Primavera
La
ragazza Occhi Verdi, così
l'aveva battezzata Cèsar mentre zappava a fianco del prete,
aprì gli occhi che
il sole era già alto.
Sui muri scrostati della
stanza c'erano lucidi occhi di muffa che la fissarono, e per aria odore
di
canfora. Sbatté le palpebre, sbadigliò e gli
occhi tornarono muffa.
Scosse con un piede la
coperta e il piede urtò qualcosa lì vicino.
Piccoli frutti arancioni rotolarono
sul pavimento.
Si accorse di essere nuda.
Toccò la pelle del ventre
dove l'incavo si chiude in ombelico, era pulita. Fece un paio di
movimenti,
sentì l'aria fresca sulla schiena e rise. Il piacere che
provava a quel
contatto le versò in gola la voglia di cantare. Non rideva
da così tanto tempo.
Si alzò.
Sopra una sedia, a capo del letto,
trovò una veste lunga fino ai piedi, di stoffa grigia,
vecchia come il mondo.
Floscia di dietro, davanti scendeva dritta come un filo di piombo. Era
ruvida,
come l'asciugamano della sera, ed era enorme.
Cercò qualcosa con cui
tenerla su, guardò in ogni angolo, ma in tutti c'erano
soltanto granelli di
calcina. Non una armadio, o uno sgabello, o una cassa. Niente di niente
se non
polvere e calcina. La crosta del muro si sgretolava, bastava passarci
un dito
sopra. Lo fece, e lo fece, lo fece, finché il dito non ebbe
scavato un piccolo
foro profondo. Aveva messo a nudo la pietra.
Ben presto quel gioco la
stancò, aveva fame. Raccolse in grembo la frutta e
cominciò ad andare in giro
addentandola. Voleva trovare il vecchio, per ringraziarlo.
I lunghi corridoi imbiancati
a calce erano tutti pieni di stanze, porte, finestre, e oggetti
abbandonati. La
sera prima non li aveva notati, ma c'erano.
Scoprì che c'erano passaggi,
anditi, finte porte e porte nascoste. In quel lungo labirinto di stanze
ogni
svolta portava dovunque, stanze si aprivano a caso le une sulle altre,
la luce
entrava dalle finestre in larghi fasci polverosi come cenciosi
strascichi da
sposa.
Ad una svolta trovò una
brocca sfondata, una sedia e alcuni piccoli oggetti malmessi. Accanto
c'era un
passaggio, e una porta che immetteva in una stanza grande. Dalle
finestre
ingombre di vegetazione filtrava una luce verdolina. Non ebbe il
coraggio di
entrare, ma capì che l'edificio doveva essere un quadrato,
solido, enorme.
Al cento c'era una specie di
chiostro, con un pozzo arrugginito, le strette finestre delle camere
affacciavano tutte lì sopra. Dalla parte del corridoio,
invece, le finestre
erano larghe e davano sul mare, o sulla campagna desolata, o sull'erba
gialla
di un giardino. Sul muro accanto a lei, che correva per tutto il
perimetro,
c'erano a tratti scarabocchi e chiazze, fumosi ghirigori sbiaditi.
- Leggi le scritte? - chiese
Cèsar comparendo in fondo al corridoio con un cestino in
mano. Strascicava
appena le gambe, ma non faceva rumore.
- Che cosa sono?
- Sono ricordi, bambina mia.
Tieni un fico.
- Li hai colti tu?
La ragazza ne prese uno e lo
morse.
- Stamattina, dalla pianta.
Per Occhi Verdi, perché ne mangiasse.
- Chi è Occhi Verdi?
- E' il tuo nome.
- Non è il mio nome.
- Adesso sì.
- Va bene - sorrise lei - Tu
ne hai uno, vecchio?
- Certo. Mi chiamo Cèsar e
sono proprio un vecchio. Un altro fico?
Nel cestino, sopra una foglia
di vite ce n'erano almeno dieci, maturi e spaccati a metà.
Lei allungò una
mano.
- Non ti interessa sapere il
mio nome? - chiese con la bocca impiastricciata. Si erano seduti su una
grossa
panca di legno di banano, lì vicino.
- Non mi interessa - disse
lui.
- Meno male.
- Ti chiamerò Occhi Verdi, se
vorrai.
- E il prete?
- Anche lui ti chiamerà Occhi
Verdi.
- No. Il prete, lui, un nome
ce l'ha?
Il vecchio rise.
- Il prete ha molto più che
un nome. Ne ha a decine, davvero. Ma tu chiamalo semplicemente
Luìs. Luìs va
bene, o altrimenti prete. E'
così che
lo chiamano gli altri.
- Gli altri?
- Quando ci sono. Ma ora
siamo da soli.
- Chi sono gli altri?
- Vedi le scritte? - chiese
il vecchio - Quando ci sono anche gli altri vuol dire che
c'è la peste. Sono
gli abitanti del paese, gente che in tempo di pace ci dimentica. Ma
basta una
piccola nave, una cosa come la tua e allora … e allora
filano tutti quassù, e
le stanze si riempiono di gente. Poi dimenticano, ma dimenticano solo
per poco.
Il vecchio fece cenno di sì.
- Perché non mi hai lasciata
morire?
- Lo volevi?
- No.
- Meno male. Altrimenti sarei
sceso per niente. Non è un bel posto dove ti ho trovata.
Lei chiuse gli occhi come una
bambina. Era vero, non era un bel posto. O meglio, forse all'inizio lo
era
stato con tutta quella gente che si imbarcava e rideva e diceva che
sarebbero
arrivati a questa e a quella città lontanissima. Lei era
l'unica che già non
rideva. Lei non poteva ridere, no. Perché su quella nave ce
l'avevano imbarcata
a forza.
- Dove andavate? - chiese il
vecchio.
La ragazza scosse la testa.
Per un istante guardò lontanissimo, di fuori.
- Non importa - fece lui,
discreto - Ormai non importa più a nessuno. Sono tutti morti
o moribondi,
giusto?
- Sono moribonda, io? -
chiese.
- Non lo so. Ma sei stata con
quelli che sono morti. Bisognerà aspettare per sapere. Se al
terzo giorno ti
verranno i bubboni, allora vorrà dire che sei infetta.
- E se non vengono?
Il vecchio sospirò.
- Allora è una brutta
notizia. Ma potrebbe anche essere buona.
La ragazza lo guardò senza
capire.
- Queste scritte le hanno
fatte loro?
- Chi?
- Quelli che erano infetti?
Il vecchio annuì.
- Cosa dicono?
- Questa dice che non vuole
morire - disse Cèsar posandoci il dito - Ma che sa che
morirà, e si dispera.
- E quest'altra?
- Questa conta i giorni da
quando si è ammalata. Conforta l'altra, e spera di guarire.
- E' guarita?
Il vecchio spostò un fico nel
cestino. Erano molli, e metà della buccia gli
restò in mano. Poi accennò con il
mento alla porta che era davanti a loro.
- Hai notato che non sono
tutte uguali?
- Le stanze?
- Sì.
- Non so.
- Sono diverse. Alcune più
grandi, altre più piccole. In quelle più grandi,
per i ricchi, ci stavano due
persone sole, o anche una, se andava bene. Potevano permettersi di
averle.
Nelle altre, quelle come la tua, ci mettevamo anche dodici letti. Tutti
vicini,
uno accanto all'altro. E quando il letti non bastavano più,
anche fasci di
paglia sul pavimento. Nelle camere i ricchi si annoiavano,
così ogni tanto
facevamo musica. C'era qualcuno che sapeva suonare, gente che si
portava gli
strumenti. I ricchi pagavano volentieri per avere un po' di musica.
Ogni tanto
salivano persino su dal paese certi teatranti che sfidavano la peste
per potersi
guadagnare qualche soldo.
- Queste che scrivono stavano
in questa stanza?
- Me le ricordo, quando
arrivarono. Erano sorelle, la più grande piangeva. Il padre
era con loro, un
fazzoletto premuto sul naso. Due servi scaricarono i bauli dalla
carrozza e poi
se ne andarono alla svelta. Portavano catenine al collo per scacciare
gli
spiriti. Anche il padre se ne andò via subito. Le
salutò da lontano. Erano
pallide, ma avevano il belletto. Anche qui se lo mettevano ogni
mattina, e
cantavano, e scrivevano quando la febbre gli dava un po' di tregua. Non
ho mai
visto due sorelle più belle e più gentili.
Nascondevano i bubboni sotto i pizzi,
e quando erano vestite non sembravano neanche malate. Ma una delle due,
la
maggiore, piangeva sempre. Più dell'altra, più di
tutte le altre.
- Che era successo?
- Un giorno, quando erano già
qui, c'era festa al paese. I signori della città avevano
deciso di implorare la
grazia di ogni santo che il calendario ricordasse, per vedere se
così si
scacciava la peste. Ne avevano messi insieme trecento, scovando i nomi
nei
libri in canonica. E poi altri li avevano chiesti ai vecchi preti,
perché non
volevano scordarne nessuno. Se una vecchia diceva io conosco anche il
nome di
quest'altro santo che mia nonna pregava, loro si facevano dire il nome
e lo
mettevano dentro la lista. Alla fine furono trecentosessanta, quasi uno
per
ogni giorno dell'anno. E allora, per ognuno dei santi, fecero fare
delle statue
di cera. Tante statue che non distinguevi la cera morta dalla carne
vera.
Alcune con occhi neri neri, altre con lunghi capelli dorati. Ce n'erano
con
vestiti meravigliosi e con occhi azzurri come il mare. Trecentosessanta
bambole
della stessa perfetta somiglianza. Le portarono tutte in processione.
Fu una
bella processione, davvero. C'era tutto il popolo e i ricchi, le
finestre erano
piene di tappeti, arazzi e fiaccole.
- Finì, la peste?
- Il giorno dopo c'erano
trenta malati in più al lebbrosario. E nel giro di una
settimana ne morirono
esattamente quanti erano i santi. Trecentosessanta, più due
o tre. Al terzo
giorno arrivò al lebbrosario anche un ragazzo riccio, belle
spalle, moro. Non
fece in tempo ad arrivare che era morto. Lei, la maggiore delle
sorelle, che
piangeva, lo vide dalla finestra mentre lo scaricavano dal carro e lo
mettevano
da parte con gli altri. Corse giù come avesse le ali. Lui
era già morto, ma lo
prese tra le braccia, lo baciò, gridò come una
pazza. Pianse molto tutta la
notte, e il giorno dopo. Poi sua sorella una sera venne a chiedermi se
avevo
del carbone, e io glielo detti. A volte i malati hanno dei desideri,
all'ultimo, certi vogliono cibo, altri straparlano, ridono. Non si
rifiuta mai
nulla ai moribondi, così le detti il carbone. E la mattina
dopo lei aveva
scritto tutto questo.
Mostrò col dito che i segni
bizzarri con finivano a quel lato di muro. Oltre la porta continuavano
a lungo,
di sghimbescio, o regolari e fitti, fino a perdersi nel lungo corridoio.
Cèsar avvicinò le labbra al
muro.
- 'Amore
- lesse - se la morte non mi prende, sono
disperata. Ma io so che mi prende, stanotte. Aspettami, arrivo'.
Occhi Verdi staccò gli occhi
dalla scritta.
- E poi è morta?
- L'ho raccolta la mattina
dopo. Era discesa dal letto a piedi nudi, e in vestaglia aveva provato
ad
andare alla finestra. Era bella, e molto bella, con dei lunghi capelli
d'oro.
La madre glieli tagliò tutti prima di seppellirla. Disse che
li voleva con lei.
E la ragazza andò ai morti così, nuda.
Occhi Verdi sentì freddo alla
nuca.
- Era il suo sposo? - chiese.
- Non sapeva neanche chi era.
Non l'aveva mai visto, uno straniero. Un marinaio sbarcato il giorno
prima da
chissà quale nave, non si poté neanche sapere il
suo nome.
- Ma lei …? - chiese Occhi
Verdi.
- Fu una specie di sogno,
tutto qui. Quando la gente sta per morire sogna. Sogna le cose
più strane: versare
vino, ridere tra gli aranci, addormentarsi …
- Sono cose strane? - chiese
la ragazza.
Cèsar frugava nel cestino, la
foglia di vite era tutta appiccicosa. Alzò gli occhi.
- Quando sei qui lo diventano
- disse porgendole un fico - Tieni, è l'ultimo.