Seduta vicino al suo letto la
guardavo. Il viso
spigoloso riposava rilassato. Le palpebre chiuse nascondevano i suoi
occhi
color del cioccolato, le labbra carnose e rosse serrate in
un’espressione
neutra. Sembrava che dormisse come tante volte, ma quel sonno durava da
ormai
quattro settimane. Non la vedevo sorridere da un mese.
Lisa riposava, facendo piccoli
respiri quasi
impercettibili. Immobile in modo disumano.
Nella stanza ero solo io, mia madre
era andata a
parlare con i medici. Quando ero entrata nella stanza piangeva. Non che
fosse
una novità, piangeva tutto il giorno e anche tutta la notte.
Il suo viso stava
invecchiando a causa della preoccupazione e dell’ansia. Le
occhiaie già marcate
prima ora sembravano due borse della spesa troppo riempite, le rughe
iniziavano
a vedersi per la prima volta e la pelle era più gialla della
mia. Smorta e
triste.
Ormai ero sicura non dormisse
nemmeno più.
-sai, oggi ho iniziato la scuola-
dissi,
fissandomi sulla porta e riportando gli avvenimenti di quella mattina
alla
mente.
-ho anche seguito i tuoi consigli,
sono stata audace –continuai,
senza aspettare una
risposta. Chissà cosa mi avrebbe detto se fosse stata
sveglia, probabilmente mi
avrebbe dato il cinque, complimentandosi con la mia sfacciataggine.
Avrei voluto che lei vedesse come mi
ero
comportata, avrei voluto che vedesse la nuova me.
In un certo senso sapevo e speravo
che lei avesse
visto.
Guardai la stanza, era una singola,
pareti
bianche, una finestra che dava sulla città e il letto in
mezzo. Sicuramente non
gli sarebbe piaciuta, avrebbe detto “bella merda”.
L’orologio sopra la porta
segnava le quattro e
venticinque, fra poco sarei dovuta tornare a casa. Non volevo lasciarla
li da
sola, anche se la solitudine a lei piaceva da impazzire.
-fra poco devo andare, vengo a
romperti anche
domani non ti preoccupare- trattenni le lacrime. Non volevo e non
potevo
piangere, dovevo essere forte. Per tutti.
-però ti prometto che ce
la metterò tutta-
sussurrai avvicinandomi al suo orecchio, di cosa parlavo lo sapevamo
solo noi.
Mi alzai dalla sedia e mi diressi
alla porta, mi
voltai un’ultima volta sussurrando un flebile ed
impercettibile “ciao”.
Corsi verso l’uscita il
più in fretta possibile,
volevo andarmene da quel posto così vuoto e privo di
sentimenti felici, tanta
tristezza sentivo nell’aria, o forse era solamente la mia che
mi bloccava il
respiro.
Presi il cellulare e scrissi un
messaggio a mia
madre. Gli comunicavo che sarei tornata a casa a piedi. Non avrei
voluto
lasciarla da sola ma non potevo restare lì un minuto di
più.
Mentre mi apprestavo ad inviare il
messaggio andai
a sbattere contro qualcuno, che come me usciva dalla struttura.
Abbassai gli
occhi e senza degnare di uno sguardo la persona davanti a me,
mormorando uno
“scusa” iniziai a correre.
Corsa che fu fermata dalle urla di
quest’ultimo,
che si era messo ad inseguirmi gridando di fermarmi. Mi fermai solo
quando
impossibilitata dal traffico non potevo più correre ed
attraversare la strada.
-finalmente ti sei fermata- disse
una voce dietro
di me, annaspava e stranamente non sembrava arrabbiata o altro. Mi
voltai,
cercando l’espressione più normale nel mio
repertorio. Ma non ci riuscì, e sul
mio volto rimase quella smorfia, misto di dolore e sofferenza che
provavo
dentro.
Quando alzai lo sguardo e vidi la
persona che
sorrideva e cercava di prendere fiato, rimasi di sasso. E lui che ci
faceva
qui?
I lineamenti del mio viso dovevano
essere qualcosa
di estremamente leggibile. Perché ero talmente stupita da
aver abbandonato la
maschera di freddezza che avevo quella mattina a scuola, quando
l’avevo
incontrato.
-Kristine, mi spieghi
perché stai correndo come
una pazza in mezzo al traffico?-domandò scrutando il mio
viso con le sue irridi
chiare.
La sua voce era divertita, ma anche
preoccupata.
-sono sul marciapiede veramente-
dissi senza
accorgermi nemmeno. Sembrava che la bocca parlasse senza
l’aiuto e
l’autorizzazione del cervello.
Si mise a ridere senza
un’apparente e logico
motivo. Lo guardai alzando scetticamente un sopraciglio, al che lui si
bloccò.
Mi fissò intensamente, come a volermi leggere dentro poi, di
nuovo senza un
motivo valido mi sorrise, non felicemente ma più che altro
mi sorrise
rassicurante.
-che ne dici se ti invito al bar a
prendere
qualcosa da bere?- mi domanda, e senza aspettare una mia risposta mi
prende il
braccio e mi trascina al locale dietro di noi. Ignorando bellamente le
mie
proteste, mi fece accomodare ad un tavolo fuori e si mise sulla sedia
di
fronte. Lo guardai
confusa. E questo cosa
voleva?
-cosa prendete?-domandò la cameriera apparsa dietro di me
nel giro di un
secondo. Mi spaventai sentendo la sua voce, ma fui rassicurata dalla
sguardo
solare di Jason.
-un succo di frutta alla pesca-
disse lui,
abbagliandomi con un sorriso che metteva in mostra i suoi denti bianchi
e
dritti.
-un cappuccino- ordinai cercando di
avere la voce
meno scocciata di quello che ero sicura fosse appena uscita.
La donna se ne andò, e
noi rimanemmo soli al
tavolo. Jason mi aveva trascinato al tavolo in fondo, quello
più appartato.
-comunque non hai risposto-
cominciò interrompendo
il silenzio che si stava formando –che cosa diavolo ti
è preso?-domandò il più
serio possibile. Il suo viso si era trasformato da quello solare di un
ragazzino a quello preoccupato di un uomo. La sua espressione faceva
sì, che
anche i lineamenti sembrassero più adulti.
-niente- abbassai lo sguardo, certa
di non poter
sostenere il suo –e poi non credo siano affari tuoi-
continuai senza alzare gli
occhi. Non volevo incontrare le sue irridi chiare.
-forse hai ragione, ma comunque,
anche se ci
conosciamo da poco di me ti puoi fidare- lo disse sempre seriamente, lo
sentivo
dalla voce, nona avevo bisogno di guardarlo per capire che non stava
mentendo.
Sembrava sincero. E seriamente preoccupato.
-problemi famigliari- dissi sperando
che lasciasse
cadere l’argomento senza troppe storie.
-di che tipo?- ecco, speranza vana a
quanto pare.
-mia sorella- senza rendermene conto
gli stavo
raccontando la verità.
-sta male?- tirò ad
indovinare.
-è in coma- sputai, senza
esitazioni. Alzai lo sguardo
e incrociai il suo viso. Ora non era più serio e nemmeno
solare, era angosciato
e spaventato allo stesso tempo. Preoccupato di aver commesso
chissà quale
errore irreparabile. Mi sentivo in colpa, dato che se il suo viso era
così
spaventato la causa di ciò ero io. Quindi feci la cosa che
non avrei mai
pensato di riuscire a fare. Sorrisi.
Non era un sorriso caldo e felice,
ma nemmeno un
sorriso tirato. Era un sorriso rassicurante, calmo e dolce.
-e tu? Che ci facevi in ospedale?-
domandai, e nel
mentre formulavo la domanda sentì bisbigliare uno
“scusa” quasi impercettibile,
avrei potuto credere di averlo immaginato, ma avevo notato la sua bocca
muoversi.
Si riprese e mi spiegò,
con meno entusiasmo di
prima, che era andato a fare una visita medica per il calcio.
Parlammo tranquillamente per
un’ora, di calcio,
scuola e altre cose poco importanti. Poi data l’ora decisi di
tornare a casa. E
mentre mi apprestavo ad attraversare la strada, lo sentì
urlare:
-Ehi! Potremmo anche diventare
amici!?- aspettai
di arrivare dall’altro lato, per girarmi e sorridere.