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Autore: Nicolessa    21/07/2010    0 recensioni
Mi macava qualcosa, quel qualcosa che ogni giorno mi permetteva di respirare, quel qualcosa che mi faceva vivere giorno per giorno... e non c'era più. Cosa potevo fare? Non potevo non respirare, non potevo non vivere, dovevo trovare una soluzione e in fretta.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il buon giorno si vede dal… No, non si vede affatto!
Era una giornata di metà Dicembre fredda ed umida a Seattle, la nebbia fitta offuscava la strada rendendola misteriosa e macabra.

Mio padre mi accompagnò alla stazione con l’auto che usava per recarsi al lavoro, avevamo i finestrini chiusi ed il riscaldamento acceso.

Avevo comunque freddo perché, testarda com’ero, non accontentai mia madre che per tutta la mattina mi aveva ripetuto di indossare il maglione verde  regalatomi da zia Lane per Natale che, secondo me, era davvero orrendo.

Preferii quindi mettere una maglietta di un blu scuro, come il colore del mare in tempesta, poi una semplice sciarpa a righe bianche e nere comprata anni prima in una piccola boutique di Parigi abbinata ad un classico e comodo jeans che calzava a pennello con le mie Converse in pelliccia bianca.

Vestire semplice e non attirare l’attenzione: questa ero io. Ero una ragazza discreta: non troppo magra e non troppo grassa, non troppo pallida e non troppo scura, insomma cose così… avevo solo tre punti a mio sfavore: l’altezza stratosferica degna del mio cognome, le meches blu alle punte dei miei capelli neri che toccavano i gomiti e… mio fratello.

Tutte le sue “sostenitrici” mi chiedevano di lui o cercavano di diventare mie amiche per vederlo.

Axel era il ragazzo più affascinante di tutta Seattle, questo dicevano tutte la ragazze del posto, i suoi capelli rosso fuoco davano un tocco peccaminoso al viso ma i suoi occhi compensavano con un bel celeste angelico, come se non bastasse giocava a Basket… ecco spiegato il perché di tutti i sold-out di ogni sua partita.

Le altre ragazze ignoravano il suo carattere, quello che io vedevo e condividevo ogni giorno in casa, era unico e anche un po’ lunatico: un giorno era disponibile con tutti e quello dopo era insopportabile, un vero rompiscatole colossale.

Spesso cercavo il perché delle cose riflettendo e scrutando ogni minimo dettaglio utile al mio resoconto, facevo così per tutto: per mio fratello, per gli sconosciuti, per i miei amici e a volte anche per gli oggetti inanimati. Come dal mio solito quella mattina, in macchina, osservavo con attenzione tutto ciò che la nebbia non copriva, cercando di capire come ci riuscisse… Come riusciva a coprire tutto quello che incontrava? Come riusciva ad annebbiare tutto e tutti senza alcuna difficoltà?

Volevo essere proprio come lei, fregarmene di tutto e di tutti con la stessa facilità ma… come potevo?

Mentre pensavo ad una soluzione, molto probabilmente impossibile, mio padre mi chiamò per nome ma io, assente mentalmente, non risposi.

-         “ Ellen… Ellen!” gridò infine.

 Era lo stesso tono di quando veniva a svegliarmi la mattina per mandarmi a scuola... Era dura svegliarmi, molto dura.

-         “ Sì? Cosa c’è?” risposi assente continuando a fissare il vuoto.

-         “Siamo arrivati… Allora… Sei triste? Nervosa? Incomincerai a dirgli di quella cosa oppure lo farai un altro giorno? Se non te la senti puoi farlo domani… o il mese prossimo… entro il mese prossimo almeno… sempre se vuoi dirglielo… non è così? Perché… sai, pensavo che dire tutto è impor…”

-         “Papà...” lo interruppi.

-         “ Non preoccuparti, è tutto ok… lo dirò… in tempo…” dissi esitando un po’…

Ero agitata per le parole di mio padre, infondo, aveva ragione.

Già, mio padre… un uomo onesto, fedele, sincero e molto logorroico, quando ero piccola mia madre lo chiamava “ il grillo superparlante”, ma Antony aveva un cuore d’oro. Era difficile farlo arrabbiare ma quando veniva deluso o era triste, usava la tecnica del muso lungo, tecnica che avevo ereditato e, fortunatamente, molto efficace su di lui.

Ricordo ancora quando a sei anni, ruppi la sua boccetta di profumo sulla sua giacca… l’odore di muschio bianco si espanse per tutta la casa lasciando una profumata scia che solleticava il naso. Quando se ne accorse, rimase con il suo muso lungo per una settimana intera e tornò allegro solo quando gli chiesi scusa e gli portai la sua giacca che, nonostante tutti i lavaggi subiti, profumava ancora di muschio.

Dopo questo breve ma intenso ricordo, uscii dal tunnel dei miei pensieri e mi concentrai sul suo viso, cercando di analizzarlo.

Era preoccupato per me, lo li si leggeva chiaro in faccia anche se cercava di nasconderlo e così, di scatto, risposi che stavo bene e di non essere preoccupato per me. Sarebbe andato tutto bene… o almeno era quello che speravo. Sarebbe stato difficile ma ce l’avrei fatta… dovevo farcela. Bastava trovare le parole giuste e il momento giusto.

L’ansia iniziava a mangiare il mio stomaco e a quanto parte ci provava anche gusto. Non potevo deprimermi ora.

Dovevo godermi tutto di Seattle, i miei amici, la mia scuola, i miei luoghi preferiti…

Ero pronta a lasciare tutto questo?

Mia madre diceva di non preoccuparmi (esattamente come papà) e che ci avremmo pensato a fine mese, prima della nostra partenza…

Esatto, partivamo… Io e la mia famiglia dovevamo trasferirci a Goderich, in Ontario, ancora più precisamente in Canada, per motivi di lavoro che riguardavano mia madre, Amanda Brown, una famosa disegnatrice di abiti. La causa della partenza non era la scarsa opportunità di lavoro, anzi era l’esatto contrario… Ci trasferivamo perché ne aveva troppo! Purtroppo la vera causa della nostra partenza era un’ offerta di lavoro proposta a mio padre, che in quanto biologo, aveva ricevuto una promozione che comprendeva anche un trasferimento e, secondo la sua modesta opinione, sarebbe stato impossibile non accettare.

Forse era la cosa giusta per me, dopotutto ero la prima a dire che non ero così felice a Seattle…

Ripensandoci, Seattle era rumorosa, caotica, frenetica, stressante e inquinata. Ma è pur vero che era la mia casa, meravigliosa e, a volte, anche sorprendentemente silenziosa.

Per questo dovevo osservare tutto quello che potevo finchè ne avevo la possibilità, ecco perché non volevo andare via, sapevo che Seattle mi sarebbe mancata.

Ecco che ritornava l’ansia. Non mi era possibile vivere quei giorni in santa pace? Non poteva evitarmi per un po’? Giusto il tempo di raccontare tutto e vivere felicemente quei giorni nient’altro... Dovevo trovare un modo per tranquillizzarmi.

Scesi dall’auto in tutta fretta, congedando mio padre con un fugace bacio sulla sua guancia e mi allontanai, illudendomi di poter lasciare lì dentro tutti i miei pensieri che non mi avrebbero dato pace per tutta la mattina e poi: l’illuminazione… La musica! Finalmente la mia mente iniziava a funzionare, si era finalmente svegliata e ne ero contenta. Gli angoli della mia bocca si alzarono leggermente, avevo un’espressione più allegra… Finalmente…

Attraversai il sottopassaggio con passo svelto e le cuffie nelle orecchie. Ascoltavo la playlist che aveva creato Axel nel mio I Pod: Green Day, Good Charlotte, Goo  Goo Dolls, The Last Goodnight, Cascada, Santana e altri. Fortunatamente la mia idea funzionò ed arrivai dall’altra parte senza accorgermene.

Lì trovai un sacco di gente nervosa ed impaziente per l’arrivo del treno che annunciava un ritardo di 25 minuti…

 La giornata inizia benissimo... sarà contenta la prof di matematica! Pensai dentro di me.

Magari riesco a fermare Antony e a chiedergli di accompagnarmi a scuola in macchina! Continuai.

Mio padre però, andò via prima che potessi fermarlo per chiedergli quello strappo fino a scuola quindi, fui costretta ad aspettare, consapevole che, prima o poi in quei minuti d’attesa, avrei pensato a come poter dare la notizia ai miei amici, così creando sconforto in me stessa.

In quel momento invece non pensavo a niente, per qualche secondo credetti davvero che i miei pensieri fossero rimasti lì, nella mia BMW nera dove, secondo le previsioni di Antony, avrei trascorso ben trentanove stressanti e lunghe ore di viaggio, sorpassando così Washington, il Montana, il North Dakota, il Minnesota, il Wisconsin e il Michigan per poi infine arrivare in Ontario.

I minuti scorrevano lenti e inesorabili, l’attesa era estenuante e i ricordi lottavano con la mia testa cercando di riaffiorare come spine pungenti che laceravano tutto ciò che incontravano senza guardare in faccia niente e nessuno. Cercavo di non farci caso, ascoltavo la musica e cercavo di mantenere la mente vuota.

Quella canzone era bellissima, melodiosa, mi infondeva una sensazione strana… Solo dopo mi resi conto che era tristezza, in effetti la canzone era malinconica… Avrei avuto bisogno di più rock. Passai ai Green Day.

Mi guardai intorno.

Il treno non si vedeva ancora, quando Sharon mi vide e mi venne incontro con un sorriso brillante e pieno di vita.

Automaticamente mi liberai le orecchie per iniziare la conversazione, pensai che sarebbe stato meglio parlare.

-         “Ehilà Ell! Come stai? È da tanto tempo che non ci vediamo vero?” disse con aria ironica.

Sharon era una ragazza alta ed esile, aveva dei lucentissimi e bellissimi capelli biondi, raccolti in un fermaglietto azzurro che intonava perfettamente con i suoi grandi occhi spendenti come diamanti, le guance erano perennemente rosate, le labbra sottili e le mani all’apparenza molto fragili ma in grado di resistere a tutte le temperature senza screpolarsi mai. Il suo carattere era magnifico, direi quasi… perfetto… aveva un equilibrio tutto suo e funzionava alla grande. Eravamo amiche dalla 1° elementare. Era una persona unica, non potevi non amarla, ma non so quale legame, ci rese inseparabili, eravamo sempre insieme e non ci separavamo mai, lei mi consolava con il suo smagliante sorriso e io le davo consigli su qualsiasi cosa.

Che stupida che ero…le avevo sempre dato dei buoni consigli e ora, codarda com’ero, non riuscivo a metterne in atto nemmeno uno…

Ma per non farla insospettire, le risposi con altrettanta ironia:

-         “Certo, è da ieri sera che non ci vediamo, hai ragione… non so proprio come ho fatto senza di te per tutto questo tempo!” esclamai con un sorriso che non era esattamente uno dei migliori in repertorio.

Le mie parole mi colpirono come un boomerang tagliente, era come se mi fossi punita da sola.

 Ero sincera, mi era mancata, come potevo lasciarla il mese successivo? Come avremmo affrontato quella maledetta partenza? Come avremmo fatto a stare lontane? Ci dividevano ben 2.483 miglia!!! Ma non volevo pensarci, mi ero severamente imposta di non farlo e non dovevo per nessun motivo.

Volevo solo scappare lontano da quel problema, ma il vero problema era che non volevo scappare… Non volevo lasciare una vita per prenderne un’altra, anche se fosse stata migliore della precedente, avevo tutto quello che mi serviva a Seattle. Non volevo abbandonare tutto, non volevo abbandonare Sharon, la mia amica di sempre.

Pensavo solo a ciò che desideravo io senza pensare agli altri… ero egoista… una parte di me lo sapeva e alimentava questo lato di me, ma l’altro lato non voleva ammetterlo e cercava delle scuse per giustificarsi anche se inutilmente.

Sharon mi parlava con una certa sicurezza, la sicurezza che la stessi ascoltando e invece ascoltavo solo me stessa, che gridavo disperatamente aiuto dentro di me ma senza ricevere alcuna risposta.

Non si accorse di nulla e proseguì nel suo racconto che, molto probabilmente, riguardava il sogno che la scosse quella notte, o almeno, la routine giornaliera prevedeva questo.

-         “Allora, in fondo alla strada, vidi un estraneo che si avvicinava e me con aria minacciosa così poi iniziai a scappare per la paura e gridavo, gridavo come le matte! Giustamente mi voltai per cercare di capire chi fosse e, con un rapido scatto… ehi!! Ma mi stai ascoltando o no?!?” disse un po’ scocciata come per farmi notare che le sue parole erano preziose e non poteva sprecarle per parlare al vuoto.

-         “Ahahah, bella questa Sharon, lei non può ascoltarti perché cerca di capire da dove venga quel rumore di vento… se vuoi ti aiuto io a capire... è il vuoto nella sua testa!!!”esclamò una voce snob e sicura di sé.

Era lei, Tasha, la persona che più di qualsiasi altra mi era indifferente anche se, per qualche motivo a me sconosciuto, io non ero così indifferente a lei.

Non che mi importasse più di tanto capire il perché mi odiasse ma cercare una risposta sembrava un ottimo svago per la mente. Non ricordavo nessun evento in particolare, era sempre stata lei a rivolgermi la parola, o meglio, l’insulto, anche la prima volta che la vidi.

A scuola, lì la vidi per la prima volta… Questo era alquanto strano in quanto mia “concittadina”.

La sua prima presentazione fu molto chiara.

-         “Hey tu, ascoltami bene: Tu. Non. Sei. Nessuno. Chiaro? Se mi darai          fastidio sappi che la pagherai cara” disse.

Lo ammetto, ci rimasi un po’ male. Credo che il motivo del mio sconforto sia stato proprio il fatto di non aver fatto niente per essermi meritata una conversazione del genere.

Ovviamente Sharon era con me ed è esattamente da quel giorno che non la sopporta.

Non era ancora iniziata la giornata e avevo già incontrato delle difficoltà, perché mi odiava tanto?

Cercai di sforzarmi ma nada de nada, niente, il vuoto totale.

-         “Smettila di fare l’idiota! Sei solo gelosa!” disse Sharon in mia difesa ma soprattutto per sua soddisfazione.

Aveva alzato la voce per la rabbia ma non se ne accorse nessuno lì in stazione. Ognuno parlava per conto proprio creando così un grande mormorio generale.

-         “Gelosa io?!? Di cosa? Del vostro stupido gruppo e di quelle ridicole rose blu tatuate sul vostro corpo malriuscito? Ma per favore!” disse con aria strafottente.

Mentre Sharon stava per metterle le mani addosso, una manona fredda e resistente si poggiò sulla sua spalla, fermandola nel suo intento di fare Tasha a pezzi.

-         “Litigate anche l’ultimo giorno di scuola? Finiremo l’anno in bellezza allora...”

Quella voce... così familiare e così calda… La conoscevo da così tanto tempo che avevo quasi dimenticato la sua particolarità, forse me ne rendevo conto ora che sapevo che tra qualche giorno non l’avrei più sentita se non da un freddo e distaccato cellulare.

-         “Ha iniziato lei! Non la difendere solo perché ti piace darmi torto! Uffa...” sbuffò Sharon.

Si comportavano come dei bambini mentre io, quella che si era beccata l’insulto, non battevo ciglio, non mi interessava di cosa stessero discutendo ma mi interessava l’arrivo di Felix a fermare in tempo una lotta che, secondo Sharon, sarebbe finita con un cadavere… e certo non parlava del suo.

Il mormorio continuava ad aumentare ed io fissavo Felix, il mio amico del cuore.

Amico del cuore… Questa parola la usavamo dalla scuola elementare, ci eravamo sempre reputati tali nonostante i nostri 2 anni di differenza. Già… Ora io e Sharon abbiamo 17 anni e lui 19, esattamente come mio fratello Axel, suo compagno di comitiva. Uscivano la sera e tornavano la sera del giorno dopo, potevi vederli solo in 3 condizioni dopo il rientro: sbronzi, con delle borse sotto gli occhi oppure, l’ opzione più tranquillizzante, era vederli lucidi ma con la pancia piena di  cibo cinese o tailandese.

-         “Ellen, perché mi fissi? Ho qualcosa in faccia? Mi trovi diverso per caso?” disse all’improvviso inarcando le sopracciglia in modo strano, sembrava quasi un cartone animato.

 Avevo visto quel volto migliaia di volte ed ogni volta qualcosa cambiava rendendolo sempre più affascinante e amichevole.

Sharon mi diceva spesso che parlavo di lui come le persone normali parlano del loro fidanzato ma Felix non lo era, era un amico ed era questo quello che volevo.

Non mi preoccupavo di apparire stupida o goffa con loro, noi tre eravamo una famiglia: io, Sharon e Felix.

La mia mente era piena di pensieri che non facevano male, Fel era il mio antidolorifico migliore e lo adoravo per questo, o meglio, anche per questo.

Mi accorsi che stavo pensando troppo e il tempo che era passato per rispondere era troppo così, cercai di affrettarmi nella risposta.

-          “No no, niente di strano... Stavo solo… pensando” dissi sbuffando… Non volevo dare l’impressione di essere preoccupata ma, infondo, lo ero eccome, non avevo ancora pensato a nessun modo per avvertirli della mia partenza improvvisa.

-         “Tu che formuli un pensiero? Attenta Ellen, non sforzarti troppo altrimenti ti esploderà la testa!”.

Arroganza, questo odiavo di più in lei, ma era il minore dei miei problemi, quasi insignificante direi, ma non potevo pensare con lei che mi ronzava attorno come una mosca fastidiosa. Il mormorio si trasformò in un enorme baccano nella mia testa, ogni minimo rumore mi perforava i timpani e alla fine, stremata, scoppiai in un urlo quasi disumano:

-         “Ascolta, non mi importa se ti reputi la persona più bella e intelligente del mondo, ora mi importa solo riflettere e non riesco con te che mi insulti continuamente e con questa gente che urla come se fossero tutti sordi quindi, non hai proprio nient’altro da fare che darmi fastidio e starnazzare nel mio orecchio? Perché non vai a fare l’oca da qualche altra parte di questa stupida stazione?”.

 Tutti si voltarono verso di noi. Avevo la piena visione di tanti tipi di espressione umana. C’era chi era incuriosito da quelle urla, chi era rimasto offeso dalle mie parole, chi aveva chiaramente stampato sul viso l’espressione “questa è pazza” e chi era sconvolto dal mio modo di rivolgermi a Tasha, la più popolare ragazza che, secondo lei, “aveva più chance di resistere in questo posto di sfigati”. Purtroppo me ne resi conto troppo tardi, forse, avevo urlato troppo, ma le mie urla da pazza psicopatica diedero i loro frutti, infatti Tasha si allontanò senza fiatare, mostrando solo il suo disdegno alle sue compagne che la seguivano ovunque come dei cagnolini.

Accanto a lei sembravano delle sagome senza volto e senza nome che non godevano del diritto di vivere per paura di oscurare la loro ape regina anche se, a Tasha non importava granché di loro. Eppure erano delle belle ragazze, non sapevo come si chiamassero e non mi interessava perché mi davano fastidio, mi dava fastidio il fatto che la venerassero così senza un motivo.

Erano patetiche e non se ne rendevano conto. La popolarità può dare alla testa ma forse a loro non importava, bhè, peggio per loro.

Pensavo, pensavo e ripensavo ai loro comportamenti non capacitandomi del fatto che avevo urlato attirando l’attenzione. Quando me ne resi conto era tardi, tutti mi stavano fissando. No, no, NO! Odio essere al centro dell’attenzione! Trasalii, avevo gli occhi spalancati, respiravo con cautela come per non fare rumore e mi guardavo attorno con la testa bassa come se volessi coprirmi. Volevo sparire, andate dall’altra parte della Terra, teletrasportarmi, diventare invisibile, tutto ma non rimanere lì.

Sharon e Felix rimasero a bocca aperta non capendo da dove arrivasse tutta quella rabbia che mi aveva fatto esplodere in quel modo anomalo. Non mi era mai capitata una cosa del genere, mi ero sentita come la dinamite, esplosiva e senza controllo.

Il silenzio che si sentì subito dopo il mio sfogo era quasi agghiacciante ma, fortunatamente per me,  non durò molto, pochi secondi e tutti si voltarono, ricominciando a parlare in un tono accettabile come se avessero afferrato il mio “rimprovero” ma, molto probabilmente, parlavano a bassa voce per non farsi sentire da me: la pazza che, per precisare aveva un nome, il mio: Ellen Fox, un nome che si sarebbe sentito molto nominare in giro in quei giorni.

Finalmente il treno arrivò, lo attesi come un bambino attende il giorno di Natale, lo attendevo perché volevo solo andare lontano da quel posto, dimenticai solo un piccolo dettaglio: tutta quella gente che mi aveva sentito urlare doveva salire sul mio stesso treno e quindi mi era impossibile scappare, a meno che non fossi salita sul treno ma dopo tutta quell’ attesa e quella scenata da oscar non ne valeva la pena, dovevo affrontare quella folla di persone pronte solo a parlare di me alle mie spalle.




Voi che ne pensate? Ne vale la pena continuare? Bhè sappiate che sto già lavorando al secondo quindi mo ve lo beccate!!! =P alla prossima!
  
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