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Autore: minimelania    21/08/2010    2 recensioni
Dall'Incipit: 'Il sole galleggiava immobile quando giunse la nave della peste. Si chiusero i cancelli del porto, e si aspettò di vedere che passava. Ne capitavano spesso in quei giorni di navi piene di gente, stracci marci e gemiti simili al verso dei gabbiani. Sfilavano all'orizzonte nel tetro ronzio delle api. Erano tempi in cui la disgrazia d'altri costituiva già da sola una fortuna...'
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Primavera

La ragazza Occhi Verdi, così l'aveva battezzata Cèsar mentre zappava a fianco del prete, aprì gli occhi che il sole era già alto.
Sui muri scrostati della stanza c'erano lucidi occhi di muffa che la fissarono, e per aria odore di canfora. Sbatté le palpebre, sbadigliò e gli occhi tornarono muffa.
Scosse con un piede la coperta e il piede urtò qualcosa lì vicino. Piccoli frutti arancioni rotolarono sul pavimento.
Si accorse di essere nuda.
Toccò la pelle del ventre dove l'incavo si chiude in ombelico, era pulita. Fece un paio di movimenti, sentì l'aria fresca sulla schiena e rise. Il piacere che provava a quel contatto le versò in gola la voglia di cantare. Non rideva da così tanto tempo. Si alzò.
Sopra una sedia, a capo del letto, trovò una veste lunga fino ai piedi, di stoffa grigia, vecchia come il mondo. Floscia di dietro, davanti scendeva dritta come un filo di piombo. Era ruvida, come l'asciugamano della sera, ed era enorme.
Cercò qualcosa con cui tenerla su, guardò in ogni angolo, ma in tutti c'erano soltanto granelli di calcina. Non una armadio, o uno sgabello, o una cassa. Niente di niente se non polvere e calcina. La crosta del muro si sgretolava, bastava passarci un dito sopra. Lo fece, e lo fece, lo fece, finché il dito non ebbe scavato un piccolo foro profondo. Aveva messo a nudo la pietra.
Ben presto quel gioco la stancò, aveva fame. Raccolse in grembo la frutta e cominciò ad andare in giro addentandola. Voleva trovare il vecchio, per ringraziarlo.
I lunghi corridoi imbiancati a calce erano tutti pieni di stanze, porte, finestre, e oggetti abbandonati. La sera prima non li aveva notati, ma c'erano.
Scoprì che c'erano passaggi, anditi, finte porte e porte nascoste. In quel lungo labirinto di stanze ogni svolta portava dovunque, stanze si aprivano a caso le une sulle altre, la luce entrava dalle finestre in larghi fasci polverosi come cenciosi strascichi da sposa.
Ad una svolta trovò una brocca sfondata, una sedia e alcuni piccoli oggetti malmessi. Accanto c'era un passaggio, e una porta che immetteva in una stanza grande. Dalle finestre ingombre di vegetazione filtrava una luce verdolina. Non ebbe il coraggio di entrare, ma capì che l'edificio doveva essere un quadrato, solido, enorme.
Al cento c'era una specie di chiostro, con un pozzo arrugginito, le strette finestre delle camere affacciavano tutte lì sopra. Dalla parte del corridoio, invece, le finestre erano larghe e davano sul mare, o sulla campagna desolata, o sull'erba gialla di un giardino. Sul muro accanto a lei, che correva per tutto il perimetro, c'erano a tratti scarabocchi e chiazze, fumosi ghirigori sbiaditi.
- Leggi le scritte? - chiese Cèsar comparendo in fondo al corridoio con un cestino in mano. Strascicava appena le gambe, ma non faceva rumore.
- Che cosa sono?
- Sono ricordi, bambina mia. Tieni un fico.
- Li hai colti tu?
La ragazza ne prese uno e lo morse.
- Stamattina, dalla pianta. Per Occhi Verdi, perché ne mangiasse.
- Chi è Occhi Verdi?
- E' il tuo nome.
- Non è il mio nome.
- Adesso sì.
- Va bene - sorrise lei - Tu ne hai uno, vecchio?
- Certo. Mi chiamo Cèsar e sono proprio un vecchio. Un altro fico?
Nel cestino, sopra una foglia di vite ce n'erano almeno dieci, maturi e spaccati a metà. Lei allungò una mano.
- Non ti interessa sapere il mio nome? - chiese con la bocca impiastricciata. Si erano seduti su una grossa panca di legno di banano, lì vicino.
- Non mi interessa - disse lui.
- Meno male.
- Ti chiamerò Occhi Verdi, se vorrai.
- E il prete?
- Anche lui ti chiamerà Occhi Verdi.
- No. Il prete, lui, un nome ce l'ha?
Il vecchio rise.
- Il prete ha molto più che un nome. Ne ha a decine, davvero. Ma tu chiamalo semplicemente Luìs. Luìs va bene, o altrimenti prete. E' così che lo chiamano gli altri.
- Gli altri?
- Quando ci sono. Ma ora siamo da soli.
- Chi sono gli altri?
- Vedi le scritte? - chiese il vecchio - Quando ci sono anche gli altri vuol dire che c'è la peste. Sono gli abitanti del paese, gente che in tempo di pace ci dimentica. Ma basta una piccola nave, una cosa come la tua e allora … e allora filano tutti quassù, e le stanze si riempiono di gente. Poi dimenticano, ma dimenticano solo per poco. - Sulla mia nave ce l'avevano, la peste - disse lei, e addentò un altro frutto. Erano buoni e freschi. Sulla nave, ormai da giorni, mangiavano solo nera carne secca e verminosa.
Il vecchio fece cenno di sì.
- Perché non mi hai lasciata morire?
- Lo volevi?
- No.
- Meno male. Altrimenti sarei sceso per niente. Non è un bel posto dove ti ho trovata.
Lei chiuse gli occhi come una bambina. Era vero, non era un bel posto. O meglio, forse all'inizio lo era stato con tutta quella gente che si imbarcava e rideva e diceva che sarebbero arrivati a questa e a quella città lontanissima. Lei era l'unica che già non rideva. Lei non poteva ridere, no. Perché su quella nave ce l'avevano imbarcata a forza.
- Dove andavate? - chiese il vecchio.
La ragazza scosse la testa. Per un istante guardò lontanissimo, di fuori.
- Non importa - fece lui, discreto - Ormai non importa più a nessuno. Sono tutti morti o moribondi, giusto?
- Sono moribonda, io? - chiese.
- Non lo so. Ma sei stata con quelli che sono morti. Bisognerà aspettare per sapere. Se al terzo giorno ti verranno i bubboni, allora vorrà dire che sei infetta.
- E se non vengono?
Il vecchio sospirò.
- Allora è una brutta notizia. Ma potrebbe anche essere buona.
La ragazza lo guardò senza capire.
- Queste scritte le hanno fatte loro?
- Chi?
- Quelli che erano infetti?
Il vecchio annuì.
- Cosa dicono?
- Questa dice che non vuole morire - disse Cèsar posandoci il dito - Ma che sa che morirà, e si dispera.
- E quest'altra?
- Questa conta i giorni da quando si è ammalata. Conforta l'altra, e spera di guarire.
- E' guarita?
Il vecchio spostò un fico nel cestino. Erano molli, e metà della buccia gli restò in mano. Poi accennò con il mento alla porta che era davanti a loro.
- Hai notato che non sono tutte uguali?
- Le stanze?
- Sì.
- Non so.
- Sono diverse. Alcune più grandi, altre più piccole. In quelle più grandi, per i ricchi, ci stavano due persone sole, o anche una, se andava bene. Potevano permettersi di averle. Nelle altre, quelle come la tua, ci mettevamo anche dodici letti. Tutti vicini, uno accanto all'altro. E quando il letti non bastavano più, anche fasci di paglia sul pavimento. Nelle camere i ricchi si annoiavano, così ogni tanto facevamo musica. C'era qualcuno che sapeva suonare, gente che si portava gli strumenti. I ricchi pagavano volentieri per avere un po' di musica. Ogni tanto salivano persino su dal paese certi teatranti che sfidavano la peste per potersi guadagnare qualche soldo.
- Queste che scrivono stavano in questa stanza?
- Me le ricordo, quando arrivarono. Erano sorelle, la più grande piangeva. Il padre era con loro, un fazzoletto premuto sul naso. Due servi scaricarono i bauli dalla carrozza e poi se ne andarono alla svelta. Portavano catenine al collo per scacciare gli spiriti. Anche il padre se ne andò via subito. Le salutò da lontano. Erano pallide, ma avevano il belletto. Anche qui se lo mettevano ogni mattina, e cantavano, e scrivevano quando la febbre gli dava un po' di tregua. Non ho mai visto due sorelle più belle e più gentili. Nascondevano i bubboni sotto i pizzi, e quando erano vestite non sembravano neanche malate. Ma una delle due, la maggiore, piangeva sempre. Più dell'altra, più di tutte le altre.
- Che era successo?
- Un giorno, quando erano già qui, c'era festa al paese. I signori della città avevano deciso di implorare la grazia di ogni santo che il calendario ricordasse, per vedere se così si scacciava la peste. Ne avevano messi insieme trecento, scovando i nomi nei libri in canonica. E poi altri li avevano chiesti ai vecchi preti, perché non volevano scordarne nessuno. Se una vecchia diceva io conosco anche il nome di quest'altro santo che mia nonna pregava, loro si facevano dire il nome e lo mettevano dentro la lista. Alla fine furono trecentosessanta, quasi uno per ogni giorno dell'anno. E allora, per ognuno dei santi, fecero fare delle statue di cera. Tante statue che non distinguevi la cera morta dalla carne vera. Alcune con occhi neri neri, altre con lunghi capelli dorati. Ce n'erano con vestiti meravigliosi e con occhi azzurri come il mare. Trecentosessanta bambole della stessa perfetta somiglianza. Le portarono tutte in processione. Fu una bella processione, davvero. C'era tutto il popolo e i ricchi, le finestre erano piene di tappeti, arazzi e fiaccole.
- Finì, la peste?
- Il giorno dopo c'erano trenta malati in più al lebbrosario. E nel giro di una settimana ne morirono esattamente quanti erano i santi. Trecentosessanta, più due o tre. Al terzo giorno arrivò al lebbrosario anche un ragazzo riccio, belle spalle, moro. Non fece in tempo ad arrivare che era morto. Lei, la maggiore delle sorelle, che piangeva, lo vide dalla finestra mentre lo scaricavano dal carro e lo mettevano da parte con gli altri. Corse giù come avesse le ali. Lui era già morto, ma lo prese tra le braccia, lo baciò, gridò come una pazza. Pianse molto tutta la notte, e il giorno dopo. Poi sua sorella una sera venne a chiedermi se avevo del carbone, e io glielo detti. A volte i malati hanno dei desideri, all'ultimo, certi vogliono cibo, altri straparlano, ridono. Non si rifiuta mai nulla ai moribondi, così le detti il carbone. E la mattina dopo lei aveva scritto tutto questo.
Mostrò col dito che i segni bizzarri con finivano a quel lato di muro. Oltre la porta continuavano a lungo, di sghimbescio, o regolari e fitti, fino a perdersi nel lungo corridoio.
Cèsar avvicinò le labbra al muro.
- 'Amore - lesse - se la morte non mi prende, sono disperata. Ma io so che mi prende, stanotte. Aspettami, arrivo'.
Occhi Verdi staccò gli occhi dalla scritta.
- E poi è morta?
- L'ho raccolta la mattina dopo. Era discesa dal letto a piedi nudi, e in vestaglia aveva provato ad andare alla finestra. Era bella, e molto bella, con dei lunghi capelli d'oro. La madre glieli tagliò tutti prima di seppellirla. Disse che li voleva con lei. E la ragazza andò ai morti così, nuda.
Occhi Verdi sentì freddo alla nuca.
- Era il suo sposo? - chiese.
- Non sapeva neanche chi era. Non l'aveva mai visto, uno straniero. Un marinaio sbarcato il giorno prima da chissà quale nave, non si poté neanche sapere il suo nome.
- Ma lei …? - chiese Occhi Verdi.
- Fu una specie di sogno, tutto qui. Quando la gente sta per morire sogna. Sogna le cose più strane: versare vino, ridere tra gli aranci, addormentarsi …
- Sono cose strane? - chiese la ragazza.
Cèsar frugava nel cestino, la foglia di vite era tutta appiccicosa. Alzò gli occhi.
- Quando sei qui lo diventano - disse porgendole un fico - Tieni, è l'ultimo.

  
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