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Autore: DubheShadow    30/07/2010    1 recensioni
Ogni canzone degli HIM è come una storia. Una storia che
necessita di essere narrata, svolta come un nastro che viaggia per le
foreste di una fantasia ancora ignota. Le ambientazioni spesso
svieranno quindi dalla normale realtà, diventando
rappresentazioni tangibili di oceani di vino, in cui forse si
potrà raccogliere un angelo che bacia la primavera
nascente...
Ed è questo che cercherò di fare, aggiornando
pian piano questa raccolta (disomogenea per certi versi, visto che
presenta generi completamente differenti fra loro): dar voce e vita a
testi che sono poesie. All'interno è probabile che siano
presenti citazioni più o meno dirette ai testi delle canzoni
prese in considerazione, in quanto ogni capitolo rappresenta una
song-fic sviluppata in racconto.
Genere: Dark, Malinconico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 Qualcosa, oltre la porta socchiusa, si smuove palpitante fra le mani di un uomo. Si sente lo stridere di carta velina che si lacera lenta. In sé, è un innocuo strappare per creare nuove opere dal sapore dolce di una prelibatezza presa dal pasticcere lì affianco. Ma lo sfrigolio che lo segue… sa di dolore. Bianco dolore dello spegnere di un sogno, come una candela finita in terra, caduta dal davanzale di una madre in pena per il figlio lontano, e schiacciata da una carrozza di passaggio.

 La porta è ancora chiusa, si vede solo un triangolo di luce allungarsi tetro in terra, proiezione dei pochi tratti d’aria che si sporgono all’interno del laboratorio. Il suo tenue riflesso mostra le fughe che dividono una lastra di pavimento dall’altra, le fa rilucere un poco, mostra le incavature dell’uscio legnoso, la maniglia lucida e accattivante, dorata. Bella perché forse mezzo dell’apertura di un mistero da svelare. Nel buio, si nota l’ombra appena più scura di una figura piccola e lieve, imperlata in una tunica in lino. Una bambina curiosa.

 Si avvicina, le pattine che scivolano silenziose, la veste che segue i movimenti con un ondeggiare leggero. Spia, con il respiro che s’accavalla ad ogni scoperta che i suoi occhi in esplorazione compiono. Un singulto che sa di verità taciute la scuote.

 Al di là, l’uomo assapora la carta sottile. L’avvicina al naso con bramosia, lascia che essa accarezzi le labbra grezze e screpolate, le palpebre chiuse ad acchiappare idee. Un’estasi malata che si consuma, e finisce quando il foglio fine viene gettato sull’impiantito. Esso compie un volo leggiadro, sosta in aria, vittima di correnti inesistenti, quindi si poggia portando con sé uno scampanellio lontano. Allora l’uomo prende una penna, la intinge nell’inchiostro e lascia che la mano scorra rapida sulla carta ingiallita. Scrive, scrive, narra la sua storia con desiderio. Non si ferma, e forse anche i polmoni sono bloccati dalla corsa che cerca di compiere, inesausto.

 Nella stanza c’è solo lui, i capelli un po’ radi sulla fronte ma ancora di un nero intenso, qualche ruga a incorniciare i tratti. La scrivania è già intrisa di scartoffie, mentre sul lato sono accumulati fogli puliti e calamai. Affianco ha una lampada che fa luce; posta in terra, ha un braccio in metallo che nella penombra pare stranamente opaco. L’intensità della lampadina è regolabile attraverso una rotella rossa, come a invitare di cercare la tonalità giusta per ogni racconto. Un paio di occhiali sono abbandonali lì affianco.

 Ma il pavimento, il soffitto, il resto della camera sono un colpo violento. Gabbie lugubre giacciono appese, le trame in ferro fitte come a imprigionare nuvole e nastri d’argento. E non sembrano fiori d’arancio, sprazzi di nubi, cuori argentati, i lampi che si scuotono e avvampano, lì reclusi nel tempo? Solo voliere ad ammobiliare il locale.

 L’impiantito è un cimitero. Scheletri di farfalle, senza ali, sono come addormentati, sopiti. Eppure nelle loro posizioni rigide si nota la sofferenza della morte, il sacrificio dolente di una vita che non avrebbero voluto abbandonare così presto. Sono le innocenti sacerdotesse di un culto segreto, e sperano ancora adesso, con gli occhi neri e lucidi aperti sul vuoto, che non venga mai rivelato. Fra le piastrelle scorrono rivoletti di sangue, macchioline rossastre e indistinte. Più in là, sono ammucchiate le loro ali: raggrinzite, lerce, talvolta sminuzzate in più parti, ormai senza una briciola vivida del loro vero colore. Smembrate.

 La bambina si sente mancare, stordita, avverte le lacrime solcarle le guance. Quelle lacrime portano il ricordo di giorni passati, cautamente intinte in episodi remoti, vibrano della rimembranza di voci lontane. Poi cadono, in goccioloni pieni che s’infrangono al suolo. Alcune sfiorano i cadaveri, quasi a voler abbeverare i loro visi rinsecchiti, senza sapere che il ricordo che esse portano, solo poche ore prima, avrebbe potuto far parte di un mistero più grande e perduto.

 

«Papà, papà! Guarda quante farfalle!» grida raggiante.

«Sì, tesoro, sono tutte per te.» L’uomo si aggiusta gli occhiali sul viso e la sua bocca si contorce in un sorriso sbieco. Ha portato la figlia in un enorme prato appena fuori la città. L’erba è alta, sembra non esser mai stata rasata, ma conserva tonalità fresche e delicate, come se si curasse da sé, giardiniera dai gusti pittoreschi e coltura accondiscendente al tempo stesso. Fra essa nascono decine di fiori delle più svariate specie che insieme fanno un caleidoscopio di colori che attrae chiunque, insetto o umano che sia. È un piccolo angolo di paradiso che si crea il suo timido posto nelle campagne, fra i campi arati di tutto punto. Campi che anch’essi hanno un sapore macchinoso, ferree code postume del centro abitato, dove il sapore del grano si mischia ai freni caldi dell’aratro, dove lo spaventapasseri è un gigante in metallo che percorre i sentieri rombando acutamente.

 Il prato invece è puro, limpido come il cielo che lo sovrasta, oggi azzurro e venato di nuvolette che sembrano gli sbuffi dei camini invernali per il sentore familiare che emanano. Il sole picchietta a sprazzi, è caldo sulla pelle, ma non duole: le ombre chiare delle nubi sono ripari fra cui saltellare per cercare riposo, e l’estate è lontana con la sua afa avvinghiante. Un vento sospira fra i fili d’erba, li fa frusciare, e rende ancor più lieta l’atmosfera d’amore. La piccina parte per tuffarsi nel suo cantuccio di natura.

«Aspetta, tieni» il padre le porge un retino dal manico rosa, comprato apposta per lei.

«A che serve?» chiede la bambina, sbigottita, percorrendo l’oggetto con lo sguardo.

«Per prendere le farfalle. Una volta fatto torni qua e le mettiamo nelle gabbie che ho portato da casa.»

«Ma, papà… sono così belle a volare lì sul prato! Perché le devo imprigionare?» mette il broncio. Non vuole far loro del male.

«Non succederà loro nulla,» continua l’uomo, quasi leggendole nel pensiero, un tono di voce fin troppo rassicurante ad accompagnare le sue parole «è per il tuo compleanno.»

«Il mio compleanno? È fra più di un mese!»

«Lo so. Noi verremo qua ogni settimana, e ne prenderemo un po’. Poi al tuo compleanno le libereremo tutte, e loro voleranno nel cielo colorando i tuoi splendidi dieci anni.» indica la volta celeste col dito, ma gli occhi sono come sempre posati sulla figlia che, pensierosa, ancora pondera la proposta inusuale.

 Lei si apre ad un sorriso. Il pensiero di un regalo tale la rende felice, e i dubbi di prima si dissipano come un fiocco di seta sciolto da una sarta. Prende il retino e si fionda nel campo, ridendo, gaia di quella giornata preziosa.

 Le farfalle sono davvero tante: ad ogni suo passo qualcuna si libra dal fiore su cui era posata, e si va ad aggiungere alle altre che danzano in aria. I colori brillano alla luce del sole, si creano quasi arcobaleni viventi, nugoli di creature venate dalle tinte dell’anima. Sotto, le formiche fuggono ai passi della bambina, s’infilano nei buchi del terreno a cercar rifugio, magari trascinando un pezzo di foglia o un chicco di grano. Delle coccinelle riposano pigre sui fili verde smeraldo, osservate da qualche ragno curioso che interrompe la sua tela per ammirarle; perdersi nelle loro macchiette nere, incastrate nel rosso ciliegia del manto, non è mai sembrato agli otto zampe un piacere che ne abbia di più dilettevole. Sopra, s’abbandona la penombra della fitta vegetazione, e si entra nel regno dei cieli: bombi, api e vespe si dividono i fiori in tanti capannelli, ognuno occupato a saccheggiare il suo nettare preferito. Lavorano con passione, a volte pare collaborando fra loro, i più arditi che spirano occhiate alle reginette del prato.

 Le farfalle… le farfalle sono fiori, se solo quest’ultimi avessero il dono del volo. Se si osservano bene, a pochi passi di distanza si possono trovare copie perfette. Un crisantemo blu saluta scuotendo la corolla la sua amica, dalle ali tinteggiate d’azzurro intenso, gli occhielli vicini alle punte dalle sfumature violette e contornate di nero. Questa in risposta gli vola affianco, carezzando con la zampa uno dei suoi petali carnosi. Di là, una camomilla lancia occhiate invidiose alla sua gemella alata, che metri più in su volteggia come un sole danzante. O ancora, al ciglio che s’affaccia alla strada asfaltata, il papavero gareggia in bellezza con una farfalla dalle ali enormi, di un rosso fuoco che ricorda un vino pregiato o le labbra cosparse di rossetto di qualche attrice famosa. Entrambi si dannano ad apparire i più belli: l’uno trattiene le sue gocce di rugiada per splendere ardente, l’altra s’atteggia a tango suadenti muovendo altezzosa le antenne sottili.

 La bambina ne ha acchiappate molte, ma ora è stanca di inseguirle. Vuole solo sdraiarsi fra l’erba, mettersi il cappello di paglia come cuscino ed osservare con occhi ammirati quel minuto mondo che tanto l’affascina. Restituisce il retino al padre, che è rimasto tutti il tempo appoggiato allo sportello della macchina a guardarla, forse pensando a qualche storia da riportare su carta. È uno scrittore, e la figlia ne è fiera, perché questo significa anche tante fiabe narrate alla sera.

 Una farfalla le si posa sul naso. Le ali sono appuntite, un po’ ricurve, sembrano fini come una tenda in raso. Le zampe le fanno solletico, mentre scivolano leggermente sulla superficie liscia della sua pelle, poggiandosi poi in una presa più salda. La piccina cerca d’incrociare gli occhi per agguantare tutte le sfumature d’acquamarina della creatura, che scorrono ondulate, sono le onde di un mare caraibico smosse dal passare di una sirena.

«Qual è il tuo segreto? Perché sei venuta proprio da me?» la voce della bambina esce in piccoli refoli dalla sua bocca, eppure ogni breve folata pare spingere la farfalla a volarsene via. Ma lei si aggancia meglio alla sua seggiola, piega il capo allungato da un lato, fissa gli occhi sull’umana con fare stupito. Quegli occhi neri sono pozzi di fata, gocce d’Empireo che racchiudono qualcosa di indecifrabile e strano a capire. Vedono il mondo enorme, più grande di quello che è, come uno specchio deformante ne carpiscono i sogni per racchiuderli nelle venature dei loro fievoli corpi.

«Quindi tu viaggi per le nostre menti? Non dire bugie. Ho visto… ho visto il mio incubo dell’altro giorno nelle tue ali.»

 Lei tace, e come stizzita riprende il volo. Al suo posto arriva la farfalla vermiglia di poco prima, che prende ad arrampicarsi su per il braccio. Al riflesso del sole, pare che ci siano delle mani chiuse a coppa disegnate sulle sue ali. Fra loro scorre sangue, sangue come fosse vino appena versato. Ma è solo un attimo, e la visione svanisce, dileguandosi nel placido rosso di sempre. I suoi occhi fiammeggianti d’Inferno vagano sui capelli ramati della bambina.

«E tu? Qual è il tuo segreto? Non sei ciò che vedo, ci sono storie dentro di te.»

 Anche lei scappa, fugge nell’aria. La bimba s’assopisce, e sogna. Sogna le sue fantasie ghermite dalle farfalle, che poi ne fanno storie da portare sulle loro ali in giro per il mondo. E piccola, lei, vola con loro, diffonde ogni briciolo di racconto raccolto per strada, così come le api racchiudono il polline dei fiori fra le loro zampette. Asperge polvere di possibili romanzi, sparge petali di future narrazioni, le aiuta nel loro compito greve.

 

«Papà, che hai fatto?» finalmente ha trovato un briciolo di audacia per parlare. Forse si era nascosto alla punta delle pantofole, là dove il piedino sfiora la calda intelaiatura. Ha sprecato del tempo per trovarlo, ma alla fine l’alluce ha sfiorato il suo coraggio, rintanato nel suo rifugio, e l’ha costretto a uscire allo scoperto. Ma le lacrime di bambina ancora non s’arrestano.

 L’uomo interrompe la seduta di scrittura e si volta a guardare la figlia. Indossa cautamente gli occhiali, quasi per vedere meglio il suo dolore e accertarsi del suo aspetto affranto.

«Papà, che hai fatto? Le mie farfalle… perché hai mangiato le mie farfalle?» è sgomenta dal fatto che un’azione tale ha incrinato l’immagine così perfetta, dolce e protettrice, del suo amato padre.

 Lui sospira. Le fa cenno di avvicinarsi con una mano tremante. «Vieni qui.» Anche la voce pare bisbigliata, non ferma, quasi essa stessa non sappia capacitarsi del suo ardire.

 Lei esita a prendere posto sulle ginocchia del genitore. Un tempo erano sinonimo di sicurezza, tepore, erano il nascondiglio dalle brutture del mondo. Ora sono solo un luogo dove stare più comoda, in attesa di qualcosa che sa già le farà male. Ma lo stesso ubbidisce, come una brava bambina. Il braccio che l’avvolge è freddo, il petto su cui si poggia, nonostante sia estate inoltrata, è glaciale come uno scoglio di brina sorto in mezzo all’oceano.

 «Tesoro, le farfalle non erano per il tuo compleanno… ma questo lo saprai già. Posso raccontarti una storia?» un mesto sorriso gli si apre sul volto. Gli spazi vuoti fra i denti, così scuri nella luce scarsa, sembrano voragini di menzogna. Forse un tempo potevano ispirare simpatia, mista a un pizzico di pazzia che contornava quell’aura fin troppo spensierata, ma ora erano come finestre sul cupo antro di un racconto atroce.

«Ora ci vuole anche il permesso per parlare?» è stata cattiva, lo sente, percepisce dalla smorfia melanconica dell’uomo che qualcosa nelle sue parole deve averlo turbato. Forse un po’ di quella ferocia, uscendo in rivoli fumosi dalle labbra dell’uomo, s’è infiltrato nel suo corpo gracile, e ne ha fatto triste mezzo d’usura.

Lui non desiste, e riprende a parlare con fare affrettato «Non devi avercela con me. L’ho fatto per noi»

«Questa è una brutta storia. Non voglio ascoltare brutte storie.» Ancora termini neri ad oscurare l’atmosfera glabra. La piccola s’aggrappa alla camicia del padre, tira il colletto come per arrampicarvisi sopra. Cerca di arrivargli all’altezza degli occhi, avvicinarsi così che possa scrutare la sua anima falsa, senza che gli anni separino il suo giudizio dalla sua maschera infame.

«Dentro ogni farfalla c’è la storia che tu vuoi ascoltare, quella che ti racconto alla sera, quella che il papà scrive di notte. Vedi, questi fogli, un giorno, saranno presi tutti in un libro. Il libro ci darà i soldi per mangiare e bere,e per farti andare a scuola. Se questi fogli non hanno una storia scritta sopra, il libro non arriva e i soldi nemmeno. E io ho bisogno della storia, per questo uso le farfalle, per averla e prendermela, per scriverla.» Ha fatto confusione, la bambina se ne accorge, ma allo stesso tempo pare di aver capito qualcosa in quel garbuglio di frasi. Ma allora ricorda i pomeriggi al campo, e l’idea si fa strada, si compone leggiadra e crudele nella sua giovane mente.

«Non possono darti le storie? Non puoi chiedergliele per favore?» Perché ucciderle così spietatamente?

«Loro non la raccontano mai. La custodiscono gelosamente. Sono orgogliose e troppo altezzose per dartele. Se tagli loro via le ali, la storia si libera e il papà può scriverla.» L’uomo aveva scoperto il segreto per caso, e tutt’ora non gli sono chiari tutti i particolari. E spiegarlo a una figlia è difficile, specie se sei solo.

«Le storie sono tutte vere, non è così? Le prendono dalla fantasia della gente, dagli altri universi, dappertutto.» Un lampo di consapevolezza si fa strada nelle iridi azzurre della piccola.

«Sì, è così.»

«Papà?»

«Sì? Dimmi tesoro.»

«Io non ucciderei mai una farfalla per una stupida storia.»

   
 
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