Mancava meno di una settimana a quei
benedetti
esami di riparazione, ma purtroppo mia sorella non ne avrebbe preso
parte, non
avrebbe potuto rimediare i suoi pessimi voti, non ora.
Una distrazione, un semplice errore.
Mia sorella
non era più con me, non mi avrebbe più potuta
rassicurare, consolare, o
solamente insultare la mia timidezza. Lei che era presente sempre,
anche mentre
mi sfuriavo con il cuscino, quando litigavo con i miei nonni, lei era
lì,
pronta ad ascoltare senza giudicare. Ma ora, mi sentivo persa. Lei
costretta a
stare sdraiata su di un letto ospedaliero, senza sapere che succede
intorno,
senza aprire gli occhi. Bloccata in un sonno continuo. I dottori
avevano detto
che si sarebbe ripresa, sapevo che non se ne sarebbe andata, troppe
cose la
legavano qui. Lei era forte e determinata. E non avrebbe mai lasciato
sole le
sue sorelle. Mai.
La andavo a trovare tutti i giorni,
parlavo senza
aspettare una risposta, senza versare una lacrima, come faceva mamma
quando la
vedeva. No , non piangevo. Sapevo cosa mi avrebbe detto, mi avrebbe
ripreso per
la mia debolezza. E non volevo essere debole. No, non più.
Sdraiata sul suo letto pensavo e
ripensavo. Cosa
avrei fatto ora? Non lo sapevo nemmeno io.
Presi il computer e andai sulla sua
cartella.
Lessi i sui scritti, mai finiti.
Scriveva su tutto. Sulla sua vita,
sui suoi sogni.
E per la prima volta sperai riuscisse ad esaudirli.
Passai più di tre ore a
leggere le storie
incompiute. Aveva finito forse qualche one shot, ma erano talmente
tanti racconti
che non mi accorsi nemmeno.
Lessi e rilessi. Fino a quando non
trovai la
biografia che stavamo scrivendo insieme. Aprì la pagina,
sicura che non avrei ritrovato
il sorriso ,leggendo.
“L’acqua
che
ho tenuto tra le mani in tutto questo tempo sta diventando troppo
movimentata,
esce dai buchetti tra le dita, fino a quando non rimarrà
altro che una mano
bagnata, con delle gocce che si asciugheranno presto al sole. Ho perso
tutti i
miei ponti, e sono stanca, distrutta da non so nemmeno cosa, per
ricostruirne
di nuovi.”
La frase che più di tutte
mi aveva colpita. Ecco,
mi sentivo allo stesso modo. Ma in cuor mio sapevo che avrei dovuto
ricostruire
nuovi ponti. Per me, ma soprattutto per lei.
-Kristy! Sveglia! Devi andare
a scuola- eccolo, il giorno che avrei evitato volentieri arrivasse.
Il primo giorno di scuola. In
più non avevo
nemmeno i compagni dell’anno scorso. E no, ero stata
bocciata. Fan culo.
-arrivo- sbuffai tirando indietro le
coperte che
mi avvolgevano e mi facevano sentire quello stato di tepore e riposo.
Andai in bagno, cercando di rimanere
sveglia e
sopprimendo i continui sbadigli. Guardandomi allo specchio mi accorsi
di quanto
sembravo distrutta. Ero un mostro. Le occhiaie diventavano violacee, le
labbra
erano secche e screpolate, e la pelle giallastra sembrava malaticcia.
Lavai il viso e i denti. E mi
ridiressi in camera.
Sedetti sullo sgabello di Lisa, dove
era solita
truccarsi la mattina. E presi i suoi trucchi. Non avevo deciso cosa
fare fino a
quando non accesi il piccolo lampadario.
Correttore fondotinta e tanto nero
sugli occhi. Mi
pettinai con una coda, raccogliendo la frangia in una bombatura.
Lucidalabbra
ed ero pronta.
Decisi di andare a scuola a piedi.
Camminare mi
faceva bene, anche nei giorni nuvolosi e umidi come questi, mi aiutava
a
pensare, e pensando non faticavo ad arrivare a scuola in orario. Andai
all’entrata, e vidi le mie ex compagne di classe che
parlavano animatamente.
Non mi riconobbero per mia fortuna. Quindi sgusciai fino al portone
senza
essere riconosciuta da nessuno. Molti mi guardavano, certi cercavano di
capire
chi fossi, stupita da tanta attenzione e dal fatto che non
arrossì, alzai lo
sguardo e i miei occhi incrociarono delle irridi azzurre, due occhi
enormi mi
fissavano interessati. All’inizio rimasi positivamente
sorpresa, poi ripensai a
tutto quello che avevo passato e un moto di disgusto si fece sentire
nel mio
stomaco. Quel ragazzo era di bell’aspetto, occhi celesti come
il cielo, e
capelli biondo cenere, la carnagione era abbronzata, e vestiva con una
maglietta nera e jeans lunghi. Mi guardava come se stesse aspettando
chissà
che, e dopo si voltò deluso.
La campanella suonò e
riprendendomi dai miei
pensieri, entrai senza esitazione.
-scusi, la seconda M?- domandai alla
segretaria
dell’istituto, lei mi sorrise e mi indicò la
classe, le informazioni che mi
diede erano semplici, anche perché conoscevo la scuola
relativamente bene ma il
suo accento mediterraneo resero il compito alquanto audace.
Entrai nella classe senza troppe
cerimonie, e
andai a prendere il banco in fondo all’aula. Era un banco
rovinato ed anonimo,
perfetto.
Mi guardarono tutti, sembravano
imbambolati, come
dei bambini che guardano il giocattolo nuovo ma che non possono
toccarlo per
paura che si rompa. Ecco la mia sensazione era quella, io ero il
giocattolo,
fragile e delicato. Una sola parola rivoltami mi avrebbe fatto
avvampare e
tirare giù la testa. Ma poi ricordai le parole del testo di
mia sorella.
“Se
la
timidezza è un tuo difetto, basta combatterla.
Forse
troverai che nei tuoi pregi c’è anche
l’audacia!”
-ciao, io sono Silvia, tu sei
nuova?- domandò al
mio indirizzo una ragazzina dai capelli neri corvini, raccolti in una
coda di
cavallo, due occhi marroni e un boschetto della felicità
sopra di essi. Ovvero
due enormi sopraciglia.
-no, sono stata bocciata, ero della
seconda M
dell’anno scorso- dissi e mi stupì del tono
incolore che usciva dalla mia
bocca. Le mie corde vocali non avevano mai usato un tono simile, era
strano.
La ragazzina si guardò in
giro, e con voce mielosa
riportò la mia attenzione su di sé.
-quindi tu vai male a scuola?-
chiese trattenendo
una risatina, una risatina che avrei volentieri fatto tacere con un
pugno.
Purtroppo i miei piani vennero
rovinati
dall’entrata del professore. Il professore di matematica,
Stefano Rioni. Un
uomo sulla quarantina, capelli neri e occhi del medesimo colore. Un
uomo che
detta con tutta sincerità farei sparire dalla faccia della
terra.
-bene ragazzi, seduti- disse con la
sua r moscia,
naturalmente nessuno lo ascoltò, e lui timidamente
ripeté più volte.
Dopo ben dieci minuti i ragazzi si
sedettero ai
loro posti. Lui andò alla cattedra e iniziò a
fare l’appello. Era impensabile
come quell’uomo balbettasse anche mentre diceva venti nomi,
di alunni che
probabilmente non si sarebbe ricordato nemmeno.
-ragazzi abbiamo nuovi compagni,
forza, Kristine e
Jason alla cattedra- chiamò me e un altro ragazzo.
Mi alzai di malavoglia, non avevo
voglia di avere
tutti gli occhi puntati su di me.
Mi stupì nel notare che
il presunto Jason era il
ragazzo biondo di poco prima, mi fissò di nuovo intensamente
e io ricambiai lo
sguardo a testa alta.
-bene, Jason vuoi presentarti tu?-
chiese il
professore, balbettando solo sull’ultima sillaba.
- d’accordo, mi chiamo
Jason Aire, ho appena
compiuto tredici anni, vengo dall’America precisamente da
Brooklyn. Mi sono
trasferito in Italia per problemi famigliari, e ora vivo qui da due
mesi. Sono
un anno più grande perché sono stato bocciato in
prima media. Spero di trovarmi
bene qui- il ragazzo era sicuro di sé, sapeva esattamente
cosa dire e teneva la
testa alta in ogni occasione ci avrei messo la mano sul fuoco.
-bene, invece ragazzi lei
è Kristine..- bloccai il
professore con la mano, lanciando uno sguardo molto, ma molto truce.
Poi finsi un colpo di tosse per
attirare
l’attenzione verso di me.
-grazie professore, ma penso di
potermi presentare
da sola-.
*** Spazio Autrice ***
Ciao a tutti! Spero che il primo capitolo sia stato interessante...
Questa è una storia che ho in mente da tempo... fatemi sapere se devo continuare a pubblicare i capitoli ...
Spero che sia di vostro gradimento e se potete (me che supplica in ginocchio) lasciate una recensione... Per Favore...:'(
Apparte questo ditemi se vi piace o no =)
Un bacio Litha