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Autore: elans    07/09/2010    2 recensioni
(A 14 anni leggevo molti gialli ed ero una grande fan di Ben Barnes)
Un giorno al famoso (tzè) regista Oliver Parker viene in mente un'idea meravigliosa: spiaccicare sullo schermo l'ennesima trasposizione cinematografica del celebre romanzo di Oscar Wilde, "Il ritratto di Dorian Gray". Gli sembra una splendida idea (beh, in realtà tutte le proprie idee gli sembrano splendide). Purtroppo, non ha idea degli effetti collaterali della decisione.
Mentre il regista porta avanti le riprese, fregandosene altamente degli strani incidenti che avvengono sul set (ha una precisa tabella di marcia, lui) e della morte del pittore che aveva ingaggiato per ritrarre il "suo" Dorian Gray, attorno al film si intrecciano le storie di un'assurda combriccola di personaggi: un'attrice che non sapeva nemmeno di far parte del cast, una bambina parcheggiata dai genitori in un paesino sperduto con una sorellina malvagia, una zia diabolica e due cugini non meglio identificati, una diciottenne decisa a depennare tutte le voci della sua Lista di Cose Da Fare Prima Dei Vent'Anni (tra cui c'è anche "risolvere un mistero alla Sherlock Holmes") e di...
Ma di Ben Barnes, ovviamente!
Genere: Commedia, Generale, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Becky
In realtà la sera della duplice tragedia non avevo trovato la forza morale per andare a casa di mia sorella Hazel. Alla fine mi ero addormentata vestita sul divano di casa mia, dopo aver singhiozzato alla mia psicoterapeuta, Tabitha, tutta la mia rabbia nei confronti della vita orrenda che mi ritrovavo e bla bla bla bla.
Il mattino dopo, però, ero schizzata in piedi alle sette meno venti ed avevo trascinato in strada Tabitha, che non era stata molto felice di lasciare il suo nascondiglio sotto il termosifone (in quei giorni era spento, ma lei ormai ci si era affezionata) e il suo migliore amico, un orsetto di peluche che lei chiamava Woof.
«Oh santo cielo. Tutto bene, Becky?» aveva biascicato Hazel, sbadigliandomi in faccia, non appena mi aveva aperto la porta.
La sera precedente mi ero preparata alcune alternative a quell’inevitabile domanda:
a) Vedi, Hazel, sono venuta a conoscenza di un dettaglio un po’ bizzarro a proposito della mia carriera (fermo ma cortese, stile Jessica Fletcher).
b) Volevo dirti una cosa ma sul momento non me la ricordo (ancora stile Dory).
c) Confessa, pusillanime, il complotto ordito alle mie spalle! (stile D’Artagnan: di sicuro scenografico e incisivo, ma forse un po’ poco credibile).
La mia furia distruttiva, però, non le aveva rese necessarie. «No che non va tutto bene. Faccio come se fossi a casa mia, lo so» avevo detto, dirigendomi a passo di marcia verso il divanetto patchwork.
La casa di Hazel è arredata con un mix di country style e arte moderna. Ad esempio nella sua cucina, oltre a sedie di legno con zampe intagliate e orologio Hello Kitty, potete trovare un grosso blocco di marmo nero che dovrebbe essere il tavolo. (Ignoro come siano riusciti a trasportare le sue quattro tonnellate di peso al quinto piano di un palazzo, e come l’abbiano fatto passare attraverso un oblò striminzito che funge da finestra.) Nostro fratello Tom ha una sua personale teoria su quest’opera: dice che in realtà è una bara e che una notte ne uscirà fuori Dracula, particolarmente assetato di sangue. Nonostante tutto, Hazel lo trova delizioso.
«Becky, ti prego. Mand-fuori-quel-cane» mi aveva pregato Hazel, inseguendomi. Io avevo ordinato a Tabitha di sedersi proprio in mezzo al suo adoratissimo tappeto. (Si trattava di una macchia informe marrone scuro, progettata per dare alle piante dei piedi l’impressione di affondare nell’humus della foresta amazzonica. Anche se dovevo riconoscere che quel designer dal nome chilometrico ed apparentemente privo di vocali aveva avuto proprio una bella idea, non potei fare a meno di pensare che per fortuna indossavo scarpe chiuse.)
«Hazel» avevo esordito, cercando di contenermi. «Tu sei il mio agente. Sai, una strana creatura che mi da consigli sulla mia carriera.»
«S-sì» aveva balbettato lei. «Allora?»
«Allora sei la persona giusta per spiegarmi chi diavolo è Emily Wotton!»
I muscoli del suo volto si erano rilassati. «Il tuo nuovo personaggio. La figlia di Monsieur Wotton, no?» aveva detto, come se fosse del tutto ovvio.
«Monsieur, eh?» grugnii.
«Eddai, Becky, è uguale. Come fai a non ricordarlo? Dorian Gray si innamora di Emily e si pente di tutto quello che ha fatto e muore per salvarla. O qualcosa del genere.»
«Cosa? Nel libro non c’è scritto niente del genere.»
«Appunto, Becky. Ma questo non è un vecchio testo decrepito, è un film moderno con tematiche moderne
Potete smontarmi tutto, ma non Oscar Wilde.
«Senti, il Ritratto di Dorian Gray non è più vecchio e decrepito di te, e almeno lui non ha la cellulite.» Beccati questo, rosticciana che non sei altro. «E poi il senso della morte di Dorian non è quello, così mi si stravolge mezzo libro, non si può fare, e Wotton una figlia non ce l’ha, porca miseria!»
«Che palle, Becky, è uguale.»
«Ehi, pensa un po’ se nel film di I Love Shopping la mia omonima pazza restasse incinta di uno sconosciuto in un night club di Las Vegas.»
«Rebecca. Ascoltami bene. Sophie Kinsella è la più grande scrittrice di tutti i tempi, e non si tocca. Mica come il tuo decrepito Tolstoj.»
«Ah, certo. Tolstoj.»
«Ma come sei fiscale, eh? Non hanno mica fatto tutti lettere.»
«Infatti. Sophie Kinsella no di certo.»
«REBECCA! Come ti permetti di dire una cosa del genere?»
A quel punto Tabitha si era messa ad abbaiare facendoci una romanzina incredibile. Tabitha sa essere molto severa, quando ce n’è bisogno. Nel frattempo, l’evidenza era venuta a galla nella mia mente. Per entrare a far parte di quel film dovevo aver fatto un provino, firmato un contratto eccetera eccetera. Insomma, era impossibile che non ne sapessi nulla. Neanche Hazel poteva fare così tanto casino.
Così, dopo aver ripreso la calma, Hazel aveva grugnito che un certo Oliver Panzer, o forse Pakkez o magari Pazzek, mi aspettava il giorno dopo a Los Angeles. Mai biglietto aereo fu prenotato con così tanta fretta, né valigia riempita così spudoratamente alla rinfusa.
 
In aereo, mentre sfogliavo il plico di scartoffie con cui Hazel aveva riempito la mia borsa (da sole, quelle cartacce concernenti l’obbrobriosa produzione cinematografica in cui ero rimasta invischiata sfioravano il limite del peso per i bagagli a mano) la prima cosa che mi ero detta era stata: Oh no, altri due Ben. Signore pietà. A primo impulso avrei galoppato verso la cabina di comando, stordito il pilota e riportato l’aereo a Londra. Poi mi ero ricordata che probabilmente avrei avuto tutti i passeggeri sulla coscienza, dato che non avevo idea di come si guidasse quella fottutissima colomba pasquale di metallo.
Comunque il giorno dopo, nonostante un mal di testa cronico, una storta a una caviglia e un umore nero come il petrolio (in realtà non ho un’idea molto precisa del colore del petrolio; ne La gabbianella e il gatto di Sepùlveda è nero, e Sepùlveda mi è sempre rimasto simpatico) riuscii ad arrivare viva e in orario all’appuntamento.
L’omino di Tata Matilda mi si materializzò davanti non appena varcai la soglia.
«Ciao, Rebecca!» esclamò stritolandomi la mano.
«Salve, omin...» cominciai. Poi mi si gelò il sangue.
Oh cazzo.
Com’è che si chiamava?
 
Abby
Il mattino mi svegliai verso le dieci, e ci misi un po’ a capire che ora ero a casa di nonna Martine, e non a Londra. La cameretta non era grande come quella di Londra, e il letto era durissimo e scricchiolava, però mamma e papà si erano dati molto da fare per farcela piacere e perciò non glielo avevo detto. Infatti il giorno prima, anziché partire per l’Egitto come avremmo dovuto, eravamo andati in aereo da mia nonna, a Lume. Poi quella sera, dopo che erano arrivati anche il cugino Ben e il cugino Jack, mamma e papà erano ripartiti per New York, che non so bene se è più giù o più su di Lume però è lontano, ma mamma ci aveva lasciato la Bambola Del Cuore, che si chiama Dorothy e quando la abbracci mamma sa che stai pensando a lei. Almeno, mamma ha sempre detto così. Papà e mamma avevano anche sistemato i nostri vestiti nell’armadio e avevano attaccato su un’anta un cartello con scritto Abigail, che sarei io, e sull’altra uno con scritto Melanie, che sarebbe mia sorella, e così lei non può toccare niente del mio e non litighiamo. (In teoria.)
Anche il mio bis-cugino Ben aveva attaccato al suo armadio un cartello. C’era scritto Giù le zampe e sotto Comprendi, Jack? e non capisco, perché lui si chiama Ben (per suo fratello) o Bob (per mamma), non Giù le zampe o Comprendi, Jack. Comunque, anche se non ho scoperto perché mamma lo chiama Bob, ho notato che Ben somigliava molto, ma veramente molto al principe Caspian, il protagonista di un film che avevo visto il mese prima, solo che Caspian nel film si era fatto la barba e lui no, e secondo me è meglio senza, però non gliel’ho detto perché forse si offendeva.
Poi, siccome ci capivo poco, papà mi ha spiegato tutta una serie di cose sui film e sul fatto che Ben, che poi è Bob, che poi è Caspian, anche se sembra Caspian non è il vero Caspian anche se nel film è Caspian. A quel punto mi faceva talmente male la testa che ho rinunciato a capire e ho pensato che l’avrei chiesto a Ben il giorno dopo, solo che Ben il giorno dopo, e cioè quello di cui sto parlando, non c’era.
Mi sono alzata, sono scesa dal letto a castello con attenzione (papà mi aveva fatto una testa così sui letti a castello e su quanto erano pericolosi) e sono andata a curiosare. Melanie dormiva. Il mio bis-cugino Jack dormiva, e della grossa. Nel letto del mio bis-cugino Ben non c’era Ben, ma c’era un libro che parlava di un ritratto e di un signore che diceva a un altro signore di aver conosciuto un signore che era molto bello e simpatico, però siccome il signore a cui il signore che parlava stava parlando era molto antipatico allora il signore che parlava non voleva che il signore che aveva conosciuto conoscesse il signore a cui stava parlando, perché altrimenti sarebbe diventato anche lui (non il signore che parlava, ma il signore che il signore che parlava aveva conosciuto) antipatico. Era una barba immensa, e non c’era nessuna figura. L’ho chiuso subito.
Anche nonna Martine dormiva, e russava, e siccome nonna Martine è tremenda non l’ho svegliata e sono andata in cucina perché avevo fame. Sul tavolo c’erano tre bicchieri con del succo di frutta dentro, quei biscotti lunghi lunghi con le strisce di cioccolato dentro e le scritte in tedesco sopra il pacchetto (credo si chiamino uaffer), e i cruassan. E poi ovviamente c’erano i cucchiai e i tovaglioli, e c’era un biglietto con scritto: Questa è la prima e l’ultima volta. Il succo d’arancia fa schifo, ma non ho trovato nient’altro di potabile. NON bevete l’acqua del rubinetto se non volete che il medico legale vi riscontri una morte per avvelenamento da arsenico. NON toccate la manopola del gas perché visto che non vi conosce potrebbe farvi saltare in aria. ATTENZIONE agli orsetti di gomma, sono lì dal 1964, e alle polpettine ripiene, una volta un gatto è rimasto avvelenato. NON avvicinatevi al cavallo, deve ancora venire l’esorcista. Martine dà per scontato che visto che siete giovani e arzilli diate voi da mangiare al cane e ai quindici gatti. Tanti auguri. Torno verso le sei e mezza, sempre che ci sia un treno. Ben.
P.S. Jack, se ci tieni all’altra gamba non toccare niente delle mie cose. Delle bambine mi fido, ma tu sei malvagio.
Io la mattina bevo sempre il latte caldo con il cioccolato e i Coco Pops, ma anche i uaffer non erano male, anche se Ben aveva ragione sul succo d’arancia.
 
Shelly
«Bene, sudditi. Ricapitoliamo. C’è un pittore sfigatissimo che si chiama Basil Hallward, cioè Ben. Sì, Joe, Ben Chaplin. Con tutte le belle brasiliane che ci sono nel mondo, Basil si fa ossessionare solo da un ragazzetto chiamato Dorian Gray, cioè Ben. Sì, Joe, l’altro Ben. Joe, sei inutile. Insomma, lo conosce e gli fa un ritratto in scala due a uno, più bello dell’originale.»
«Grazie, Oliver.»
«Sta’ zitto, Ben, è un modo di dire. No, non tu, stavo parlando con Ben Barnes. Santa pace. A un certo punto arriva un gran bastardo di nome Henry Wotton, cioè Colin, e comincia a rompere le palle a Dorian perché, diciamocelo, s’è innamorato anche lui.»
«Nel romanzo è un po’ più complicato di così.»
«Oh che rottura, Colin, sto cercando di farla breve. Così Dorian, che è un cretino e gli dà retta, diventa un gran bastardo pure lui e quindi ci va a rimettere solo Basil che lo piglia nel culo, in tutti i sensi, e alla fine Dorian lo ammazza.»
Mi rifiutavo di credere che quello stramaledetto pitecantropo ci avesse fatti venire tutti a Los Angeles soltanto per spiattellarci addosso quel riassunto demenziale.
Oliver Parker ha la rara dote di lasciarti lentamente affondare nel più profondo sconforto, mentre abbaia come uno scaricatore di porto. Colin me l’aveva detto, ma come al solito non lo avevo preso troppo sul serio. E invece, come al solito, aveva ragione.
Rebecca Hall si volse verso di me con aria affranta. «Ho sentito parlare dell’effetto di Wotton su Dorian Gray in diecimila modi, che vanno da “subdolo addomesticamento dell’anima del poverino al suo sadico e cinico volere” a “feroce terrorismo psicologico”. Ma nessuno, dico nessuno, l’aveva mai definito “rompimento di palle”.» Le appoggiai una mano sulla spalla, partecipando silenziosamente al suo dolore.
Ma la tortura non era ancora finita.
Dopo il suo meraviglioso riassunto della trama, Parker si schiarì nervosamente la voce. «Allora. Ci sarebbero un paio di problemini. Gwen, per favore...»
Poi il gentleman si eclissò in bagno.
«Ehm-ehm» pigolò Gwen, con aria persa e spaurita. «Ricordate, vero, che l’inizio delle riprese era fissato per, ehm, la prossima settimana? Bene. La casa di produzione pretende che inizino domani.»
Mi si annodò un'aorta. E quando mi si annoda un'aorta, il lume della mia ragione si affievolisce. Contai fino a dieci, poi fino a venti, ma non funzionò. Scateniamo l’inferno. «Che vuol dire domani?» esclamai, spiccando un balzo di venti metri verso il regista, che nel frattempo aveva timidamente ripreso posto. Ricacciai la solita massa di ricci color miele fuori dal mio campo visivo e continuai: «Ma lei lo sa che questo tegame» indicai me stessa «ha visto quella creatura» puntai il dito a due centimetri dal naso di Ben «solo tre volte prima d’ora, di cui due e mezzo su locandina?»
«Non è colpa mia. E comunque non vedo dove stia il problema, è solo...» balbettò Oliver.
«Esseri disinibiti e depravati» sbuffai la ragazza. E poi, in tono battagliero: «Vado a prendermi un tè freddo.»
A quel punto ci sentirono tutti liberi di disertare.
 
«Okay. Ho capito che per voi esseri disinibiti e depravati» ero molto fiera di questa nuova definizione «non è nulla» esclamai. «Ma io sono una persona seria
Nonostante fossi assolutamente decisa a cancellare la famosa voce dalla lista, non avevo la benchè minima intenzione di spogliarmi davanti a un uomo che avevo visto solo una volta prima di allora. Avevo immaginato che il regista avrebbe organizzato cene a lume di candela per farci simpatizzare eccetera eccetera eccetera. Ma quella visione romantica delle cose non si stava adattando molto bene alla nostra società aggressiva e crudele (mi stupivo di una tale melensa scrupolosità nelle mie riflessioni). Siccome non avevo nessun altro a cui spiattellare tutte le mie lamentele, le spiattellai proprio all’uomo in questione. La mia solita furbizia.
«Benvenuta nel mio mondo» sospirò Ben mentre minacciava la macchinetta del caffè perché gli sganciasse il resto.
«E poi sei vecchio» aggiunsi, facendogli cenno di spostarsi e affibbiando un calcio a quell’aggeggio (il risultato fu che la punta della mia Converse si appiattì leggermente, l’alluce urlò di dolore e l’aggeggio si tenne i soldi).
«Ehi, ho solo ventisette anni.» Ben prese la rincorsa e si schiantò a peso morto contro la macchinetta, che comunque non gli diede il resto.
«Solo ventisette anni? Ma io ne ho diciotto!»
Come stavo dicendo, tutta quella melensa scrupolosità non era da me. Infatti a quel punto la parte intelligente del mio inconscio sbattè contro un muro la parte bacchettona e sbraitò con accento da mafioso: “Rascèll! Vieni ‘ccà. La vogliamo finire o non la vogliamo finire questa lista? Aaaah, ecco. Quinni, datte ndaffare, vabbbbene?”. Poi cominciò a sibilare come Gollum: “Eppoi, di sssssicuro il ppadrrrrone ssssi rricorda del ssssuo vecchio pprrropossssito, eh? Il ssssignor Jerrrrrrrremy... Il sssssingnor Jerrrrrrrremy è sssstato molto catttttivo con il ppadrrrrone. Ppadrrrone adesssssso potrebbe riusssscire a farlo ingelossssire, oh ssssssssssssssssì! Mmmmwahahahahah!”Si bloccò a metà della risata malefica per poi esplodere, come la protagonista di uno di quegli odiosi telefilm per teen-ager (ok, anch’io ero una teen-ager, ma tendevo a dimenticarmene piuttosto spesso): “Ooh, Shelly, e poi è coooosì carino!”
Stranamente, l’ultima argomentazione mi convinse.
Forse la protagonista dell’odioso telefilm per teen-ager non avrebbe approvato che io tentassi di conquistare Ben coalizzandomi con lui contro la macchinetta, ma lo Shelly Style consiste proprio nel farsi venire in mente le più assurde cazzate e metterle in pratica.
«Ah, aspetta, al mio tre.» Prendemmo la rincorsa e ci lanciammo insieme contro quell’affare diabolico. Costui ci guardò con odio, ci bombardò con un chilo di zucchero e cercò di allontanarci con un getto di tè bollente, ma alla fine cedette il malloppo. «Quando due inglesi rivogliono il loro quarto di dollaro, non c’è nulla che possa fermarli» commentai, stremata. «A proposito, sai il pittore che è morto?»
«Quale pittore?» chiese lui intascando il contante.
«Leonard Jacques. Quello che ti ha ritratto.»
«Santo cielo, mi dispiace.» Ehi, sembrava davvero dispiaciuto, cosa rara in quell’affare che chiamano showbiz pensando di essere più al passo coi tempi. Io non capivo più quali erano i tempi con cui stare al passo. «Ma cos’è successo? Un’incidente? Non mi sembrava che avesse malattie...»
«Ecco, è una cosa strana. Sembra che gli sia venuto un infarto al bar, due sere fa. Una cosa strana, molto strana.» Feci una pausa.
Certe volte uno si trova davanti a dilemmi esistenziali di enorme portata. Ad esempio, adesso avrei potuto mettermi a fare un discorso sdolcinato sull’ineluttabilità e la drammaticità del fato e bla, bla, bla, dando l’impressione di essere una donna ormai adulta, sensibile e seria. Oppure avrei potuto raccontargli della mia avventura a Landscape, sembrando probabilmente una pazza scriteriata con troppi telefilm polizieschi in testa.
«Ben?» chiesi, d’un tratto incerta. «E se per caso ti dicessi che sono andata a Landscape, il paesino dell’omino, e...»
Lui mi guardò con un’espressione a metà tra l'interessato e il dubbioso, che trovai allo stesso tempo deliziosa e molto, molto imbarazzante.
«Beeen!» ululò il regista. «Vieni immediatamente quiiii! Si può sapere che...»
Oliver Parker sarà anche un gran rompicoglioni, ma in quel momento avrei voluto ricoprirlo di fiori, baci e Ferrero Rocher, anzichè di cemento armato come dieci minuti prima.
«...e vado a prendere un tè freddo giù al bar» sorrisi, dandomela a gambe.
«Ma... non ne hai uno in mano?» chiese Ben con aria dubbiosa.
Inchiodai a metà corridoio dipingendomi un enorme sorriso sul volto. «Eh... uhmbe’... sì, certo... appunto! Questo fa schifo, quindi ne vado a prendere uno decente. Ci vediamo!»  gridai imboccando di gran carriera la prima porta a sinistra, senza avere la più pallida idea di dove stessi andando.
Credo sia stato un miracolo a evitarmi di precipitare giù dalla balaustra della scala antincendio.
 
Jack
Quando zoppicai in cucina per fare colazione ci trovai la figlia maggiore di Lucy. Doveva avere sei o sette anni. Era seduta al tavolo di fronte ad un pacchetto vuoto di wafer, a tre bustine vuote di croissant e ad un lago di succo d’arancia che gocciolava dalla bottiglia rovesciata e vuota.
«Ciao, Jack» sorrise lei porgendomi un pezzo di croissant sbocconcellato. «Mi dispiace. Purtroppo mi è caduto il succo d’arancia.»
In linea di massima, io ho i nervi saldi. Quella fu l’eccezione che conferma la regola. «L’ho visto che ti è caduto!» urlai. «Ma dico, ti sei bevuta il cervello? Cos’è qui dentro, Apocalypse Now? E i wafer? I biscotti li hai mangiati tutti tu? Cos’hai al posto dello stomaco, una botte? Pulisci subito questo bordello prima che arrivi zia Martine!»
Gli occhi le si rempirono di lacrime.
«Non sei per niente gentile» singhiozzò, passando un foglio di scottex sul succo di frutta e trascinandolo così tutto a terra.
«Be’, provaci tu a venire qui per fare colazione e trovare uno scenario apocalittico! Che vuoi, che pulisca io? In queste condizioni?» esclamai.
«Non l’ho fatto apposta» balbettò lei.
«Che diavolo succede qui?» strillò una voce acutissima dal piano di sopra.
Zia Martine.
Cambiai tono di colpo. «Scusa se sono stato un po’ duro, tu sei solo una bimbetta eccetera eccetera...» sussurrai in fretta.
«Io non sono una bimbetta!» strillò lei, ancora più forte.
«Okay. Okay. Hai ragione. Sei una ragazza bellissima. Scusa se sono stato un po’ duro, le donne non si toccano neanche con un fiore» ricominciai «e ti aiuterei molto volentieri se non avessi tre costole rotte che mi fanno un male da morire, però, per piacere, dovresti pulire questo postrib... voglio dire questo piccolo inconveniente, altrimenti zia Martine ci rovina.»
Mai vista una bambina così tonta (in realtà ho visto poche bambine in vita mia). «Possibile che tu sia così inetta da non riuscire nemmeno a togliere un po’ di questo fottutissimo succ...» sbottai un minuto dopo.
Lei balzò in piedi con uno ruggito felino, ma scivolò sul succo e mi cadde addosso. Io persi l’equilibrio e volai all’indietro, spiaccicandomi dritto dritto sui calli di zia Martine.
 
Becky
Il problema era il seguente. Quel blasfemo d’un Parker, per sottolineare l’ossessione di Basil per Dorian, aveva avuto la straordinaria idea di inserire un’inquadratura dello studio del pittore, pieno di schizzi con il suddetto Dorian. Che genio Ma a quanto pareva il vero pittore, un certo Jacques, era morto, e recuperare i suoi schizzi sarebbe stato un grosso problema. Colin Firth, che ormai avevo soprannominato Mr Matildo Comecazzosichiama, aveva avuto una fulminante illuminazione low-cost, ma le cose non stavano andando esattamente come previsto.
«Fermo lì, Ben. Non ti muovere, se no viene male. Anzi, sposta un po’ il viso. No, dall’altra parte. Ora vai più indietro. E non sorridere come in cartolina, cazzo. Aria assorta e appoggia il mento alla destra. No, facciamo alla sinistra. Ecco, bravo. Con quella ciocca davanti al viso non vedo niente, quindi spostala con la sinistra, però senza mettere la mano davanti al viso che altrimenti mi si scombina tutto. Nooo, ma che fai? Se sposti la mano devo ricalcolare tutto quanto! Ehi, pensi che sia facile?»
« Ben, diciamoci la verità: come attore sei bravissimo, ma come disegnatore fai schifo.»
«Ti vuoi tappare quel forno? Se il vero Dorian Gray fosse stato un granchio attaccato agli zebedei come te, il povero Basil l’avrebbe fatto subito a dadini. Altro che baci appassionati.»
«Ben, ti vedo male» commentò Oliver entrando nella stanza in cui Ben Chaplin, in un bagno di sudore, stava scarabocchiando una creatura oblunga che avrebbe dovuto essere l’omonimo con cui stava bisticciando.
I due Ben sbottarono simultaneamente:
«Vorrei vedere te, a stare quarantacinque minuti con la testa piegata a ottantotto virgola cinque gradi a sinistra, e gli occhi che guardano verso destra!» (Ben Barnes)
«E direi, quell’essere non sta mai un attimo fermo, tra poco lo accoppo!» (Ben Chaplin)
«Ho come la netta impressione che l’idea non stia non stia funzionando molto bene» commentai in tono piatto.
«Guarda» s’intromise Matildo Comecazzosichiama, strappando il lapis dalle mani del disegnatore provetto. «Ben, spostati un po’ più a destra.»
«Macchè, il punto di vista giusto è questo!» abbaiò Ben Chaplin.
«Dicevo all’altro Ben, imbecille» borbottò Matildo/Colin cancellando gli occhi della creatura disegnata.
«Ma così mi rovini tutto il disegno!» protestò Ben Chaplin.
«Be’, non è che ci sia tanto da rovinare» sbuffò Colin. «Ma non hai mai fatto niente in vita tua, eh? Immagina di sezionare la testa di Ben in tre parti orizzontali.»
Ben Barnes emise un brontolio gutturale.
Colin lo ignorò. «Gli occhi sono sul secondo terzo.»
«Non capisci nulla» intervenne Samantha, l’aiuto-regista.. «Devi immaginare di sezionarla in due parti. Gli occhi verrebbero tagliati a metà.»
«Cos’è che volete fare ai miei occhi?» chiese Ben Barnes preoccupato. Lo ignorarono.
«E il naso? Gli vogliamo togliere cinque centimetri, a questo naso?» s’infervorò Colin.
«Diventerò una gargouille» si lamentò Ben Barnes.
«Tutto questo succede perché voi vi affidate a dei canoni vecchi e decrepiti» disse Ben Chaplin. «Invece dovreste far affidamento solo sulla vostra esperienza empirica!»
«Ah, sta’ zitto, Ben» sbuffò Samantha.
«Vedi? È questa chiusura verso le altre opinioni che vi impedisce di creare qualcosa di decente.» (Ben Chaplin)
«Ok, ok, sto zitto. Poi però se viene uno schifo...» (Ben Barnes)
«Beh, allora vieni a farlo tu, se credi che sia facile!» li apostrofò Colin, non so bene chi dei due.
Mentre Ben Chaplin tentava di mettere le mani addosso a Mr Comecazzosichiama, Ben Barnes marciò verso il tavolo da disegno, ma non appena vide il prodotto di quei tre quarti d’ora di fatiche fece un balzo indietro con un’espressione indescrivibile.
«Abbiamo bisogno di un vero disegnatore» osservò il regista. «E di due soprannomi, se no qui mi viene tutto il film all’incontrario. Scattare, Joe.»
Joe era l’aiuto-aiuto-regista. Le sue mansioni, come quelle di Gwen, andavano dall’organizzare un meeting per l’ora successiva a portare il caffè. Poverino.
Mi alzai timidamente dicendo: «Be’, io non è che sono brava, però qualcosa lo so fare...»
«Ti prego, Becky – ti posso chiamare Becky, vero? – credo che possa bastare così» sbuffò Oliver.
In quel momento un gomitolo fluttuante di riccioli biondi spalancò la porta, caracollando sotto quattro casse di tè verde in brick.
«Ma dov’eri sparita?» esclamò Gwen.
Lei sfoderò un sorriso larghissimo. «Et voilà! Io non ho fatto colazione, voi?»
 
Nelle lunghe ore successive passarono davanti ai nostri occhi non uno ma quattro artisti. Verso le due e mezza nella sala eravamo rimasti solo in sei, dai quarantatrè di partenza. C’erano:
- Oliver Parker, clown disoccupato e irascibile che ci intratteneva con barzellette come: “Qual è il cane più buono? Ma il CANnolo! L’hai capita, Becky?”
- Rachel Hurd-Wood, gomitolo parlante che aveva addosso un incredibile argento vivo e chiacchierava con lo stesso fervore di isole della Micronesia, Mozart, chimica farmaceutica, Madonna, shock rock, classici del Cinquecento, DJ francesi, best-seller di Dan Brown, film di Fellini, horror splatter, vestiti d’epoca, cucina francese, bracconieri, pellicce di visone, teoria della relatività, cocktail, puritanesimo, tacchi 25, Dario Argento, baseball, Richard Gere, calcio, statue dell’isola di Pasqua, Froid, jinseng, prostituzione e libri per bambini
- Ben Barnes, anima in pena che cambiava nervosamente posizione sulla sedia ogni tre per due; quando Rachel diceva “e così volevo diventare una biologa marina” lui commentava “eh già, anch’io avrei voluto esserci, al festival di Woodstock”, quando lei buttava lì “avete mai visto Battle Royale?” lui rispondeva “anch’io sto con Amnesty International”
- Ben Chaplin, genio incompreso che si ostinava sulla sua teoria dell’empirismo e non chiudeva un’attimo la bocca; alla fine Rachel lo imbottì di tè verde, e tutti i coloranti-conservanti-acidificanti-esaltatori di sapidità (non so bene cosa siano, questi ultimi, né come si scrivano) contenuti nei tredici brick che gli fece trangugiare lo sedarono
- Gwen, autobotte di caffè che probabilmente era stata sveglia tutta la notte a riordinare le scartoffie del suo capo e adesso quasi non si reggeva in piedi
- la sottoscritta, unico essere normale del gruppo.
Se pensate che fossimo una combriccola già di per sé malmessa, avreste dovuto vedere gli artisti.
Il primo aveva un accento francese – finto – veramente insopportabile e si era calato in testa un basco che gli impediva di vedere qualsiasi cosa che non fosse il pavimento. Si arroccò su una sedia, tirò fuori un block notes a quadretti su cui erano state rovesciate parecchie birre e armeggiò freneticamente con un lapis microscopico in mano per un ora e un quarto. Alla fine ci consegnò due o tre schizzi meravigliosi. Aveva il ritratto il soggetto con dovizia di particolari, sublimi chiaroscuri e anche una certà struggente espressività. Peccato che il soggetto non era Ben, ero io.
Oliver strabuzzò gli occhi e sembrò sul punto di sputare fuoco dalle orecchie; Rachel scappò in corridoio per non ridere; Ben Chaplin grugnì: “ve l’avevo detto” e si chiuse nel mutismo. Io, che sono un’inguaribile romantica, arrossii fino alla punta dei capelli. Mi parve molto poetico che quel Van Gogh squattrinato, nella sua sbornia perenne, avesse deciso di ritrarre proprio me. Forse si era innamorato. Così acquistai i suoi schizzi ad un prezzo più o meno ragionevole e gli diedi un bacio sulla guancia. Non avrei dovuto avvicinarmi così tanto: il suo odore pestilenziale mi mise ko fino alla venuta dell’artista successivo.
Costui era un vecchio d’età indefinibile, col volto seminascosto da un groviglio inestricabile di capelli, baffi e barba. Aveva una voce roca, ma non priva di una certa melodiosità, e non chiudeva un attimo la bocca. (In seguito Oliver osservò, con la sua solita finezza, che “se avuto qualche secolo di meno e le tette sarebbe stato la copia carbone di Rachel”.) Il vecchietto ci spiegò il suo strano metodo di ritirare la parcella: si faceva pagare un tanto all’ora. Poi, mentre si accomodava, ci parlò della satira di Toulouse-Lautrec, delle tahitiane di Gauguin e dell’oscura amicizia tra Rimbaud e Verlaine. Non capivamo cosa cosa c’entrassero i due poeti maledetti con gli schizzi di Ben, ma tutti restammo così affascinati dalla sua saggezza da non accorgerci che erano già passate due ore e lui non aveva nemmeno appoggiato la matita sul foglio.
Dopo di lui venne un giovanotto olivastro, biondo e palestrato che teneva sottobraccio un PC con lo schermo di venti pollici e un’enorme cassetta degli attrezzi in cui erano ammucchiati pennarelli, tempere, pastelli a cera, matite, colori a olio, carboncini e una stampante. Afferrò Ben per le spalle, lo depositò su una sedia, gli raddrizzò la schiena con un gancio destro memorabile e si mise al lavoro. «Sicuro di non volere un dagherrotipo, Mr Parker?» chiese prima di buttarsi a capofitto nel lavoro.
«Ehm, sicurissimo» balbettò il regista, probabilmente convinto che dagherrotipo fosse una specie di malattia o una parolaccia.
Il tizio girò intorno a Ben una decina di volte a velocità da rally annotando velocemente qualcosa sul suo album di schizzi di due metri per cinque. Alla fine ci piantò davanti il dipinto a tempera di un campo di battaglia pieno di sangue. Ai nostri sguardi interrogativi rispose spiegando di aver rappresentato Ben “in una simultaneità di visione, in accordo con le più recenti avanguardie del metodo cubista”.
Oliver perse le staffe: «Ora secondo lei Basil Hallward aveva intenzione di dipingere Dorian Gray secondo il metodo cubista? Fuori dai piedi!»
«Disegnare le orecchie separate da tutto il resto del corpo... lei è un genio!» sorrise Rachel, e si fece autografare la maglietta.
Il quarto signore si proclamò un esperto di estetismo e ci disse subito che secondo lui un buon modo per rappresentare quella corrente letteraria in un film era “adeguare lo schizzo alla stramba sfarzosità del movimento”. Quando Gwen gli chiese di spiegarsi meglio, propose di “disegnare Mr Barnes nelle vesti di un fauno”.
Ben si diede alla fuga e si nascose sul tetto.
 
Jack
Quando vide com’era ridotta la sua cucina, zia Martine diede in escandescenze.
«Fuori di qui! Chi vi ha dato il permesso di entrare nella mia cucina? Oh mio Dio, ma che avete fatto? Jack Arthur Thomas Barnes! Abigail McMillan! Che diavolo vi è saltato in mente? Sparite immediatamente dalla mia vista. Fuori! Ho detto FUORI!»
Fuggimmo. Credo che nessuno, due giorni dopo essersi sfracellato contro un pino, sia mai riuscito a correre così velocemente.
«Jack?» pigolò la piccola Abby. «Prendiamo Melanie e scappiamo di qui.»
Io scoppiai a ridere e lei si mise a piangere di nuovo. «Non mi prendi mai sul serio!» frignò. Dio, quanto odiavo quel tappino col naso a pera.
«SILEEEENZIO!» strillò zia Martine dalla cucina.
Non feci in tempo a calmare la piccola peste, che un’altra mocciosa, ancora più piccola e rumorosa di lei, si abbracciò alla mia gamba ingessata. Emisi un disperato latrato di dolore. «Vi prego, sono troppo giovane e bello per...» mi lamentai, forse a voce un po’ troppo alta. Infatti zia Martine spalancò di nuovo la porta, sbattendomela in faccia, ed esclamò: «Ma proprio non volete capire! Fuori da questa casa!» Ci afferrò per un orecchio (teneva quelli delle pargole con una mano sola) e ci chiuse fuori.
Rimanemmo sul porticato fino all’una e mezza. Abby si era ormai rassegnata al suo destino e sembrava aver recuperato il lume della ragione.
«Facciamo amicizia?» mi propose mentre intrecciava una ghirlanda di margherite.
La mia solita fortuna. Se solo anche Violet Harper, del corso di ingegneria, avesse mai deciso di pormi quella domanda!
«D’accordo» borbottai.
«Ti piace guardare la televisione?» chiese lei.
«Sì, abbastanza» sbuffai.
«E cosa ti piace guardare?»
«Boh, baseball e football, Criminal Minds, CSI: New York...»
«Papà guarda CSI Miami, dice che è l’unico decente, però a noi non ce lo fa vedere.»
«Ma no, è meglio CSI New York!» protestai, indignato.
«Lo penso anch’io» convenne Abby.
«Ma hai detto che non te lo fa vedere!»
«Vabbè.  Io preferisco Winx Club e i documentari sui leoni. Lo sai che hanno fatto anche il film di Winx Club
«Ah sì?»
«Qual è il tuo film preferito?»
«Donnie Darko è meraviglioso.»
«Chi è Donnie Darko?»
«È un ragazzo che ha delle visioni e un giorno un coniglio nero diabolico gli dice che tra poco il mondo finirà.»
«Ah, bello. Che c’è per pranzo?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
Per pranzo c’erano le polpettine ripiene. Abby mi sussurrò che secondo lei era meglio non mangiarle, ma non la presi molto sul serio. I risultati per i nostri tre giovani intestini furono devastanti.
Due ore dopo, quando chiesi ad Abby come faceva a sapere che quelle bombe a mano erano pericolose, lei mi disse di averlo letto su un biglietto di Ben quella mattina. Mi si rizzarono i capelli. Il giorno prima avevo chiesto a Ben di ricordarmi quali erano i pericoli di Lume, e lui mi aveva promesso che il giorno dopo avrebbe scritto un biglietto intitolato Manuale di sopravvivenza a Lume per negati.
«Dov’è finito quel biglietto?» mormorai concitato.
«C’era finito tutto il succo sopra. Credo che zia Martine lo abbia buttato via.»
Respirai profondamente. «Okay. Vuol dire che per stasera cuciniamo noi, visto che mi sembra difficile che Ben torni.»
In realtà non avevo la benchè minima idea di come si cucinasse un piatto di pasta, ma sguinzagliai le due pargole nella stanza di Lucy, alla ricerca di un Ricettario di nonna Papera. Poi, quando zia Martine se ne fu andata a rilassarsi sul porticato, scandagliai la cucina. C’erano solo dei pacchetti di pasta un po’ ammuffiti, della carne cruda che emanava un fetore mortale e delle carote di un suggestivo marrone scuro.
Verso le tre del pomeriggio mandai un messaggio a Ben pregandolo di fare la spesa.
 
Becky
Eravamo riusciti a far sloggiare l’ultimo artista con l’aiuto di ottanta dollari, e finalmente ci eravamo accorti che l’ora di pranzo era passata da un bel pezzo, e che noi non avevamo niente nello stomaco.
Rachel si era arrampicata sul tetto per avvertire Ben dello scampato pericolo, ed era tornata proclamando: «Non so voi, ma io ho una fame da lupi.»
Spedimmo Gwen ed Oliver al McDonald (lui perché era il regista e quindi era giusto che pagasse, lei perché non vedevamo l’ora di toglierci dai piedi il suo nervosismo da caffeina). Poi Ben Chaplin sciolse il suo sciopero della parola per bofonchiare: «Sgrunt! Se me l’aveste lasciato fare a me, il disegno, avremmo risparmiato un sacco di tempo e di denaro» dopodichè prese e se ne andò alla macchinetta a prendere una barretta di cereali.
«Prevedo guai» profetizzai. Infatti, mezzo minuto dopo dal corridoio cominciarono a levarsi imprecazioni e schianti sordi.
Mentre Ben Chaplin strillava: «Il-mio-resto!», Rachel abbassò la voce e mormorò: «Ecco, adesso vi sembrerò una deficiente, però tanto mi dovrete sopportare solo per un po’, quindi...»
Ben annuì incuriosito. «Continua.»
«Avete presente Leonard Jacques, quel bastardo che morendo ci ha fatto fare tutto ‘sto casino?» chiese, e senza darci tempo di rispondere riprese: «Stava in un paesino vicino al mio college, un buco che non è nemmeno segnato sulla carta, chiamato Landscape.» Respirò profondamente. «Ci sono stata dopo la sua morte, perché Gwen mi ha detto che questo signor Jacques è morto d’infarto, al bar sotto casa, mentre disegnava sul suo block-notes. Però era più sano di me e voi messi insieme. Allora, mi ci è voluta mezza giornata soltanto ad arrivarci perché nessuno sapeva dove fosse, ma ne è valsa la pena. Sono andata al bar, e sembra che i quattro vecchietti che c’erano non abbiano notato nulla di strano. Però quando ho chiesto dov’erano gli schizzi che aveva disegnato, non mi hanno risposto. Cioè, mi hanno detto di andare alla polizia.»
Stavo cominciando ad appassionarmi alla vicenda. «Ma scusa, cosa c’era di strano in quegli schizzi?» chiesi.
«È questo il punto. Sono andata alla polizia come mi avevano detto, e lì hanno assicurato di non aver trovato nessuno schizzo vicino al cadavere. Cioè, c’era il block-notes, ma erano rimaste poche pagine, ed erano bianche. Ho provato a dirglielo, a quella padella del commissario, che forse qualcuno aveva strappato le pagine con gli schizzi, e lui mi ha mandata via in malo modo ed è andato a rispondere al telefono nell’altra stanza.»
A quel punto, mentre in corridoio Ben Chaplin prendeva a pugni la macchinetta, Rachel ficcò una mano nella borsa ed estrasse alcune fotografie con un sorrisetto malefico.
Diedi loro un’occhiata e rimasi a bocca aperta. «Vorresti dirmi che hai scattato delle foto alle foto del cadavere?» domandai stupefatta.
«He he. La Coolpix non mente» disse lei raggiante, mostrandoci un vecchio catorcio grigiastro, ammaccato e pieno di graffi. «Ha sette anni, lo zoom s’è bloccato, la nostra gatta ha usato il display come tiragraffi e dal vano delle pile a volte esce un po’ d’acqua, da quando quel cretino di mio fratello l’ha buttata nel lavandino per vedere se esplodeva. Ma funziona ancora a meraviglia.» Altro enorme sorriso orgoglioso.
Ben ne aveva presa una e la stava esaminando, cercando di usare il suo bicchiere di tè verde come lente d’ingrandimento. «C’è qualcosa che non torna. Qui, sul collo, cosa c’è?»
Rachel gliela strappò quasi di mano. «Non illuderti, potrebbe essere un difetto della Coolpix» sbuffò.
«Aspetta. Non è che le hai caricate anche sul cellulare?» chiesi. Be’, nessuna persona normale va in giro con foto di un morto nel cellulare. Ma Rachel non apparteneva alla categoria delle persone normali, perciò mi dissi che non c’era nulla di male a chiederglielo.
Infatti lei tirò fuori un iPhone di ultima generazione. «Zumma, zumma» ordinai.
Restammo di nuovo a bocca aperta. «Cos’è?» domandò Ben, strizzando gli occhi.
«Un tatuaggio, direi» ipotizzò Rachel.
«Quest’uomo aveva una rosa tatuata sul collo» mormorai. «Strano. Ti ha mai detto il perché, Ben, mentre posavi?»
«Leonard Jacques non aveva nessun tatuaggio, mi ha detto chiaro e tondo che li disprezzava» sussurrò Ben.
«Crispy Mc Bacon in arrivoooooo!» urlò la voce di Oliver, nel corridoio.


Okay, questo capitolo è l'elogio della pazzia. I'm sorry.

Tutto il casino di queste due settimane mi ha impedito di continuare, ma adesso ci sono... meglio tardi che mai!
Sempre per il casino - scusa, Beatrix_ se ti sfondo un mito - mi sono completamente dimenticata di precisare (non sono così malvagia da ometterlo apposta, malfidati) che quella dell'unico Oscar di Parker non è una mia battuta: glielo hanno detto davvero non so quali critici, a quanto pare! (La mia ammirazione per quel film non va oltre il soggetto e l'attore. C'est la vie.)
Vi siete presi l'incomodo di arrivare fin qui - graaaazie! - quindi adesso, per favore, ditemi quanto e perché vi ha fatto pena questo capitolo con una recensione, che è una delle poche cose ancora gratis, qui in Italia!
Un abbraccio (soprattutto a Beatrix_, che non si è ancora stufata di recensirmi... o almeno spero)!
   
 
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