La Vita Nova.
Capitolo II - parte I
Non aveva chiuso occhio quella notte. Non solo perché aveva dovuto
dormire per terra, dato che aveva insistito tanto
affinché la ragazza dormisse sul suo letto, se così avrebbe potuto chiamarlo,
ma perché la scoperta che aveva appena fatto non gli dava pace. Non aveva mai
pensato che quel suo folle gesto, quel giorno, non solo avrebbe rovinato la sua
esistenza, ma anche quella di altre persone. Se solo la giovane Giry non
l’avesse portato via, se solo quella notte la gendarmeria l’avesse trovato,
quella ragazza ora avrebbe ancora avuto la sua famiglia, forse; non avrebbe
ucciso altre persone; non avrebbe spaventato a morte tutti coloro
che abitavano al Palais Garnier; non
avrebbe rischiato di rovinare la vita della sua amata Christine, né quella del
Visconte.
Non sarebbe diventato ciò per cui tutti lo ricordavano e temevano: il
Fantasma dell’Opera.
Guardò la ragazza che dormiva dall’altra parte della stanza,
raggomitolata in posizione fetale, con il piccolo Dante accoccolato al suo
fianco. Sembrava che il ricordo dei suoi genitori non l’avesse toccata, almeno
non durante il sonno. Aveva un’espressione rilassata e distesa, e non riuscì a
non pensare che fosse cresciuta bene. Chissà, però, quanto dolore anche lei
aveva provato col tempo e quanto ancora ne provava a causa sua. Sempre e solo a
causa sua. Non c'era persona che avesse avuto a che fare con lui e che non
avesse sofferto per averlo conosciuto. Possibile che riuscisse solo a portare
dolore a chi gli stava intorno? Possibile che non potesse vivere una normale
vita senza che facesse del male, anche involontariamente?
Sì, sono proprio un mostro.
Un mostro... era così che lo chiamavano,
all'Opera. Un mostro, il Figlio del Diavolo. Colui che
aveva infestato il Teatro, che continuava a seminare il terrore tra le
ballerine e i manager, a minacciare chiunque se non avesse fatto quello che lui
comandava.
Aveva ingannato, sedotto, ucciso.
Era un mostro, dentro e fuori. Sentiva ancora vivide le urla di
terrore che avevano riempito la platea dell'Opera, quando la sua ingenua
Christine gli aveva tolto la maschera davanti a tutti. La maschera che
nascondeva la sua deformità, ciò che l'aveva condannato a vivere una vita
segregato sotto terra, lontano dal mondo, lontano da tutti. Il regalo peggiore
che Dio potesse fare ad un'anima dannata era spettato
a lui.
Oh, ricordava lo sguardo di compassione che aveva acquisito la giovane
cantante la prima volta che gli aveva visto il volto sfigurato. Compassione... L'ultima cosa che le avrebbe voluto vedere in viso. Non
voleva compassione, non voleva la pietà di nessuno!
Voleva solo essere accettato per quello che era, amato se non fosse significato
chiedere troppo per uno come lui.
Si girò sulla schiena, guardando il soffitto in
legno nella penombra. Non sarebbe rimasto lì, non ce la faceva. Sarebbe
scappato dal ricordo di Christine, di quella ragazza, da Parigi. Se ce l’avesse fatta avrebbe lasciato anche
Quando si alzò dalla sua posizione per prendere l'uscita e andarsene
definitivamente, però, non aveva fatto i conti con il buio e con il fatto che
non ricordasse che davanti alla sua strada c'era in mezzo il tavolo. Ci andò a
sbattere contro, facendo cadere qualcosa per terra. Maledicendo la sua
stoltezza, si voltò verso la ragazza per vedere se l'avesse svegliata. Ed ebbe
un tuffo al cuore quando si accorse che i suoi occhioni vispi lo stavano
osservando.
«Dove vai?», gli domandò, con la voce impastata dal sonno.
«Via, lontano da qui.», disse, mentre raccoglieva ciò che aveva
mandato all'aria. «E' meglio così.»
Phénix si stropicciò gli occhi, assonnata, e
si mise a sedere, guardandolo curiosa. «Non è ancora l'alba, Erik.», disse,
reprimendo uno sbadiglio. «E poi ti ho detto che non
mi crei alcun disturbo. Mettiti a dormire, dai. Domani ne parliamo
meglio.»
Erik chinò il capo, chiudendo gli occhi per tranquillizzarsi un poco.
Quella donna gli scombussolava tutto il sangue freddo di cui era sempre andato
fiero. L'Erik di un tempo le avrebbe detto senza
troppi giri di parole di non impicciarsi negli affari suoi, sibilandole che lui
avrebbe fatto quello che più gli andava a genio. Ma la ragazza lo spiazzava con
la sua gentilezza e nel contempo la sua decisione, per
non parlare della consapevolezza di averle rovinato tutto, senza effettivamente
volerlo. Se solo avesse saputo…
Si voltò di scatto, quasi scottato quando sentì una mano della giovane
che prendeva la sua, trascinandolo verso il letto. «Tu
ora dormi qui. E non voglio sentire repliche.», gli
disse fermamente. «Il tuo gira e rigira per terra non mi ha fatto praticamente chiudere occhio. Dormirò io sul pavimento, ci
sono abituata.»
Senza avere la forza mentale di andarle contro, obbedì come un bambino
alle raccomandazioni della propria madre, e si distese su letto di paglia.
Riuscì a prendere sonno solo dopo parecchio tempo, e i sogni che fece non furono per niente tranquilli, come del resto quelli
delle ultime nottate.
Quando si svegliò il giorno dopo il sole era
già alto nel cielo da parecchie ore. Si accorse, senza stupirsi più di tanto,
che Phénix non c'era. Probabilmente era scesa in città per racimolare qualche
soldo e comprare qualcos'altro da mangiare anche per lui. Si guardò intorno e
non poté non sorridere quando vide Dante accovacciato sull'uscio della porta,
come se fosse di guardia e non gli permettesse di uscire. E
infatti, eccolo lì che gli miagolava contro quando lo vide avvicinarsi
per andarsene. Sembrava quasi che la giovane gli avesse raccomandato di
trattenerlo dentro con tutte le sue forze.
Ma Erik si era ripromesso di lasciare quel posto all'alba ed era già in
ritardo con la sua tabella di marcia. Ne avrebbe approfittato in quel momento
che lei non c'era e non avrebbe dovuto sopportare quello sguardo che gli
gravava addosso come un macigno sulla schiena. Le lasciò, nascosti dentro il
mobile dove custodiva gelosamente
Purtroppo per lui quando uscì dal mulino se
la ritrovò di fronte, più che furibonda.
La ragazza, appena si accorse di lui, sussultò per lo spavento. Ma non lo guardò con gentilezza come la serata precedente,
anzi. Sembrava lo volesse uccidere con lo sguardo da un momento all'altro. «Tu. Via da casa mia. Ora.», gli
sibilò incollerita, assottigliando gli occhi e facendolo fremere.
Che avesse capito? «Lo stavo già facendo,
mademoiselle.»
«E non chiamarmi mademoiselle!», sbottò lei, irata. «Mi
sembrava di essere stata chiara ieri. Non ho mai avuto
problemi con la giustizia, non ne voglio avere ora!» Erik
sospirò, capendo le sue parole. «Non sei stato sincero
con me. E non ho intenzione di aiutare il famigerato Fantasma dell'Opera
offrendogli riparo in casa mia.»
Quelle parole lo colpirono come mille lame al petto. Cosa poteva aspettarsi? Che non lo avrebbe saputo? Che una
volta scoperto avrebbe continuato ad essere gentile
con lui? Sciocco. Era odiato da tutti, anche da chi non l'aveva mai visto ma lo conosceva solo per sentito dire. Era ovvio che
la ragazza stesse reagendo così, non poteva biasimarla di certo.
Senza guardarla negli occhi, l'uomo le sussurrò un “Grazie” e se ne
andò, tra i miagolii di disappunto del piccolo Dante e lo sguardo spaventato di
Phénix. Aveva dato ristoro ad un assassino spietato,
ricercato ovunque in tutta Parigi. Non poteva permettersi di passare come sua
complice, mai. Ecco dove aveva già visto quella maschera: era l'immaginazione
dei racconti che giravano su di lui ad averle dato un senso di deja-vu.
Lo guardò sparire tra la campagna, lasciandosi sfuggire un sospiro. Al diavolo la compassione che aveva provato per
lui la serata scorsa, al diavolo il sincero dolore che gli aveva letto negli
occhi come un libro aperto. Non sarebbe andata a denunciarlo,
quello no. Ma non voleva nemmeno avere altro a che
fare con lui. Fortuna che aveva sentito i pettegolezzi di due uomini che
parlottavano tra di loro, ricordandosi il giorno dell'incendio e la descrizione
del Fantasma. Ormai in città non si parlava d’altro dell’incendio di qualche
settimana prima.
L'aveva rischiata grossa, accidenti a lei ed
alla sua disponibilità.
Rientrò nella sua abitazione diroccata, posando il cibo che aveva
comprato al mercato per lui. Poi guardò il gattino, che le si
strofinò sulla caviglie. «Vuol dire che oggi
mangeremo come due ricconi borghesi, Dante. Contento?»
Il gatto miagolò in risposta e lei gli
sorrise, ora più tranquilla.
Quel pomeriggio, Phénix decise di andare a fare visita alla sua unica
parente in vita, l'adorata nonna. Aveva bisogno di confidarsi su quanto
accaduto, di aprirsi come faceva sempre con lei, sapendo che l'avrebbe capita e
le avrebbe detto cosa fare e non fare.
La nonna era una signora ormai ottantenne, ma con la mente e lo
spirito di una giovane, che abitava in una vecchia mansarda sopra un locale
frequentato da gente di poco buono, in uno dei quartieri desolanti di Parigi.
Quella donna aveva una memoria di ferro, capace di ricordare fatti avvenuti
anche decine e decine di anni prima, quando lei era
ancora nel fior fiore della gioventù; ed era colta, molto colta, per essere una
povera zingara veggente. La giovane adorava sentirsi raccontare tante storie
antiche e ormai dimenticate: storie di donne speciali come lei, storie di magia
ed illusione, sulle vere streghe esistite in passato,
su quello che avevano dovuto sopportare, su leggende e miti, avvenimenti
misteriosi ed affascinanti, o solo aneddoti sui suoi defunti genitori. Quando
era piccola ricordava perfettamente quanti spaventi
quella donna le facesse prendere con alcuni di quegli arcani racconti, e quanti
incubi dovesse sopportare la notte, quando ci rimuginava sopra. A ripensarci le
veniva solo una voglia matta di ridere e di prendersi in giro per l'ingenuità
propria di una bambina. Ora sapeva che tutte quelle che credeva
favole avevano un fondo di verità e non erano solo storielle campate in aria
per far lavorare la mente di una piccola ragazzina ingenua.
Trovò la nonna seduta attorno ad un tavolo circolare, intenta a
leggere dei tarocchi nel silenzio totale. I capelli lunghi e grigi erano
ritirati in un chignon intrecciato perfettamente e
Phénix, per quanto si sforzasse, non ricordava di averla mai vista con un'acconciatura
diversa. Le dita delle mani, ricche di anelli in oro e pietre preziose presi
chissà dove, si muovevano lentamente sulle carte, mentre lei, con gli occhi
chiusi che spuntavano da sotto i ciuffetti di sopracciglia ingrigiti, sembrava
pensare e concentrarsi, per captare meglio quello che le stavano tacitamente
dicendo.
«Sapevo che saresti venuta, piccola mia.»
La giovane sussultò appena sentì la voce roca della nonna, ma sorrise
accorgendosi che l'aveva riconosciuta, come sempre, senza il bisogno di doverla
guardare.
«Disturbo?», le chiese, muovendo qualche passo.
«Neanche ti rispondo, Phénix.», rispose
burbera l'altra, aprendo finalmente i suoi occhi neri e scrutandola fino in
fondo. «C'è qualcosa che ti turba, ragazza mia. Me ne
vuoi parlare?»
Phénix annuì e le raccontò dell'incontro della sera prima, di quanto
fosse triste quell'uomo, dell'ospitalità che gli aveva
offerto e della scoperta sulla sua vera identità.
La nonna rimase ad ascoltarla ad occhi
chiusi, per assimilare meglio quelle parole, senza interromperla. Fu solo
quando il racconto della nipote concluse che si decise
a riaprire gli occhi e a puntarli sulle carte sotto il suo naso. Ne prese una dal mazzo e la fece vedere alla giovane. «
Come sempre le frasi sconclusionate dell'ava avrebbero avuto senso
unicamente in futuro; per ora le sembravano solo campate in aria, prive di un
reale significato. Ma, tuttavia, ciò che le disse non
la scoraggiò. Il solo fatto di essere andata da lei in qualche modo l'aveva
aiutata a rincuorarsi ed era convinta che la sua saggezza le
avrebbe indicato la via giusta da seguire, come accadeva da anni a
quella parte.
«Starò attenta, nonna. Lo sono sempre stata, lo sai.»
La donna si lasciò sfuggire un sorriso e
tutte le rughe che le solcavano il vecchio volto si fecero ancora più profonde.
«Sì, piccola mia, lo so. Ora va'.
Il Cambiamento sta per avvenire e tu devi essere forte e pronta per affrontarlo
al meglio.»
Come tutte le sere, Phénix si era esibita sulle sponde della Senna con
una danza antica e sensuale, lanciando occhiate birichine
a tutti i passanti che non potevano fare a meno di osservarla mentre muoveva
provocatoriamente i fianchi, o agitava il suo tamburello per darsi il ritmo. Altri
invece gettavano occhiate scettiche e disgustate verso la sua direzione, ed acceleravano il passo pur di sorpassarla velocemente.
Purtroppo aveva dovuto abbandonare rapidamente il suo pezzo di strada
quando vide un gruppo di soldati puntare dritti verso
di lei, intimandole di andarsene.
«Ora non si può neanche intrattenere Parigi con una danza?», aveva
chiesto infastidita ad un ufficiale, troppo preso in
realtà a bearsi della sua vista, che a prestarle la dovuta attenzione.
«Mi dispiace doverti rovinare la festa, zingara, ma le regole sono regole.», le rispose, con un beffardo ghigno sulle labbra.
«Magari potresti intrattenere me, che ne dici?»
Phénix neanche gli rispose e dovette trattenersi pur di non sputargli
ai piedi e manifestare tutto il suo disgusto. Detestava quando la consideravano
una donna che avrebbe anche venduto il suo corpo pur di guadagnare più soldi.
Era vero, non aveva uno stipendio, non un lavoro, non una vera casa... Ma non si sarebbe mai abbassata a tanto. Si rispettava
troppo per darsi così al migliore offerente.
Nel tragitto verso il mulino, quella sera, si sentì costantemente
osservata e seguita. Parecchie volte si voltò indietro, fermandosi, per
osservare meglio che non ci fosse qualcuno appostato in qualche angolo
nascosto; ma ogni volta non videva nessuno. Diede la colpa al ricordo di quell'uomo, del fantasma,
che la rendeva suscettibile più di quanto già non fosse. In cuor suo temeva che
quell'uomo volesse vendicarsi su di lei perché lo aveva cacciato, anche se
dall'altra parte non riusciva ad immaginarsi una scena
del genere, non dopo aver visto quello sguardo malinconico e vuoto nel suo
stesso viso. Le sembrava impossibile che un uomo potente e temuto come lui
potesse essersi ridotto ad un povero disgraziato che
non sapeva dove andare.
La stradina di campagna era desolata, come sempre. Il sole era già
scomparso sull'orizzonte, e il cielo era uno sfoggio incredibile di sfumature
rosse ed arancioni. Poteva ben vedere il mulino che si
stagliava davanti a se come una sagoma scura, in penombra. Probabilmente, se
non fosse stata particolarmente vigile in quel momento, si sarebbe anche
lasciata andare a dei commenti sul paesaggio pittoresco che aveva di fronte.
Sentì dei passi lenti e quasi impercettibili dietro di lei, di
qualcuno che nonostante stesse cercando di nascondersi alla sua vista non
poteva fare a meno di spezzare i ramoscelli e le foglie secche sul terreno.
Phénix ebbe un brivido di paura; in quei pochi anni in cui abitava da sola non le era mai capitato di dover far fronte a qualcuno
che voleva approfittarsi di lei o che voleva rubarle i suoi pochi averi.
Abitare in una comunità era totalmente diverso, e decisamente
più sicuro. E lei, quando li aveva lasciati, era ben consapevole di quello che
poteva rischiare. Non avrebbe più avuto la sicurezza del gruppo, ma sarebbe
stata sola con sé stessa.
Affrettò il passo, veramente spaventata
quando sentì quello del suo inseguitore farsi più forte e veloce, per evitare
che scappasse. E si mise a correre più veloce che poté
nel vedere che c'era anche un altro uomo, uscito dalla vegetazione, che la
stava puntando. Nella foga della corsa perse l'equilibrio su una piccola buca
del terreno e rovinò a terra, sbucciandosi i palmi delle mani e sporcandosi i
vestiti di terra. Riuscì a tirare un calcio in pieno viso al suo assalitore,
che rimase dolorante e stupito per qualche attimo; l'altro, invece, le era piombato addosso, facendola cadere nuovamente e
bloccandola con il proprio corpo.
«Cos'è? Non scalci più, bambina?», le sibilò
l'uomo, quello che aveva tutta l'aria di essere un disgraziato peggio di lei,
sporco e barbuto.
«Lasciami stare, animale!», gridò, cercando di liberarsi senza però
combinare niente. Se solo fosse riuscita ad afferrare il suo coltello...
I due la presero di peso, trascinandola con fatica verso il mulino. Il
piccolo Dante, vedendo due estranei con la sua padrona, graffiò l'aria con gli
artigli, miagolando impaurito.
«Bene, bene, bene, Phénix.», disse l'uomo che l'aveva atterrata.
«Vediamo cosa hai qui.»
L'altro, con ancora una mano sul naso sanguinante, colpito dal calcio
della giovane, mandò all'aria tutto il contenuto del mobiletto in legno, erbe riposte con cura nei loro cofanetti,
unguenti, e altri piccoli oggetti, compreso il suo adorato libro. «E questo cos'è?», chiese perplesso, sfogliandolo
distrattamente.
«Niente che uno stupido come te possa capire.», rispose Phénix, che si
beccò uno schiaffo in piena regola per aver osato troppo.
«Hai la lingua lunga, bella zingarella. Che
ne dici se te la taglio?»
Phénix cercò di divincolarsi, facendo esasperare l'uomo che la teneva
stretta.
«Vuoi stare ferma o no?», le gridò, facendole sbattere il capo contro
la parete.
Stordita, la ragazza non si rese conto che la testa le stava
sanguinando; e men che meno si rese conto che l'altro
assalitore aveva trovato qualcosa che neanche lei sapeva di avere.
«Ehi, guarda un po' cosa teneva nascosto questa strega?», disse
stupito e allegro, sventolando banconote di alto valore. «Però, ti tratti bene,
piccola, per fare questa vita.»
Phénix sbatté le palpebre, confusa. «Quelli...
Quelli non sono miei.»
«Ah, no?», le ripeté uno dei due, sarcastico.
«Beh, comunque ora sono in mano mia!»
«Non... Sono miei…»
Non riuscì nemmeno a formulare un pensiero logico, che l'ennesimo
colpo in testa le fece perdere i sensi.
Continua...
Grazie mille a leschatnoir per il commento e per averla aggiunta
tra le seguite! Spero che continui a piacerti! :)
Un saluto!
Marta.