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Autore: Less_    24/06/2010    2 recensioni
Una ragazza brillante, ma solitaria e senza amici, che vive in un piccolo paese che non ama con la sua famiglia, e un ragazzo particolare con una famiglia che cerca la tranquillità di un borgo di montagna, hanno un destino comune, troppo più grande di loro.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«A che punto sei?» chiese Federico.

«Ti ho appena cancellato la memoria facendoti dimenticare che ti ho già detto a che punto sono» disse Alessia. «No, non è vero. Non ci riesco» aggiunse poi.

Federico sospirò.

«Sì che ci riesci. Riprovaci» disse stancamente.

Erano ore che tentavano, ma sembrava che non fossero giunti a nessun risultato.

«È come cercare un oggetto che hai distrutto. Non esiste, semplicemente non esiste un modo per recuperarlo» si ostinò Alessia.

«Prova a fare leva sulle tue emozioni più forti» suggerì Federico senza convinzione.

«Okay... adesso ti rivelo la password del mio computer, poi provo a fartela dimenticare. Avere una motivazione potrebbe aiutarmi... Brindodondodandodà» decise Alessia.

«La tua password è Brindodondodandodà?».

«Forse».

Seguì un momento di silenzio profondo.

Federico s'immagino Alessia, col volto delicatamente corrucciato, i cui particolari

stavano lentamente svanendo nel dimenticatoio.

«Prova a fare leva sulle tue emozioni più forti» disse Federico.

Aveva veramente dimenticato gli ultimi istanti, per la prima volta dopo vari tentativi le ore sprecate davano un frutto.

«Già fatto. La mia password?» chiese Alessia.

«Se non la sai tu...» commentò Federico.

«Funziona! Devo solo allenarmi» fu l'ultima frase che Alessia pronunciò prima di sprofondare nel silenzio.

«Svegliati!» gridò Alessia.

Federico scattò. Era addormentato sulla scrivania, aveva perso la cognizione del tempo ed era stanchissimo.

«Ho pensato una cosa... posso anche cancellare la mente dei miei, ma se chiamano la polizia dovrò cancellare le memorie dei poliziotti... e poi quelle delle persone, e i giornalisti, e i giornali, e un sacco di altre cose... devi portarmi a casa» esclamò Alessia.

Federico mugugnò, dando uno sguardo all'orologio. Erano le sei del pomeriggio.

Si rimise la catenina, che aveva appoggiato al comodino, e uscì di casa.

Si fermò davanti alla porta di casa dell'amica.

«Cosa fai adesso?» chiese Federico, ancora assonnato.

«Prima scopro cosa hanno pensato i miei... poi cancello qualsiasi memoria che io sia sparita. La sostituisco con una copia di un giorno qualsiasi di qualche mese fa... e poi controllo anche le menti nel raggio di cento metri. Non si sa mai... se hanno urlato sapendo che non ero a casa per pranzo, potrebbe saperlo qualcun altro» disse Alessia.

Terminata la spiegazione, Federico sentì dell'umidità trasudare dal ciondolo. Sembrava che la concentrazione di Alessia stillasse a fiotti dalla piccola supernova.

«Fatto» disse alla fine lei con voce affannosa.

«È faticoso» aggiunse, quasi a giustificarsi.

«Sì» annuì Federico, e strinse forte il pendaglio nel palmo della mano.

«Adesso cosa facciamo?» chiese lui.

«Andiamo in Francia. A trovare i Drugard» fu la risposta.

Di nuovo quel tono così freddo, deciso, autoritario. Federico sospirò, conscio di essere incapace di contrastarlo.

«Almeno... cerchiamo altre forge, scopriamo se c'è qualche posto più a portata di mano, no?» propose con poca convinzione.

«Sai, ci ho pensato. Ma se quella del paese dei Drugard fosse l'unica forgia funzionante?» chiese Alessia.

A questo Federico non seppe rispondere.

«E come ci arriviamo, in Francia?» aggiunse poi.

«Potremmo usare i mezzi comuni. Aereo, o treno. Oppure posso teletrasportarci» suggerì Alessia.

«Non oso propendere per nessuna delle due scelte» commentò terrorizzato Federico.

Poi, successe l'impensabile.

Dalla catenina giunse un singhiozzo sommesso, e dei rumori simili a quelli di una persona che stesse piangendo.

Federico non aveva mai sentito Alessia piangere. Del resto si conoscevano da quanto? Tre giorni? E non c'era stata nemmeno una circostanza così stressante o funesta da far piangere l'amica.

Ma possibile che lei fosse scoppiata in lacrime solo per una frase? No, e infatti Federico intuì che dietro ci fosse molto di più.

«Scusa... mi dispiace, non volevo mettermi a piangere! Mi sento una stupida...» singhiozzò.

«Non devi chiedere scusa... e poi da una come te... mi aspettavo che sapessi che piangere non è sempre male... anzi è segno di sensibilità» sussurrò Federico.

«Ma non è comunque gratificante piangere, specie davanti a qualcun altro, non pensi?» le frasi di Alessia erano udibilmente smozzicate e sofferenti.

«Ma, Ale – inutile descrivere l'effetto che fece a Federico il pronunciare quelle due sillabe – come stai? Davvero... cosa senti?» chiese.

Per la prima volta si accorgeva di non averglielo mai chiesto, sempre così concentrato su quello che provava per lei.

Mille volte stupido, stupido, stupido.

«Io... ho paura. Fa freddo, ed è difficile stare qui. È come se mi... succhiasse tutte le forze. Ma non puoi capire. Fa così freddo qui» gemette Alessia, tirando su con il naso.

La forza nella sua voce andava scemando.

«Mi sento sempre più debole. Adesso ci porto in Francia... promettimi che... se dovessi perdere conoscenza... farai di tutto per farmi uscire» singhiozzò ancora.

«Prometto» la voce di Federico si perse a metà fra due nazioni diverse, mentre viaggiava nello spazio in un modo che nessuno avrebbe mai immaginato.


Federico stava sognando. Era un sogno abbastanza spiacevole, non fosse altro perché sembrava che vorticasse in un cielo pieno di stelle. Bello, ma pur sempre nauseante. Non aveva alcun punto di riferimento, finché non la vide.

Era vestita di bianco, e restava ferma nonostante tutto continuasse a turbinare. Ma erano le stelle o lui a girare così tanto?

Alessia gli si avvicinò.

«Come... cos'è che non ha funzionato?» chiese, ma a bassa voce, come se non stesse rivolgendo la domanda al suo confusissimo amico.

Improvvisamente Federico si accorse di due cose. Primo, era seduto nel bel mezzo del niente, anche se si sosteneva, e secondo, faceva immensamente freddo.

Alessia tese la mano e lui la afferrò per rialzarsi.

«È qui che stai?» chiese Federico.

Alessia fece un brusco cenno con il capo. Era davvero bella, e rivederla in quel momento disperato sembrava un miracolo. Ma in quel modo... Federico non riusciva a capire se stesse sognando o se stesse vivendo la realtà.

L'ho fatta troppo facile. È stato semplice essere solo preoccupato per lei mentre era qui, e io potevo solo pensare a misurare le parole. Questo è troppo più grande di noi. Ci credo che pianga. Tutto questo fa paura, pensò Federico.

Alessia rabbrividiva, e aveva il viso più pallido di come lui lo ricordava.

«Devi uscire. Io non ce la faccio, devi uscire da solo» disse Alessia.

In che senso uscire da solo.

«Volere è potere. Devi solo desiderare di uscire... anche se per me non funziona così» spiegò.

«Un attimo... hai un aspetto orribile... non c'entra il freddo, vero?».

«No. Il freddo è il minore dei mali. È che stare qui mi fa pensare cose brutte. Ricordi che non volevo venissero fuori. Adesso vattene».

«Non posso abbandonarti» frase stupida, stupida, stupida. Come al solito.

Alessia scosse il capo.

«Se resti, moriremo. Devi andare. Lo so che è complicato da capire, ma devi fidarti di me. Vai, e cerca di tirarmi fuori di qui».

Fidarsi di lei? Certo. Ovvio. Ma davvero, Federico non se ne voleva andare. L'avrebbe persa per sempre?

Un pensiero... stupido, stupido, stupido.

Ma anche così che poteva toccarla, sentire la sua mano che malgrado tutto gli sembrava calda, era effimera come un soffio di vento.

E sebbene Federico non sapesse molto di cotte adolescenziali, era abbastanza sveglio per capire che questo amore non rientrava nella categoria.

Guardò Alessia. Il suo volto era una maschera d'attesa.

E lui si arrese. Era già stanco. Si chiedeva come resistesse lei. Lo desiderò, in un istante, e tornò con i piedi per terra sul suolo francese.


Era in una città, senza dubbio francese. C'erano un sacco di scritte che non capiva. Lui aveva studiato spagnolo.

«Accidenti... e adesso che faccio?» si chiese a mezza voce.

«Parlo francese. Un po'. Insomma... mica tanto. Ma non moriremo» la voce di Alessia.

Federico era quasi sorpreso che ci fosse ancora.

Gli altri avventori del locale in cui erano non si erano accorti di niente. Perfetto.

«Chiedi al barista in che città siamo. Excuse-moi, pouvez vous me dire ou je me trouve? Je suis un touriste...» suggerì Alessia.

Federico ripeté, con accento stentato.

«Vous vous trouvez à Paris, certainement. Ça va bien?» fu la velocissima risposta.

«Siamo a Parigi, ci ha chiesto come stiamo... cioè, ti ha chiesto come stai. Rispondi: “ça va bien, merci”».

«Credo che dovremmo lavorarci su questa cosa del francese» mormorò Federico dopo aver ripetuto diligentemente.

«Guarda, siamo in un internet point. Credo che dovremmo cercare qui, non me la cavo bene con le indicazioni. Sono al passo con il programma, ma solo tre anni sono un po' pochi per me. Specie in una situazione come questa» si scusò Alessia.

Federico scosse la testa, divertito.

In breve riuscì ad ottenere le informazioni che gli interessavano. Schizzò una mappa non molto dettagliata, lasciò la tariffa per un quarto d'ora e corse fuori.

La fattoria dei Drugard era fuori città, vicino a un paese francese di nome Melun.

«Ci sono stata, una volta. Cinque anni fa. Dovevamo pernottare in un bed & breakfast, ma poi siamo arrivati tardi ed era chiuso, così siamo andati in un vero e proprio hotel. Ma non ricordo molto» disse Alessia.

Federico annuì.

«Ma come ci arriviamo a Melun?» chiese.

«Secondo te?» il sarcasmo marcato nella voce di Alessia era chiaramente percepibile anche attraverso la catenina.

Federico chiuse gli occhi.

Questa volta non entrò nello strano universo in cui stava Alessia. Bastò un secondo, e atterrò sul suolo caldissimo di fuori Melun.

Aprì gli occhi.

Era su un suolo arido, privo di sostentamento. Non c'erano alberi, e l'unico segno di civiltà fino all'orizzonte era un palo di legno, spuntato, tarmato, marcio, che chissà come aveva resistito.

Era tutto quello che rimaneva della fattoria dei Drugard, anche se non era passato poi molto tempo.

Il sole cocente arrostiva qualsiasi forma di vita. Nessun uomo o animale, nei paraggi.

«Dove siamo?» chiese.

«Nella... fattoria dei... Drugard... devi raggiungere la fo... forgia. Sempre dritto... fra un chilometro, o due, dovresti trovare un edificio fatiscente, con un vecchio. È la... forgia, appunto... stanotte... stanotte è l'ora» esalò Alessia.

Che ansia, che tarlo orribile.

Sarebbe stato meglio se fossero spariti insieme, in quell'universo della catenina?

No. Federico l'avrebbe tirata fuori, e poi avrebbero avuto una vita per stare insieme, ed era un dato di fatto. Perché rischiare di scomparire e perdersi?

...tutto questo, sempre che Alessia lo avesse ricambiato.

Cosa non esattamente semplice.

Federico s'incamminò. Quella notte. Quella notte sarebbe stata l'ora.

   
 
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