’ inumiditi, notò Oz, e lo sguardo si perdeva in avanti.
Era fin troppo facile intuire
che non vedesse altro che la lapide, ed Oz fu incerto se tornare o meno sui
propri passi; tuttavia, per quanto perso nella contemplazione di quella lastra
di pietra, Sirjan rimaneva pur sempre la persona che si occupava della gestione
del rapporto con degli spiriti lì a Latowidge.
E doveva aver trovato facile
accorgersi della presenza di un essere umano, nella fattispecie di Oz.
Il biondo lo vide voltare il
viso verso di lui, l’espressione di una persona stanca, che non dorme quanto
dovrebbe forse anche se non a livelli da star male fisicamente, e svuotata.
Tuttavia, non senza sorpresa
da parte del più giovane, questa mutò nell’ombra di un sorriso cortese, mentre
una mano gli faceva cenno di avvicinarsi.
I piedi quasi si mossero da
soli, in sua direzione, avvicinandolo fino ad essere a pochi passi da lui.
«Buongiorno.» fu il pacato
saluto che Oz si sentì rivolgere e che meccanicamente ricambiò: «Buongiorno.»
Vide Sirjan mantenere lo
sguardo calmo su di lui: «Un po’ mattiniero.» gli fece notare, ma non come un
rimprovero, né come una domanda guardinga di quelle che era solito porre.
Oz cercò di abbozzare un
sorrisetto: «Un po’. Tu invece facendo il capo dormitorio mi sa che sei
abituato alle alzatacce.» commentò, cercando di trovare un motivo che non fosse
l’ovvio quanto inopportuno “non riesci a dormire perché pensi a tua sorella?”.
La risposta di Sirjan a
quell’osservazione si concentrò in un semplice e leggero annuire, dopo il quale
calò nuovamente il silenzio fra loro; lo sguardo del più grande tornò sulla
lapide poco distante e quasi fosse consequenziale, anche quello di Oz fece lo
stesso, come guidato dall’altro.
Per quanto tempo nessuno dei
due parlò, il biondo non fu in grado di calcolarlo, né pensò di farlo.
Di sicuro non fu troppo a
lungo, a giudicare dal fatto che quando la voce di Sirjan lo richiamò alla
realtà, il cielo si era sì schiarito ma non completamente da far supporre che
fosse già l’alba.
«Ho ragione di credere che
Alys ti abbia già rivelato diverse cose.» esordì, senza portare tuttavia lo
sguardo sul più giovane: «Fin dall’inizio si è presa a cuore tutta la questione
che ti riguarda. Perciò credo che… nel momento in cui si è resa conto di stare
davvero male, lei ti abbia chiesto di parlare o abbia trovato il modo di farti
sapere qualcosa che voleva comunicarti.» continuò, Oz che non disse nulla,
limitandosi a deglutire a vuoto.
E fu allora che Sirjan voltò
appena il viso, portando la propria attenzione sul suo interlocutore: «Non
posso dirti “dimmi cosa vuoi sapere e te ne parlerò”. Nonostante io abbia
scelto di diventare l’erede di mio padre per evitare un peso a mia sorella,
quel ruolo è ormai mio. Anche se Alyster non c’è più, non vuol dire che di
punto in bianco abbandonerò quello che la mia famiglia fa da fin troppi anni
ormai.» chiarì, nel tono quella nota di austera cordialità e osservazione del
proprio dovere che Sirjan aveva sempre mostrato di avere fin dal primo giorno.
Oz annuì lentamente, segno
che stava seguendo ciò che l’altro diceva e che probabilmente era anche in
grado di capirne le ragioni in qualche modo.
Ma toccò nuovamente a Sirjan
stupirlo, perché ricevere un aiuto da Alyster era sempre stato non qualcosa di
scontato, ma qualcosa che potevi aspettarti; lo stesso, nonostante le sue
intenzioni non fossero cattive, non si poteva dire del suo gemello.
Eppure, Sirjan sorrise. Un
incurvarsi di labbra leggero e conosciuto, quello che di solito mostrava la sua
pacata educazione rivolta a tutti e nessuno in particolare; in quel momento
tuttavia Oz fu certo di iniziare a capire il tipo di somiglianza – oltre quella
fisica – che aveva sempre accomunato i fratelli Kolstoj.
In quel sorriso, sebbene in
maniera certamente più lieve, vi era una traccia della stessa gentilezza con la
quale era solita sorridere Alyster.
Probabilmente, l’espressione
del biondo rifletté esattamente ciò che aveva avuto modo di notare e
altrettanto probabile era che Sirjan lo avesse in qualche modo intuito; non
smorzò il sorriso, mantenendo gli occhi chiari sul ragazzo.
«Nonostante questo» riprese
«ciò che è in mio potere dirti, te lo dirò. Avevo pensato questo, il giorno del
funerale, quando ti ho osservato.» ammise.
Oz si concesse un’occhiata
sorpresa, alla quale Sirjan si lasciò sfuggire fra le labbra uno sbuffo
divertito. Non era una risata, non vi era nemmeno paragonabile – e d’altra
parte, non era plausibile forse che il ragazzo sorridesse parlando di quella
cerimonia – ma era molto più di quanto Oz gli avesse mai visto fare in maniera
genuina, senza il retrogusto amaro di una risata sarcastica o di disprezzo come
era stato in quell’unico incontro con Cheshire.
«Posso chiederti se ti
sorprende di più che io abbia deciso di parlarti o il fatto che lo avessi
deciso da un mese a questa parte?» chiese, quasi ilare per quanto la situazione
gli permettesse. Oz scosse la testa: «Nessuna delle due cose. O meglio, mi
sorprende che tu voglia darmi informazioni che per tutto questo tempo ti sei
rifiutato di darmi ma… era per il fatto del funerale.» ammise, quasi
lasciandoselo sfuggire, incapace di tacerlo.
«Ero convinto… insomma, ti ho
guardato quel giorno e sembrava che a stento tu… riuscissi a vedere Alyster.»
mormorò, sentendosi in parte colpevole per stare riportando a galla le immagini
di quel giorno e non riuscendo a pronunciare “la lapide”, sostituendovi il nome
della ragazza.
«Proprio come te.» fu la
replica che gli fece nuovamente alzare lo sguardo.
«Nemmeno tu riuscivi ad
alzare lo sguardo da mia sorella. Proprio come il giorno in cui non sei
riuscito ad alzarlo da Jack.» gli fece presente, con tono pacato, quasi ad
addolcire quella che altrimenti sarebbe stata niente più di una frase dolorosa.
Oz sgranò gli occhi: «Jack…
tu eri…?»
«Sì.» annuì Sirjan: «Sia io
che Alyster eravamo presenti al funerale di Jack. Ma non abbiamo avvicinato né
te, né tua sorella quella volta. Portammo le condoglianze direttamente a tuo
padre, accompagnati dai nostri genitori.» spiegò senza entrare nei dettagli,
anche perché non c’era molto altro da dire.
«Mi è tornato in mente quando
ti ho visto. E, come Sirjan anziché come erede dei Kolstoj, ho pensato… che se
ci fossero delle circostanze non chiare sulla morte di Alyster» riprese, una
pausa di qualche istante fissando Oz direttamente negli occhi: «o se, in ogni
caso, in futuro si capisse che la sua morte è legata a qualche altra cosa poco
chiara sebbene non ne sia stata la causa, vorrei saperlo. Non ho dubbi sul
fatto che farei di tutto per scoprirlo. In ogni modo possibile, persino il più
meschino. E odierei sapere che qualcuno con la capacità di aiutarmi a scoprire
qualcosa non lo fa.» concluse.
Oz non seppe dire se a quel
modo Sirjan gli stesse semplicemente spiegando cosa lo portava a parlare con
lui ora come non aveva mai fatto, o se stesse cercando di punirsi e farsi
perdonare per aver taciuto fino a quel momento.
In realtà, egoisticamente non
volle pensarci; la sua testa era già così piena di domande, ricordi e
confusione, da non necessitare un interrogativo che per ora poteva mettere da
parte.
Sirjan a quelle parole non
aggiunse altro, dandogli il tempo di assorbirle, comprenderle e decidere se
chiedere qualcosa o meno. Oz ne approfittò interamente, chiudendosi nel
silenzio e cercando di riordinare nella propria mente le parole già udite da
Alyster e le informazioni che contenevano – cercando di non farsi sopraffare
dal più semplice e doloroso ricordo di quell’ultima chiacchierata con lei.
«Alyster mi ha detto… che se
avessi avuto dei dubbi, avrei dovuto rivolgermi a Xerxes Break. Non ho avuto
modo di chiedere precisamente per quale motivo» disse, mordendosi il labbro
inferiore in qualche istante di pausa: «ma non capisco.» ammise infine.
Sirjan, osservandolo in
completo silenzio per coglierne ogni parola, abbassò impercettibilmente lo
sguardo: si rendeva conto che quel ragazzino stava per fare una domanda di cui
si sarebbe pentito.
Quasi lo avvertiva nell’aria
ancora frizzante che precedeva l’alba.
Si rendeva persino conto del
male che gli avrebbe fatto – perché anche volendo, qualsiasi domanda alla quale
avrebbe risposto non glielo avrebbe risparmiato – e comprendeva forse per la
prima volta la difficoltà di quello che la sua famiglia faceva.
Mantenere segreti non era
difficile.
Sopportare il peso delle loro
conseguenze lo era molto di più.
Si preparò quando lo rivide
alzare lo sguardo: «Sirjan, quante persone sono invischiate in questa
situazione? Ogni volta… sembra uscir fuori un nome nuovo. Forse è proprio una
di quelle domande a cui non puoi rispondere, però… però Alyster mi ha parlato
di voi, di Barma, di Xerxes Break, dei Nightray, dei Baskerville e di spiriti
come Cheshire. Mio fratello… è solo morto di malattia. Che cosa c’entrano tutto
questo e tutte queste persone?» chiese, l’espressione di chi sta per impazzire
senza mai trovare una soluzione, una risposta.
Sospirò.
Non conosceva altro modo che
quello, purtroppo.
«Barma ti ha dato il diario
di tuo fratello Jack. Non te lo sto chiedendo, lo so perché Rufus me lo ha
detto subito dopo avertelo consegnato.» spiegò, per un attimo l’ombra del
Sirjan erede dei Kolstoj che riemergeva: «Dalla tua domanda posso immaginare
che tu… non lo abbia letto completamente. Alcuni nomi che cerchi, sono proprio
in quel diario, scritti dallo stesso Jack. E sono grosso modo le informazioni
che Barma e Xerxes Break hanno collaborando con noi. Chiaramente, non sono a
conoscenza di tutto quello che sa la mia famiglia.» gli fece presente,
l’espressione seria anche se non in un certo senso rigida com’era stato in
passato.
Vide Oz annuire
impercettibilmente e proseguì.
«Posso accennarti solo ai
nomi che sono sul diario di tuo fratello, dal momento che sono cose che
leggeresti e verresti comunque a sapere da solo. Oltre questo, hai altre
domande?» chiese, probabilmente prima di iniziare a sciorinare l’elenco di
presunti nomi.
Oz quasi non gli diede tempo
di finire di pronunciare quella domanda: «Barma mi ha dato il diario dicendomi
che leggendo avrei capito qualcosa sulla morte di Glen Baskerville che a lui
interessa. Ma… io so solo che è morto prima di Jack, per cui…»
«Rufus ti ha detto questo?»
lo interruppe Sirjan, l’espressione quanto mai seria.
Oz annuì colto alla
sprovvista.
Vide Sirjan portare una mano
vicino al volto, l’aria di chi sta velocemente soppesando pro e contro di
qualcosa; alla fine di quel teorico processo, lo sentì distintamente sospirare.
«Non ricordo di avertene parlato
o meno, perciò forse mi ripeterò. Glen Baskerville si è suicidato, e ti
assicuro che non aveva motivi “ufficiali” per farlo. Per questo molti
suppongono che si sia trattato di qualcosa che non comprendeva problemi di alta
società o che potessero emergere facilmente. Il motivo preciso, è qualcosa che
nemmeno io so. L’unico che potrebbe parlarne è Glen, ma immaginerai tu stesso
che non si tratta di qualcuno facile da avvicinare. E personalmente, non ho
interesse nel farlo. Non sono un investigatore, il mio compito è solo mantenere
celato quello che mi affidano in termini di segreti ed informazioni.» spiegò
più chiaramente possibile.
Oz, prestando la massima
attenzione, sembrò ricordarsi di un episodio accaduto ormai mesi prima;
probabilmente l’unico contatto con Glen Baskerville, se aveva ragione di
credere che fosse lui.
«Quindi lo spirito di Glen è
qui?» domandò a bruciapelo; senza scomporsi particolarmente, Sirjan annuì: «Sì.
Ma ti assicuro che il pessimo carattere che aveva in vita non è affatto cambiato
dalla sua morte. Inoltre è uno spirito che ricerca la solitudine. Ho ragione di
credere che tu sia stato l’unico che abbia avvicinato.» assicurò.
L’espressione che Oz assunse,
probabilmente tradì i suoi pensieri.
O forse, Sirjan li aveva
semplicemente messi in conto nel momento stesso in cui aveva deciso di
parlargli con franchezza.
«Il consiglio che voglio
darti, è di non cercarlo. Glen Baskerville intendo.» lo ammonì: «Temo di poter
essere quasi certo del motivo per cui ti abbia avvicinato a suo tempo. E cioè,
devi aver fatto qualcosa che lo ha disturbato. Non è un bene mettersi contro
gli spiriti in generale, perciò evita se puoi.» gli suggerì, nel tono quella
sfumatura di gentile preoccupazione che aveva sempre dimostrato di avere verso
gli studenti, tra i quali Oz non aveva mai fatto eccezione, anzi.
Era forse la persona che si
era sentito rivolgere quel tipo di raccomandazioni più spesso.
Il biondo annuì, senza fare
domande, e Sirjan abbozzò lo stesso sorriso di prima a quel cenno.
«I nomi.» esordì poi, dopo
aver sbirciato l’orologio da taschino sotto gli occhi di Oz, che gli rivolse
ancora una volta completa attenzione.
«Ho letto il diario
abbastanza volte da essere più o meno certo di non dimenticarne nessuno. Le
persone che lì vengono nominate sono… quasi tutte persone che conosci. Alcune
le abbiamo tenute d’occhio da quando sono qui a Latowidge, te compreso. Posso
dirti che finora non hanno dato modo di farci pensare che stessero
architettando qualcosa, ma non sono nemmeno così ingenuo da credere che se lo
stanno facendo non siano più che in grado di nasconderlo. Anche perché ad
occuparci di questa questione siamo sempre stati solo io, Rufus, Alyster, Aedan
e Xerxes Break.» fu la premessa che fece, ed Oz non seppe davvero dire che ciò
che Sirjan cercava di comunicargli era di stare attento a tutti i nomi che
avrebbe di lì a poco pronunciato, o se invece al contrario gli stesse
suggerendo di non doversi preoccupare di tutti come se tramassero alle sue
spalle.
«Le persone menzionate da
Jack sono Charlotte e Glen Baskerville. Lei è stata una servitrice di Glen per
anni e non ha mai completamente accettato l’amicizia con tuo fratello. Tutti e
tre i fratelli Nightray: anche se non so dirti quanto Gilbert ricordi dopo
l’amnesia che sostiene di aver avuto. E… c’è qualcuno, fra le persone a te
vicine, Oz. Qualcuno che volente o nolente non ti sta dicendo la verità. Ma il
suo nome, non posso dirtelo.» dovette ammettere, per quanto le sue intenzioni
fossero buone.
Si alzò, così senza preavviso
che Oz sussultò involontariamente.
Fece per dire qualcosa,
vedendolo togliere qualche filo d’erba rimasto sui pantaloni e in procinto di
andare via, ma il maggiore lo interruppe.
«Ma ti dirò questo.»
aggiunse, quasi volesse farsi… perdonare, per la mancanza del nome?
«So che sarà doloroso. Ma
cerca di arrivare in fondo a quel diario, è l’unica cosa che non può mentirti
dal momento che è stata scritta dallo stesso Jack, e che non ha restrizioni su
cosa può rivelarti e cosa no, come invece ho io. Ti consiglio di andare da Xerxes
Break, ma dopo averlo letto e solo quando avrai domande precise da porgli. Lui
cercherà di metterti alla prova, ti farà sudare quelle informazioni: anche con
parole crudeli o subdole insinuazioni. Ma se riesci a dare a lui e Barma quello
che vogliono, o ad entrare nelle loro “grazie”, sono alleati preziosi se
davvero hai deciso di andare in fondo a questa storia.» continuò, quando mai
aveva parlato così a lungo e rivelato così tanto.
Lo vide fissare il proprio
sguardo nel suo, e non seppe dire cosa aspettarsi ancora.
«Non importa quanto le
domande e le risposte che avrai ti porteranno vicino a Glen Baskerville. Non
cercarlo, Oz. Non è detto che torneresti indietro. Scopri di lui solo quello
che ti è davvero strettamente necessario e se ti avvicina nuovamente tramite
Elliot Nightray, vattene. Sarebbe persino meglio se, per allora, tu non
rimanessi affatto da solo con lui. Chiederò ad Aedan di aiutarti in questo.»
assicurò.
Oz sentiva la stessa
sensazione che probabilmente dovevano provare i margini di un fiume prima che
il corso d’acqua straripasse.
Aveva il sentore che non
sarebbe riuscito a fare chiarezza su quella situazione nemmeno ordinando tutto
su degli schemi per delle intere settimane.
«Lacie.» lo sentì pronunciare
e fu certo di essersi perso un pezzo, quello che collegava quell’unica parola
al resto del discorso.
«Eh?» balbettò infatti di
rimando, fissandolo oltremodo confuso.
«Lacie non è solo il nome di
uno spartito, Oz. Ricordatelo.» concluse, più vicino di quanto Oz lo ricordasse
e riuscisse effettivamente a vederlo mentre inspiegabilmente la vista si faceva
pessima.
«Lacie, chi…?» tentò di
articolare, ma perse i sensi prima di concludere quella domanda così
importante.
«Sembra… essersi calmato per fortuna.»
«State bene, Miranda?»
«Sì, non preoccupatevi.»
Se fosse sveglio coglierebbe tutto quello, ma in
realtà sente solo voci e suoni indistinti intorno a sé, in quell’istante prima
della totale perdita di coscienza.
«Grazie dell’aiuto, signor Kolstoj, il suo sangue
freddo è stato provvidenziale.»
«Anche se il metodo per addormentarlo non è molto
consono.»
…Kolstoj?
È Alyster? No. Signore.
Allora è Sirjan.
Ha una sensazione molto vaga, di una mano che scosta
qualche ciocca dalla fronte.
Ma non è sicuro di stare sognando o di essere sveglio.
Come non è sicuro che non sia la sua immaginazione, a
fargli avvertire il respiro lieve di qualcuno vicino all’orecchio, come se
stesse per sussurrargli qualcosa.
Deve cercare di sentirla.
Deve provarci, deve ascoltare, perché sembra che sia
così importante…
Gli scostò i capelli dalla
fronte, osservandolo con la stessa espressione preoccupata che aveva rivolto
sempre e solo ad Alyster, il viso abbastanza vicino al biondo.
Abbastanza da far sì che un
sussurro fosse più che sufficiente.
«…Cerca di accorgertene in
fretta, Oz.»
Calciò l’aria, annoiata, la
schiena poggiata contro la parete: si stava annoiando da morire, a dirla in
maniera semplice e concisa.
La mattina – tanto per
cambiare, violando il regolamento interno dei dormitori che teoricamente impediva alle ragazze di
entrare in quello maschile e viceversa – aveva deciso di passare a prendere
Noah e Oz per andare a lezione insieme.
Lei non era stata depressa
tanto quanto Oz, e in realtà non capiva davvero fino in fondo cosa portasse il
biondo a dilaniarsi a quel modo; non voleva essere assenza di sensibilità nei
suoi confronti. Semplicemente, quando si era soffermata a pensarci, si era resa
conto di non avere un riscontro per poter cercare di capire Oz. Figurarsi
Sirjan – ma di Kolstoj in realtà non gli interessava molto.
Quando si impegnava a cercare
di ricordare, a farlo davvero quando magari era sola in stanza, non faceva
altro se non riproporre alla sua testa dei ricordi che dire vaghi avrebbe
significato osservarli da un punto di vista ottimista e procurarsi l’emicrania.
Il risultato migliore che
aveva ottenuto era stato ritrovare la sensazione di qualcosa che si perde: ma
di certo, non avere presente cosa fosse, quando fosse successo e come, non ti
permetteva di poter dire “so cosa si prova”.
Oltretutto, aveva lasciato
perdere in ben poco tempo.
Affogare nei ricordi,
letteralmente, non era cosa per lei: dopotutto, con la sua vita attuale non
stava male, perciò non aveva mai capito l’utilità di sforzarsi a recuperare
qualcosa che tanto non torna comunque. Più specificatamente, non capiva
quell’idiota di suo cugino.
Gilbert ne aveva fatto una
vera e propria malattia, anche se non era stato sempre così.
Ora non ricordava con
precisione tutti i particolari di quando erano più piccoli, ma era sicura che
per Gilbert non fosse mai stato proprio di vitale importanza ricordare.
Anche solo prendendo come
punto di riferimento il loro ingresso a Latowidge, Alice era quasi certa che il
moro avesse sempre vissuto abbastanza tranquillamente in casa Nightray, felice
di aver ritrovato il fratello e di possedere una famiglia.
Non aveva memoria di un
Gilbert così ansioso di ricordare anche il minimo dettaglio, che addirittura
arrivava ad investigare e a chiedere a suo padre – lo avrebbe volentieri preso
a pedate quando all’ultima riunione, per colpa sua, la cena si era protratta
per quasi un’ora andando avanti a discussioni sull’argomento.
Sembrava diventata
un’ossessione; quasi quasi, paradossalmente, si ritrovava più in Vincent che se
ne fregava altamente: lui, fintanto che aveva ritrovato Gilbert, sembrava
vivere in pace con il mondo.
Strusciò la punta della
scarpa sul pavimento, tanto per fare: Noah le aveva detto, quando era andata a
prenderli – oltre il solito: «Tu mi farai cacciare via, maledizione.»
imbronciato – che Oz non si sentiva troppo bene e che quindi aveva deciso di
non andare a lezione per quella mattina.
Mi sa che mi sono raffreddato, ma vorrei evitarmi la
febbre, aveva asserito Oz quando lei
non contenta delle spiegazioni di Noah aveva insistito per affacciarsi alla
loro stanza.
Ed effettivamente il biondo
era al letto, coperto fino alla vita e un po’ pallido. Ma la cosa continuava a
puzzarle lo stesso.
E comunque ora che le lezioni
erano finite e Noah era stato letteralmente rapito da Marcus, lei si annoiava.
Tanto.
Troppo.
E lei odiava la noia.
«Maledetto servo, questa
gliela farò pagare.» borbottò imbronciata tanto che se Oz l’avesse vista in
quel momento sicuramente avrebbe commentato con uno dei suoi stupidi “waaah,
che carina Alice con il broncio!”.
Uno di quei commenti
imbarazzanti che, sebbene gli valessero spesso calci agli stinchi, continuava a
fare per chissà quale vena masochista del suo carattere.
«A~lice!» sentì pronunciare e
non le piacque. Per nulla.
Si voltò comunque in
direzione della voce che l’aveva chiamata e sperò davvero che quello che le
veniva incontro non fosse il cugino Vincent; purtroppo non sempre la speranza
era destinata a realizzarsi, a quanto pareva.
Notò che l’altro, mentre le
si avvicinava, sorrideva con quell’incurvarsi di labbra che l’aveva sempre
irritata pesantemente in tempi così brevi da chiedersi se fosse davvero
possibile, a volte.
Non si mosse, più che altro
si irrigidì appena sul posto, serrando la mascella: non doveva insultarlo,
almeno finché l’altro non gliene dava motivo. Lo mal sopportava, certo, ma
quando Vincent assumeva l’espressione di chi ha appena ottenuto di farti
passare dalla parte del torto ed è quindi consapevole di avere il coltello
dalla parte del manico beh, in quel caso arrivava proprio ad odiarlo.
Dovette alzare appena lo
sguardo, inclinando il capo indietro quando lo ebbe direttamente di fronte –
maledetta differenza d’altezza – e rimase in attesa.
Perché suo cugino non
l’avvicinava mai senza un motivo.
«Buongiorno.» la salutò, il
sorriso cordiale quanto il tono, gli occhi dissimili fissi su di lei.
«’giorno.» fu il suo massimo
impegno che si tradusse, tra l’altro, in un saluto abbastanza secco. Lo sentì
ridacchiare e sentì che i suoi buoni propositi, costruiti con tanta fatica, si
sgretolavano in una manciata di secondi.
«Sei sempre arrabbiata quando
parliamo. Devo ritenermi particolarmente sfortunato, cugina?» gli sentì
chiedere e non poté evitare ad un sorrisetto sarcastico di incurvare le proprie
labbra.
«No Vince» replicò, e non
serviva sottolineare quanto poco lo chiamasse Vince «è proprio che parlare con te mi mette di cattivo umore.» lo
provocò – lo aveva detto che i buoni propositi erano andati per altri lidi, no?
Vincent rise, di nuovo:
«Alice non è per niente carina con me.» osservò, quasi casualmente, ed Alice si
chiese quale fosse il problema di Vincent e Break con la sua presunta mancanza
di femminilità.
Fu comunque distratta
dall’ulteriore avvicinarsi di lui, che la sorprese: lei e il cugino non si
erano mai particolarmente amati, né lontanamente piaciuti.
Il biondo, fin da quando per
la parentela che li legava avevano iniziato a frequentarsi da bambini, si era
sempre dimostrato antipatico verso di lei.
No, forse “antipatico” non
era il termine esatto; forse si trattava più di essere…
…meschino, formulò mentalmente.
In ogni caso, se c’era stato
uno dei tre fratelli che più degli altri due aveva sempre mantenuto le distanze
facendoglielo volutamente pesare, quello era sempre stato Vincent. La guardava
in un modo diverso dalla voluta distanza mantenuta per etichetta da Elliot, e
diverso anche da quel particolare tipo di timidezza di cui era preda Gilbert
allora.
Era… quella sibillina
distanza di chi si diverte alle tue spalle osservandoti da lontano come si
farebbe con un giocattolo particolarmente divertente in quel momento.
O con una preda che hai
puntato e malgrado gli sforzi non riuscirà a fuggire.
Quando accennò ad arretrare –
inutilmente, dato il muro alle sue spalle – Vincent era così vicino che i loro
corpi quasi si sfioravano; lei deglutì a vuoto: non era tipo da farsi mettere
facilmente in soggezione, tanto che non si era mai preoccupata del fatto che il
cugino avesse preso il pessimo vizio di mettergli alle calcagna Echo per
controllarla.
Fastidio, certo, ma mai
inquietudine.
Eppure ora, quello sguardo
non le piaceva per nulla, molto meno del solito.
Le metteva i brividi.
«Sai, Alice, è un peccato che
io non ti piaccia. Perché a me la mia cuginetta piacerebbe anche, se non mi
trattasse sempre così male.» mormorò, il tono caldo e una mano che aveva
sfiorato con fare distratto una ciocca dei capelli castani, legati.
Lei indurì lo sguardo, e fece
per articolare un “ma figurati!”, ma fu gelata dallo sguardo che Vincent le
rivolse. O forse no.
Probabilmente, ciò che
davvero la fece irrigidire lì dov’era, terrorizzata, fu che quello sguardo ebbe
una corrispondenza. Nella sua mente, nello stesso istante in cui vide di fronte
ai propri occhi quello di Vincent che si era chinato verso il suo viso.
Occhi che non si potevano
confondere con quelli di qualcun altro: e in quel momento, quelli che vedeva e
quelli che erano nella sua mente, in uno di quei ricordi che non si era mai
data la pena di riportare a galla, dicevano la stessa identica cosa.
Vorrei tu sparissi dalla faccia della terra, per sempre.
«Mi irrita terribilmente.» lo
sentì mormorare ancora più piano ma ugualmente udibile, vicino al suo orecchio
quasi: «Ti guardo, Alice, e mi irrita. Perché sei lì, e ti comporti come se
avessi il diritto di essere felice… e tu lo sai, che non ce l’hai.» sussurrò.
Alice sussultò, sgranando
appena gli occhi, il cambio di espressione invisibile a Vincent data la
posizione.
«E mi irrita anche quel
ragazzino. Bezarius.» sembrò sputare veleno su quel nome: «Lo circondate come
se fosse Dio. Come se fosse Jack.» e
quel nome la fece rabbrividire e, anche senza ricordi degni di essere definiti
tali, le fece provare un dolore all’altezza del petto che – si disse – doveva
somigliare molto a quello che Oz aveva sentito davanti alla tomba di Alyster.
«Ma sai» vide la propria
ciocca scivolare fra le dita del più grande, mentre il viso e lo sguardo
tornavano visibili: «vi state illudendo. Tu e Gilbert. Quel ragazzino non è Jack, e voi non lo riavrete indietro.
Nessuno di noi può farlo tornare indietro. Lo state insultando. Continuando a
fingere che quell’insulso ragazzino possa prendere il suo posto.» continuò il
tono invariato per tutto il tempo.
Fino a quel momento, quando
strinse la ciocca tirandola appena con tutte le intenzioni di farle male, e lo
sguardo si riempiva di rabbia quasi cieca.
Le sfuggì un gemito fra le
labbra, le mani che istintivamente venivano portare a quella di Vincent per
liberarsi della presa.
«Proprio tu che hai insultato
la memoria di Jack a quel modo, tu che sei così bugiarda. Non meriti di stare qui,
non meriti di stare con quel bamboccio, di essere felice. Sei soltanto una
disgrazia, niente più di una ragazzina che nessuno voleva. Se tu fossi morta,
saremmo stati tutti più felici!» sbottò con rabbia.
«Smettila, smettila!» gridò
lei, la voce che riecheggiò nel corridoio deserto.
E lui la lasciò.
Si allontanò lentamente di
qualche passo, il viso che si era contratto in una smorfia quasi furibonda che
era tornata tranquilla, sorridente com’era sempre.
Non si diede nemmeno la pena
di guardarsi intorno.
«Alice, Alice… lo sai come
funzionano gli specchi?» se ne uscì, senza un senso logico. Non attese la sua
risposta: «Ti restituiscono la stessa immagine che hanno davanti. Sai… forse io
potrei diventare il tuo specchio, Alice.» pronunciò, il tono morbido e quasi
conciliante, per nulla affine alle parole che stava pronunciando.
Si voltò, per andarsene come
se nulla fosse, ma la castana si mosse addirittura prima di rendersene conto
lei stessa; allungò una mano, riuscendo ad afferrargli la manica della divisa.
Lui si limitò ad osservarla
da sopra la spalla, senza nemmeno degnarsi di voltarsi totalmente.
Sul suo viso ritrovò
l’espressione di una bambina persa, che non sa a cosa credere e che vede in te
qualcosa di simile all’unica speranza che ha di capire.
Anche se tu non sei affatto
la sua speranza.
«…Che vuol dire quello che
hai detto?» la sentì chiedere.
E di quello smarrimento, ne
fu profondamente soddisfatto.
«Vai a chiederlo all’altra
Alice, se ci tieni tanto.»
Quando aveva ripreso
conoscenza, si era ritrovato nella propria stanza, con Noah che era intento a
prepararsi. Registrando grosso modo quanto accaduto, compreso l’aver perso
conoscenza in giardino ed essere stato presumibilmente riaccompagnato in stanza
da Sirjan, si era sorpreso del fatto che notandolo sveglio Noah gli avesse
rivolto un sorriso, piuttosto che un rimprovero per l’ennesima uscita notturna
– o presunta tale, considerando che quella volta era quasi l’alba.
Poi era stato tutto più
chiaro quando Noah aveva parlato: «Sirjan ti ha riportato in stanza, ha detto
di averti trovato addormentato su un divanetto giù in sala.» gli aveva spiegato
brevemente, soffermandosi poi ad osservarlo mentre Oz mentalmente ringraziava
il più grande e ripercorreva velocemente il discorso che avevano fatto.
«Ti senti bene, Oz? Sei un
sacco pallido.» gli aveva chiesto Noah, ed Oz aveva in parte colto la palla al
balzo: «Mh, non tanto a dire il vero…» aveva mormorato.
Si sentiva scombussolato,
persino lo stomaco non sembrava al massimo della propria forma.
Noah gli aveva scompigliato
piano i capelli – dopo che Alice, bussando alla loro stanza aveva insistito per
entrare a vedere come stesse – per poi uscire e raccomandarsi con lui di
riposare per il resto della giornata e che lui e la ragazza lo avrebbero lasciato
in pace fino a sera, senza fare avanti e indietro dalla camera.
Era ora l’ora di pranzo, e il
massimo che lui era riuscito a fare era stato stare sdraiato al letto fissando
il soffitto, limitando al lavarsi l’unica attività degna di nota.
Aveva ripensato alle parole
di Sirjan, cercando di darvi un ordine, provando a stabilire cosa avesse la
precedenza su cosa. Per quanto dopo l’ultima lettura il pensiero non lo
entusiasmasse particolarmente, continuare il diario di Jack sembrava l’opzione
più logica.
Ma anche presa coscienza
della cosa, la sua mano non aveva avuto nessuna intenzione neanche vaga di
allungarsi fino a raggiungere il cassetto del comodino, né di aprirlo e ancor
meno di estrarne il diario in questione.
Sospirò nello stesso istante
in cui, senza nemmeno un bussare a precederlo, sentì pronunciare dall’altra
parte della porta un: «Sto entrando, Oz.» in cui riconobbe la voce di Gilbert,
stupendosi quando lo vide socchiudere l’uscio quanto bastava ad entrare. Il
biondo, che aveva fatto perno sul gomito per tirarsi su a sedere, lo guardò
interrogativamente mentre l’altro lasciava che la porta si richiudesse alle sue
spalle.
Quando poi Gilbert riportò lo
sguardo su di lui abbozzando un sorriso, Oz pronunciò istintivamente un: «Che
ci fai qui, Gil?» che ne tradì in parte la sorpresa.
La quale, probabilmente, si
ridimensionò in poco quando entrambi – Oz dopo averci riflettuto per qualche
istante – pronunciarono contemporaneamente: «Noah.»
Oz ridacchiò mentre si
sistemava a sedere, mentre il sorriso di Gilbert lasciò intravedere una
sfumatura divertita; il più grande prese posto sul bordo del letto occupato.
«Come stai?» gli chiese,
studiandone il viso con discrezione. Oz gli rivolse un sorriso leggero ma
gentile: «Sto meglio, dopo essermi riposato.» assicurò.
Gilbert non lesse alcuna
bugia, in quella risposta; tuttavia, allungò una mano a sfiorargli la fronte,
scostando leggermente una ciocca di capelli, l’espressione del viso pacata,
quasi rassicurante: «Non intendevo solo fisicamente.» rivelò, lasciando perfettamente
intendere a cosa si riferisse.
Oz abbozzò un sorriso
indecifrabile, quasi perfettamente a metà fra il mesto e quella connotazione
che un nome preciso non lo aveva, ma che era tipica di Oz quando cercava di
nasconderti qualcosa su come si sentiva: «Sto meglio.» pronunciò piano.
«Non è vero.» ribatté
praticamente subito Gilbert, ma senza che sembrasse un vero e proprio
rimprovero.
Oz abbassò lo sguardo:
«Allora perché me lo chiedi?» domandò.
Gilbert, dopo qualche
istante, ritirò la mano rimasta protesa in avanti: «Perché ultimamente menti in
maniera meno credibile. Ed è più facile così, piuttosto che se rimani in
silenzio.» fu la sua replica, dopo la quale non parlò nessuno dei due, finché
Gilbert non riprese la parola.
Aveva osservato Oz a discapito
del fatto che forse si fosse notato poco o non si fosse notato affatto: aveva
guardato il biondo al funerale di Alyster al quale anche lui era stato
presente. Il tipo di dolore che aveva visto negli sguardi di Sirjan, Elliot ed
Oz era stato così diverso e così simile in tutti e tre, da fargli provare
inconsciamente un tipo di soggezione tale che aveva sentito quasi l’obbligo di
abbassare il proprio.
Con la sensazione, quasi, di
non avere il diritto di essere lì; e – Oz non aveva potuto notarlo – si era allontanato
prima della fine della funzione. Non per un motivo particolare, ma perché era
successo di nuovo, come al concerto.
Una fitta che sembrava
volergli dividere la testa a metà, e immagini vaghe, veloci. Dolorose.
Di qualcuno scomparso in
maniera simile ad Alyster… diversi anni prima.
Vincent… perché doveva
morire proprio una persona come Jack?
E la sensazione di dolore e
angoscia di quel giorno, anche se i ricordi non erano ora niente più che flash:
«… Mi sono ricordato di Jack. Anche se solo un po’. Perciò non dirmi che stai
bene, Oz. Non devi… dimostrare nulla, e—»
«Forse dovresti andare via,
Gil.» lo interruppe, lo sguardo basso coperto anche in parte dalla frangia.
Gilbert sgranò gli occhi a quelle parole, senza capire.
«Ma Oz…»
«Io non so se è fra le cose
che ricordi, però stavi spesso con me nella stanza di Jack, quando venivi a
trovarlo.» esordì, interrompendolo nuovamente. Gilbert fu certo di scorgere, in
quel momento, un sorriso che non gli piacque affatto.
Era lo stesso che aveva visto
sul viso di Oz quando, dopo la riunione fra genitori ed insegnanti, aveva
sentito per caso il biondo mentre parlava con la sorella nell’atrio, osservando
l’ingresso appena oltrepassato dal padre che andava via.
Ada… papà sarà tranquillo,
ora che ha visto suo figlio ed è tornato a casa?
Era l’espressione che faceva Oz quando aveva per un motivo o per l’altro la certezza di non essere accettato. O di essere la vergogna di qualcuno.
Strinse appena il pugno
libero, l’altra mano che sorreggeva il peso del corpo proteso appena in avanti.
Cosa significava quel “forse
dovresti andare via”?
«Penso che a te faccia male,
Gil. Stare qui adesso che io sono al letto. Non ti ricorda Jack?» gli sentì
chiedere, ritrovandosi a sussultare e sgranare appena di più lo sguardo.
«Ma che stai dicendo?»
chiese, incredulo, continuando a fissarlo e notando che a quelle parole, anche
fisicamente, Oz parve chiudersi ancora di più su se stesso.
Lo sguardo rimaneva basso,
spostato lateralmente con il preciso intento di non incrociare il suo; e persino
il corpo sembrava volesse allontanarsi, come se Gilbert potesse bruciarlo o
fare chissà cos’altro di materialmente impossibile.
«Insomma, magari non te ne
accorgi perché non lo ricordi, però… è così no? Quindi forse non ti fa bene. Lo
so, di somigliare a mio fratello. Non preoccuparti se lo hai pensato, va bene.
Lo so perché anche mio padre… lo ripete in continuazione.» mormorò, sciorinando
spiegazioni incomprensibili e che non c’entravano nulla, ma che soprattutto
Gilbert faticava a seguire.
Non voleva ascoltare.
Non voleva vedere Oz in
quello stato, di nuovo – era già successo una volta, in uno dei pochi ricordi
stabili che aveva, prima di lasciare casa Bezarius.
«Va bene se adesso, mentre
sei qui, lo fai perché ti senti in colpa o perché ti hanno portato dai Nightray
nel periodo in cui poi Jack è stato male… non mi fa arrabbiare. Se ti preoccupi
così tanto perché temi che quello che è successo a lui succeda anche a me. Se—»
«Adesso basta.» sibilò,
interrompendo Oz che portò lo sguardo tra lo stupito e il perplesso su di lui,
facendo per ribattere, ma venendo anticipato da Gilbert.
La voce gli tremava di rabbia
– proprio a Gilbert, che non si arrabbiava mai.
«Stai dicendo che sono qui
per cosa, per pietà? O per il senso di colpa verso tuo fratello?» lo interrogò,
il tono accusatorio.
«Stai cercando di dirmi che
secondo te, sto scontando l’essermi sempre accusato di non esserci stato nel
periodo in cui Jack era malato attraverso di te, ora? Stai dicendo che ti sto usando,
Oz?» alzò lo sguardo, puntando gli occhi dorati nei suoi: «Stai veramente
pensando una cosa del genere?!» tuonò, alzando la voce all’improvviso – proprio
lo stesso Gil timido che in passato parlava con tono che era a stento udibile.
E per contro, l’espressione
che assunse il biondo fu altrettanto inusuale, l’aria di chi non ne poteva più
di quello che vedeva, o che sentiva, o addirittura che pensava.
O di tutte e tre le cose
insieme – proprio lui, che aveva sempre sorriso a tutto, anche quando una
persona dovrebbe fare tutto tranne che sorridere.
«Non sto dicendo che mi stai
usando, solo—»
«E invece è proprio quello
che stai dicendo!» alzò la voce, aggredendolo quasi, il corpo maggiormente
proteso in avanti e Oz che quasi lo imitava nemmeno fosse il suo riflesso nello
specchio.
«Tu non lo sai cosa vuol
dire, Gil!» sbottò il più giovane, senza dargli tempo di interromperlo
nuovamente: «Non sei tu che vivi nell’ombra di tuo fratello! A Latowidge non
sei “il fratello di”, non continuano a guardarti come se fossi un fantasma e
tuo padre ti chiama con il tuo nome!» alzò i toni.
«Io non so nemmeno chi è il
mio vero padre!»
«IO VORREI NON SAPERLO!»
gridò, sentendo qualcosa raschiare violentemente la gola mentre il tono si
spezzava a metà quasi, come chi… sta per piangere.
Gilbert era rimasto imbambolato.
A guardare davanti a sé
quell’Oz che non aveva mai visto.
Boccheggiò appena, lo sguardo
praticamente fisso sul biondo, come se avesse appena detto qualcosa a cui non
volesse in alcun modo credere.
Con la mano cercò quella di
Oz, o il polso, o il braccio – solo, necessitava di un contatto, per avere la
certezza che la risposta sarebbe stata reale.
«Non… stai dicendo che non
vorresti esistere, vero, Oz?» mormorò pianissimo, cercando lo sguardo
dell’altro col proprio.
Oz non lo guardò.
E questo lo mandò in
paranoia; tirò appena la sua manica: «Oz, non era quello che intendevi, vero?»
chiese, il tono appena più udibile.
Riuscì a scorgere Oz mordersi
appena il labbro inferiore, prima di articolare un: «No, Gil.» che però non
riuscì a convincerlo totalmente.
Perché per un sacco di tempo,
precisamente proprio dalla morte di Jack forse, aveva temuto che ogni giorno
fosse quello in cui per un motivo o per l’altro – disperazione, solitudine,
dolore o chissà cosa – Oz gli avrebbe detto che non ce la faceva.
Che, semplicemente, non ce la
faceva più.
Strinse la presa,
estendendola al polso.
«Oz?» lo chiamò, tirandolo
appena: «Oz… guardami un attimo.» lo esortò, stringendo la presa ulteriormente.
Quando però il biondo si
voltò a guardarlo finalmente, Gilbert era molto più vicino di prima e lo
fissava con la stessa espressione di chi non ha alcuna intenzione di perdere la
persona più preziosa che ha. Anche se, egoisticamente, dovesse andare contro i
desideri di quella persona per assecondare solo i propri.
«Gil…?» mormorò piano, quasi
in un soffio.
«Non andare via.» fu la
replica che gli sentì bisbigliare, la presa sul polso che si allentava perché
la mano scivolasse via, cercando la sua in maniera più appropriata, finché le
dita non si intrecciarono a quelle del biondo – sensazione di dejà-vu, di
quello stesso anno e in quella stessa stanza.
«Prometti che non andrai via,
Oz.» sussurrò, mentre poggiava la fronte alla sua.
Oz sentì qualcosa, lì allo
stomaco, che non riuscì a decifrare o che forse in parte ignorò.
Non poteva esserne certo, ma
ebbe la sensazione che quel qualcosa fosse dovuto alle labbra di Gilbert che si
posavano sulle sue mentre socchiudeva gli occhi lentamente, la mano che
stringeva la sua.
11 Febbraio
Glen è passato a trovarmi, questo pomeriggio.
Non credo che… stia bene.
L’ho trovato pallido, e anche se ti guarda sembra che,
con la mente, sia altrove.
E non posso che preoccuparmi.
Mi sento… terribilmente in colpa verso di lui.
Mi sento egoista abbastanza da non avere il diritto,
di definirmi il suo migliore amico come fatto finora.
Non più.
Non si chiese perché Gilbert lo stesse facendo.
Né perché lui stesse
rispondendo, non solo alla stretta della sua mano, che nel caso di Gilbert era
sempre stata un po’ “tipica” – di qualcuno che vuole assolutamente farti sapere
in qualche modo che è lì per te, e ci resterà.
Non si chiese nemmeno, anche
se sicuramente lo avrebbe fatto poi, quale fosse stato il momento in cui aveva
pensato per la prima volta a Gilbert né come il servitore di quando era
bambino, né come il proprio migliore amico.
Quando, esattamente, l’altro
avesse fatto lo stesso.
Né quando, in sostanza, erano
giunti alla conclusione che un bacio non sarebbe stato… una colpa, in fondo.
Anche se li avrebbe resi non
più “amici”; nel bene o nel male.
19 Febbraio
Mi chiedo se faccio bene.
Pur essendomi reso conto di cosa Glen stia per fare,
non ne ho parlato a nessuno.
Nemmeno con lui.
Non tocchiamo mai l’argomento, quando siamo insieme.
Lui si limita a fissare fuori dalla finestra e stare
in silenzio,
per la maggior parte del tempo.
Solo ogni tanto mi dice: «Jack, quanto rimarrai ancora?»,
ma lo fa sempre senza guardarmi.
La mia risposta non cambia mai.
«Finché vorrai, Glen.»
Non so chi dei due stia mentendo di più, fra noi.
Lo sentì allontanarsi, pur
rimanendo ad una distanza minima.
Lo avvertì dal respiro del
moro contro le proprie labbra, più che dal vederlo o meno – specie perché
teneva gli occhi chiusi, più che sicuro di essere arrossito. E, con ogni
probabilità, che Gilbert avesse fatto lo stesso.
Lo sentì trattenere appena il
respiro, ad un certo punto, e la cosa lo indusse ad aggrottare appena le
sopracciglia, facendo per aprire gli occhi.
Desistette, quando si sentì
posare un bacio sulla fronte.
«Non andrai via, vero Oz?»
colse quindi, nuovamente in un sussurro.
Scosse impercettibilmente la
testa, formulando una domanda che riuscì a rivolgersi forse per pura fortuna,
sentendosi in fondo un po’ meschino, forse: «…Quanto rimarrai al mio fianco,
Gil?»
23 Febbraio
Oggi Gilbert e Vincent sono
passati a trovarmi.
Gilbert è gentile come
sempre,
e mi preoccupa sapere che
potrebbe sentirsi in colpa, in futuro.
Però, mi solleva sapere che
fra qualche anno,
sarà sicuramente uno degli
amici più fidati di Oz.
Mio fratello, che per colpa
mia soffrirà molto più di Ada.
Nostro padre, dopo la morte
di nostra madre,
è divenuto schiavo della
disperazione.
Temo che dopo la mia morte,
non sarà più in grado di
vivere come prima, come ora.
Tutto ricadrà su mio
fratello, eppure…
Egoisticamente, non riesco a
far altro che sorridergli,
promettendogli che guarirò.
Io sono… una persona
orribile.
«Finché vorrai, Oz.» lo sentì
mormorare.
Fu certo di riuscire persino
a cogliere una sfumatura impacciata, dovuta probabilmente al gesto appena
compiuto.
Mosse appena il pollice, sfiorando
con esso il dorso della mano con cui ancora teneva le dita intrecciate, come
per dire che non era arrabbiato, che andava tutto bene.
«Mh…» mormorò in risposta,
anche se una vera e propria non era.
Avvertì le proprie labbra
incurvarsi in un sorriso, quasi indipendentemente dalla sua volontà, come se
non si trattasse di qualcosa decisa da lui.
«Gil, ascolta…» riprese, la
mano libera rimasta posata sul materasso fino a quel momento che salì a
prendere un lembo della manica dell’altro fra le dita, quasi per richiamarne
l’attenzione o, al contrario, per distogliere la propria da quanto stava per
dirgli: «riguardo Jack, lo so che non mi stai usando.» assicurò.
«Lo so.» ripeté, volendo
essere certo di essere sincero e che l’altro capisse.
Si sentì rivolgere di rimando
le stesse parole da lui appena pronunciate, mentre – il Gilbert di una volta
non avrebbe avuto tutto quel coraggio – il viso del moro rientrava nel suo
campo visivo, lo sguardo fisso nel suo.
«Lo so. Ti conosco abbastanza
da sapere che non… penseresti una cosa simile di qualcuno.» mormorò, un sorriso
leggero e gentile sulle labbra.
Oz ne abbozzò uno a sua
volta: «Di qualcuno forse. Di Gil no.» chiarì, per un attimo l’ombra del
solito, sfacciato Oz.
Non si diede il tempo di
ascoltare la replica di Gilbert, andando a poggiare la fronte contro la sua
spalla.
Finché vorrai.
…Da allora, sembravano parole
terribilmente facili da rendere false.
15 Marzo
Glen è morto.
Ed è come se lo avessi
ucciso io.
Sentendo la presa
sulla propria manica farsi più serrata, sul momento Gilbert si limitò a passare
un braccio attorno alle spalle di Oz.
Ma
fu proprio per quello che cogliere un sussulto leggero fu più facile.
E
ancor più semplice fu avvertire la sensazione che qualcosa non andasse: «…Oz, va tutto bene?» soffiò, non avendo bisogno di
alzare il tono.
Lo vide scuotere la testa,
senza ricevere però una risposta a parole.
«Oz, ma cosa…?» iniziò,
lasciando in sospeso il resto della domanda piuttosto intuibile, abbassando lo
sguardo quanto sarebbe teoricamente bastato per guardare in viso Oz.
Ma il biondo rimaneva fermo,
ad eccezione di un nuovo scuotere la testa, strusciandola appena contro la
stoffa; Gilbert poté avvertire le spalle irrigidirsi e a quel punto non ebbe
bisogno di chiedere.
Vide Oz andargli incontro,
abbracciarlo senza una parola.
Non esitò a ricambiare
l’abbraccio del dodicenne, sentendolo in breve irrigidirsi dopo aver sussultato
– pur cercando di trattenersi, così gli sembrava.
«Padron Oz?» tentò,
incerto.
«…Non sono più il tuo padrone, Gil.» lo sentì mormorare, ritrovandosi a sorridere, soffiando un “è vero” più a se stesso che non a lui.
«Che succede?» chiese, osservandolo ma vedendo niente più che la testa bionda appena scossa, cogliendo la fronte strusciare contro la propria spalla.
Poi,
un singhiozzo non trattenuto e braccia minute che si stringevano alla vita.
«Gil… Jack non c’è più.» aveva mormorato.
Strinse appena
l’abbraccio.
Dei
ricordi che aveva, quello in cui Oz pianse per la prima volta
incontrollatamente davanti a lui non sarebbe mai svanito, probabilmente.
Note dell’autrice
Questo
capito mi ha uccisa, ok? Uccisa.
Non
finiva più, maledizione. *il momento in cui un’autrice inizia ad odiare la sua fanfic*
Comunque,
passiamo alle segnalazioni, avvisi e ringraziamenti di sorta *srotola lista*
Disclaimer: la canzone in apertura è
“What about now?” di Chris Daughtry (si ringrazia Litachan per il passaggio
stile mercato nero dell’amv GilOz con questa canzone XD). Che vanta ben tre
significati nel capitolo (tié XP), ossia: “come l’amore per la sorella avesse
cambiato Sirjan e ora dopo la sua morte lo cambi di nuovo”, “come fra Gilbert e
Oz sta succedendo qualcosa che avevano capito anche i muri ma loro due nisba” e
“le parole che Glen e Jack non si sono mai detti”.
Sono
brava con le citazioni, eh? *rotola*
Avvisi:
avviso che
il 16 di Rinnega ritarderà con la pubblicazione per due motivi
principali. Primo, sono ancora in fase sessione estiva d’esami e scrivo quasi
solo di notte o durante le pause XD Vedendo quanto sono lunghi i capitoli, sono
certa capirete da voi :3
Secondo: a Luglio “Rinnega” compie
un anno <3 Per cui ho pensato ad un capitolo speciale, che verrà steso prima
del 16 e presentato come oneshot a se stante (essendo oltretutto
comico-demenziale, sarebbe osceno metterlo dentro rinnega XD).
Ringraziamenti
Gioielle:
io sapevo che ti avrebbe uccisa, ma che ti avrebbe addirittura fatta
piangere non lo avrei detto, giuro °_° *momento di senso di colpa* in ogni caso
sono contenta che, nonostante la devastazione, sia stato di tuo gradimento.
Ammetto poi che riguardo Sirjan, tu mi dai un
riscontro che non potevo che adorare: ho cercato, in questo capitolo, di
mostrare “l’altra metà” del cambiamento di Sirjan, e il fatto che così come si
era in un certo senso irrigidito per proteggere la sorella, nel momento in cui
Alyster è venuta a mancare quella rigidità non c’è più o è comunque minore.
Spero che la cosa te lo possa far apprezzare
ugualmente <3
Quanto alla SirjanAedan, sapevo che l’avresti
flashata e dunque leggerlo nella tua recensione non è stata una novità XD Credo
di averti detto (tramite questo spazio o in separata sede) quale sia la
controparte shonen-ai di Aedan ma ehi, chi sono io per impedirti di avere
flash? XD
Infine, spero che la dose di GilOz sia stata
apprezzata e per il figlio illegittimo dei Nightray, pazientate ancora un po’:
non so quando, ma sarà tutto chiaro prima o poi XD
Makotochan:
lo so, di averti devastata e so che in questo capitolo non avrò fatto di
meglio molto probabilmente x°
Che dire? Fa sempre piacere vedere che il mio stile
non annoia chi legge ma anzi – contrariamente a quello che purtroppo vedo io
grazie alla mia pesante autocritica/auto devastazione XD – riesce a trasmettere
quello di cui vorrei fare portavoce i personaggi.
Come accennato, la questione del figlio dei Nightray
rimarrà aperta ancora per un po’, e temo che la chiacchierata con Sirjan che Oz
si è fatto in questo capitolo abbia aperto qualche altra parentesi – e forse lo
ha fatto anche il diario di Jack, o i pezzi qui riportati. Consolatevi tutti
con una cosa: prima o poi finirò i misteri da introdurre e ci si avvierà solo
alla loro scoperta e soluzione XD (il che, sappia telo, io per prima spero
avvenga presto).
E avverrà per un motivo preciso: ossia, che io
stessa sto iniziando a perdere il filo *fissa inquietata il quaderno pieno di
appunti di Rinnega, malgrado il quale si perde comunque spesso qualcosa per
strada*
Fiamma
Drakon: ti
ringrazio dei complimenti e di continuare a seguirmi <3
La
parentesi dei gemelli è stata una sofferenza anche per me che ho scritto e,
anche se avevo quasi messo in conto che dopo il 14 Alyster sarebbe “sparita”
per forza di cose, scrivendo il 15 è stato davvero inevitabile mantenerla
ancora lì, come una presenza non proprio effettiva ma che aleggia lì ugualmente.
Spero
che per voi che leggete non sia stata troppo pesante, o indesiderata :3
Infine,
un ringraziamento a chi so che ha problemi nel recensire, ma legge (o chi mi
commenta in diretta XD): LitaChan, Yoko891 e Gweiddi at Ecate.
E
naturalmente, a tutti quelli che leggono, e aggiungono la fanfiction fra
preferiti, da ricordare e seguiti <3