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Autore: Briseide    14/08/2010    3 recensioni
Davide è imbottigliato nel traffico.
Viola anche.
Un caffè in autogrill ha fatto il resto.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: Fatti e persone citati sono puramente casuali. Qualsiasi somiglianza o coincidenza è altrettanto casuale. Tranne il traffico sull’Aurelia.

Note:
1.    Il racconto è correlato al precedente Cliché ma solo in quanto ad un personaggio comune (Andrea) e ad altri citati solamente (Chiara, Amanda). Piccolemani è a se stante e può essere letto tranquillamente senza aver letto prima Cliché (benché se voi voleste, è sempre lì XD), e temporalmente è successivo di pochi mesi.
2.    Sono tre parti già terminate (chi mi segue da The way we were non crederà che a parlare sia io XD) quindi l’aggiornamento è prestabilibile e cadrà di sabato in giornata!
3.    Nel corso della storia compaiono tematiche letterarie etiche o teologiche che siano, sentitivi liberi di dissertare, credo nel dialogo e nella sofferta e indispensabile arte della dialettica (e forse per questo a breve mi verrà tolto il diritto di voto, chissà.) Citando Hillman: “Vi prego, non siamo a scuola e io non sono il vostro istruttore: lasciate parlare le idee.” =)
4.    Roma compare molto perché sono vent’anni che ho a che fare con lei e per quanto controverso sia il mio sentimento nei suoi confronti e per quanto la trovi mefitica e per quanto i romani a volte suscitino in me sommo fastidio – solo alcuni –, credo di esserne un po’ innamorata. Citerei Majakovskij ma poi diventerebbe troppo sentimentale il tutto (e poi Roma ha un clima mite XD)

Credit: Titolo e “sottotitoli” sono parole di E.E. Cummings, la poesia è Piccole mani. In fondo alla pagina il testo integrale.


Piccole mani

PRIMA PARTE
Il tuo più tenue sguardo.


Quando la radio rese noto il blocco al chilometro trecento sull’Aurelia per Davide era già troppo tardi. Lo aveva scoperto venti chilometri prima, quando la Panda davanti a lui aveva rallentato sinistramente, di colpo.
Grazie tante… pensò spegnendo la radio con astio legittimo.
Il trittico Luglio – traffico – Aurelia era rinomato per essere fatale, e lui era appena caduto nella sua rete.
Se solo non avesse accettato quell’invito per il finesettimana al mare, avrebbe evitato quel martirio.
Le dita composero con un mesto automatismo il numero del suo socio.
“Salvatore? Faccio tardi.”
“Che vuol dire? Quantifica tardi.”
“Vuol dire che sono sull’Aurelia e non si muove niente.”
Ci fu un silenzio considerevole dall’altra parte.
“Ho capito. Cederò le tue quote di partecipazione ad Andrea. È stato bello averti come socio.”
Poi il suo accento siculo si spense, insieme alla telefonata.

*

“Ma che succede, si può sapere?”
“Un incidente?”
“Ma no, è il tagliaerba del Comune…”
“Senta scusi, ma alla radio non dicono niente?”
“Lucilla, avvisa tu in reparto che faccio tardi—“
Davide pensò di insonorizzarsi passando all’aria condizionata, quando notò con lampante tempismo di essere quasi in riserva.
Rifletté sul fatto che certe giornate non andrebbero vissute, per non correre il rischio che siano le ultime, a dire dal numero di segnali negativi incontrati lungo il percorso in sole tre ore dal risveglio.
Del resto neanche sarebbe potuto tornare indietro, intrappolato tra una Panda viola dove una donna approfittava del blocco per finire di truccarsi a dovere al fine di sembrare una persona diversa da quella che il suo capo si era scopato senza troppe remore la sera prima nel villino al mare, e una moto cavalcata da un uomo sulla quarantina che non si era rassegnato né alla fine dei suoi anni di gloria né all’intelligenza del parlare allo sfortunato guidatore al suo fianco abbassando la visiera del casco. Davide non capì una sola parola di quello che gli chiese e annuì con aria affabile, prima di voltare la testa dall’altra parte.

Che poi, tutto sommato, neanche si sarebbe dovuto dispiacere più di tanto, per quel contrattempo. Non aveva comunque voglia di andare a lavoro. I soliti venti minuti alla ricerca di un parcheggio, l’ascensore con la luce ballerina, lo sguardo torvo della portiera al mancato buongiorno, e l’odore del sigaro che Salvatore aveva di certo già acceso e appoggiato al posacenere, in attesa del suo arrivo, al solo scopo di infastidirlo di prima mattina. “Quando sei incazzato rendi meglio in tribunale, lo faccio per lo studio” gli avrebbe detto, con quell’accento siciliano e i baffetti tremolanti sotto il suo sorriso furbo, ma buono.
Alla fine si era affezionato a Salvatore, a dispetto di ogni logica e probabilmente contro ogni buonsenso.
Andrea aveva insistito perché lavorasse con loro, con il chiaro intento di designarlo al diritto di famiglia. A causa della sua aria bendisposta avrebbe ammorbidito qualsiasi assistente sociale e giudice minorile, a detta del suo socio.
Davide invece credeva che bisognasse essere squali nella vita, perché la delicatezza pacifica dei pesci piccoli finiva con altrettanta semplicità nello stomaco dei pesci grandi.
“Fidati di qualcuno diverso da te, per una volta. L’ho assunto.” gli fece sapere Andrea, lasciandogli un post-it sulla sua scrivania.
Davide si era fidato, più per costrizione che per scelta, e alla fine pur continuando a dubitare delle attitudini professionali di Salvatore, si era affezionato, come uno scemo.
Colpa del suo accento, dei suoi occhi marroni, grandi e buoni, delle mani grandi che offrivano sempre un caffè dopo una causa, di quei baffetti che lo facevano sembrare un anarchico anni venti… insomma, si era affezionato e basta.
“Parli di Salvo come se fosse un cane” gli disse una volta Andrea, sornione “… ma ho capito che ti piace. Allora, ce lo teniamo, papà?”
Se l’erano tenuti.

Nonostante la sinergia trovata con i suoi colleghi, però, Davide non aveva ugualmente voglia di chiudersi in studio, ricevere telefonate da clienti preoccupati che l’avvocato avesse dimenticato i loro guai, fumare sigarette con la finestra aperta alle proprie spalle e fogli pieni di vicende giuridiche che in qualche modo avrebbe dovuto dipanare.
Si era laureato con l’obiettivo – Davide non faceva mai niente senza uno scopo preciso – di raggiungere la Cassazione, e da lì di potersi esprimere in legittimità lasciando giudizi di merito ai suoi colleghi delle corti d’Appello e dei Tribunali di Regione. Al di sopra. L’ultimo grado. Sentenza definitiva.
Invece si era trovato a dividere lo studio con un siciliano dal cuore tenero e un civilista esterofilo con una contraddittoria passione per il common law degli spocchiosi cugini d’oltre manica.
Dove avesse inciampato, non lo ricordava neanche più.
Si era presentata un’occasione di lavoro, poco dopo la laurea, un buon apprendistato presso uno studio legale di Milano, e lì aveva incontrato Andrea, appena laureato anche lui e già pubblicista per diversi giornali nazionali. Dopo qualche anno e un concorso aveva ottenuto una cattedra ordinaria a Roma, e così si erano salutati, fino a quando trascorsi si e no tre anni Andrea si era fatto di nuovo vivo, piombando tra capo e collo a Milano. Gli aveva chiesto un appuntamento per un caffè, assicurando di essere solo in visita, ma sul tavolino del bar gli aveva sbattuto con il suo solito piglio sicuro un po’ di scartoffie, che Davide aveva scoperto essere il progetto di aprire uno studio civilistico.
“Dentro o fuori?” gli chiese Andrea.
E Davide rispose: “Dentro”, perché di Milano non ne poteva più e di essere sottoposto di qualcuno, lui che sognava l’ultimo grado, neanche.

*

Il telefono aveva iniziato a squillare da diversi secondi quando Davide, riuscendo a strappare se stesso dal gorgo di quei pensieri, si affannò a cercarlo.
“Sì” disse, portandoselo all’orecchio e riuscendo addirittura ad inserire la seconda marcia. Forse c’era la concreta possibilità che riuscisse a lasciare l’Aurelia prima dell’età pensionabile.
“Ho appena acquistato le tue quote” gli giunse voce dall’altro capo.
“Professorino da quattro soldi” – le labbra sottili tese in un sorriso di goliardia maschile – “Perché non sei a mettere sotto torchio qualche studente?”
“Amanda” fu la risposta, a cui non bisognava aggiungere altro. Amanda tendeva a compierne una delle sue con una cadenza piuttosto regolare, e la gamma di possibilità era tanto vasta che ormai chiunque avesse a che fare indirettamente con lei si riservava di immaginare quale fosse la fattispecie del giorno.
“Da quando la frequenti la tua vita è diventata un romanzo picaresco” osservò allentando il nodo della cravatta per non soffocare. Nel compiere il gesto fu obbligato a voltare leggermente la testa, e fu allora che incontrò lo sguardo di una ragazza, nella macchina accanto.
Lo guardava da un po’, a dire dalla fissità della sua posizione.
“Smettila di fare il letterato e presentati in studio, mi ha detto Salvo—”
Gli sorrise, scrollando le spalle, a voler sottolineare che non ci fosse niente da fare ormai se non scrollare le spalle e sorridere, sull’Aurelia bloccata dal traffico in pieno Luglio.
Davide non seppe cosa replicare alla spontaneità di quel gesto. Sentì le labbra ammorbidirsi in quello che in ogni caso non riuscì ad essere un sorriso. Più per riflesso che per reale intenzione.
“— della causa. Capito?”
Lei rimase a guardarlo ancora, come se il loro scambio non si fosse concluso.
E Davide rimase a guardarla ancora, chiedendosi cosa volesse. Era una domanda tuttavia priva di astio o di fastidio, giunti a quel punto, solo piena di perplessità.
Lei dovette percepire la sua confusione, e come se avesse registrato in quel momento che fosse anche al telefono, deviò lo sguardo da lui. Fu rapida, ma senza alcuna timidezza. Con una certa riservatezza, anzi. Come se lo avesse lasciato solo nella stanza, alla sua telefonata, rimanendo seduta in salotto a leggere un libro, nel frattempo.
“Davide? Mi senti? Cos’è, un ictus?”
“Sì ho capito” mentì prontamente. “Poi mi faccio spiegare da Salvatore.” disse, concludendo la telefonata.

*

Si sentì piuttosto idiota quando, allontanando il telefono dall’orecchio, sorprese se stesso a voltarsi verso la macchina a fianco. Lo fece come se si trovasse in altro da sé, e non fosse proprio lui a compiere quel gesto così infantile. In ogni caso, non trovò la ragazza. Sparita alla sua vista.
Il che gli diede modo di tornare a guardare dritto davanti a sé, con uno scatto brusco come lo è l’imbarazzo.
Che cazzo fai? Ebbe il tempo di chiedersi. Nelle circostanze di sommo fastidio verso di sé si rivolgeva a se stesso allo stesso modo e con lo stesso tono aspro con cui suo padre lo rimproverava da piccolo.
Niente, fermo di nuovo. Seconda, prima. In folle.
Di nuovo la tentazione di voltarsi. Tanto che gli sembrava scomodo guardare davanti a sé. Come se la naturalezza del corpo lo volesse girato a guardare nella macchina accanto.
In ogni caso fu costretto, quando vide qualcosa agitarsi proprio lì dentro.
Era la ragazza, riemersa dai meandri in cui era sprofondata poco prima – per forza è riemersa, ci siamo mossi, pensò ancora con lo stesso tono appuntito Davide – che gli faceva cenni con la mano perché si accorgesse del suo richiamo.
Quando si voltò la trovò allungata verso il sedile del passeggero, il corpo teso nello sforzo di premere un foglio a quadretti contro il finestrino. Nonostante fosse chiaro che quel gesto le stesse chiedendo uno sforzo di contorsionismo, Davide si prese tempo di leggere due volte quel foglietto.
Infine sconfisse la propria incredulità. C’era proprio scritto così.
Caffè – autogrill?


*

Che cazzo fai? Continuò a ripetersi di nuovo, per tutto il tratto che lo separò dall’autogrill.
Sempre trovandosi in altro da sé aveva annuito, ottenendo in cambio un sorriso compiaciuto dalla ragazza.
Che era visibilmente giovane e preda di pericolose abitudini autostradali.
Era in ritardo, ricordò a se stesso, ma aveva anche pensato che in effetti non aveva fatto colazione.
Salvatore aveva una pratica da esaminare con lui, una causa piuttosto spinosa a quanto pareva, ma del resto che fretta c’era, il loro cliente avrebbe come minimo dovuto pagare gli alimenti, il resto della separazione dei beni poteva aspettare.
Non gli aveva di certo consigliato lui di sposarsi.
Quei capelli erano davvero biondi in quel modo o erano tinti?
E la pelle? Sole o lampada?
E quanti altri uomini aveva abbordato in quel modo, in mezzo al traffico?
Aveva un senso quello che stava facendo?
E se anche non lo avesse avuto? In ogni caso doveva fare benzina.
Ecco, trovato il senso.
Quindi, alla fine, inserì la freccia a destra ed entrò per primo nel parcheggio dell’Autogrill.

*

Davide era sempre stato a suo agio nell’arte della parola.
Aveva perso delle cause, ma anche in quei casi era sempre stato impeccabile nell’eloquio.
Gli esami ai tempi dell’università, i colloqui, i patteggiamenti con l’avvocato avverso e i dibattimenti in aula, così come gli annunci alle cene di famiglia, i messaggi di corteggiamento a qualche donna e i discorsi con cui decideva di recedere dal “nostro rapporto”, le discussioni di politica e diritto con Andrea, le conversazioni telefoniche a parenti lontani chiamati confondendo il loro numero con quello di altri e via di seguito.
Una vita spesa nella più attenta cura della forma, al punto da esasperare persino la pignoleria di Andrea.
A Davide capitava ancora più che al collega di foderare ogni contenuto con un tessuto di parole in perfetta armonia sintattica tra loro; il pathos di un discorso con le sue vette aspre e i suoi dislivelli tonali era tenuto sotto controllo da una melodia di assonanze. “Sei disgustosamente d’annunziano. E alla Corte piace.” borbottava Andrea, che prediligeva la sintassi stringata e sincopata, come i suoi gesti e i suoi rigidi dogmatismi giurisprudenziali.
Restava il fatto che nel parcheggio di quell’autogrill Davide non sapeva assolutamente che cosa dire.

“Scusa se mi sono permessa” disse infine lei, rompendo il ghiaccio. “Ma la situazione era comunque tragica, quindi…” lasciò incompiuta la frase, in quello che Davide aveva sempre ritenuto un vizio da analfabeta o nel caso migliore da indeciso. Eppure quei puntini di sospensione, abitualmente tanto accondiscendenti e vili, usati in quel contesto e accompagnati da quel sorriso e quel modo di gesticolare, ebbero quasi un senso.
“Viola” aggiunse, senza prendersi la briga di costruire una frase intorno ad un’informazione, valutò ancora Davide.
Si presentò a sua volta, porgendole la mano, come era sua abitudine. Gli era utile porre una certa distanza tra sé e il prossimo, ché poteva essere un prossimo amico o un prossimo avversario o una prossima sventura, un prossimo rimorso… e via di seguito.
Viola ricambiò la stretta, ma decise anche di sporgersi verso di lui e dargli due baci sulla guancia.
Le era piaciuta da subito, quella barba rada, un po’ incolta – che Davide aveva in mente di eliminare appena arrivato allo studio – e aveva voluto conoscerne la consistenza. Ma questo non lo disse subito, preferendo lasciare a lui lo sgomento e a se stessa un briciolo di timidezza a riguardo.

“Ciao” la sentì approcciare il barista.
Inutile dire che lui avrebbe scelto un convenevole appena più distaccato. Vedendola accanto a sé si chiese che effetto facessero vicini. Cosa potesse pensare la gente del loro modo di ordinare una colazione in un autogrill. Si chiese se la cassiera alle loro spalle li avesse ritenuti due amici in viaggio, o se il barista li avesse scambiati invece per una giovane coppia prossima ad un figlio magari, o se ancora quel turista dalla pelle bianca e l’abbronzatura aragosta si stesse chiedendo che ci facessero l’acqua e il fuoco fianco a fianco in un bar di passaggio autostradale.
O forse a nessuno frega niente vociò esasperato il se stesso–padre nella sua testa.
“Un succo d’arancia e quei pasticcini lì” ordinò lei.
“Un caffè” la seguì Davide guardandola vagamente interdetto senza accorgersi di averlo fatto.
“Perché mi guardi così?” chiese infatti Viola, per un momento perdendo la spigliatezza con cui si era presentata. Davide scosse la testa, ma infine non riuscì a non dirlo.
“No, è che… sembra la colazione di un bambino.” Non intendeva esprimere giudizi di valore, benché si rese conto ascoltando le proprie parole che fosse difficile non credere il contrario.
Tuttavia Viola scrollò le spalle, cercando di tenere a freno l’offesa.
“La tua sembra quella di un amministratore delegato” replicò bevendo il suo succo d’arancia.
“Avvocato” la corresse, sentendo l’ars oratoria tornare in carreggiata.
Un lampo di curiosità le accese lo sguardo, e si sentì nudo, senza capirne esattamente il motivo.
“Andavi in tribunale?”
“No, stavo raggiungendo un collega. Abbiamo uno studio privato.” Perché dai tutte queste informazioni? Questa volta era la voce di sua madre, in quel suo solito allarmismo ereditato da una vita di paese trapiantata in città.
“Penalista.”
“No, civilista.”
“Non ne indovino una” commentò Viola – Viola, che nome insolito – ridendo di sé. Sembrava felice, però, di sbagliare ogni pronostico.
“Tu che ci facevi sull’Aurelia?”
“Tornavo dal mare.”
“Troppo facile.”
Si meravigliò di sé scoprendosi interessato ad una risposta che fosse esaustiva. Si disse che anche quella era una deformazione professionale, come il pensiero di fare ricorso a priori ad ogni multa ricevuta o quello di leggere dettagliatamente tutta la posta condominiale con la certezza di trovarvi un tranello di bassa lega ordito da quella mente poco vivace dell’amministratore – oppure si trattava solo della legittima rassicurante pretesa di avere tante informazioni quanto quelle fornite a sua volta.
Oppure, Viola aveva un modo di sorridere accattivante, e lui non aveva mai incontrato qualcuno che proponesse una colazione ad uno sconosciuto adocchiato nel traffico.
Adocchiato, pensò, rimproverandosi la supponenza.
Magari era solo una giovane annoiata in cerca di avvenimenti insoliti da raccontare ad una cena tra amiche su una terrazza del Gianicolo.
Se la smettessi di pensare per luoghi comuni? Proprio tu, che metti il naso nelle più sordide attività illecite di cittadini al di sopra di ogni sospetto si rimproverò ancora.
“Faccio la traduttrice” gli concesse Viola, addentando un biscotto. Gli offrì l’altro rimasto, ma Davide declinò cortesemente. Prima delle dieci il suo stomaco era ermeticamente chiuso. Anche dopo le dieci, in realtà. Stress e mancanza di tempo per mangiare, a quanto pareva.
“Dall’aramaico?” la prese in giro cedendo infine al suo bisogno di controllo.
Viola socchiuse gli occhi sorniona.
“Dall’ebraico e dall’arabo.”
“Sei seria?”
“No, era per smontare il tuo altezzoso scetticismo” eppure continuava a sorridergli, più in alto di lui.
Davide lo aveva sempre saputo che l’ironia è più forte di ogni sarcasmo.
Anche del suo.
“Quindi traduci dal sumero.”
“Occasionalmente anche dal sanscrito.”
Il barista li guardava come se stesse assistendo ad una scena del teatro dell’assurdo.
Davide si sentiva in ogni caso calato nella parte, per quanto non riuscisse ad uscire da quella condizione di leggera idiozia.
“Mi arrendo” disse, sollevando le mani.
Viola lo guardò e fece un cenno con la testa: la abbassò appena, le ciglia ad ombreggiare lo sguardo.
“Ebraico e arabo.”
“Va bene, ci credo.”

*

“Adesso te ne torni in studio?”
Avevano ormai raggiunto le rispettive macchine.
Erano parcheggiate una accanto all’altra, e la macchina lunga e grigia di Davide aveva un’aria imponente al fianco della scatoletta colorata di Viola. Sembrava le facesse la guardia, pensò lei, facendo di nuovo quel cenno con la testa, per nascondere un sorriso.
“Traffico permettendo, è quello che mi tocca. Tu se non altro puoi lavorare per prati.”
Tirando fuori le chiavi della macchina prese atto di avere ancora meno voglia di prima di tornare a Roma.
Avrebbe voluto chiedere a Viola perché avesse scelto proprio ebraico e arabo tra tante altre lingue europee e di narrativa contemporanea. Ma forse lavorava per qualche ambasciata, e allora era stata una scelta logica e guidata.
Viola non rispose, come se non avesse ascoltato. Rimase in silenzio, facendo ciondolare le chiavi tra le dita, avanti e indietro, a lui ricordò le altalene del parco in cui lo portava sua madre da piccolo. Che pensieri assurdi. Adesso non avrebbe neanche saputo riconoscerla, un’altalena.
“Dov’è il tuo studio?” chiese di improvviso Viola, dopo lungo pensare.
Sembrava essere venuta a patti con se stessa, e non lo guardava più in volto come poco prima, al bar, tra succo d’arancia caffè e pasticcini, di colpo schiva, lunare.
Davide si sentì sputare fuori l’indirizzo corredato anche di numero civico.
Non aggiunse altro, sapendo che nella palazzina il loro fosse l’unico studio legale.
E in ogni caso era ancora troppo frastornato dalla situazione per poter compiere scelte avvedute e ripartite secondo logica.
“Ho capito.” disse soltanto, Viola, rimanendo in silenzio di nuovo per qualche secondo. Davide sperò – con la parte che era in altro da sé – che stesse sfruttando quel tempo per memorizzare l’indirizzo. Se fosse stato meno dignitoso forse avrebbe aperto la propria macchina, spalancato il cruscotto e le avrebbe dato il suo biglietto da visita. Ma gli parve in qualche modo volgare e troppo compromettente.
“Buon viaggio, allora” si congedò dopo averla ringraziata per l’idea della colazione.
Viola annuì, riacquistando il sorriso di poco prima. Davide ebbe l’impressione che fosse un sorriso ironico diretto personalmente a lui e al suo modo di fare. Sembrava lo trovasse buffo. Seppe da subito che non avrebbe potuto fare niente, in merito.
“Anche a te. È stato un piacere.”
Lo baciò di nuovo sulle guance, per sentire ancora la sua barba ispida
Non sapeva, Viola, se avrebbe davvero trovato il coraggio di cercare il suo studio.
Quindi tanto valeva accomiatarsi da ciò che per primo di lui l’aveva conquistata dal finestrino assolato della sua macchina.

--

Piccole mani
Il tuo più tenue sguardo
facilmente mi aprirà
benché abbia chiuso me stesso
come dita
sempre mi apri petalo per petalo
come la primavera fa
toccando accortamente
misteriosamente la sua
prima rosa
e io non so quello che c’è
in te che chiude e apre
solo qualcosa in me
comprende che è più
profonda la luce dei tuoi
occhi di tutte le rose.
Nessuno neanche
la pioggia ha
così piccole mani.


A sabato prossimo!

  
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