1
Quando
mi svegliai, la luce che penetrava dalla finestra, seppur debole, mi
ferì
leggermente gli occhi ancora un poco socchiusi.
Sentivo
il rumore ritmico di un macchinario accanto al letto nel quale ero
adagiata, e
qualcosa che mi tirava il braccio destro.
Aprii
definitivamente gli occhi e tentai di mettermi seduta, ma dovetti
rinunciarci a
causa dei dolori lancinanti che mi sconquassarono il busto. No, era
decisamente
meglio stare coricata.
Posai
la testa sul cuscino e mi guardai intorno.
La
cosa che mi tirava il braccio altro
non era che una flebo, e il macchinario accanto al mio letto registrava
le
pulsazioni del mio cuore.
Sopra
il letto c’erano due bottoni, uno immaginai che servisse in
caso di emergenza.
Ero
sola nella stanza, dalle pareti bianche e spoglie. Era completamente
priva di
arredamento, escluso il letto, un tavolo e qualche sedia. Il mio
comodino era
sul lato sinistro del letto.
A
giudicare dall’odore acre e al contempo dolce che mi
pervadeva le narici, e
della fattezza della stanza, dovevo essere in un ospedale.
Ma
come ci ero arrivata? Ero un po’ confusa. Sospirai, chiudendo
di nuovo le
palpebre.
E
all’improvviso delle immagini sfocate presero a rincorrersi,
facendosi largo
una dopo l’altra nella mia mente, come un flash di ricordi
sconnessi.
Mi
ricordavo la sensazione del vento che mi sferzava il viso, il casco
protettivo
sulla mia testa, pesante. Stavo stringendo la vita di un ragazzo alla
guida di
una moto, il mio ragazzo, Nicola.
All’improvviso,
un camion contromano. Vicino, troppo vicino...
E
poi, il buio, il dolore lancinante che serpeggiava in tutto il mio
corpo.
Troppo
buio...Troppo dolore...
Potevo
solo sentire, e tutto ciò che udivo erano grida e la sirena
di un’ambulanza.
Non
potevo muovermi, ero bloccata da qualcosa di pesante e gli occhi non
volevano
aprirsi. Da una ferita chissà dove colava del sangue, che
percorreva tutto il
mio volto. Era denso, caldo.
Spalancai
gli occhi, e di scatto, ignorando i dolori, mi misi seduta.
Nicola.
Dov’era?
Perché non era con me?
Controllando
che non ci fosse nessuno nei paraggi, afferrai le coperte con la mano
sinistra
e le gettai dall’altra parte, scoprendomi le gambe. I
movimenti mi risultavano
molto difficili a causa della flebo attaccata al braccio destro, ma con
fatica
riuscii a posare i piedi sul pavimento freddo.
«Che
cosa accidenti stai facendo,
Eleonora? Sei forse impazzita?»
Alzai
di scatto il capo e feci una smorfia: ad interrompere il mio brillante
piano di
fuga fu la mia migliore amica Giulia. Lei era l’opposto di
me, era la mia
coscienza.
Qualcosa
che mi mancava.
«Cercavo
di scendere dal letto.» la vidi inarcare un sopracciglio alla
mia risposta.
Posò
la borsa nella sedia vicino al letto poi venne verso di me. Mi mise le
mani
sulle spalle e con forza mi spinse sul letto, rimboccandomi addirittura
le
coperte.
Giulia
era come una seconda madre, e nonostante entrambe avessimo diciassette
anni,
lei era molto più responsabile di me.
«Quello
l’ho visto da sola. Non puoi scendere da questo letto.
È pericoloso, hai tutte
le costole fratturate, lo sai?» si prese in grembo la borsa e
si sedette nella
sedia accanto al mio letto, guardandomi con un cipiglio severo e
preoccupato.
Ma a me non importava nulla delle mie costole fratturate.
«Dov’è
Nicola?» le chiesi subito.
Giulia
trasalii. Non si aspettava una simile domanda, o non era pronta a
rispondere.
Abbassò
lo sguardo e immediatamente capii che stava cercando un argomento per
sviare la
mia domanda.
«Giulia»
la chiamai, guardandola con serietà, mentre
l’ansia nel mio petto cresceva.
«Dov’è Nicola?» ripetei. Il mio Nicola...
Giulia
scosse il capo, gli occhi ancora bassi, fuori dalla mia visuale. Si
stava
torturando le mani.
Cosa...Cosa
accidenti significava?
Gli
era successo qualcosa... l’incidente... no, non era possibile!
Giulia
tirò su con il naso e si portò i lunghi capelli
dorati dietro le spalle.
«È
in coma.» i suoi occhi erano colmi di lacrime,
«Tenteranno un intervento per
salvarlo domani, ma è rischioso, toccheranno parti delicate
e...»
Strinsi
le coperte con violenza, abbassando lo sguardo. Sentivo le lacrime
pungere per
uscire, non riuscivo a parlare, sembrava quasi che il groppo che avevo
in gola
mi stesse strozzando.
Nicola...
Nicola...
«Voglio
vederlo.» riuscii a mormorare, soltanto. Avrei voluto avere
la conferma che si
sarebbe svegliato, avrei voluto chiederlo a Giulia, ma avevo paura
della sua
risposta.
«Non
so se questo sia possibile...» bisbigliò lei,
evitando accuratamente il mio
sguardo.
Una
rabbia incredibile si impossessò di me.
«Deve
esserlo.» ringhiai, «Devo
accertarmi che sia vivo!» corrugai le sopracciglia, e le
lacrime che tanto
avevo trattenuto sgorgarono a fiotti percorrendo velocemente le mie
guance,
senza che me ne accorgessi.
Nicola
era la mia vita. Senza di lui io non sarei stata nulla.
«Sai
com’è avvenuto l’incidente? O perlomeno,
ricordi qualcosa?» Giulia interruppe i
miei pensieri.
Scossi
il capo. L’unica cosa che ricordavo era un camion che ci era
venuto addosso e
poi... poi era diventato tutto un flusso indistinto di
oscurità e dolore,
propagatosi in tutte le ossa del mio corpo.
Ma
ero sopravvissuta... e Nicola?
Cercai
di trattenere i ricordi, e ci riuscii. Non volevo che Giulia mi vedesse
debole,
e non volevo scoppiare ancora a piangere. Io non ero quel tipo di
ragazza che
frignava per ogni cosa.
Io
ero forte. Io ero Eleonora, e niente e nessuno avrebbe scalfito la
corazza che
mi proteggeva e che ostentavo a mostrare.
Gettai
una fugace occhiata alla flebo attaccata al mio braccio con una canula.
Ignorando il dolore, afferrai la canula con la mano sinistra e la tirai
fuori
dalla mia vena.
«Ma
sei impazzita?» esclamò Giulia, balzando in piedi.
«Fanculo
a tutto!» risposi con un sorrisetto. La flebo sgocciolava il
suo liquido sulle
coperte, ma non me ne curai. Con molta cautela, e stando attenta a non
farmi
male, spinsi via le coperte e misi i piedi per terra. Ad accogliere le
dita dei
piedi fu il freddo delle pianelle del suolo, che mi provocò
un brivido. Non
riuscii a reprimerlo, e mi scosse tutta. Riuscii solo per miracolo a
non urlare
dal dolore.
«Ele...
sei sicura di quello che stai facendo?» Lo
sguardo della mia migliore amica era preoccupato.
Posai
i miei occhi sui suoi, scrutandola con serietà.
«Mai
stata più sicura di così.»
Sospirò,
per tutta risposta, e mi aiutò a scendere dal letto.
Uscimmo
dalla mia camera e percorremmo alcuni corridoi in silenzio. Non
c’era bisogno
che glielo chiedessi: Giulia sapeva dove si trovava Nicola.
Camminavamo
lentamente, facendo attenzione a non fare movimenti troppo bruschi: le
costole
mi dolevano ancora molto.
Svoltammo
a sinistra, all’interno di un reparto avvolto nella
semioscurità. Ogni tanto si
sentivano dei colpi di tosse provenienti da alcune stanze, e potei
udire il
rumore di qualche televisore acceso.
Ma
nient’altro disturbava l’inquietante quiete che
sovrastava quel luogo.
«Che
reparto è questo?» chiesi a Giulia.
Evitò
di guardarmi. «Neurochirurgia.»
Impallidii.
Questo significava che l’intervento che il mio
Nicola avrebbe dovuto subire era al cervello...
Brutta
storia, pensai. Cercai di non lasciarmi sopraffare dal panico.
Giulia
si fermò in prossimità di una porta. Lessi il
cartellino: la camera era la 18.
Non sapevo perché, ma nonostante la porta fosse identica
alle altre che avevo
visto, quel colore bianco opaco mi stava dando sui nervi. Era
l’unico ostacolo
tra me e la mia unica ragione di vita.
Giulia
afferrò la maniglia in ottone della porta e la spinse verso
il basso.
La
porta si aprii con uno cigolio che in quel momento mi parve sinistro.
Era
tutto così assurdo... mi sembrava impossibile che fino al
giorno prima la mia
vita fosse perfetta e ora mi trovassi, invece, a sopportare una
situazione che
mi pareva irreale.
La
porta dal colore bianco opaco si aprì del tutto, e Giulia mi
lasciò la mano.
Non
ebbi il coraggio di avanzare.
La
stanza era illuminata fiocamente dai raggi solari che penetravano
attraverso le
fessure della persiana dell’unica finestra che troneggiava
sulla destra; i
raggi illuminavano il pulviscolo che volteggiava nell’aria, e
piovevano
sull’unico letto presente, nella parete opposta.
Era
completamente spoglia, a parte vari macchinari che producevano rumori
ritmici.
Spostai lo sguardo sul letto e vidi una sagoma adagiata sotto le
coperte.
Deglutii e mi decisi a camminare, con molta cautela, cercando di
ignorare il dolore
alle costole.
Quando
fui vicina al letto mi sedetti sull’unica sedia presente. E
lo vidi.
Era
lui, era il mio Nicola.
Non
potei scorgere le sue labbra stupende, in quanto la bocca e il naso
erano
coperti da una maschera per l’ossigeno, attaccata con un tubo
ad uno dei tanti
macchinari presenti nella stanza.
Il
suo volto, dai lineamenti delicati e leggermente appuntiti, era
imbruttito da
varie ferite che erano state saggiamente
ripulite e disinfettate, a giudicare dal colorito.
I
suoi occhi erano rigorosamente chiusi.
Mi
si strinse il cuore. Dio solo sapeva quanto avrei voluto che si
aprissero,
quegli occhi, e mi mostrassero il loro verde spettacolare. Gli avevo
sempre
detto che erano bellissimi: erano di un verde smeraldo, intenso,
screziato
d’ambra all’interno, intorno alla pupilla. Mi era
sempre sembrato d’immergermi
in una foresta, quando mi ci perdevo dentro.
Gli
carezzai con delicatezza una guancia. La sua pelle era così
fredda che ritrassi
la mano d’istinto.
Mi
sfiorai la fedina d’argento che ci eravamo regalati due mesi
prima, per il
nostro primo anno insieme.
Sentivo
un dolore incommensurabile squarciarmi il cuore. Cosa avrei dato per
rivederlo
sorridere...
Quel
sorriso stupendo che era in grado di farmi accelerare i battiti
cardiaci...
Oh,
Nicola.
«Nicola...»
mormorai, non riuscendo a reprimere i singhiozzi. Una lacrima percorse
con
velocità la mia guancia, finendo la sua corsa nel mento, e
schiantandosi sulla
fronte di Nicola.
Gliela
asciugai con l’indice, e gli passai una mano tra i corti
capelli neri.
Era
bellissimo, il mio Nicola.
Svegliati...
ti prego....
Strinsi
gli occhi, e le lacrime appese ad essi scivolarono via, lavandomi il
volto,
intingendolo di una speranza remota.
Gli
afferrai la mano, fredda come il ghiaccio, e la portai alle labbra,
sfiorandogli la pelle delicatamente.
All’improvviso,
il macchinario che registrava i battiti cardiaci iniziò a
produrre un suono strano. Alzai gli
occhi, colmi di
speranza.
Ciò
che percepii in seguito fu tutto molto confuso.
Percepivo
solo il vuoto.
A
stento riuscivo a sentire le urla di Giulia, i medici che accorrevano e
mi
spingevano via.
Mi
parve di udire, come in un sogno, la voce di Nicola carezzarmi
l’orecchio,
sensuale, dolce e calda come la ricordavo, che mi rassicurava dicendomi
che
sarebbe andato tutto bene.
Non
ricordo molto delle ore che seguirono.
Mi
trovavo acciambellata sul corpo di Giulia, che di tanto in tanto mi
sussurrava
qualche parola che non capivo.
Vuoto.
Sentivo
solo il vuoto e l’oscurità dentro di me, da quando
il macchinario di Nicola
aveva segnalato il cessare dei suoi battiti cardiaci.
Eravamo
nella sala d’attesa, i medici ancora nella stanza del mio
ragazzo.
Mi
sembrava surreale.
Il
mio Nicola.
Nicola...
Dove sei?
Dimmi
che vivrai... dimmi... che mi ami.
Fallo
con un sorriso, carezzandomi la
guancia, guardandomi con i tuoi occhi di bosco.
Mi
strinsi a Giulia, e non mi accorsi neppure di piangere. Tutto quello
che vedevo
era solo Nicola.
Avrei
voluto un suo abbraccio, volevo un
suo abbraccio. Avrei voluto sentire le sue braccia che mi circondavano
le
spalle, sentire il calore che mi pervadeva...
Abbracciami,
Nicola.
Abbracciami
e dimmi che non mi lascerai
mai...
Giulia
alzò il capo, al rumore di una porta che si apriva.
Meccanicamente alzai gli
occhi anche io.
Riconobbi
il dottore che per primo era entrato nella stanza di Nicola.
Ci
guardò.
Lo
guardai.
Mi
guardò.
I
suoi occhi erano neri, tradivano una certa professionalità.
Cominciò
a parlare, termini tecnici che non conoscevo e che mi scivolavano
addosso.
Tutto ciò che recepii fu quando scosse il capo, mesto.
Cosa
significava? Aprii la bocca, feci per chiederglielo, ma il groppo in
gola mi
impediva di parlare.
Lacrime
mute scivolarono via. Chissà se sarebbero state capaci di
lavarmi la
tristezza...
Sentii
Giulia singhiozzare.
Nicola
era morto.
Morto.
Era
morto e, con lui, anche il mio cuore.