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Autore: Ely79    23/06/2010    5 recensioni
Quante volte abbiamo sognato un lavoro diverso da quello che ci tiene occupati ogni giorno? Un lavoro che ci faccia sentire felici, gratificati, pieni di passione verso quel che facciamo? Ed ecco che ad Amelia, frustrata progettista, si palesa l'occasione di una vita. Ma cosa c'è dietro questa porta spalancata su una grande opportunità?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tavola II - Legenda
La luce entrava dalle alte finestre e dalla porta spalancata sul cortile. Era una luce tersa, rosata, che d’estate indicava un inizio di giornata molto mattiniero. Nella cucina della dimora gentilizia, alcune figure erano intente a consumare la colazione, sedute attorno ad un imponente tavolaccio. Nel frattempo, una donna minuta e curva si arrabattava da un lato all’altro del locale, spostando stoviglie, strofinacci e cibarie. Era molto anziana, la pelle grinzosa del viso lo dimostrava, eppure i suoi movimenti erano energici e decisi. La vita da cuciniera sembrava mantenerla in forze, anziché indebolirne le membra. La crocchia bianca si posava un po’ sfatta sulla nuca, proseguendo naturalmente nel colore del grembiule.
Ad un tratto si fermò, restando in ascolto. Il filo sottile delle iridi diede un lieve brillio, simile a quello di una nonna all’udire l’arrivo di un nipote. Poi, come nulla fosse, riprese a sfaccendare, dirigendosi al fornello dove la cuccuma aveva preso a borbottare.
L’eco di passi sempre più nitidi giunse alla porticina che dava sullo scalone. Nessuno dei presenti cercò d’indovinare a chi appartenessero, conoscevano fin troppo bene quella cadenza precisa, priva di trascinamenti, di inciampi. Era un rumore familiare.
Quando Jarvis entrò, un coro scomposto di sonnolenti buon giorno si levò dai commensali. Lui rispose con un breve cenno del capo e prese posto a capotavola. Indossava un abito blu, il cui taglio elegante e rigido ricordava molto quello del giorno precedente.
«Buon giorno, caro» salutò gentilmente la vecchina, allungando la mano ossuta per versargli il caffè.
Con un gorgoglio, il liquido scuro riempì la porcellana candida quanto i guanti che l’uomo indossava.
«Buon giorno, Romilda» rispose distrattamente, dando un’occhiata alle pagine fresche di stampa di un quotidiano.
Scorse rapidamente gli articoli e di cronaca, concentrandosi su quelle dedicate alla politica nazionale ed estera. Gli intrecci di governo lo affascinavano.
«La nostra ospite fa colazione, Jarvis?» domandò la vecchina alle sue spalle, intenta ad organizzare pentole e tegami sui fuochi spenti.
«Suppongo di sì» esalò senza particolare enfasi.
«Devo prepararle qualcosa in particolare?» s’informò.
Sulle prime non rispose, interessato ad una diatriba in tema di privacy su cui ogni parlamentare sembrava tenere la verità in una mano ed un forcone nell’altra. Preferì riempire la propria con la tazza ormai intiepidita.
«A tua discrezione»
Qualcuno ridacchiò. All’apparenza pareva l’abituale sfogo ad un banale ed irrilevante incidente domestico: un biscotto che si spezzava anzitempo una volta inzuppato, un po’ di latte tracimato sul tavolo, una posata troppo rumorosa. Cose che non meritavano attenzione.
Riprese a leggere gli approfondimenti sulle intercettazioni. La cosa certamente non li toccava: alla villa non c’erano linee telefoniche. Non ce n’erano mai state, non servivano. Tuttavia era curioso notare come uno strumento indispensabile alla popolazione si fosse rivelato un’arma a doppio taglio.
Ci furono dei bisbigli, risatine sommesse.
L’ombra curva di Romilda si allargò nella porta, mentre posava a terra un piattino colmo di latte. Un gatto miagolò in segno di gratitudine.
«Sarebbe bene la smettessi. Non voglio prenda l’abitudine di entrare in luoghi che non gli sono propri» la redarguì, mantenendo la consueta flemma.
Pur tenendo in mano le redini della dimora, mai avrebbe alzato la voce con quella donna.
«Oh, non c’è da preoccuparsi figliolo» rispose lei, raddrizzandosi a fatica. «Galileo sa che non può entrare in cucina. Dopotutto, gliel’hai insegnato tu dove deve stare»
A quelle parole, mentre lui cercava la bestiola con la coda dell’occhio per sincerarsi della sua obbedienza, una risata si levò, irriverente e giuliva. La cuoca scosse il capo benevola, tornando a sfaccendare.
Ora il gesto era stato troppo insolente e grossolano. Voleva essere udito. Ed esigeva una risposta. Vagamente spazientito, Jarvis levò gli occhi oltre il bordo del quotidiano. Poco più in là, l’inserto sportivo mascherava il profilo di uno dei commensali. Piegò con cura il giornale e prese una fetta di pane, posandola su un piattino accanto al caffè.
«Hai di che ridire, stalliere?» domandò, valutando nel contempo quale delle tante marmellate stendere sulla mollica.
La grossa foto di copertina si piegò da un lato, scoprendo il volto ilare di un giovane dai capelli biondi. Rifletté un istante, levando gli occhi sull’altissimo soffitto.
«No. Credo che qualcuna abbia già esternato a sufficienza sulla tua idea di discrezione»
Altre risatine si levarono dalla coppia di sguattere che gli sedevano di fronte e che cercavano di schermirsi a vicenda. L’espressione contrariata del capo della servitù bastò a zittirle. L’inserviente diede un’alzatina di spalle, per nulla intimorito, e riprese a leggere degli imminenti Campionati del Mondo di calcio.
Terminarono la colazione in silenzio, accompagnati dal tintinnare dei tegami.
Le serve svicolarono rapidamente verso l’androne, dirette al ripostiglio ed alle incombenze della giornata.
Jarvis si avvicinò al piano di lavoro, osservando con velata critica l’assortimento di biscotti e di filtri di the disposti sul vassoio d’argento.
Lo stalliere si avvicinò, appoggiando la schiena al piano della cucina.
«È incredibile che non ti abbia tirato dietro qualcosa» proseguì, quasi che il discorso non fosse stato interrotto.
«È una persona civile ed educata, a differenza tua» osservò, spostando la zuccheriera di un centimetro esatto dal dove era stata posata.
«Andiamo, Jarv. Come ti è venuto in mente di entrarle in camera? Di mattina presto? Le hai fatto prendere un accidente!» ridacchiò.
«In questa casa ci sono delle regole» replicò, meditando sulla disposizione del servizio da colazione che non riusciva a trovare soddisfacente.
«Ovviamente» sospirò il giovane, grattandosi la nuca. «Ma non puoi pretendere che le conosca. È arrivata solo ieri. E non mi sembra che abbiate parlato granché»
A tutti era noto quanto la loquacità del maestro di palazzo fosse di poco superiore a quella dei personaggi negli affreschi dei saloni.
«Giovanotto, ricorda che hai a che fare con una signorina. Il tuo gesto non è stato rispettoso» sottolineò la cuoca, facendosi spazio tra i due per posare la teiera bollente sul portavivande. «E tu non dovresti fare il pettegolo» ammonì, agitando l’indice nodoso all’indirizzo dell’altro.
«Dai nonna, era per ridere un po’…» si scusò, dirigendosi verso la corte.
«Ora annoveri il fare la spia fra i tuoi compiti?» lo accusò Jarvis, secco.
Lo stalliere stiracchiò le braccia verso l’alto, incrociandole dietro la testa quando si appoggiò allo stipite scheggiato.
«Jarv, l’urlo che ha fatto devono averlo sentito anche in paese. Non ho aggiunto molto» sghignazzò.
«Su, su, basta ora. La signorina starà pensando che siamo dei pessimi ospiti e che vogliamo farla morire di fame!» intervenne Romilda spazientita. «Prendi e và, sarà già nel salone ad aspettarti»
Cacciò in mano il vassoio al maggiordomo, il quale s’avviò, nuovamente calmo e arcigno.
«E bussa questa volta, non farla urlare ancora» lo stuzzicò il palafreniere.
Il maestro di palazzo si fermò sulla soglia, limitandosi a piantargli addosso quel suo sguardo duro e cupo. Il garzone ricambiò sorridendo senza timore. Si conoscevano da troppi anni per muovere guerra su ogni sciocchezza.
«Fammi avere la lista delle forniture prima di sera» gli ricordò.
«Agli ordini»

***

Ammirò il lavoro fatto quel pomeriggio con molto orgoglio, mentre i due tiracqua andavano a riposizionarsi nella rastrelliera. Le scuderie erano uno specchio e dieci musi si allungavano oltre le porte, pacifici e soddisfatti sotto lo strofinio delle striglie. Passò in rassegna gli andalusi, controllando il movimento delle spazzole che percorrevano i muscoli possenti ed eleganti guidate dell’incantesimo. Grattò il naso di un baio dalla lunga criniera nera e ondulata, i cui occhi lo fissavano con insistenza. Erano occhi strani, più vividi e luminosi di quelli degli altri cavalli.
«L’hai sentita, eh?» domandò, battendogli il palmo sul collo massiccio. «Ma non posso farti uscire per andare a cercarla»
L’animale sbuffò, mostrandogli offeso le terga. Era buffo, con le orecchie appiattite indietro e la spazzola che tentava di dare ordine ai crini della coda che scuoteva nervoso. Il giovane mosse rapido le dita e la striglia salì sulla groppa, nel punto che sapeva essere il suo preferito per le grattatine.
«Prima o poi passerà di qui. Vedrai se sarà il caso di farle una visita» lo rassicurò.
Camminò nella corsia, i pollici infilati nei passanti dei pantaloni. Passò accanto ai sacchi del mangime, ordinatamente impilati accanto alla balla di fieno pronta per la mattina successiva. Un paio di gattini giocavano saltando dentro e fuori da un secchio. Un terzo era riuscito ad arrampicarsi in cima al foraggio e tentava di artigliare le capezze appese. Lo afferrò per la collottola e lo mise a far compagnia ai fratelli.
Accanto alla porta era appesa una lavagnetta, dove biancheggiavano alcuni segni di gesso. Difficilmente qualcuno avrebbe potuto capire cosa significassero. Strappò un lembo dall’inserto sportivo che aveva incastrato dietro la lavagnetta, riportando con una grafia diversa quanto aveva annotato.
Superò l’angusto stanzino che lo divideva dallo scalone ovest e si ritrovò sotto uno dei due portici. Attraversò con calma il selciato, raggiungendo il loggiato opposto. Salutò Galileo, seduto ai piedi di una colonna ed intento ad un accurata pulizia della pelliccia grigia e nera. Intravide le schiene di Luisa e Francesca nella Saletta dell’Arazzo, prese dall’inceratura del pavimento; un’operazione che consentiva loro di chiacchierare copiosamente tra una strofinata e l’altra.
Era quasi arrivato in fondo al corridoio, aveva già una mano protesa verso la maniglia, quando lo bloccò il fruscio di una pagina che veniva girata.
Con cautela, tornò sui suoi passi e dischiuse un poco la porta, sbirciando all’interno. La donna che Jarvis aveva portato il giorno prima da San Francesco era seduta, o per meglio dire sprofondata, nella grande poltrona accanto alla finestra. Gli occhiali erano in bilico sulla fronte, mentre sul tavolinetto di tartaruga erano posati un paio di libri, un taccuino ed un altro aggeggio che non riconobbe. L’Archimaga era intenta a leggere un grosso volume rilegato in pelle nera. L’ottone delle borchie agli angoli del tomo era opaco per la lunga permanenza nello scaffale ed era talmente ingombrante che il bordo delle pagine poggiava sui braccioli. Di tanto in tanto si fermava, tamburellando con una penna sulle labbra prima di prendere nota di qualcosa sul quadernetto.
Era così totalmente immersa nell’opera che difficilmente si sarebbe accorta della sua presenza, anche se avesse mandato in frantumi il gigantesco vaso di porcellana accanto alla porta.
Era indeciso se definirla attenta o sognante: sul suo viso trasparivano entrambe le espressioni. Socchiuse gli occhi, concentrandosi.
«Lasciala stare»
Apparso dal nulla, il maestro di palazzo lo fissava a braccia conserte.
«Non ho fatto niente, Jarv. Guardavo» ammise innocente.
«So bene cosa fai quando “guardi”»
«Ah, sì? Vuoi che guardi anche te?» chiese ammiccando.
L’uomo non rispose, ma il suo tacere era ben più eloquente di mille parole. Conosceva quel che si nascondeva dietro le palpebre socchiuse dell’altro, sapeva cosa cercava di vedere.
«Va bene, musone! Ecco quel che manca» disse allungando il foglietto prima di tornare a scrutare dallo spiraglio.
Dalle pagine del cabreo si sprigionava un debole alone luminoso che si rifletteva liquido negli occhi della donna, spalancati per la sorpresa. Le labbra erano dischiuse in un mezzo sorriso estatico e rapito. Era curioso, avrebbe voluto entrare e chiederle cosa c’era di tanto interessante su quelle pagine rosicchiate dal tempo, cosa emanava quella luce capace d’incantarla a tal punto.
Jarvis cominciò a leggere la breve lista. Dai lineamenti spigolosi non traspariva alcunché.
«Stalle lontano. Deve lavorare» gli intimò, dirigendosi allo studio. «Per la lista, ti farò sapere domattina»

***

«Ti rendi conto che stai contraddicendo quello che mi hai detto ieri?» sghignazzò, chiamando a sé la forca a cui si appoggiò sornione.
«Fallo» fu la risposta stizzita di Jarvis che usciva svelto dalle scuderie.
Pur amando cavalcare, detestava l’odore dolciastro del fieno che stagnava sotto le volte. Non si fermava mai più dello stretto necessario per prendere un cavallo o dare qualche comunicazione al garzone.
Un sorriso malizioso distese le labbra dello stalliere, che si allontanò fischiettando dal box che stava pulendo. Jarvis che si rimangiava un comando era un evento più unico che raro e disobbedirgli sarebbe stato molto sciocco.
«Ehi!» chiamò.
Il baio del giorno prima seguitò a dissetarsi col muso seminascosto nel beverino, nonostante un orecchio indicasse la sua attenzione.
«L’hai sentito? Vuole che vada ad aiutarla. Se riesco te la porto»
La trovò in una delle aiuole della corte d’ingresso. Sedeva sconsolata con la schiena appoggiata al muro e lo sguardo che vagava lungo le siepi e le pareti. Accanto ai suoi piedi erano sparpagliati degli strani oggetti, alcuni dei quali assomigliavano a delle grosse biglie di vetro rosso scuro. C’era il taccuino che le aveva visto in mano, una borsa sdrucita da cui facevano capolino alcuni libri altrettanto consunti ed un aggeggio rettangolare, aperto come un libro, ma che emetteva uno strano ronzio.
«Ciao» esordì, appoggiandosi al tronco di un gelso.
«Ciao» rispose lei, stupita dall’apparizione e dal tono gentile.
Per quasi tre giorni aveva avuto a che fare solo col signor Carew, che si poteva definire in qualunque modo fuorché cordiale. Il nuovo venuto pareva l’esatto opposto, non solo caratterialmente. Aveva capelli biondi che scendevano ondulati fino alle spalle ed occhi grandi e tanto scuri da sembrare neri. Non portava una di quelle divise pseudo-settecentesche che amava tanto il maggiordomo: la sua non poteva definirsi nemmeno una divisa con quei jeans dalle cuciture lise e la maglietta rossa macchiata di sudore.
Si accoccolò sulle ginocchia e tese la mano, sfoderando il migliore dei suoi sorrisi.
«Io sono Ang, piacere»
«Ang?»
Lui fece spallucce.
«Mi chiamano tutti così»
«Amelia Veneziani» rispose, contraccambiando la stretta.
«Meglio nota come l’Archimaga» sottolineò furbo. «Piacere di conoscerti»
La sua stretta era salda e rassicurante. Le dita lunghe ed affusolate avvolgevano le sue, morbide e tiepide.
«Mi fai venire fame» ammiccò.
A quelle parole, la prima impressione che aveva avuto di quell’uomo traballò vistosamente e provò l’immediato impulso di ritrarre la mano, subito dominato. Ci mancava uno svitato a fare il paio con quell’altro spaventapasseri.
«C-come?» chiese.
Forse aveva solo capito male.
«I tuoi occhi. Mi fanno venire fame» spiegò indicandoli. «Hanno il colore delle olive verdi e a me piacciono tantissimo le olive. Per cui posso dire che mi piaci. Parecchio»
Il rossore che apparve all’istante sulle guance di Amelia era accompagnato da un vibrazione inconfondibile, e Ang seppe di non dover procedere oltre. Beneducata, istruita, sognatrice, tranquilla e soprattutto riservata. Ecco perché non ne aveva ancora cantate quattro a Jarvis, limitandosi allo strillo di paura quando le era piombato in camera per svegliarla: le buone maniere erano solo una facciata. La timidezza spadroneggiava nella sua persona. Ed al tempo stesso la rendeva delicatamente attraente.
Cambiò rapidamente argomento, portandolo su un tema maggiormente stringente.
«Problemi?» domandò indicando gli strumenti.
L’Accenno al lavoro sembrò calmarla all’istante.
«S-sì. Non riesco a triangolare» sospirò abbattuta mentre tornava ad appoggiarsi al muro.
«A…?»
«Triangolare» ripeté, tracciando una figura geometrica in aria col dito. «È per via di questi due alberi. Sono esattamente sulle diagonali di verifica e non riesco a fissare i punti per determinare lo scostamento da…»
S’interruppe, vedendo Ang accigliarsi perplesso.
«Non mi segui, vero?»
«No» ammise tranquillamente, scuotendo il capo.
«Forse è meglio una dimostrazione pratica»
Si alzò, prendendo una delle sferette. Le stava a stento nel palmo.
«Vedi ai due angoli?» e indicò dove i due corpi laterali toccavano la facciata della villa.
A circa un metro da terra, negli spigoli creati dai muri, c’erano altre due sfere. Amelia fece ruotare le due metà della palla che teneva in mano e immediatamente tutte e tre cambiarono colore, diventando di un rosso acceso. Un attimo dopo, una sorta di filo, un fulmine scarlatto e sottile le univa.
«Ora le Misuratrici sono congiunte» spiegò. «Il colore della Linea di Traccia indica che non sono complanari. Infatti quella che ho qui è più in alto rispetto alle altre» e così dicendo, abbassò la mano fino a che il colore delle saette divenne azzurro.
Lo stalliere annuì interessato, seguendola verso uno dei due edifici più bassi. Ora che le sfere erano allineate sulla stessa quota, erano inamovibili in senso verticale.
«Se adesso mi appoggio qui, creo un triangolo. Questo mi permette di valutare le distanze dei tre punti, gli angoli che creano e di scoprire eventuali picchi di potere occulto»
«E come?»
«Nel caso percepiscano un certo tipo di incantesimi, reagiscono creando delle “bolle” dai lembi delle Linee, che rendono visibili ed identificabili i punti da cui si propagano»
«Quindi…» fece Ang guardandosi intorno, «non ce ne sono»
«No. Il livello magico è uniforme lungo questo lato del cortile» e additò il finto libro nell’erba.
Era un computer portatile, la cui tastiera differiva da quelle comunemente in commercio per via di alcune lenti colorate contornate d’ottone e di un’altra pallina più piccola.
Sul video erano apparsi i punti e le linee identificati dalle sfere fluttuanti, accompagnati da alcune scritte. All’interno del triangolo era apparsa una campitura verde e piatta. Poco più sopra c’era il disegno del portico d’ingresso e della corte centrale della villa: si riconoscevano le basi delle colonne.
«Però…»
«Però questi due alberi sono posizionati proprio sulle linee che mi permetterebbero di chiudere i triangoli principali» e andò a spostare le biglia nell’angolo contro il muro di cinta.
La Linea che segnava l’ipotenusa si spezzò, guizzando ai lati del robusto tronco, cercando di riallacciarsi all’altra metà. Identica sorte accade spostando la Misuratrice nell’angolo opposto.
«Senza queste linee sarò costretta a cercare altri punti e, vista la mancanza di spigoli o elementi architettonici che emergano dal muro, rischierei di aggiungere punti fittizi e di non disegnare correttamente tutto questo spazio» concluse, rivolgendogli un’occhiata stanca. «Ho provato in mille modi, ma non trovo una soluzione. Se ci fosse un modo per spostarli da lì…»
«Basta chiedere» sorrise, nonostante lo scetticismo che lei mostrava.
Si accostò al tronco del primo albero, che li copriva con la sua ombra, e bussò sulla corteccia ruvida. Amelia l’osservava incuriosita. Le strizzò l’occhio e, trovata una sottile fenditura, prese a bisbigliare al suo interno. Il suono della sua voce era cambiato, facendosi sottile e frusciante come il vento su un prato.
L’aiuola ebbe un sussulto e qualche foglia cadde volteggiando dai rami. Le radici nodose del gelso presero a contrarsi, scavando nel terreno simili ai tentacoli d’un polpo. Il tronco mandava cupi cigolii man mano che si allontanava dalla sede originaria. In capo a pochi minuti aveva percorso circa mezzo metro, lasciandosi dietro una larga traccia di terra smossa e brulicante di vermiciattoli.
«Spero basti» si scusò l’uomo. «Sai, è un po’ anzianotto, non gli piace andarsene in giro. Preferisce fare il pantofolaio»
Amelia annuì a bocca aperta, correndo a riposizionare immediatamente la Misuratrice.
Ripeterono l’operazione anche sull’altro gelso, che acconsentì di malavoglia ad abbandonare la buca in cui aveva preso dimora da decenni.
«Come ci sei riuscito? Sei un mago? Uno stregone dei boschi?» gli domandò mentre, seduta a terra, terminava di memorizzare i dati nel computer.
«Oh, no. No, no. È che parliamo spesso» fece Ang, tirando i capelli dietro le orecchie appuntite. «E poi, ho assicurato loro che stasera gli  avresti dato una bella annaffiata in segno di gratitudine»
Ora le era tutto più chiaro. Quel giovane aveva indiscutibili origini elfiche, parlare con gli alberi doveva essere un’abitudine per lui.
«Dovrò sdebitarmi anche con te, non solo con i gelsi»
Ang percepiva l’aura di Amelia fremere, virando dal giallo all’arancione. Era trionfante per aver completato quella parte di lavoro, a prescindere dall’aiuto ricevuto. E c’erano delle lievi striature rosate da qualche parte. Le indovinava dall’odore fresco e dolce che permeava l’aria che la circondava.
Sorrise compiaciuto, allungandosi sull’erba come un gatto pigro e coccolone.
«Beh, sì. Credo proprio che dovresti»
   
 
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