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Autore: Litha    18/08/2010    2 recensioni
“L’acqua che ho tenuto tra le mani in tutto questo tempo sta diventando troppo movimentata, esce dai buchetti tra le dita, fino a quando non rimarrà altro che una mano bagnata, con delle gocce che si asciugheranno presto al sole. Ho perso tutti i miei ponti, e sono stanca, distrutta da non so nemmeno cosa, per ricostruirne di nuovi.” La frase che più di tutte mi aveva colpita. Ecco, mi sentivo allo stesso modo. Ma in cuor mio sapevo che avrei dovuto ricostruire nuovi ponti. Per me, ma soprattutto per lei.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seduta vicino al suo letto la guardavo. Il viso spigoloso riposava rilassato. Le palpebre chiuse nascondevano i suoi occhi color del cioccolato, le labbra carnose e rosse serrate in un’espressione neutra. Sembrava che dormisse come tante volte, ma quel sonno durava da ormai quattro settimane. Non la vedevo sorridere da un mese.

Lisa riposava, facendo piccoli respiri quasi impercettibili. Immobile in modo disumano.

Nella stanza ero solo io, mia madre era andata a parlare con i medici. Quando ero entrata nella stanza piangeva. Non che fosse una novità, piangeva tutto il giorno e anche tutta la notte. Il suo viso stava invecchiando a causa della preoccupazione e dell’ansia. Le occhiaie già marcate prima ora sembravano due borse della spesa troppo riempite, le rughe iniziavano a vedersi per la prima volta e la pelle era più gialla della mia. Smorta e triste.

Ormai ero sicura non dormisse nemmeno più.

-sai, oggi ho iniziato la scuola- dissi, fissandomi sulla porta e riportando gli avvenimenti di quella mattina alla mente.

-ho anche seguito i tuoi consigli, sono stata audace –continuai, senza aspettare una risposta. Chissà cosa mi avrebbe detto se fosse stata sveglia, probabilmente mi avrebbe dato il cinque, complimentandosi con la mia sfacciataggine.

Avrei voluto che lei vedesse come mi ero comportata, avrei voluto che vedesse la nuova me.

In un certo senso sapevo e speravo che lei avesse visto.

Guardai la stanza, era una singola, pareti bianche, una finestra che dava sulla città e il letto in mezzo. Sicuramente non gli sarebbe piaciuta, avrebbe detto “bella merda”.

L’orologio sopra la porta segnava le quattro e venticinque, fra poco sarei dovuta tornare a casa. Non volevo lasciarla li da sola, anche se la solitudine a lei piaceva da impazzire.

-fra poco devo andare, vengo a romperti anche domani non ti preoccupare- trattenni le lacrime. Non volevo e non potevo piangere, dovevo essere forte. Per tutti.

-però ti prometto che ce la metterò tutta- sussurrai avvicinandomi al suo orecchio, di cosa parlavo lo sapevamo solo noi.

Mi alzai dalla sedia e mi diressi alla porta, mi voltai un’ultima volta sussurrando un flebile ed impercettibile “ciao”.

Corsi verso l’uscita il più in fretta possibile, volevo andarmene da quel posto così vuoto e privo di sentimenti felici, tanta tristezza sentivo nell’aria, o forse era solamente la mia che mi bloccava il respiro.

Presi il cellulare e scrissi un messaggio a mia madre. Gli comunicavo che sarei tornata a casa a piedi. Non avrei voluto lasciarla da sola ma non potevo restare lì un minuto di più.

Mentre mi apprestavo ad inviare il messaggio andai a sbattere contro qualcuno, che come me usciva dalla struttura. Abbassai gli occhi e senza degnare di uno sguardo la persona davanti a me, mormorando uno “scusa” iniziai a correre.

Corsa che fu fermata dalle urla di quest’ultimo, che si era messo ad inseguirmi gridando di fermarmi. Mi fermai solo quando impossibilitata dal traffico non potevo più correre ed attraversare la strada.

-finalmente ti sei fermata- disse una voce dietro di me, annaspava e stranamente non sembrava arrabbiata o altro. Mi voltai, cercando l’espressione più normale nel mio repertorio. Ma non ci riuscì, e sul mio volto rimase quella smorfia, misto di dolore e sofferenza che provavo dentro.

Quando alzai lo sguardo e vidi la persona che sorrideva e cercava di prendere fiato, rimasi di sasso. E lui che ci faceva qui?

I lineamenti del mio viso dovevano essere qualcosa di estremamente leggibile. Perché ero talmente stupita da aver abbandonato la maschera di freddezza che avevo quella mattina a scuola, quando l’avevo incontrato.

-Kristine, mi spieghi perché stai correndo come una pazza in mezzo al traffico?-domandò scrutando il mio viso con le sue irridi chiare.

La sua voce era divertita, ma anche preoccupata.

-sono sul marciapiede veramente- dissi senza accorgermi nemmeno. Sembrava che la bocca parlasse senza l’aiuto e l’autorizzazione del cervello.

Si mise a ridere senza un’apparente e logico motivo. Lo guardai alzando scetticamente un sopraciglio, al che lui si bloccò. Mi fissò intensamente, come a volermi leggere dentro poi, di nuovo senza un motivo valido mi sorrise, non felicemente ma più che altro mi sorrise rassicurante.

-che ne dici se ti invito al bar a prendere qualcosa da bere?- mi domanda, e senza aspettare una mia risposta mi prende il braccio e mi trascina al locale dietro di noi. Ignorando bellamente le mie proteste, mi fece accomodare ad un tavolo fuori e si mise sulla sedia di fronte.  Lo guardai confusa. E questo cosa voleva?
-cosa prendete?-domandò la cameriera apparsa dietro di me nel giro di un secondo. Mi spaventai sentendo la sua voce, ma fui rassicurata dalla sguardo solare di Jason.

-un succo di frutta alla pesca- disse lui, abbagliandomi con un sorriso che metteva in mostra i suoi denti bianchi e dritti.

-un cappuccino- ordinai cercando di avere la voce meno scocciata di quello che ero sicura fosse appena uscita.

La donna se ne andò, e noi rimanemmo soli al tavolo. Jason mi aveva trascinato al tavolo in fondo, quello più appartato.

-comunque non hai risposto- cominciò interrompendo il silenzio che si stava formando –che cosa diavolo ti è preso?-domandò il più serio possibile. Il suo viso si era trasformato da quello solare di un ragazzino a quello preoccupato di un uomo. La sua espressione faceva sì, che anche i lineamenti sembrassero più adulti.

-niente- abbassai lo sguardo, certa di non poter sostenere il suo –e poi non credo siano affari tuoi- continuai senza alzare gli occhi. Non volevo incontrare le sue irridi chiare.

-forse hai ragione, ma comunque, anche se ci conosciamo da poco di me ti puoi fidare- lo disse sempre seriamente, lo sentivo dalla voce, nona avevo bisogno di guardarlo per capire che non stava mentendo. Sembrava sincero. E seriamente preoccupato.

-problemi famigliari- dissi sperando che lasciasse cadere l’argomento senza troppe storie.

-di che tipo?- ecco, speranza vana a quanto pare.

-mia sorella- senza rendermene conto gli stavo raccontando la verità.

-sta male?- tirò ad indovinare.

-è in coma- sputai, senza esitazioni. Alzai lo sguardo e incrociai il suo viso. Ora non era più serio e nemmeno solare, era angosciato e spaventato allo stesso tempo. Preoccupato di aver commesso chissà quale errore irreparabile. Mi sentivo in colpa, dato che se il suo viso era così spaventato la causa di ciò ero io. Quindi feci la cosa che non avrei mai pensato di riuscire a fare. Sorrisi.

Non era un sorriso caldo e felice, ma nemmeno un sorriso tirato. Era un sorriso rassicurante, calmo e dolce.

-e tu? Che ci facevi in ospedale?- domandai, e nel mentre formulavo la domanda sentì bisbigliare uno “scusa” quasi impercettibile, avrei potuto credere di averlo immaginato, ma avevo notato la sua bocca muoversi.

Si riprese e mi spiegò, con meno entusiasmo di prima, che era andato a fare una visita medica per il calcio.

Parlammo tranquillamente per un’ora, di calcio, scuola e altre cose poco importanti. Poi data l’ora decisi di tornare a casa. E mentre mi apprestavo ad attraversare la strada, lo sentì urlare:

-Ehi! Potremmo anche diventare amici!?- aspettai di arrivare dall’altro lato, per girarmi e sorridere.

 

 

  
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