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Autore: Briseide    21/08/2010    1 recensioni
Davide è imbottigliato nel traffico.
Viola anche.
Un caffè in autogrill ha fatto il resto.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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SECONDA PARTE

Come dita sempre mi apri petalo per petalo.

 

 

Dal pianerottolo sembrava che nel suo studio si stesse svolgendo la seconda parte della battaglia di Al Alamein, pensò Davide appena uscito dall’ascensore.

Eppure una volta all’interno prese atto che ci fosse solo Salvatore, e che il più stesse avvenendo per telefono tra lui e certamente Andrea, a dire da come fremevano i suoi baffetti anarchici.

“E’ fuori da ogni logica!” urlò mentre Davide si impossessava della sua stanza chiudendosi la porta alle spalle.

Aveva un discreto mal di testa, il lascito della cena a casa di suo fratello la sera prima. Vieni anche tu, siamo i soliti, una cenetta tranquilla, non fare l’orso. E alla fine era tornato a casa alle tre di notte, con vino rosso primitivo a scorrergli nelle vene al posto del sangue e in macchina una certa Irene da dover riaccompagnare.

Non aveva nessuna intenzione di occuparsi dei drammi dei suoi soci.

Come se avesse origliato i suoi pensieri, Salvatore aprì la porta della stanza, furente, brandendo il telefono come un’arma di distruzione di massa.

“Parlaci tu” disse esasperato con forte accento siculo – succedeva ogni qualvolta la sua pacatezza soccombesse ad Andrea e i suoi dispotici capricci – “Io non voglio saperne dei vostri inciuci contrattuali” e con quello sbatté il cellulare nelle mani di Davide e si accasciò sulla poltrona ben deciso a non perdersi la conclusione.

“Andrea. Qual è il problema.”

Salvatore accavallò le gambe e si accese un sigaro, ignorando lo sguardo omicida del collega. Era qualcosa che esulava dalle sue facoltà di comprendonio il modo di stare al mondo che avevano quei due. Uno preda di un forsennato amor proprio, la sindrome da Dio del Foro la chiamava lui, e l’altro placido e distaccato, lontano da qualsiasi giudizio di valore e di merito, come se niente lo riguardasse al di fuori di quanto dovesse portare a termine per puro perfezionismo, prima ancora che convinzione.

Adesso se ne stavano al telefono, Andrea a lamentarsi dell’eticità del socio che per primo aveva insistito per assumere, e Davide a raccogliere informazioni esulando dalle urla e dai lamenti le notizie veramente necessarie alla soluzione del conflitto.

“Mh. Mi sembra un mutuo più che un corrispettivo di prezzo.” disse, aprendo la finestra perché l’odore di sigaro uscisse dalla stanza. Salvatore alzò gli occhi al soffitto, sprofondando ulteriormente nella poltrona. Valutò l’ordine geometrico con cui ogni cosa era disposta nella stanza di Davide: la scrivania sgombra di qualsiasi suppellettile, gli spazi sfruttati in una economia perfettamente misurata. Lui aveva cassetti pieni di fogli e post it ovunque, anche sul porta sigari, e le sedie le sfruttava per poggiarci altra roba, non di certo per ricevere un cliente, che preferiva accogliere nel bar sotto l’ufficio o comodamente seduti nella stanza di Andrea, sempre assente dietro i suoi impegni universitari.

“E allora? Il divieto di patti commissori dove lo lasci?” sentiva dire Davide, che aveva iniziato a giocare con una penna a scatti. I baffi di Salvatore vibrarono compiaciuti: era esattamente quello che aveva cercato di far capire ad Andrea, prima di sentirsi definire avvocaticchio e di ricevere l’invito a giocare al marito e moglie come gli era più congeniale fare.

“Mh.” mormorò Davide, tornando seduto e guardando Salvatore dritto negli occhi. Per un momento l’altro si chiese se non stessero parlando di lui, in effetti. “Patteggiamo: fumati il solito pacchetto di sigarette, boccia qualche studente e richiamami quando avrai ridimensionato il tuo ego.” Ciò detto chiuse lo sportello del cellulare e lo restituì al proprietario con un gesto fluido e deciso. “Tu e il tuo sigaro fuori dalla mia stanza. E se mai vi capitasse anche fuori dalla mia vita.”

“Che ne è venuto fuori?” si informò Salvatore, senza assecondare nessuna delle due richieste.

“Tu sei troppo accudente, Salvatore, e per primo accudisci il suo fanatismo isterico” commentò l’altro tirando fuori le sue pratiche personali.

“La sua illogicità mi manda in bestia” ammise passandosi una mano tra i baffi. Davide sorrise lupesco, senza alzare la testa.

“Lo so. Ma così lo assecondi, invece di ridimensionarlo. E comunque ha ragione: è meglio che ti dedichi a vedovanze e figliolanza non riconosciuta”. Poi pensò di controllare di non averlo offeso, e soggiunse con una inflessione più tenue “Ti donano di più”.

Salvatore lo guardava in cagnesco, scuotendo la testa. Si era rassegnato all’idea di dividere l’attività lavorativa con due devoti al Libro Quarto[1] come fosse una Bibbia o un Corano, e tutto sommato riconosceva la loro dimestichezza nell’aggirare ostacoli e rendere un cavillo il tema portante in un contesto probatorio.

Si chiedeva solo se questa continua opera di attorniamento, questa eterna partita a scacchi fatta di salti laterali e avviluppamento di pedine, non li facesse mai sentire lontani e a disagio quando poi si trattava di camminare dritti e non mangiare pedine, in tutto il resto.

“Quello è un patto commissorio” volle aggiungere ancora, per pura ripicca.

“Certo che lo è, lo sappiamo tutti, Andrea compreso” osservò placido Davide, sorridendogli in quel suo modo sincero e scanzonato che lo rendeva eterno ragazzino nei momenti di pausa dal lavoro, come quello.

Poi il citofono suonò.

 

*

 

“C’è una donna che ti cerca.”

Davide tracciò un segno inconsulto con la penna, sulla notifica che stava scrivendo.

Gli occhi di Salvatore lo guardavano ridenti.

“C’è della figliolanza di cui vuoi che mi occupi?” domandò irrisorio, chiudendosi nella stanza di Andrea per prepararsi a ricevere il cliente delle undici. Sua Devozione, l’aveva chiamata Davide la prima volta che l’aveva vista uscire dal loro studio, con a seguito il suo giovane amante spacciato per un cugino di terzo grado e una lista di beni immobiliari che aveva reso noto avrebbe avuto piacere di cui disporre, alla faccia del marito.

Non rispose a Salvatore, ricoprì la penna del suo cappuccio, inserì il foglio nel cassetto delle pratiche da terminare e si decise a raggiungere il citofono. Non che gli fosse venuta in mente Irene, al primo pensiero.

In quei giorni aveva finto di dimenticarsi di Viola. Ad Andrea non aveva detto niente, certo che avrebbe demolito il tutto con quel cinismo che gli era proprio, e del resto forse Davide avrebbe fatto lo stesso, con identico scetticismo con cui accolse la notizia della promozione di Amanda da assistente ad accompagnatrice ufficiale.

“Sì?” chiese cercando di recuperare il tono pratico dell’uomo impegnato. Il che lo fece sentire doppiamente idiota, ancora una volta, come se avesse di nuovo sedici anni e dovesse fare appello a trucchi di bassa lega per sopperire alla mancanza di autostima, o di muscoli o di sorrisi alla Clark Gable.

“Ciao” disse Viola, dalla cornetta. La voce era metallica ma decisamente sua.

Davide sentì qualcosa attraversarlo da parte a parte.

Cercò di suonare naturale nel restituirle il saluto, ma in realtà avrebbe voluto chiederle quante volte avesse fatto il giro del palazzo prima di decidersi a premere quel tasto sul citofono, o quanto avesse dovuto pensarci e che scuse avesse fabbricato per darsi la chance dell’ennesima azione sconsiderata… O un caffè. Magari avrebbe solo voluto chiederle se le andava un caffè, da adulti. Avrebbe storto le labbra, come quando non aveva creduto al suo lavoro.

“Hai da fare?”

Forse gli piaceva quel suo modo di arrivare dritta al punto, tagliando di netto ogni imbarazzo, senza impelagarsi in convenevoli e accordi preliminari riguardo a compostezze e convenienze.

Aveva da fare? C’era quell’attico da liberare, per il suo assistito, la diffida di pagamento da inoltrare al conduttore inadempiente.

“Dammi dieci minuti” rispose invece. Iniziava a vivere un po’ troppo spesso nel altro da sé. Questi metafisici pretesti rendevano ancora meno decoroso il suo atteggiamento, ma non riusciva a farne a meno. Qualsiasi cosa gli avesse mai procurato un piacere gratuito, nella vita, ai suoi occhi aveva avuto bisogno di una giustificazione. Come gli era servita una giusta causa diversa dalla sua attrazione seducente per la Legge, quando aveva chiesto ai genitori un codice civile e non una laurea in ingegneria. “Mi occuperò io di tutto” aveva assicurato, agli inizi della sua carriera universitaria, anche se di fare l’avvocato di famiglia non aveva alcuna intenzione e già allora anelasse alla Cassazione e al supremo giudizio.

“Salvatore, devo assentarmi” annunciò, scegliendo un falso imperativo categorico dimostrandosi fedele a se stesso. Doveva perché in realtà aveva atteso quella visita per diversi giorni, al punto che vederla concretizzata era quasi divenuta una necessità.

Salvatore urlò qualcosa dalla stanza di Andrea, in fondo al corridoio, che Davide non sentì.

Fuori dall’ascensore c’era già Sua Devozione.

“Buongiorno” salutò in fretta, sbattendo contro il falso cugino di terzo grado.

 

*

 

 

Viola lo aspettava fuori dal portone, il sole attraversava di sbieco il vestito di tessuto leggero che aveva addosso. Se anche non avesse voluto – e in ogni caso aveva voluto – avvicinandosi a lei Davide poté quasi vedere oltre il cotone bianco.

Non sapeva se si ricordasse fedelmente il suo viso, l’aveva vista per poco tempo.

Ebbe anche l’impressione che Salvatore affacciato alla finestra non si stesse perdendo la scena, ma allontanò subito il pensiero, etichettandolo come paranoia da coda di paglia.

In fondo non stava facendo niente di male.

“Scusa, dovevo sbrigare delle cose”.

A parte lesinare sul lavoro e comportarsi da adolescente anni cinquanta.

“Una dura vita spesa in onore della legge” lo prese in giro lei, accogliendolo con un sorriso.

Era leggermente diversa da qualche giorno prima, sembrava meno giovane di quanto avesse stimato allora, o forse la consapevolezza con cui soppesava ogni gesto la gravava del peso degli adulti.

“Passavi di qui?” le chiese, con un sorriso da rivista pensò Viola, trovandolo affascinante e cretino come solo un uomo sa essere allo stesso tempo.

“Divertente” e con quello gli confermò di essere passata al suo studio con l’intento più o meno preciso di vederlo di nuovo. Come se quella cravatta che aveva al collo potesse renderlo più interessante ai suoi occhi, che si erano riempiti dei colori e degli odori della terra di Israele e non avevano più niente a che fare, quasi, con gli europeismi di un avvocato giovane e in carriera.

Eppure, lo aveva visto in macchina, colta da un momento di pigra distrazione nel traffico, e forse era la luce del sole alle otto di mattina, o il modo in cui aveva appoggiato il braccio sul finestrino, e la presa ferma e ferrea con cui si teneva il cellulare all’orecchio, o la linea serrata della mascella, e la barba sfatta in contrasto con la cura della cravatta e della camicia, o il modo in cui teneva una sola mano sul volante come se stesse guidando con la forza del pensiero, o il tono in cui aveva ordinato un caffè bevuto in due sorsi decisi, o il gesto automatico ma presente a se stesso dell’estrarre le chiavi della macchina e fare strada uscendo dall’autogrill… quel suo essere così maschile. Al diavolo, non ci aveva dormito quella notte.

E probabilmente si trattava di sublimazione, aveva reso una tela bianca un quadro impressionista e incontrarlo di nuovo l’avrebbe solo costretta a stracciare la tela e chiuderla nello scantinato insieme a tutti gli altri cadaveri delle delusioni passate.

Una più, una meno… si era detta, consapevole che non si trattasse del numero raggiunto ma della intensità con cui voleva incontrare ancora la ruvidità della sua guancia, e della sensazione sicura dell’averlo accanto ad un bar o per la strada.

“Avevi in mente qualcosa, passando di qui?”

Persino quel suo modo di essere ironico, di scivolare nel sarcasmo e spegnerne l’asprezza con un sorriso brillante e divertito, le piaceva. Lei che detestava tutto ciò che fosse tagliente e amaro, a partire dal caffè senza zucchero per arrivare alla più sferzante delle derisioni, era rimasta con le spalle al muro di fronte a quella specie di tirannia che emanavano i gesti e le parole di quell’uomo. A dispetto dei suoi silenzi, che sembravano pieni di ombre e timidezze.

Quel contrasto, ecco cos’era.

 

*

 

“Perché ebraico e arabo?” ebbe finalmente modo di chiederle, attraversando la strada.

Viola si appoggiò al muretto, affacciandosi sul Tevere. Il pregio di avere uno studio in Prati si limitava alla vicinanza con il Tribunale e la Cassazione e con il Lungotevere lì a qualche passo.

“Questione di suono” disse sorridendo e scrollando le spalle. Sembrava che non potesse fare una cosa senza l’altra: sorridere e non alzare le spalle, alzare le spalle e non sorridere.

Disse qualcosa di cui Davide non distinse neanche una sillaba, ma della quale riuscì a sentire il tracciato melodico.

“Meglio della secchezza inglese, dei suoni duri del tedesco[2]…” lasciò sospeso il resto delle sue valutazioni, e Davide compì l’ennesimo sforzo di non trovarvi un riempitivo.

Del resto lui dell’arte della composizione linguistica aveva fatto una specie di filosofia.

“Dimmi cosa c’è dietro un articolo di codice civile, per me sono una lunga serie di numeri” disse poi, guardandolo con un sorriso furbo.

“Il senso della società” rispose Davide, arrotolando le maniche della camicia.

Il caldo estivo aveva imperlato la sua fronte di sudore, la camicia aderiva più del dovuto su di lui, e Viola non riusciva a non guardarlo, combattuta tra la tentazione di cedere al naturale percorso del suo sguardo o il chiudere un po’ di sé nelle costrizioni a volte necessarie di una parte. Almeno per un po’.

“Ad eterna e salvifica memoria che la mia libertà finisce dove inizia la tua.”

Guardava lontano nel dirlo, come se i suoi occhi cercassero naturalmente il profilo del Palazzaccio[3], sapendolo dietro quell’angolo, poco più giù. Quel modo di appellarlo proprio degli occhi scettici del tempo, per lui si ammantava di una tenerezza tutta sua, modulava la lingua come se pronunciasse il nome della via della sua casa, lui che non lo trovava affatto brutto né sgraziato, troppo pesante a detta di fior fiori di critici ed esperti in materia. Davide lo trovava piantato al suolo, imponente e ricco come lo è la Giustizia, che poco si adatta a frivolezze rococò o a barocchismi di sorta. Duro e pesante, come la Legge.

“Non ti capita mai di discutere con i tuoi colleghi? Tra voi non siete mai d’accordo su niente.”

Sorrise, tornando a guardare Viola.

“Certo. Giorni fa Andrea ha dovuto sospendere il ring tra me e Salvatore.”

“Riguardo?”

“Regime patrimoniale tra coniugi. La legge vuole la comunione dei beni come prima scelta, ma così facendo un matrimonio di breve durata dove una parte produce ricchezza e acquista beni e l’altra no, destinato a concludersi dopo poco, si profila come un arricchimento indebito per chi non ha prodotto né incrementato il patrimonio familiare.” Si fermò un momento. “Mi segui?”

Viola alzò le spalle.

“Credo di essermi persa qualche puntata, ma ho capito il senso.”

Tacquero per un po’, il Tevere a scorrere lento sotto di loro, in mezzo all’inquinamento e alle chiatte ormeggiate.

Viola cercava di immaginare Davide in un’aula di tribunale, nel suo ambiente, con la toga da avvocato e lo sguardo fermo di chi sa di dover avere ragione. Lo immaginò teso nella battaglia, e poi lo immaginò anche studente, con il naso tra articoli del codice e letture giuridiche, severo e fiero come la legge quando non è violentata dall’uomo.

Si chiese quanto di sé avesse sacrificato alla dirittura della Legge, quanto di sé avesse dovuto immolare alla implacabilità di una convinzione, alla fermezza della parola: quanto ardore stritolato nella morsa di un decisionismo intrepido ma non veemente, per serbare l’equilibrio del giusto sottomettendo l’affanno del colpevole che scivola sullo specchio.

“Ti togli mai la toga?” finì con il chiedergli, riemergendo da quei pensieri.

Davide la guardò senza capire, o forse prese tempo per cercare una risposta ad una domanda irrisolta anche per lui.

“Fare l’avvocato è il tuo lavoro o la tua vocazione?”

Soppesò quella domanda, volgendo lo sguardo altrove.

Era arrivato un giorno in cui se l’era chiesto, se ci fosse altro di sé o se l’avvocatura avesse assorbito tutto. Se ci fosse mai stato dell’altro o se come Dio chiama i suoi sacerdoti ad essere solo suoi ministri e mai più uomini, allo stesso modo la Legge lo avesse chiamato a sé imponendogli di essere suo dipendente e nient’altro che una toga intorno alle spalle di un uomo.

Aveva perso i contorni tra chi era in aula e chi fuori, gli sembrava di essere sempre la stessa persona, di precludere a se stesso uomo gli stessi inciampi che si vietava di compiere in aula.

Amava il suo lavoro, per quanto non fosse in Cassazione, amava il suo lavoro al punto di chiedersi se amasse anche se stesso, o solo quello, il suo lavoro. La fredda precisione della legge. La sua capacità di creare e di reinventarsi, di seguire il percorso di una società in evoluzione, accogliendo le asprezze di ogni cambiamento per levigarle; accogliendo in sé quelle geometrie appuntite – ingoiandole negli accesi dibattiti dottrinali, nella sofferta e controversa prassi giurisprudenziale – solo per restituire al di fuori la superficie liscia di una norma.

Allo stesso modo Davide sentiva di contenere in sé ogni contraddizione, ogni scusa imperdonabile, ogni passo falso e ginocchio sbucciato, per restituire la serafica superficie di un atteggiamento fermo e inscalfibile.

“Non lo so più” disse a Viola, con un’espressione simile a quella dei suoi silenzi: pieni di ombre e timidezze.

 

*

 

Vittoria aveva ascoltato il fiume di parole che Viola le aveva riversato addosso come si ascolta il discorso di una demente.

Erano secoli che non le capitava di parlare così a lungo, in effetti, di dire così tante cose. Come se in qualche modo fosse uscita dal suo ermetismo, e di colpo.

Vittoria l’aveva accompagnata in aeroporto quando si era trattato di partire per Israele, chiedendole di mandarle qualche cartolina, di connettersi al computer, di lanciare segni di vita da laggiù. Non che volesse essere aggiornata sui suoi approfondimenti culturali.

“Non sparire” le disse prima di salutarla al check-in.

“Ma guarda che torno” l’aveva rassicurata Viola, come vinta dalla tenerezza negli occhi dell’amica. Era l’unica persona che lasciava con rammarico a terra, del resto, l’unica che avesse mai conosciuto in grado di sopravvivere alla irrequietezza delle sue relazioni. Giocavano nel parco dietro casa da bambine, V and V le chiamavano i genitori più moderni, l’Ambo gli anziani che prendevano l’ombra sotto i pini.

Da Israele non si era più fatta sentire, assorbita da un mondo diverso.

“Da quant’è che vi conoscete?” domandò Vittoria, versando mezza zuccheriera nel suo tè freddo.

Era sempre stata piuttosto scettica in merito agli entusiasmi di Viola, i soliti con cui si lanciava a capofitto in qualsiasi esperienza per uscirne con qualche osso fratturato e il sorriso mesto di chi assicura di stare bene e poi si chiude in casa in fase convalescente per un mese di silenzi e un anno di viaggi in Israele. A perfezionare la lingua.

“Il tempo è relativo” le rispose infatti.

“Adesso possiamo parlare di Marco quindi?” – il tono volutamente tagliente.

Viola persa a raggruppare fogli pieni di fonemi e ghirigori che Vittoria non riusciva a decifrare, inframmezzati da sporadici foglietti gialli di carta sottile pieni della sua grafia italiana piccola e nervosa, non le diede ascolto, non volutamente questa volta. Aveva impiegato settimane a convincere l’altra V. che il suo viaggio non fosse una fuga da Marco e la schizofrenia del loro rapporto, sapendo di non essere riuscita nell’intento.

“Mi daresti ragione se avessi visto il modo che ha di fare qualsiasi cosa” continuò per la sua strada, chiudendo i fogli in un cassetto colmo che ne lasciò sporgere i contorni accartocciati. “Qualsiasi. O la sua voce. Non ho mai incontrato nessuno così.”

“Nel traffico dell’Aurelia? Strano, avrei detto che è piuttosto frequente come cosa” borbottò l’altra, bevendo il suo tè. Vittoria era una delle poche persone, rigorosamente dopo Woody Allen, a cui Viola perdonava l’inflessione sarcastica in ogni commento.

“Rilassati” le giunse in risposta, dal fondo di un cassetto. “E’ solo una cena”.

Vittoria considerò quelle parole.

“Appunto” concluse, eloquente. “E’ solo una cena.”

Qualche giorno dopo la partenza di Viola aveva incontrato Marco in palestra. In quel luogo alienante come lo definiva Viola, che si era sempre rifiutata di metterci piede a costo di andare a correre nello smog di Roma in pieno traffico mattutino. Si erano salutati con aria mesta, entrambi malinconici per la  partenza di Viola, ognuno per i propri motivi. “Pensi che abbia intenzione di tornare?” aveva domandato Marco, tamponandosi la fronte con un asciugamano zuppo. “Ce lo chiediamo tutti, direi che è indicativo, no?” aveva risposto lei sospirosa.

 

Poi Viola era tornata, Vittoria era andata a prenderla in aeroporto e l’aveva trovata chiusa in un mutismo piuttosto deciso. Protratto per un discreto numero di mesi, in cui si era rintanata sul terrazzo di casa sua presa in una fervente opera di traduzione di articoli da quotidiani israeliani. Aveva accolto le visite di Vittoria con sorrisi spenti che si sforzavano di essere ospitali, e dopo un tè l’amica aveva sempre preferito lasciarla sola, sentendosi di troppo tra Viola e la sua solitudine.

Marco aveva chiamato due o tre volte, per tastare il terreno e capire se ci fosse un modo per rimanere in contatto, per conservare rapporti civili. Viola aveva riso delle sue preoccupazioni “Sono io che ti ho lasciato, devi dirmelo tu se vuoi sentirmi ancora” gli fece notare, lontana nella voce. Decisero di mettere una toppa e salvare ciò che di buono c’era stato ma lei non si era più fatta sentire dopo quella telefonata e Marco non l’aveva più cercata, sapendola distratta e indifferente, o solo triste per chissà quale spleen.

Infine, qualche settimana prima, Vittoria aveva ricevuto una sua chiamata: la avvertiva che sarebbe andata al mare, per un paio di giorni, le chiedeva se volesse raggiungerla, starsene un po’ a mollo, rosolarsi sotto il sole.

Sembrava tranquilla e serena, la sua voce era distesa, per telefono la sentiva sorridere.

“Non sono più abituata ad una città senza mare” disse con la pelle bagnata dall’acqua e gli zigomi arrossati dal sole. Vittoria aveva sorriso, sentendola di nuovo Viola. Non sapeva dove se ne andasse quando cadeva nella stagione dei silenzi. Nessuno lo sapeva. Sembrava un quadro di Hopper, carico di una malinconia immensa e devastante, ma inspiegata e inspiegabile, nessun punto di luce o di fuga nella scena ad indicarne la fonte.

Ma poi, in fondo, l’importante era che da quella solitudine tornasse da loro.

 

*

 

Riconobbe il muso da squalo della sua macchina grigia con la coda dell’occhio, chiudendo il portone.

Lui guardava in sua direzione, con un sorriso sulle labbra diretto poco a lei e molto a se stesso. Sembrava ridesse di sé. La divertì.

Comprese di aver desiderato salire in quella macchina, nel posto passeggero, dalla prima volta in cui aveva visto Davide guidarla per quei pochi chilometri sull’Aurelia. Un pensiero infantile forse, poco adulto, quella piacevolezza nel sentirsi a fianco di un uomo dalla guida salda e sicura, maschile, come quella di una pubblicità.

“Destinazione?” chiese lasciando perdere la cintura di sicurezza.

 

Destinazione ristorante del vecchio ghetto, il compiacimento del saperlo attento ai dettagli, la sorpresa dello scoprirlo conoscitore del posto. Caddero a Campo de’ Fiori, un saluto al buon Giordano[4], che vegliava taciturno adocchiando da lontano la Cupola nemica.

Turisti ubriachi, romani a passeggio serale con i cani e qualche amico, camerieri affacciati davanti all’insegna dei loro ristoranti in cerca di qualcuno che volesse fare quattro chiacchiere con loro più che mangiare, qualche bancarella agli angoli della strada, pattuglie di polizia fuori luogo a piazza Trilussa.

Camminavano tra la gente, a volte parlando piano, altre contemplando in silenzio il proprio trovarsi al fianco dell’altro.

Di nuovo Davide si era perso dietro quel gioco stupido del Indovina cosa pensa la gente. Incolpava la sua abitudine di fissare le persone per carpirne qualche segreto, era così con ogni collega avversario in aula, con ogni cliente, con ogni convenuto in giudizio che gli toccasse interrogare. Ma in quel caso non cercava tranelli né smottamenti del terreno dove poter agevolmente impiantare il seme della vittoria. In quel caso sapeva di cercare la compiacenza di quegli sconosciuti, sapeva di chiedere loro con aria fintamente distratta un nulla osta. Al solo scopo di non dare importanza a quei pareri, dal momento che l’unico giudice oltre la Legge per lui era sempre stato solo se stesso.

Viola gli camminava vicino, leggermente scostata, con il naso all’insù a cogliere odori e le orecchie tese ad impicciarsi di stralci di conversazione.

“Non hai mai pensato di scrivere qualcosa di tuo, oltre a tradurre?” le chiese Davide, riemergendo da qualche pensiero. Viola fece di nuovo quel gesto con la testa, ad avvolgere la timidezza del sorriso in un’ombra riservata.

“Qualche volta, ma non ho il dono della compiutezza. Non finisco mai quello che inizio” spiegò, alzando le spalle. Davide poggiò le proprie mani sulle sue spalle esili, lo fece senza pensare, sorridente, e Viola sentì le sue mani grandi e calde, le dita accolsero perfettamente la curva delle spalle, e sentì che in quel modo avrebbe potuto guidarla ovunque, lei si sarebbe fatta trasportare anche verso il dirupo, sotto la presa di mani simili. E forse quello era il suo problema. Questi assolutismi irriducibili che le impedivano di respirare l’aria del sobrio raziocinio.

“Potresti svelarmi tu qualche trucco” gli disse, alzando la testa stavolta, a cercare il suo sguardo. “Le tue arringhe hanno sempre una conclusione stringata, no?”

Davide rise.

“Il non liquet è dalla mia parte.” Lo disse quasi scusandosi. “Un giudice non può non decidere. La storia deve finire per forza, condanna o assoluzione, vincitore o soccombente.”

Viola pensò che quelle parole, e la toga, corrispondessero perfettamente alle sue mani.

Lei aveva dita sottili e lunghe, nervose, sempre fredde. Nella loro frenesia spesso lasciavano cadere oggetti.

“Che strano. Nella vita non funziona così.”

Le venne in mente Guccini che nella sua macchina cantava della ambiguità di vivere.

“Tu sei un ossimoro vivente” disse poi, sorridendo. Davide la guardò serio, a dispetto del tono scherzoso con cui aveva parlato Viola.

“In che senso?”

“Governi la legge, ma vivi una vita regolata dal caso.”

Poi sembrò ripensarci, per un momento.

“A meno che tu e Dio non siate in rapporti stretti” aggiunse sottotono.

“Non faccio mai niente senza avere uno scopo” rispose lui “ma solo perché so benissimo che uno scopo non c’è, in tutto il resto che mi accade.”

Non lo aveva mai detto a nessuno. Non che qualcuno glielo avesse mai chiesto. Sua madre lo aveva sempre osservato affannarsi nel suo lavoro e nei suoi doveri con aria preoccupata e il timore che non prendesse abbastanza aria, non mangiasse a sufficienza, non trovasse una donna con cui regalarle un nipote. Non si era mai chiesta dove fosse il fondamento della profonda dedizione di suo figlio a tutto ciò che fosse volto a dare conferma, che fosse negativa o positiva, a tutto ciò che potesse eliminare l’incertezza in una situazione.

Esattamente per questo: perché aveva scoperto, al telegiornale che suo padre ascoltava a pranzo, che non ci saranno di certo buoni e cattivi ma giusti e ingiusti e che i giusti spesso muoiono senza una giusta causa che renda merito al loro vivere secondo giustizia. Che una mattina un padre si mette in macchina con la propria figlia, e in autostrada verso il mare vengono travolti da una macchina uscita di strada per un guardrail mal sistemato, e che tutto per loro finisce lì, a quaranta e dodici anni, eterno padre di una bambina, eterna bambina mai donna, figlia per sempre senza mai essere madre. Aveva capito che nessuna giustizia – neanche e soprattutto divina – avrebbe mai potuto chiedere un prezzo così alto per potersi definire tale. Aveva capito che solo un caso senza intenzioni può essere artefice di simili disfatte. Che nel suo srotolare eventi ed accidenti lungo la vita degli uomini non c’è giustizia né ingiustizia, ché sono connotati umani che il caso non conosce.

Da allora, nello sforzo di limitare il suo potere, il potere comunque invincibile del caso, aveva cercato gli ultimi giudizi, aveva cercato di mettere certezze fin dove fosse possibile averle. Nella consapevolezza che fosse minima cosa di fronte alla vastità del caso, ma pur sempre grande nel piccolo mondo degli uomini, che vivono di esperienza e cercano di non sbagliare mai due volte.

Non lo aveva mai detto a nessuno.

 

*

 

 

La baciò con delicata circospezione. Come a voler ricevere conferma che fosse vero: l’Aurelia, l’autogrill, il citofono, il Lungotevere, il Caso, il ghetto, le traduzioni dall’arabo e la toga. Dal giorno alla notte, il caso in azione, nessun destino. Il colpo di fortuna, che domani potrebbe essere il colpo di grazia.

Quando Andrea si era presentato in quel bar a Milano gli aveva chiesto di assumere un rischio. Sapeva che la grandezza non distingue tra successo e insuccesso, sa essere se stessa in entrambi i casi. Aveva accettato.

Come in quel bacio.

 

Non che contasse la macchina o l’essere sotto casa, o il ripetere una scena già conosciuta in gradi e tempi diversi: con i jeans, in costume da bagno, con i pantaloni da lavoro, con la cravatta, senza cravatta, bionda, mora, la donna della vita sbagliata, un’amica di suo fratello, una compagna di università, l’ex di Andrea – in totale malafede con annessa confessione e minaccia di scioglimento della società e pericolo sventato.

Non che contasse quello né  i diciotto anni, i venticinque o i trentadue; la musica o il silenzio, profumo o sudore.

Contava più che altro la sua bocca, quello che la sua lingua stava facendo, dove e come.

I capelli tra le dita, il collo a disposizione dei suoi denti o della sua bocca, che fossero, il peso caldo del suo corpo addosso, il profumo nel cervello, la sensazione dilagante senza che neanche lo avesse toccato, o forse sì, il freddo delle sue dita fatte di ossa premute contro la nuca, come se non volesse che si allontanasse, come se fosse meglio soffocare in un bacio piuttosto che prendere aria da soli.

Che ne sapeva se quell’ardore fosse disperato o dedicato, se avesse voglia proprio di lui o desiderasse soltanto qualcuno, che ne sapeva degli uomini con cui era stata, di quanti avevano avuto la sua lingua nella propria bocca, e che ne sapeva di cosa volesse lui, di quanta disperazione ci stesse mettendo, se fosse stato in grado di fare l’amore con lei, se ne avesse l’intenzione, o se sarebbe stato solo sesso fatto bene, con la leggerezza con cui da grandi si scopre che il sesso e l’amore sono perfettamente in grado di sopravvivere l’un l’altro senza necessità di conoscersi diventando intimità.

 

Se ne’era scopate tante in quella macchina, per dispetto a sua madre che attendeva un seggiolino nel sedile posteriore, per compiacenza di sé, per mettere alla prova le proprie capacità amatorie, per noia o solitudine, perché ubriaco o perché innamorato (forse, abbastanza, sì, per poco).

Viola aveva il nome di un fiore e la malinconia negli occhi, poi di colpo era sfacciata o terribilmente ironica, viveva nella melodia di una lingua straniera, forse era in quella che gli stava parlando in quel momento, o forse non stava prestando dovuta attenzione, era sbagliato chiedersi se la toga potesse conciliarsi ad altro?, era pericoloso valutare l’idea di chiudere il codice civile ed aprire un romanzo, di mangiare fuori e tornare nella stessa casa, avere due macchine parcheggiate, essere gelosi e non dirlo all’altro ma almeno a se stessi, ridere senza per forza dover dire perché, fare colazione all’autogrill senza voler leggere negli occhi della cassiera e del barista e del turista con la pelle color aragosta, perdere una causa per aver dato fiducia ad un collega, non concludere una frase e accettare i puntini di sospensione… e respirare nella pausa tra loro e l’inizio del resto.

E respirare.

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Ringraziamenti:

 

MyBlindedEyes: Grazie per il commento e il suo contenuto =) spero che il proseguo non deluda le aspettative, al fascino di Davide io purtroppo ho ceduto alla terza riga del racconto, vediamo quanto resisti tu! XD

 

 

 

 



[1] E’ il Libro del codice civile che si occupa Delle Obbligazioni, quindi anche della materia contrattuale.

[2] Mi dissocio da Viola, trovando melodico il tedesco e apprezzando la laconicità inglese. (che ci frega? Direte voi. Così, tanto per dire XD)

[3] E’ il modo in cui è chiamato il palazzo che ospita il tribunale di Cassazione. La sua edificazione ha una storia alquanto tormentata e in fin dei conti, anche dopo la definitiva costruzione nel 1910, non è mai stato apprezzato con sincera convinzione ^^ Io concordo con Davide, per quel che conta XD

[4] La statua di Giordano Bruno, a Campo de’ Fiori.

  
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