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Autore: Alebluerose91    01/07/2010    4 recensioni
Eleonora è una ragazza come tante altre finchè un tragico incidente le sconvolge la vita...
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando mi svegliai, la luce che penetrava dalla finestra, seppur debole, mi ferì leggermente gli occhi ancora un poco socchiusi.

Sentivo il rumore ritmico di un macchinario accanto al letto nel quale ero adagiata, e qualcosa che mi tirava il braccio destro.

Aprii definitivamente gli occhi e tentai di mettermi seduta, ma dovetti rinunciarci a causa dei dolori lancinanti che mi sconquassarono il busto. No, era decisamente meglio stare coricata.

Posai la testa sul cuscino e mi guardai intorno.

La cosa che mi tirava il braccio altro non era che una flebo, e il macchinario accanto al mio letto registrava le pulsazioni del mio cuore.

Sopra il letto c’erano due bottoni, uno immaginai che servisse in caso di emergenza.

Ero sola nella stanza, dalle pareti bianche e spoglie. Era completamente priva di arredamento, escluso il letto, un tavolo e qualche sedia. Il mio comodino era sul lato sinistro del letto.

A giudicare dall’odore acre e al contempo dolce che mi pervadeva le narici, e della fattezza della stanza, dovevo essere in un ospedale.

Ma come ci ero arrivata? Ero un po’ confusa. Sospirai, chiudendo di nuovo le palpebre.

E all’improvviso delle immagini sfocate presero a rincorrersi, facendosi largo una dopo l’altra nella mia mente, come un flash di ricordi sconnessi.

Mi ricordavo la sensazione del vento che mi sferzava il viso, il casco protettivo sulla mia testa, pesante. Stavo stringendo la vita di un ragazzo alla guida di una moto, il mio ragazzo, Nicola.

All’improvviso, un camion contromano. Vicino, troppo vicino...

E poi, il buio, il dolore lancinante che serpeggiava in tutto il mio corpo.

Troppo buio...Troppo dolore...

Potevo solo sentire, e tutto ciò che udivo erano grida e la sirena di un’ambulanza.

Non potevo muovermi, ero bloccata da qualcosa di pesante e gli occhi non volevano aprirsi. Da una ferita chissà dove colava del sangue, che percorreva tutto il mio volto. Era denso, caldo.

Spalancai gli occhi, e di scatto, ignorando i dolori, mi misi seduta.

Nicola.

Dov’era? Perché non era con me?

Controllando che non ci fosse nessuno nei paraggi, afferrai le coperte con la mano sinistra e le gettai dall’altra parte, scoprendomi le gambe. I movimenti mi risultavano molto difficili a causa della flebo attaccata al braccio destro, ma con fatica riuscii a posare i piedi sul pavimento freddo.

«Che cosa accidenti stai facendo, Eleonora? Sei forse impazzita?»

Alzai di scatto il capo e feci una smorfia: ad interrompere il mio brillante piano di fuga fu la mia migliore amica Giulia. Lei era l’opposto di me, era la mia coscienza.

Qualcosa che mi mancava.

«Cercavo di scendere dal letto.» la vidi inarcare un sopracciglio alla mia risposta.

Posò la borsa nella sedia vicino al letto poi venne verso di me. Mi mise le mani sulle spalle e con forza mi spinse sul letto, rimboccandomi addirittura le coperte.

Giulia era come una seconda madre, e nonostante entrambe avessimo diciassette anni, lei era molto più responsabile di me.

«Quello l’ho visto da sola. Non puoi scendere da questo letto. È pericoloso, hai tutte le costole fratturate, lo sai?» si prese in grembo la borsa e si sedette nella sedia accanto al mio letto, guardandomi con un cipiglio severo e preoccupato. Ma a me non importava nulla delle mie costole fratturate.

«Dov’è Nicola?» le chiesi subito.

Giulia trasalii. Non si aspettava una simile domanda, o non era pronta a rispondere.

Abbassò lo sguardo e immediatamente capii che stava cercando un argomento per sviare la mia domanda.

«Giulia» la chiamai, guardandola con serietà, mentre l’ansia nel mio petto cresceva. «Dov’è Nicola?» ripetei. Il mio Nicola...

Giulia scosse il capo, gli occhi ancora bassi, fuori dalla mia visuale. Si stava torturando le mani.

Cosa...Cosa accidenti significava?

Gli era successo qualcosa... l’incidente... no, non era possibile!

Giulia tirò su con il naso e si portò i lunghi capelli dorati dietro le spalle.

«È in coma.» i suoi occhi erano colmi di lacrime, «Tenteranno un intervento per salvarlo domani, ma è rischioso, toccheranno parti delicate e...»

Strinsi le coperte con violenza, abbassando lo sguardo. Sentivo le lacrime pungere per uscire, non riuscivo a parlare, sembrava quasi che il groppo che avevo in gola mi stesse strozzando.

Nicola...

Nicola...

«Voglio vederlo.» riuscii a mormorare, soltanto. Avrei voluto avere la conferma che si sarebbe svegliato, avrei voluto chiederlo a Giulia, ma avevo paura della sua risposta.

«Non so se questo sia possibile...» bisbigliò lei, evitando accuratamente il mio sguardo.

Una rabbia incredibile si impossessò di me.

«Deve esserlo.» ringhiai, «Devo accertarmi che sia vivo!» corrugai le sopracciglia, e le lacrime che tanto avevo trattenuto sgorgarono a fiotti percorrendo velocemente le mie guance, senza che me ne accorgessi.

Nicola era la mia vita. Senza di lui io non sarei stata nulla.

«Sai com’è avvenuto l’incidente? O perlomeno, ricordi qualcosa?» Giulia interruppe i miei pensieri.

Scossi il capo. L’unica cosa che ricordavo era un camion che ci era venuto addosso e poi... poi era diventato tutto un flusso indistinto di oscurità e dolore, propagatosi in tutte le ossa del mio corpo.

Ma ero sopravvissuta... e Nicola?

Cercai di trattenere i ricordi, e ci riuscii. Non volevo che Giulia mi vedesse debole, e non volevo scoppiare ancora a piangere. Io non ero quel tipo di ragazza che frignava per ogni cosa.

Io ero forte. Io ero Eleonora, e niente e nessuno avrebbe scalfito la corazza che mi proteggeva e che ostentavo a mostrare.

Gettai una fugace occhiata alla flebo attaccata al mio braccio con una canula. Ignorando il dolore, afferrai la canula con la mano sinistra e la tirai fuori dalla mia vena.

«Ma sei impazzita?» esclamò Giulia, balzando in piedi.

«Fanculo a tutto!» risposi con un sorrisetto. La flebo sgocciolava il suo liquido sulle coperte, ma non me ne curai. Con molta cautela, e stando attenta a non farmi male, spinsi via le coperte e misi i piedi per terra. Ad accogliere le dita dei piedi fu il freddo delle pianelle del suolo, che mi provocò un brivido. Non riuscii a reprimerlo, e mi scosse tutta. Riuscii solo per miracolo a non urlare dal dolore.

«Ele...  sei sicura di quello che stai facendo?» Lo sguardo della mia migliore amica era preoccupato.

Posai i miei occhi sui suoi, scrutandola con serietà.

«Mai stata più sicura di così.»

Sospirò, per tutta risposta, e mi aiutò a scendere dal letto.

Uscimmo dalla mia camera e percorremmo alcuni corridoi in silenzio. Non c’era bisogno che glielo chiedessi: Giulia sapeva dove si trovava Nicola.

Camminavamo lentamente, facendo attenzione a non fare movimenti troppo bruschi: le costole mi dolevano ancora molto.

Svoltammo a sinistra, all’interno di un reparto avvolto nella semioscurità. Ogni tanto si sentivano dei colpi di tosse provenienti da alcune stanze, e potei udire il rumore di qualche televisore acceso.

Ma nient’altro disturbava l’inquietante quiete che sovrastava quel luogo.

«Che reparto è questo?» chiesi a Giulia.

Evitò di guardarmi. «Neurochirurgia.»

Impallidii. Questo significava che l’intervento che il mio Nicola avrebbe dovuto subire era al cervello...

Brutta storia, pensai. Cercai di non lasciarmi sopraffare dal panico.

Giulia si fermò in prossimità di una porta. Lessi il cartellino: la camera era la 18. Non sapevo perché, ma nonostante la porta fosse identica alle altre che avevo visto, quel colore bianco opaco mi stava dando sui nervi. Era l’unico ostacolo tra me e la mia unica ragione di vita.

Giulia afferrò la maniglia in ottone della porta e la spinse verso il basso.

La porta si aprii con uno cigolio che in quel momento mi parve sinistro.

Era tutto così assurdo... mi sembrava impossibile che fino al giorno prima la mia vita fosse perfetta e ora mi trovassi, invece, a sopportare una situazione che mi pareva irreale.

La porta dal colore bianco opaco si aprì del tutto, e Giulia mi lasciò la mano.

Non ebbi il coraggio di avanzare.

La stanza era illuminata fiocamente dai raggi solari che penetravano attraverso le fessure della persiana dell’unica finestra che troneggiava sulla destra; i raggi illuminavano il pulviscolo che volteggiava nell’aria, e piovevano sull’unico letto presente, nella parete opposta.

Era completamente spoglia, a parte vari macchinari che producevano rumori ritmici. Spostai lo sguardo sul letto e vidi una sagoma adagiata sotto le coperte. Deglutii e mi decisi a camminare, con molta cautela, cercando di ignorare il dolore alle costole.

Quando fui vicina al letto mi sedetti sull’unica sedia presente. E lo vidi.

Era lui, era il mio Nicola.

Non potei scorgere le sue labbra stupende, in quanto la bocca e il naso erano coperti da una maschera per l’ossigeno, attaccata con un tubo ad uno dei tanti macchinari presenti nella stanza.

Il suo volto, dai lineamenti delicati e leggermente appuntiti, era imbruttito da varie ferite che erano state  saggiamente ripulite e disinfettate, a giudicare dal colorito.

I suoi occhi erano rigorosamente chiusi.

Mi si strinse il cuore. Dio solo sapeva quanto avrei voluto che si aprissero, quegli occhi, e mi mostrassero il loro verde spettacolare. Gli avevo sempre detto che erano bellissimi: erano di un verde smeraldo, intenso, screziato d’ambra all’interno, intorno alla pupilla. Mi era sempre sembrato d’immergermi in una foresta, quando mi ci perdevo dentro.

Gli carezzai con delicatezza una guancia. La sua pelle era così fredda che ritrassi la mano d’istinto.

Mi sfiorai la fedina d’argento che ci eravamo regalati due mesi prima, per il nostro primo anno insieme.

Sentivo un dolore incommensurabile squarciarmi il cuore. Cosa avrei dato per rivederlo sorridere...

Quel sorriso stupendo che era in grado di farmi accelerare i battiti cardiaci...

Oh, Nicola.

«Nicola...» mormorai, non riuscendo a reprimere i singhiozzi. Una lacrima percorse con velocità la mia guancia, finendo la sua corsa nel mento, e schiantandosi sulla fronte di Nicola.

Gliela asciugai con l’indice, e gli passai una mano tra i corti capelli neri.

Era bellissimo, il mio Nicola.

Svegliati... ti prego....

Strinsi gli occhi, e le lacrime appese ad essi scivolarono via, lavandomi il volto, intingendolo di una speranza remota.

Gli afferrai la mano, fredda come il ghiaccio, e la portai alle labbra, sfiorandogli la pelle delicatamente.

All’improvviso, il macchinario che registrava i battiti cardiaci iniziò a produrre un suono strano. Alzai gli occhi, colmi di speranza.

Ciò che percepii in seguito fu tutto molto confuso.

Percepivo solo il vuoto.

A stento riuscivo a sentire le urla di Giulia, i medici che accorrevano e mi spingevano via.

Mi parve di udire, come in un sogno, la voce di Nicola carezzarmi l’orecchio, sensuale, dolce e calda come la ricordavo, che mi rassicurava dicendomi che sarebbe andato tutto bene.

Non ricordo molto delle ore che seguirono.

Mi trovavo acciambellata sul corpo di Giulia, che di tanto in tanto mi sussurrava qualche parola che non capivo.

Vuoto.

Sentivo solo il vuoto e l’oscurità dentro di me, da quando il macchinario di Nicola aveva segnalato il cessare dei suoi battiti cardiaci.

Eravamo nella sala d’attesa, i medici ancora nella stanza del mio ragazzo.

Mi sembrava surreale.

Il mio Nicola.

Nicola... Dove sei?

Dimmi che vivrai... dimmi... che mi ami.

Fallo con un sorriso, carezzandomi la guancia, guardandomi con i tuoi occhi di bosco.

Mi strinsi a Giulia, e non mi accorsi neppure di piangere. Tutto quello che vedevo era solo Nicola.

Avrei voluto un suo abbraccio, volevo un suo abbraccio. Avrei voluto sentire le sue braccia che mi circondavano le spalle, sentire il calore che mi pervadeva...

Abbracciami, Nicola.

Abbracciami e dimmi che non mi lascerai mai...

Giulia alzò il capo, al rumore di una porta che si apriva. Meccanicamente alzai gli occhi anche io.

Riconobbi il dottore che per primo era entrato nella stanza di Nicola.

Ci guardò.

Lo guardai.

Mi guardò.

I suoi occhi erano neri, tradivano una certa professionalità.

Cominciò a parlare, termini tecnici che non conoscevo e che mi scivolavano addosso. Tutto ciò che recepii fu quando scosse il capo, mesto.

Cosa significava? Aprii la bocca, feci per chiederglielo, ma il groppo in gola mi impediva di parlare.

Lacrime mute scivolarono via. Chissà se sarebbero state capaci di lavarmi la tristezza...

Sentii Giulia singhiozzare.

Nicola era morto.

Morto.

Era morto e, con lui, anche il mio cuore.

 

  
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