Era una giornata di metà Dicembre fredda ed umida a Seattle, la nebbia fitta offuscava la strada rendendola misteriosa e macabra.
Mio padre mi accompagnò alla
stazione con l’auto che usava per recarsi al lavoro, avevamo i finestrini
chiusi ed il riscaldamento acceso.
Avevo comunque freddo perché,
testarda com’ero, non accontentai mia madre che per tutta la mattina mi aveva
ripetuto di indossare il maglione verde regalatomi da zia Lane per Natale che, secondo
me, era davvero orrendo.
Preferii quindi mettere una
maglietta di un blu scuro, come il colore del mare in tempesta, poi una
semplice sciarpa a righe bianche e nere comprata anni prima in una piccola
boutique di Parigi abbinata ad un classico e comodo jeans che calzava a
pennello con le mie Converse in pelliccia bianca.
Vestire semplice e non attirare
l’attenzione: questa ero io. Ero una ragazza discreta: non troppo magra e non
troppo grassa, non troppo pallida e non troppo scura, insomma cose così… avevo
solo tre punti a mio sfavore: l’altezza stratosferica degna del mio cognome, le
meches blu alle punte dei miei capelli neri che toccavano i gomiti e… mio
fratello.
Tutte le sue “sostenitrici” mi
chiedevano di lui o cercavano di diventare mie amiche per vederlo.
Axel era il ragazzo più affascinante
di tutta Seattle, questo dicevano tutte la ragazze del posto, i suoi capelli
rosso fuoco davano un tocco peccaminoso al viso ma i suoi occhi compensavano
con un bel celeste angelico, come se non bastasse giocava a Basket… ecco
spiegato il perché di tutti i sold-out di ogni sua partita.
Le altre ragazze ignoravano il suo
carattere, quello che io vedevo e condividevo ogni giorno in casa, era unico e
anche un po’ lunatico: un giorno era disponibile con tutti e quello dopo era
insopportabile, un vero rompiscatole colossale.
Spesso cercavo il perché delle cose
riflettendo e scrutando ogni minimo dettaglio utile al mio resoconto, facevo
così per tutto: per mio fratello, per gli sconosciuti, per i miei amici e a
volte anche per gli oggetti inanimati. Come dal mio solito quella mattina, in
macchina, osservavo con attenzione tutto ciò che la nebbia non copriva,
cercando di capire come ci riuscisse… Come riusciva a coprire tutto quello che
incontrava? Come riusciva ad annebbiare tutto e tutti senza alcuna difficoltà?
Volevo essere proprio come lei,
fregarmene di tutto e di tutti con la stessa facilità ma… come potevo?
Mentre pensavo ad una soluzione,
molto probabilmente impossibile, mio padre mi chiamò per nome ma io, assente
mentalmente, non risposi.
-
“ Ellen… Ellen!”
gridò infine.
Era lo stesso tono di quando veniva a
svegliarmi la mattina per mandarmi a scuola... Era dura svegliarmi, molto dura.
-
“ Sì? Cosa c’è?”
risposi assente continuando a fissare il vuoto.
-
“Siamo arrivati…
Allora… Sei triste? Nervosa? Incomincerai a dirgli di quella cosa oppure lo
farai un altro giorno? Se non te la senti puoi farlo domani… o il mese
prossimo… entro il mese prossimo almeno… sempre se vuoi dirglielo… non è così?
Perché… sai, pensavo che dire tutto è impor…”
-
“Papà...” lo
interruppi.
-
“ Non
preoccuparti, è tutto ok… lo dirò… in tempo…” dissi esitando un po’…
Ero agitata per le parole di mio
padre, infondo, aveva ragione.
Già, mio padre… un uomo onesto,
fedele, sincero e molto logorroico, quando ero piccola mia madre lo chiamava “
il grillo superparlante”, ma Antony aveva un cuore d’oro. Era difficile farlo
arrabbiare ma quando veniva deluso o era triste, usava la tecnica del muso
lungo, tecnica che avevo ereditato e, fortunatamente, molto efficace su di lui.
Ricordo ancora quando a sei anni,
ruppi la sua boccetta di profumo sulla sua giacca… l’odore di muschio bianco si
espanse per tutta la casa lasciando una profumata scia che solleticava il naso.
Quando se ne accorse, rimase con il suo muso lungo per una settimana intera e
tornò allegro solo quando gli chiesi scusa e gli portai la sua giacca che,
nonostante tutti i lavaggi subiti, profumava ancora di muschio.
Dopo questo breve ma intenso
ricordo, uscii dal tunnel dei miei pensieri e mi concentrai sul suo viso,
cercando di analizzarlo.
Era preoccupato per me, lo li si
leggeva chiaro in faccia anche se cercava di nasconderlo e così, di scatto,
risposi che stavo bene e di non essere preoccupato per me. Sarebbe andato tutto
bene… o almeno era quello che speravo. Sarebbe stato difficile ma ce l’avrei
fatta… dovevo farcela. Bastava trovare le parole giuste e il momento giusto.
L’ansia iniziava a mangiare il mio
stomaco e a quanto parte ci provava anche gusto. Non potevo deprimermi ora.
Dovevo godermi tutto di Seattle, i
miei amici, la mia scuola, i miei luoghi preferiti…
Ero pronta a lasciare tutto questo?
Mia madre diceva di non preoccuparmi
(esattamente come papà) e che ci avremmo pensato a fine mese, prima della
nostra partenza…
Esatto, partivamo… Io e la mia
famiglia dovevamo trasferirci a Goderich, in Ontario, ancora più precisamente
in Canada, per motivi di lavoro che riguardavano mia madre, Amanda Brown, una
famosa disegnatrice di abiti. La causa della partenza non era la scarsa
opportunità di lavoro, anzi era l’esatto contrario… Ci trasferivamo perché ne
aveva troppo! Purtroppo la vera causa della nostra partenza era un’ offerta di
lavoro proposta a mio padre, che in quanto biologo, aveva ricevuto una
promozione che comprendeva anche un trasferimento e, secondo la sua modesta
opinione, sarebbe stato impossibile non accettare.
Forse era la cosa giusta per me,
dopotutto ero la prima a dire che non ero così felice a Seattle…
Ripensandoci, Seattle era rumorosa,
caotica, frenetica, stressante e inquinata. Ma è pur vero che era la mia casa,
meravigliosa e, a volte, anche sorprendentemente silenziosa.
Per questo dovevo osservare tutto
quello che potevo finchè ne avevo la possibilità, ecco perché non volevo andare
via, sapevo che Seattle mi sarebbe mancata.
Ecco che ritornava l’ansia. Non mi
era possibile vivere quei giorni in santa pace? Non poteva evitarmi per un po’?
Giusto il tempo di raccontare tutto e vivere felicemente quei giorni
nient’altro... Dovevo trovare un modo per tranquillizzarmi.
Scesi dall’auto in tutta fretta,
congedando mio padre con un fugace bacio sulla sua guancia e mi allontanai,
illudendomi di poter lasciare lì dentro tutti i miei pensieri che non mi
avrebbero dato pace per tutta la mattina e poi: l’illuminazione… La musica! Finalmente la mia mente
iniziava a funzionare, si era finalmente svegliata e ne ero contenta. Gli
angoli della mia bocca si alzarono leggermente, avevo un’espressione più
allegra… Finalmente…
Attraversai il sottopassaggio con
passo svelto e le cuffie nelle orecchie. Ascoltavo la playlist che aveva creato
Axel nel mio I Pod: Green Day, Good Charlotte, Goo Goo Dolls, The Last Goodnight, Cascada,
Santana e altri. Fortunatamente la mia idea funzionò ed arrivai dall’altra
parte senza accorgermene.
Lì trovai un sacco di gente nervosa
ed impaziente per l’arrivo del treno che annunciava un ritardo di 25 minuti…
La
giornata inizia benissimo... sarà contenta la prof di matematica! Pensai
dentro di me.
Magari
riesco a fermare Antony e a chiedergli di accompagnarmi a scuola in macchina! Continuai.
Mio padre però, andò via prima che
potessi fermarlo per chiedergli quello strappo fino a scuola quindi, fui
costretta ad aspettare, consapevole che, prima o poi in quei minuti d’attesa,
avrei pensato a come poter dare la notizia ai miei amici, così creando
sconforto in me stessa.
In quel momento invece non pensavo a
niente, per qualche secondo credetti davvero che i miei pensieri fossero
rimasti lì, nella mia BMW nera dove, secondo le previsioni di Antony, avrei
trascorso ben trentanove stressanti e lunghe ore di viaggio, sorpassando così
Washington, il Montana, il North Dakota, il Minnesota, il Wisconsin e il
Michigan per poi infine arrivare in Ontario.
I minuti scorrevano lenti e
inesorabili, l’attesa era estenuante e i ricordi lottavano con la mia testa
cercando di riaffiorare come spine pungenti che laceravano tutto ciò che
incontravano senza guardare in faccia niente e nessuno. Cercavo di non farci
caso, ascoltavo la musica e cercavo di mantenere la mente vuota.
Quella canzone era bellissima,
melodiosa, mi infondeva una sensazione strana… Solo dopo mi resi conto che era
tristezza, in effetti la canzone era malinconica… Avrei avuto bisogno di più
rock. Passai ai Green Day.
Mi guardai intorno.
Il treno non si vedeva ancora,
quando Sharon mi vide e mi venne incontro con un sorriso brillante e pieno di
vita.
Automaticamente mi liberai le
orecchie per iniziare la conversazione, pensai che sarebbe stato meglio
parlare.
-
“Ehilà Ell! Come
stai? È da tanto tempo che non ci vediamo vero?” disse con aria ironica.
Sharon era una ragazza alta ed
esile, aveva dei lucentissimi e bellissimi capelli biondi, raccolti in un
fermaglietto azzurro che intonava perfettamente con i suoi grandi occhi
spendenti come diamanti, le guance erano perennemente rosate, le labbra sottili
e le mani all’apparenza molto fragili ma in grado di resistere a tutte le
temperature senza screpolarsi mai. Il suo carattere era magnifico, direi quasi…
perfetto… aveva un equilibrio tutto suo e funzionava alla grande. Eravamo
amiche dalla 1° elementare. Era una persona unica, non potevi non amarla, ma
non so quale legame, ci rese inseparabili, eravamo sempre insieme e non ci
separavamo mai, lei mi consolava con il suo smagliante sorriso e io le davo
consigli su qualsiasi cosa.
Che stupida che ero…le avevo sempre
dato dei buoni consigli e ora, codarda com’ero, non riuscivo a metterne in atto
nemmeno uno…
Ma per non farla insospettire, le
risposi con altrettanta ironia:
-
“Certo, è da ieri
sera che non ci vediamo, hai ragione… non so proprio come ho fatto senza di te
per tutto questo tempo!” esclamai con un sorriso che non era esattamente uno
dei migliori in repertorio.
Le mie parole mi colpirono come un
boomerang tagliente, era come se mi fossi punita da sola.
Ero sincera, mi era mancata, come potevo
lasciarla il mese successivo? Come avremmo affrontato quella maledetta
partenza? Come avremmo fatto a stare lontane? Ci dividevano ben
Volevo solo scappare lontano da quel
problema, ma il vero problema era che non volevo scappare… Non volevo lasciare
una vita per prenderne un’altra, anche se fosse stata migliore della
precedente, avevo tutto quello che mi serviva a Seattle. Non volevo abbandonare
tutto, non volevo abbandonare Sharon, la mia amica di sempre.
Pensavo solo a ciò che desideravo io
senza pensare agli altri… ero egoista… una parte di me lo sapeva e alimentava
questo lato di me, ma l’altro lato non voleva ammetterlo e cercava delle scuse
per giustificarsi anche se inutilmente.
Sharon mi parlava con una certa
sicurezza, la sicurezza che la stessi ascoltando e invece ascoltavo solo me
stessa, che gridavo disperatamente aiuto dentro di me ma senza ricevere alcuna
risposta.
Non si accorse di nulla e proseguì
nel suo racconto che, molto probabilmente, riguardava il sogno che la scosse
quella notte, o almeno, la routine giornaliera prevedeva questo.
-
“Allora, in fondo
alla strada, vidi un estraneo che si avvicinava e me con aria minacciosa così
poi iniziai a scappare per la paura e gridavo, gridavo come le matte!
Giustamente mi voltai per cercare di capire chi fosse e, con un rapido scatto…
ehi!! Ma mi stai ascoltando o no?!?” disse un po’ scocciata come per farmi
notare che le sue parole erano preziose e non poteva sprecarle per parlare al
vuoto.
-
“Ahahah, bella
questa Sharon, lei non può ascoltarti perché cerca di capire da dove venga quel
rumore di vento… se vuoi ti aiuto io a capire... è il vuoto nella sua
testa!!!”esclamò una voce snob e sicura di sé.
Era lei, Tasha, la persona che più
di qualsiasi altra mi era indifferente anche se, per qualche motivo a me
sconosciuto, io non ero così indifferente a lei.
Non che mi importasse più di tanto
capire il perché mi odiasse ma cercare una risposta sembrava un ottimo svago
per la mente. Non ricordavo nessun evento in particolare, era sempre stata lei
a rivolgermi la parola, o meglio, l’insulto, anche la prima volta che la vidi.
A scuola, lì la vidi per la prima
volta… Questo era alquanto strano in quanto mia “concittadina”.
La sua prima presentazione fu molto
chiara.
-
“Hey tu,
ascoltami bene: Tu. Non. Sei. Nessuno. Chiaro? Se mi darai fastidio sappi che la pagherai cara”
disse.
Lo ammetto, ci rimasi un po’ male.
Credo che il motivo del mio sconforto sia stato proprio il fatto di non aver
fatto niente per essermi meritata una conversazione del genere.
Ovviamente Sharon era con me ed è
esattamente da quel giorno che non la sopporta.
Non era ancora iniziata la giornata
e avevo già incontrato delle difficoltà, perché mi odiava tanto?
Cercai di sforzarmi ma nada de nada,
niente, il vuoto totale.
-
“Smettila di fare
l’idiota! Sei solo gelosa!” disse Sharon in mia difesa ma soprattutto per sua
soddisfazione.
Aveva alzato la voce per la rabbia
ma non se ne accorse nessuno lì in stazione. Ognuno parlava per conto proprio
creando così un grande mormorio generale.
-
“Gelosa io?!? Di
cosa? Del vostro stupido gruppo e di quelle ridicole rose blu tatuate sul
vostro corpo malriuscito? Ma per favore!” disse con aria strafottente.
Mentre Sharon stava per metterle le
mani addosso, una manona fredda e resistente si poggiò sulla sua spalla,
fermandola nel suo intento di fare Tasha a pezzi.
-
“Litigate anche
l’ultimo giorno di scuola? Finiremo l’anno in bellezza allora...”
Quella voce... così familiare e così
calda… La conoscevo da così tanto tempo che avevo quasi dimenticato la sua
particolarità, forse me ne rendevo conto ora che sapevo che tra qualche giorno
non l’avrei più sentita se non da un freddo e distaccato cellulare.
-
“Ha iniziato lei!
Non la difendere solo perché ti piace darmi torto! Uffa...” sbuffò Sharon.
Si comportavano come dei bambini
mentre io, quella che si era beccata l’insulto, non battevo ciglio, non mi
interessava di cosa stessero discutendo ma mi interessava l’arrivo di Felix a
fermare in tempo una lotta che, secondo Sharon, sarebbe finita con un cadavere…
e certo non parlava del suo.
Il mormorio continuava ad aumentare
ed io fissavo Felix, il mio amico del cuore.
Amico del cuore… Questa parola la
usavamo dalla scuola elementare, ci eravamo sempre reputati tali nonostante i
nostri 2 anni di differenza. Già… Ora io e Sharon abbiamo 17 anni e lui 19,
esattamente come mio fratello Axel, suo compagno di comitiva. Uscivano la sera
e tornavano la sera del giorno dopo, potevi vederli solo in 3 condizioni dopo
il rientro: sbronzi, con delle borse sotto gli occhi oppure, l’ opzione più
tranquillizzante, era vederli lucidi ma con la pancia piena di cibo cinese o tailandese.
-
“Ellen, perché mi
fissi? Ho qualcosa in faccia? Mi trovi diverso per caso?” disse all’improvviso
inarcando le sopracciglia in modo strano, sembrava quasi un cartone animato.
Avevo visto quel volto migliaia di volte ed
ogni volta qualcosa cambiava rendendolo sempre più affascinante e amichevole.
Sharon mi diceva spesso che parlavo
di lui come le persone normali parlano del loro fidanzato ma Felix non lo era,
era un amico ed era questo quello che volevo.
Non mi preoccupavo di apparire
stupida o goffa con loro, noi tre eravamo una famiglia: io, Sharon e Felix.
La mia mente era piena di pensieri
che non facevano male, Fel era il mio antidolorifico migliore e lo adoravo per
questo, o meglio, anche per questo.
Mi accorsi che stavo pensando troppo
e il tempo che era passato per rispondere era troppo così, cercai di
affrettarmi nella risposta.
-
“No no, niente di strano... Stavo solo…
pensando” dissi sbuffando… Non volevo dare l’impressione di essere preoccupata
ma, infondo, lo ero eccome, non avevo ancora pensato a nessun modo per
avvertirli della mia partenza improvvisa.
-
“Tu che formuli
un pensiero? Attenta Ellen, non sforzarti troppo altrimenti ti esploderà la
testa!”.
Arroganza, questo odiavo di più in
lei, ma era il minore dei miei problemi, quasi insignificante direi, ma non
potevo pensare con lei che mi ronzava attorno come una mosca fastidiosa. Il
mormorio si trasformò in un enorme baccano nella mia testa, ogni minimo rumore
mi perforava i timpani e alla fine, stremata, scoppiai in un urlo quasi
disumano:
-
“Ascolta, non mi
importa se ti reputi la persona più bella e intelligente del mondo, ora mi
importa solo riflettere e non riesco con te che mi insulti continuamente e con
questa gente che urla come se fossero tutti sordi quindi, non hai proprio
nient’altro da fare che darmi fastidio e starnazzare nel mio orecchio? Perché
non vai a fare l’oca da qualche altra parte di questa stupida stazione?”.
Tutti si voltarono verso di noi. Avevo la
piena visione di tanti tipi di espressione umana. C’era chi era incuriosito da
quelle urla, chi era rimasto offeso dalle mie parole, chi aveva chiaramente
stampato sul viso l’espressione “questa è pazza” e chi era sconvolto dal mio
modo di rivolgermi a Tasha, la più popolare ragazza che, secondo lei, “aveva
più chance di resistere in questo posto di sfigati”. Purtroppo me ne resi conto
troppo tardi, forse, avevo urlato troppo, ma le mie urla da pazza psicopatica
diedero i loro frutti, infatti Tasha si allontanò senza fiatare, mostrando solo
il suo disdegno alle sue compagne che la seguivano ovunque come dei cagnolini.
Accanto a lei sembravano delle
sagome senza volto e senza nome che non godevano del diritto di vivere per
paura di oscurare la loro ape regina anche se, a Tasha non importava granché di
loro. Eppure erano delle belle ragazze, non sapevo come si chiamassero e non mi
interessava perché mi davano fastidio, mi dava fastidio il fatto che la
venerassero così senza un motivo.
Erano patetiche e non se ne
rendevano conto. La popolarità può dare alla testa ma forse a loro non importava,
bhè, peggio per loro.
Pensavo, pensavo e ripensavo ai loro
comportamenti non capacitandomi del fatto che avevo urlato attirando
l’attenzione. Quando me ne resi conto era tardi, tutti mi stavano fissando. No, no, NO! Odio essere al centro dell’attenzione!
Trasalii, avevo gli occhi spalancati, respiravo con cautela come per non
fare rumore e mi guardavo attorno con la testa bassa come se volessi coprirmi.
Volevo sparire, andate dall’altra parte della Terra, teletrasportarmi,
diventare invisibile, tutto ma non rimanere lì.
Sharon e Felix rimasero a bocca
aperta non capendo da dove arrivasse tutta quella rabbia che mi aveva fatto
esplodere in quel modo anomalo. Non mi era mai capitata una cosa del genere, mi
ero sentita come la dinamite, esplosiva e senza controllo.
Il silenzio che si sentì subito dopo
il mio sfogo era quasi agghiacciante ma, fortunatamente per me, non durò molto, pochi secondi e tutti si
voltarono, ricominciando a parlare in un tono accettabile come se avessero
afferrato il mio “rimprovero” ma, molto probabilmente, parlavano a bassa voce
per non farsi sentire da me: la pazza che, per precisare aveva un nome, il mio:
Ellen Fox, un nome che si sarebbe sentito molto nominare in giro in quei
giorni.
Voi che ne pensate? Ne vale la pena continuare? Bhè sappiate che sto già lavorando al secondo quindi mo ve lo beccate!!! =P alla prossima!