SECONDA
PARTE
Come dita sempre mi apri petalo per
petalo.
Dal
pianerottolo sembrava che nel suo studio si stesse svolgendo la seconda
parte
della battaglia di Al Alamein, pensò Davide appena uscito
dall’ascensore.
Eppure
una volta all’interno prese atto che ci fosse solo Salvatore,
e che il più
stesse avvenendo per telefono tra lui e certamente Andrea, a dire da
come
fremevano i suoi baffetti anarchici.
“E’
fuori da ogni logica!” urlò mentre Davide si
impossessava della sua stanza
chiudendosi la porta alle spalle.
Aveva
un discreto mal di testa, il lascito della cena a casa di suo fratello
la sera
prima. Vieni anche tu, siamo i soliti, una cenetta tranquilla, non fare
l’orso.
E alla fine era tornato a casa alle tre di notte, con vino rosso
primitivo a scorrergli
nelle vene al posto del sangue e in macchina una certa Irene da dover
riaccompagnare.
Non
aveva nessuna intenzione di occuparsi dei drammi dei suoi soci.
Come
se avesse origliato i suoi pensieri, Salvatore aprì la porta
della stanza,
furente, brandendo il telefono come un’arma di distruzione di
massa.
“Parlaci
tu” disse esasperato con forte accento siculo –
succedeva ogni qualvolta la sua
pacatezza soccombesse ad Andrea e i suoi dispotici capricci –
“Io non voglio
saperne dei vostri inciuci contrattuali” e con quello
sbatté il cellulare nelle
mani di Davide e si accasciò sulla poltrona ben deciso a non
perdersi la
conclusione.
“Andrea.
Qual è il problema.”
Salvatore
accavallò le gambe e si accese un sigaro, ignorando lo
sguardo omicida del
collega. Era qualcosa che esulava dalle sue facoltà di
comprendonio il modo di
stare al mondo che avevano quei due.
Uno preda di un forsennato amor proprio, la sindrome da Dio del Foro la
chiamava lui, e l’altro placido e distaccato, lontano da
qualsiasi giudizio di
valore e di merito, come se niente lo riguardasse al di fuori di quanto
dovesse
portare a termine per puro perfezionismo, prima ancora che convinzione.
Adesso
se ne stavano al telefono, Andrea a lamentarsi
dell’eticità del socio che per
primo aveva insistito per assumere, e Davide a raccogliere informazioni
esulando dalle urla e dai lamenti le notizie veramente necessarie alla
soluzione del conflitto.
“Mh.
Mi sembra un mutuo più che un corrispettivo di
prezzo.” disse, aprendo la
finestra perché l’odore di sigaro uscisse dalla
stanza. Salvatore alzò gli
occhi al soffitto, sprofondando ulteriormente nella poltrona.
Valutò l’ordine
geometrico con cui ogni cosa era disposta nella stanza di Davide: la
scrivania
sgombra di qualsiasi suppellettile, gli spazi sfruttati in una economia
perfettamente misurata. Lui aveva cassetti pieni di fogli e post it
ovunque,
anche sul porta sigari, e le sedie le sfruttava per poggiarci altra
roba, non
di certo per ricevere un cliente, che preferiva accogliere nel bar
sotto l’ufficio
o comodamente seduti nella stanza di Andrea, sempre assente dietro i
suoi
impegni universitari.
“E
allora? Il divieto di patti commissori dove lo lasci?”
sentiva dire Davide, che
aveva iniziato a giocare con una penna a scatti. I baffi di Salvatore
vibrarono
compiaciuti: era esattamente quello che aveva cercato di far capire ad
Andrea,
prima di sentirsi definire avvocaticchio
e di ricevere l’invito a giocare al marito e moglie come gli
era più congeniale
fare.
“Mh.”
mormorò Davide, tornando seduto e guardando Salvatore dritto
negli occhi. Per
un momento l’altro si chiese se non stessero parlando di lui,
in effetti.
“Patteggiamo: fumati il solito pacchetto di sigarette, boccia
qualche studente
e richiamami quando avrai ridimensionato il tuo ego.”
Ciò detto chiuse lo
sportello del cellulare e lo restituì al proprietario con un
gesto fluido e
deciso. “Tu e il tuo sigaro fuori dalla mia stanza. E se mai
vi capitasse anche
fuori dalla mia vita.”
“Che
ne è venuto fuori?” si informò
Salvatore, senza assecondare nessuna delle due
richieste.
“Tu
sei troppo accudente, Salvatore, e per primo accudisci il suo fanatismo
isterico” commentò l’altro tirando fuori
le sue pratiche personali.
“La
sua illogicità mi manda in bestia” ammise
passandosi una mano tra i baffi.
Davide sorrise lupesco, senza alzare la testa.
“Lo
so. Ma così lo assecondi, invece di ridimensionarlo. E
comunque ha ragione: è
meglio che ti dedichi a vedovanze e figliolanza non
riconosciuta”. Poi pensò di
controllare di non averlo offeso, e soggiunse con una inflessione
più tenue “Ti
donano di più”.
Salvatore
lo guardava in cagnesco, scuotendo la testa. Si era rassegnato
all’idea di
dividere l’attività lavorativa con due devoti al
Libro Quarto[1]
come
fosse una Bibbia o un Corano, e tutto sommato riconosceva la loro
dimestichezza
nell’aggirare ostacoli e rendere un cavillo il tema portante
in un contesto
probatorio.
Si
chiedeva solo se questa continua opera di attorniamento, questa eterna
partita
a scacchi fatta di salti laterali e avviluppamento di pedine, non li
facesse
mai sentire lontani e a disagio quando poi si trattava di camminare
dritti e
non mangiare pedine, in tutto il resto.
“Quello
è un patto commissorio” volle aggiungere ancora,
per pura ripicca.
“Certo
che lo è, lo sappiamo tutti, Andrea compreso”
osservò placido Davide,
sorridendogli in quel suo modo sincero e scanzonato che lo rendeva
eterno
ragazzino nei momenti di pausa dal lavoro, come quello.
Poi
il citofono suonò.
*
“C’è
una donna che ti cerca.”
Davide
tracciò un segno inconsulto con la penna, sulla notifica che
stava scrivendo.
Gli
occhi di Salvatore lo guardavano ridenti.
“C’è
della figliolanza di cui vuoi che mi occupi?”
domandò irrisorio, chiudendosi
nella stanza di Andrea per prepararsi a ricevere il cliente delle
undici. Sua
Devozione, l’aveva chiamata Davide la prima volta che
l’aveva vista uscire dal
loro studio, con a seguito il suo giovane amante spacciato per un
cugino di
terzo grado e una lista di beni immobiliari che aveva reso noto avrebbe
avuto
piacere di cui disporre, alla faccia del marito.
Non
rispose a Salvatore, ricoprì la penna del suo cappuccio,
inserì il foglio nel
cassetto delle pratiche da terminare e si decise a raggiungere il
citofono. Non
che gli fosse venuta in mente Irene, al primo pensiero.
In
quei giorni aveva finto di dimenticarsi di Viola. Ad Andrea non aveva
detto
niente, certo che avrebbe demolito il tutto con quel cinismo che gli
era
proprio, e del resto forse Davide avrebbe fatto lo stesso, con identico
scetticismo con cui accolse la notizia della promozione di Amanda da
assistente
ad accompagnatrice ufficiale.
“Sì?”
chiese cercando di recuperare il tono pratico dell’uomo
impegnato. Il che lo
fece sentire doppiamente idiota, ancora una volta, come se avesse di
nuovo
sedici anni e dovesse fare appello a trucchi di bassa lega per
sopperire alla
mancanza di autostima, o di muscoli o di sorrisi alla Clark Gable.
“Ciao”
disse Viola, dalla cornetta. La voce era metallica ma decisamente sua.
Davide
sentì qualcosa attraversarlo da parte a parte.
Cercò
di suonare naturale nel restituirle il saluto, ma in realtà
avrebbe voluto
chiederle quante volte avesse fatto il giro del palazzo prima di
decidersi a
premere quel tasto sul citofono, o quanto avesse dovuto pensarci e che
scuse
avesse fabbricato per darsi la chance dell’ennesima azione
sconsiderata… O un
caffè. Magari avrebbe solo voluto chiederle se le andava un
caffè, da adulti.
Avrebbe storto le labbra, come
quando non aveva creduto al suo lavoro.
“Hai
da fare?”
Forse
gli piaceva quel suo modo di arrivare dritta al punto, tagliando di
netto ogni
imbarazzo, senza impelagarsi in convenevoli e accordi preliminari
riguardo a
compostezze e convenienze.
Aveva
da fare? C’era quell’attico da liberare, per il suo
assistito, la diffida di
pagamento da inoltrare al conduttore inadempiente.
“Dammi
dieci minuti” rispose invece. Iniziava a vivere un
po’ troppo spesso nel altro da
sé. Questi metafisici pretesti
rendevano ancora meno decoroso il suo atteggiamento, ma non riusciva a
farne a
meno. Qualsiasi cosa gli avesse mai procurato un piacere gratuito,
nella vita,
ai suoi occhi aveva avuto bisogno di una giustificazione. Come gli era
servita
una giusta causa diversa dalla sua attrazione seducente per la Legge,
quando
aveva chiesto ai genitori un codice civile e non una laurea in
ingegneria. “Mi
occuperò io di tutto” aveva assicurato, agli inizi
della sua carriera
universitaria, anche se di fare l’avvocato di famiglia non
aveva alcuna
intenzione e già allora anelasse alla Cassazione e al
supremo giudizio.
“Salvatore,
devo assentarmi” annunciò, scegliendo un falso
imperativo categorico
dimostrandosi fedele a se stesso. Doveva perché in
realtà aveva atteso quella
visita per diversi giorni, al punto che vederla concretizzata era quasi
divenuta una necessità.
Salvatore
urlò qualcosa dalla stanza di Andrea, in fondo al corridoio,
che Davide non
sentì.
Fuori
dall’ascensore c’era già Sua Devozione.
“Buongiorno”
salutò in fretta, sbattendo contro il falso cugino di terzo
grado.
*
Viola
lo aspettava fuori dal portone, il sole attraversava di sbieco il
vestito di
tessuto leggero che aveva addosso. Se anche non avesse voluto
– e in ogni caso
aveva voluto – avvicinandosi a lei Davide poté
quasi vedere oltre il cotone
bianco.
Non
sapeva se si ricordasse fedelmente il suo viso, l’aveva vista
per poco tempo.
Ebbe
anche l’impressione che Salvatore affacciato alla finestra
non si stesse
perdendo la scena, ma allontanò subito il pensiero,
etichettandolo come
paranoia da coda di paglia.
In
fondo non stava facendo niente di male.
“Scusa,
dovevo sbrigare delle cose”.
A
parte lesinare sul lavoro e comportarsi da adolescente anni cinquanta.
“Una
dura vita spesa in onore della legge” lo prese in giro lei,
accogliendolo con
un sorriso.
Era
leggermente diversa da qualche giorno prima, sembrava meno giovane di
quanto
avesse stimato allora, o forse la consapevolezza con cui soppesava ogni
gesto
la gravava del peso degli adulti.
“Passavi
di qui?” le chiese, con un sorriso da rivista
pensò Viola, trovandolo
affascinante e cretino come solo un uomo sa essere allo stesso tempo.
“Divertente”
e con quello gli confermò di essere passata al suo studio
con l’intento più o
meno preciso di vederlo di nuovo. Come se quella cravatta che aveva al
collo
potesse renderlo più interessante ai suoi occhi, che si
erano riempiti dei
colori e degli odori della terra di Israele e non avevano
più niente a che
fare, quasi, con gli europeismi di un avvocato giovane e in carriera.
Eppure,
lo aveva visto in macchina, colta da un momento di pigra distrazione
nel
traffico, e forse era la luce del sole alle otto di mattina, o il modo
in cui
aveva appoggiato il braccio sul finestrino, e la presa ferma e ferrea
con cui
si teneva il cellulare all’orecchio, o la linea serrata della
mascella, e la
barba sfatta in contrasto con la cura della cravatta e della camicia, o
il modo
in cui teneva una sola mano sul volante come se stesse guidando con la
forza
del pensiero, o il tono in cui aveva ordinato un caffè
bevuto in due sorsi
decisi, o il gesto automatico ma presente a se stesso
dell’estrarre le chiavi
della macchina e fare strada uscendo
dall’autogrill… quel suo essere così
maschile. Al diavolo, non ci aveva dormito quella notte.
E
probabilmente si trattava di sublimazione, aveva reso una tela bianca
un quadro
impressionista e incontrarlo di nuovo l’avrebbe solo
costretta a stracciare la
tela e chiuderla nello scantinato insieme a tutti gli altri cadaveri
delle
delusioni passate.
Una
più, una meno… si era detta, consapevole che non
si trattasse del
numero raggiunto ma della intensità con cui voleva
incontrare ancora la
ruvidità della sua guancia, e della sensazione sicura
dell’averlo accanto ad un
bar o per la strada.
“Avevi
in mente qualcosa, passando di qui?”
Persino
quel suo modo di essere ironico, di scivolare nel sarcasmo e spegnerne
l’asprezza con un sorriso brillante e divertito, le piaceva.
Lei che detestava
tutto ciò che fosse tagliente e amaro, a partire dal
caffè senza zucchero per
arrivare alla più sferzante delle derisioni, era rimasta con
le spalle al muro
di fronte a quella specie di tirannia che emanavano i gesti e le parole
di
quell’uomo. A dispetto dei suoi silenzi, che sembravano pieni
di ombre e
timidezze.
Quel
contrasto, ecco cos’era.
*
“Perché
ebraico e arabo?” ebbe finalmente modo di chiederle,
attraversando la strada.
Viola
si appoggiò al muretto, affacciandosi sul Tevere. Il pregio
di avere uno studio
in Prati si limitava alla vicinanza con il Tribunale e la Cassazione e
con il
Lungotevere lì a qualche passo.
“Questione
di suono” disse sorridendo e scrollando le spalle. Sembrava
che non potesse
fare una cosa senza l’altra: sorridere e non alzare le
spalle, alzare le spalle
e non sorridere.
Disse
qualcosa di cui Davide non distinse neanche una sillaba, ma della quale
riuscì
a sentire il tracciato melodico.
“Meglio
della secchezza inglese, dei suoni duri del tedesco[2]…”
lasciò sospeso il resto delle sue valutazioni, e Davide
compì l’ennesimo sforzo
di non trovarvi un riempitivo.
Del
resto lui dell’arte della composizione linguistica aveva
fatto una specie di filosofia.
“Dimmi
cosa c’è dietro un articolo di codice civile, per
me sono una lunga serie di
numeri” disse poi, guardandolo con un sorriso furbo.
“Il
senso della società” rispose Davide, arrotolando
le maniche della camicia.
Il
caldo estivo aveva imperlato la sua fronte di sudore, la camicia
aderiva più
del dovuto su di lui, e Viola non riusciva a non guardarlo, combattuta
tra la
tentazione di cedere al naturale percorso del suo sguardo o il chiudere
un po’
di sé nelle costrizioni a volte necessarie di una parte.
Almeno per un po’.
“Ad
eterna e salvifica memoria che la mia libertà finisce dove
inizia la tua.”
Guardava
lontano nel dirlo, come se i suoi occhi cercassero naturalmente il
profilo del
Palazzaccio[3],
sapendolo dietro
quell’angolo, poco più giù. Quel modo
di appellarlo proprio degli occhi scettici
del tempo, per lui si ammantava di una tenerezza tutta sua, modulava la
lingua
come se pronunciasse il nome della via della sua casa, lui che non lo
trovava
affatto brutto né sgraziato, troppo pesante a detta di fior
fiori di critici ed
esperti in materia. Davide lo trovava piantato al suolo, imponente e
ricco come
lo è la Giustizia, che poco si adatta a frivolezze
rococò o a barocchismi di
sorta. Duro e pesante, come la Legge.
“Non
ti capita mai di discutere con i tuoi colleghi? Tra voi non siete mai
d’accordo
su niente.”
Sorrise,
tornando a guardare Viola.
“Certo.
Giorni fa Andrea ha dovuto sospendere il ring tra me e
Salvatore.”
“Riguardo?”
“Regime
patrimoniale tra coniugi. La legge vuole la comunione dei beni come
prima
scelta, ma così facendo un matrimonio di breve durata dove
una parte produce
ricchezza e acquista beni e l’altra no, destinato a
concludersi dopo poco, si
profila come un arricchimento indebito per chi non ha prodotto
né incrementato
il patrimonio familiare.” Si fermò un momento.
“Mi segui?”
Viola
alzò le spalle.
“Credo
di essermi persa qualche puntata, ma ho capito il senso.”
Tacquero
per un po’, il Tevere a scorrere lento sotto di loro, in
mezzo all’inquinamento
e alle chiatte ormeggiate.
Viola
cercava di immaginare Davide in un’aula di tribunale, nel suo
ambiente, con la
toga da avvocato e lo sguardo fermo di chi sa di dover avere ragione.
Lo
immaginò teso nella battaglia, e poi lo immaginò
anche studente, con il naso
tra articoli del codice e letture giuridiche, severo e fiero come la
legge
quando non è violentata dall’uomo.
Si
chiese quanto di sé avesse sacrificato alla dirittura della
Legge, quanto di sé
avesse dovuto immolare alla implacabilità di una
convinzione, alla fermezza della
parola: quanto ardore stritolato nella morsa di un decisionismo
intrepido ma
non veemente, per serbare l’equilibrio del giusto
sottomettendo l’affanno del
colpevole che scivola sullo specchio.
“Ti
togli mai la toga?” finì con il chiedergli,
riemergendo da quei pensieri.
Davide
la guardò senza capire, o forse prese tempo per cercare una
risposta ad una
domanda irrisolta anche per lui.
“Fare
l’avvocato è il tuo lavoro o la tua
vocazione?”
Soppesò
quella domanda, volgendo lo sguardo altrove.
Era
arrivato un giorno in cui se l’era chiesto, se ci fosse altro
di sé o se
l’avvocatura avesse assorbito tutto. Se ci fosse mai stato
dell’altro o se come
Dio chiama i suoi sacerdoti ad essere solo suoi ministri e mai
più uomini, allo
stesso modo la Legge lo avesse chiamato a sé imponendogli di
essere suo
dipendente e nient’altro che una toga intorno alle spalle di
un uomo.
Aveva
perso i contorni tra chi era in aula e chi fuori, gli sembrava di
essere sempre
la stessa persona, di precludere a se stesso uomo gli stessi inciampi
che si
vietava di compiere in aula.
Amava
il suo lavoro, per quanto non fosse in Cassazione, amava il suo lavoro
al punto
di chiedersi se amasse anche se stesso, o solo quello, il suo lavoro.
La fredda
precisione della legge. La sua capacità di creare e di
reinventarsi, di seguire
il percorso di una società in evoluzione, accogliendo le
asprezze di ogni
cambiamento per levigarle; accogliendo in sé quelle
geometrie appuntite –
ingoiandole negli accesi dibattiti dottrinali, nella sofferta e
controversa
prassi giurisprudenziale – solo per restituire al di fuori la
superficie liscia
di una norma.
Allo
stesso modo Davide sentiva di contenere in sé ogni
contraddizione, ogni scusa
imperdonabile, ogni passo falso e ginocchio sbucciato, per restituire
la serafica
superficie di un atteggiamento fermo e inscalfibile.
“Non
lo so più” disse a Viola, con
un’espressione simile a quella dei suoi silenzi:
pieni di ombre e timidezze.
*
Vittoria
aveva ascoltato il fiume di parole che Viola le aveva riversato addosso
come si
ascolta il discorso di una demente.
Erano
secoli che non le capitava di parlare così a lungo, in
effetti, di dire così
tante cose. Come se in qualche modo fosse uscita dal suo ermetismo, e
di colpo.
Vittoria
l’aveva accompagnata in aeroporto quando si era trattato di
partire per
Israele, chiedendole di mandarle qualche cartolina, di connettersi al
computer,
di lanciare segni di vita da laggiù. Non che volesse essere
aggiornata sui suoi
approfondimenti culturali.
“Non
sparire” le disse prima di salutarla al check-in.
“Ma
guarda che torno” l’aveva rassicurata Viola, come
vinta dalla tenerezza negli
occhi dell’amica. Era l’unica persona che lasciava
con rammarico a terra, del
resto, l’unica che avesse mai conosciuto in grado di
sopravvivere alla irrequietezza
delle sue relazioni. Giocavano nel parco dietro casa da bambine, V and
V le
chiamavano i genitori più moderni, l’Ambo gli
anziani che prendevano l’ombra
sotto i pini.
Da
Israele non si era più fatta sentire, assorbita da un mondo
diverso.
“Da
quant’è che vi conoscete?”
domandò Vittoria, versando mezza zuccheriera nel suo
tè freddo.
Era
sempre stata piuttosto scettica in merito agli entusiasmi di Viola, i
soliti
con cui si lanciava a capofitto in qualsiasi esperienza per uscirne con
qualche
osso fratturato e il sorriso mesto di chi assicura di stare bene e poi
si
chiude in casa in fase convalescente per un mese di silenzi e un anno
di viaggi
in Israele. A perfezionare la lingua.
“Il
tempo è relativo” le rispose infatti.
“Adesso
possiamo parlare di Marco quindi?” – il tono
volutamente tagliente.
Viola
persa a raggruppare fogli pieni di fonemi e ghirigori che Vittoria non
riusciva
a decifrare, inframmezzati da sporadici foglietti gialli di carta
sottile pieni
della sua grafia italiana piccola e nervosa, non le diede ascolto, non
volutamente questa volta. Aveva impiegato settimane a convincere
l’altra V. che
il suo viaggio non fosse una fuga da Marco e la schizofrenia del loro
rapporto,
sapendo di non essere riuscita nell’intento.
“Mi
daresti ragione se avessi visto il modo che ha di fare qualsiasi
cosa” continuò
per la sua strada, chiudendo i fogli in un cassetto colmo che ne
lasciò
sporgere i contorni accartocciati. “Qualsiasi. O la sua voce.
Non ho mai
incontrato nessuno così.”
“Nel
traffico dell’Aurelia? Strano, avrei detto che è
piuttosto frequente come cosa”
borbottò l’altra, bevendo il suo tè.
Vittoria era una delle poche persone,
rigorosamente dopo Woody Allen, a cui Viola perdonava
l’inflessione sarcastica
in ogni commento.
“Rilassati”
le giunse in risposta, dal fondo di un cassetto.
“E’ solo una cena”.
Vittoria
considerò quelle parole.
“Appunto”
concluse, eloquente. “E’ solo una cena.”
Qualche
giorno dopo la partenza di Viola aveva incontrato Marco in palestra. In quel luogo alienante come lo definiva
Viola, che si era sempre rifiutata di metterci piede a costo di andare
a
correre nello smog di Roma in pieno traffico mattutino. Si erano
salutati con
aria mesta, entrambi malinconici per la
partenza di Viola, ognuno per i propri motivi.
“Pensi che abbia
intenzione di tornare?” aveva domandato Marco, tamponandosi
la fronte con un
asciugamano zuppo. “Ce lo chiediamo tutti, direi che
è indicativo, no?” aveva
risposto lei sospirosa.
Poi
Viola era tornata, Vittoria era andata a prenderla in aeroporto e
l’aveva
trovata chiusa in un mutismo piuttosto deciso. Protratto per un
discreto numero
di mesi, in cui si era rintanata sul terrazzo di casa sua presa in una
fervente
opera di traduzione di articoli da quotidiani israeliani. Aveva accolto
le visite
di Vittoria con sorrisi spenti che si sforzavano di essere ospitali, e
dopo un
tè l’amica aveva sempre preferito lasciarla sola,
sentendosi di troppo tra
Viola e la sua solitudine.
Marco
aveva chiamato due o tre volte, per tastare il terreno e capire se ci
fosse un
modo per rimanere in contatto, per conservare rapporti civili. Viola
aveva riso
delle sue preoccupazioni “Sono io che ti ho lasciato, devi
dirmelo tu se vuoi
sentirmi ancora” gli fece notare, lontana nella voce.
Decisero di mettere una
toppa e salvare ciò che di buono c’era stato ma
lei non si era più fatta
sentire dopo quella telefonata e Marco non l’aveva
più cercata, sapendola
distratta e indifferente, o solo triste per chissà quale
spleen.
Infine,
qualche settimana prima, Vittoria aveva ricevuto una sua chiamata: la
avvertiva
che sarebbe andata al mare, per un paio di giorni, le chiedeva se
volesse
raggiungerla, starsene un po’ a mollo, rosolarsi sotto il
sole.
Sembrava
tranquilla e serena, la sua voce era distesa, per telefono la sentiva
sorridere.
“Non
sono più abituata ad una città senza
mare” disse con la pelle bagnata
dall’acqua e gli zigomi arrossati dal sole. Vittoria aveva
sorriso, sentendola
di nuovo Viola. Non sapeva dove se ne andasse quando cadeva nella
stagione dei
silenzi. Nessuno lo sapeva. Sembrava un quadro di Hopper, carico di una
malinconia immensa e devastante, ma inspiegata e inspiegabile, nessun
punto di
luce o di fuga nella scena ad indicarne la fonte.
Ma
poi, in fondo, l’importante era che da quella solitudine
tornasse da loro.
*
Riconobbe
il muso da squalo della sua macchina grigia con la coda
dell’occhio, chiudendo
il portone.
Lui
guardava in sua direzione, con un sorriso sulle labbra diretto poco a
lei e
molto a se stesso. Sembrava ridesse di sé. La
divertì.
Comprese
di aver desiderato salire in quella macchina, nel posto passeggero,
dalla prima
volta in cui aveva visto Davide guidarla per quei pochi chilometri
sull’Aurelia. Un pensiero infantile forse, poco adulto,
quella piacevolezza nel
sentirsi a fianco di un uomo dalla guida salda e sicura, maschile, come
quella
di una pubblicità.
“Destinazione?”
chiese lasciando perdere la cintura di sicurezza.
Destinazione
ristorante del vecchio ghetto, il compiacimento del saperlo attento ai
dettagli, la sorpresa dello scoprirlo conoscitore del posto. Caddero a
Campo
de’ Fiori, un saluto al buon Giordano[4],
che
vegliava taciturno adocchiando da lontano la Cupola nemica.
Turisti
ubriachi, romani a passeggio serale con i cani e qualche amico,
camerieri
affacciati davanti all’insegna dei loro ristoranti in cerca
di qualcuno che
volesse fare quattro chiacchiere con loro più che mangiare,
qualche bancarella
agli angoli della strada, pattuglie di polizia fuori luogo a piazza
Trilussa.
Camminavano
tra la gente, a volte parlando piano, altre contemplando in silenzio il
proprio
trovarsi al fianco dell’altro.
Di
nuovo Davide si era perso dietro quel gioco stupido del Indovina
cosa pensa la gente. Incolpava la sua abitudine di fissare
le persone per carpirne qualche segreto, era così con ogni
collega avversario
in aula, con ogni cliente, con ogni convenuto in giudizio che gli
toccasse
interrogare. Ma in quel caso non cercava tranelli né
smottamenti del terreno
dove poter agevolmente impiantare il seme della vittoria. In quel caso
sapeva
di cercare la compiacenza di quegli sconosciuti, sapeva di chiedere
loro con
aria fintamente distratta un nulla osta. Al solo scopo di non dare
importanza a
quei pareri, dal momento che l’unico giudice oltre la Legge
per lui era sempre
stato solo se stesso.
Viola
gli camminava vicino, leggermente scostata, con il naso
all’insù a cogliere
odori e le orecchie tese ad impicciarsi di stralci di conversazione.
“Non
hai mai pensato di scrivere qualcosa di tuo, oltre a
tradurre?” le chiese
Davide, riemergendo da qualche pensiero. Viola fece di nuovo quel gesto
con la
testa, ad avvolgere la timidezza del sorriso in un’ombra
riservata.
“Qualche
volta, ma non ho il dono della compiutezza. Non finisco mai quello che
inizio”
spiegò, alzando le spalle. Davide poggiò le
proprie mani sulle sue spalle
esili, lo fece senza pensare, sorridente, e Viola sentì le
sue mani grandi e
calde, le dita accolsero perfettamente la curva delle spalle, e
sentì che in
quel modo avrebbe potuto guidarla ovunque, lei si sarebbe fatta
trasportare
anche verso il dirupo, sotto la presa di mani simili. E forse quello
era il suo
problema. Questi assolutismi irriducibili che le impedivano di
respirare l’aria
del sobrio raziocinio.
“Potresti
svelarmi tu qualche trucco” gli disse, alzando la testa
stavolta, a cercare il
suo sguardo. “Le tue arringhe hanno sempre una conclusione
stringata, no?”
Davide
rise.
“Il
non liquet è dalla mia
parte.” Lo
disse quasi scusandosi. “Un giudice non può non
decidere. La storia deve finire
per forza, condanna o assoluzione, vincitore o soccombente.”
Viola
pensò che quelle parole, e la toga, corrispondessero
perfettamente alle sue
mani.
Lei
aveva dita sottili e lunghe, nervose, sempre fredde. Nella loro
frenesia spesso
lasciavano cadere oggetti.
“Che
strano. Nella vita non funziona così.”
Le
venne in mente Guccini che nella sua macchina cantava della
ambiguità di
vivere.
“Tu
sei un ossimoro vivente” disse poi, sorridendo. Davide la
guardò serio, a
dispetto del tono scherzoso con cui aveva parlato Viola.
“In
che senso?”
“Governi
la legge, ma vivi una vita regolata dal caso.”
Poi
sembrò ripensarci, per un momento.
“A
meno che tu e Dio non siate in rapporti stretti” aggiunse
sottotono.
“Non
faccio mai niente senza avere uno scopo” rispose lui
“ma solo perché so benissimo
che uno scopo non c’è, in tutto il resto che mi
accade.”
Non
lo aveva mai detto a nessuno. Non che qualcuno glielo avesse mai
chiesto. Sua
madre lo aveva sempre osservato affannarsi nel suo lavoro e nei suoi
doveri con
aria preoccupata e il timore che non prendesse abbastanza aria, non
mangiasse a
sufficienza, non trovasse una donna con cui regalarle un nipote. Non si
era mai
chiesta dove fosse il fondamento della profonda dedizione di suo figlio
a tutto
ciò che fosse volto a dare conferma, che fosse negativa o
positiva, a tutto ciò
che potesse eliminare l’incertezza in una situazione.
Esattamente
per questo: perché aveva scoperto, al telegiornale che suo
padre ascoltava a
pranzo, che non ci saranno di certo buoni e cattivi ma giusti e
ingiusti e che i
giusti spesso muoiono senza una giusta causa che renda merito al loro
vivere
secondo giustizia. Che una mattina un padre si mette in macchina con la
propria
figlia, e in autostrada verso il mare vengono travolti da una macchina
uscita
di strada per un guardrail mal sistemato, e che tutto per loro finisce
lì, a
quaranta e dodici anni, eterno padre di una bambina, eterna bambina mai
donna,
figlia per sempre senza mai essere madre. Aveva capito che nessuna
giustizia –
neanche e soprattutto divina
–
avrebbe mai potuto chiedere un prezzo così alto per potersi
definire tale.
Aveva capito che solo un caso senza intenzioni può essere
artefice di simili
disfatte. Che nel suo srotolare eventi ed accidenti lungo la vita degli
uomini
non c’è giustizia né ingiustizia,
ché sono connotati umani che il caso non
conosce.
Da
allora, nello sforzo di limitare il suo potere, il potere comunque
invincibile
del caso, aveva cercato gli ultimi giudizi, aveva cercato di mettere
certezze
fin dove fosse possibile averle. Nella consapevolezza che fosse minima
cosa di
fronte alla vastità del caso, ma pur sempre grande nel
piccolo mondo degli
uomini, che vivono di esperienza e cercano di non sbagliare mai due
volte.
Non
lo aveva mai detto a nessuno.
*
La
baciò con delicata circospezione. Come a voler ricevere
conferma che fosse
vero: l’Aurelia, l’autogrill, il citofono, il
Lungotevere, il Caso, il ghetto,
le traduzioni dall’arabo e la toga. Dal giorno alla notte, il
caso in azione,
nessun destino. Il colpo di fortuna, che domani potrebbe essere il
colpo di
grazia.
Quando
Andrea si era presentato in quel bar a Milano gli aveva chiesto di
assumere un
rischio. Sapeva che la grandezza non distingue tra successo e
insuccesso, sa
essere se stessa in entrambi i casi. Aveva accettato.
Come
in quel bacio.
Non
che contasse la macchina o l’essere sotto casa, o il ripetere
una scena già
conosciuta in gradi e tempi diversi: con i jeans, in costume da bagno,
con i
pantaloni da lavoro, con la cravatta, senza cravatta, bionda, mora, la
donna
della vita sbagliata, un’amica di suo fratello, una compagna
di università,
l’ex di Andrea – in totale malafede con annessa
confessione e minaccia di
scioglimento della società e pericolo sventato.
Non
che contasse quello né
i diciotto anni,
i venticinque o i trentadue; la musica o il silenzio, profumo o sudore.
Contava
più che altro la sua bocca, quello che la sua lingua stava
facendo, dove e
come.
I
capelli tra le dita, il collo a disposizione dei suoi denti o della sua
bocca,
che fossero, il peso caldo del suo corpo addosso, il profumo nel
cervello, la
sensazione dilagante senza che neanche lo avesse toccato, o forse
sì, il freddo
delle sue dita fatte di ossa premute contro la nuca, come se non
volesse che si
allontanasse, come se fosse meglio soffocare in un bacio piuttosto che
prendere
aria da soli.
Che
ne sapeva se quell’ardore fosse disperato o dedicato, se
avesse voglia proprio
di lui o desiderasse soltanto qualcuno, che ne sapeva degli uomini con
cui era
stata, di quanti avevano avuto la sua lingua nella propria bocca, e che
ne
sapeva di cosa volesse lui, di quanta disperazione ci stesse mettendo,
se fosse
stato in grado di fare l’amore con lei, se ne avesse
l’intenzione, o se sarebbe
stato solo sesso fatto bene, con la leggerezza con cui da grandi si
scopre che
il sesso e l’amore sono perfettamente in grado di
sopravvivere l’un l’altro
senza necessità di conoscersi diventando intimità.
Se
ne’era scopate tante in quella macchina, per dispetto a sua
madre che attendeva
un seggiolino nel sedile posteriore, per compiacenza di sé,
per mettere alla
prova le proprie capacità amatorie, per noia o solitudine,
perché ubriaco o
perché innamorato (forse, abbastanza, sì, per
poco).
Viola
aveva il nome di un fiore e la malinconia negli occhi, poi di colpo era
sfacciata o terribilmente ironica, viveva nella melodia di una lingua
straniera, forse era in quella che gli stava parlando in quel momento,
o forse
non stava prestando dovuta attenzione, era sbagliato chiedersi se la
toga
potesse conciliarsi ad altro?, era pericoloso valutare l’idea
di chiudere il
codice civile ed aprire un romanzo, di mangiare fuori e tornare nella
stessa
casa, avere due macchine parcheggiate, essere gelosi e non dirlo
all’altro ma
almeno a se stessi, ridere senza per forza dover dire
perché, fare colazione
all’autogrill senza voler leggere negli occhi della cassiera
e del barista e
del turista con la pelle color aragosta, perdere una causa per aver
dato
fiducia ad un collega, non concludere una frase e accettare i puntini
di
sospensione… e respirare nella pausa tra loro e
l’inizio del resto.
E
respirare.
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Ringraziamenti:
MyBlindedEyes: Grazie per il commento e il suo contenuto =) spero che il proseguo non deluda le aspettative, al fascino di Davide io purtroppo ho ceduto alla terza riga del racconto, vediamo quanto resisti tu! XD
[1] E’ il Libro del codice civile che si occupa Delle Obbligazioni, quindi anche della materia contrattuale.
[2] Mi dissocio da Viola, trovando melodico il tedesco e apprezzando la laconicità inglese. (che ci frega? Direte voi. Così, tanto per dire XD)
[3] E’ il modo in cui è chiamato il palazzo che ospita il tribunale di Cassazione. La sua edificazione ha una storia alquanto tormentata e in fin dei conti, anche dopo la definitiva costruzione nel 1910, non è mai stato apprezzato con sincera convinzione ^^ Io concordo con Davide, per quel che conta XD
[4] La statua di Giordano Bruno, a Campo de’ Fiori.