Laudica_2204: grazie per aver trovato il prologo interessante e x aver reputeto la storai degna di essere letta. Questo capitolo lo " dedico" a te!! xD
CAPITOLO UNO – QUESTIONE DI
SGUARDI
16
anni
dopo…
12 Settembre 2008
Spalancai
gli occhi di colpo, sobbalzando involontariamente e scattando in
avanti, quasi pronta a scappare. Un uomo stempiato, sulla cinquantina,
seduto accanto a me, mi guardò stupito attraverso i suoi occhiali
spessi come un fondo di bottiglia. Nonostante fossi imbarazzata lo
guardai fisso negli occhi, come a chiedergli che cosa avesse da
guardare. Lui a
disagio scrollò le spalle e ritornò a leggere “ The Irish Times”. Alzai gli occhi al
cielo, infastidita del fatto che la gente si mostrasse sempre così
curiosa, poi con un sospiro mi appoggiai allo schienale del sedile,
guardando fuori dal finestrino. Nonostante cercassi con tutto il cuore
di perdermi nel candore delle nuvole, continuai a pensare all’incubo
che mi aveva fatto svegliare di soprassalto. Sempre lo stesso
soffocante e monotono incubo. Fuoco e fiamme ovunque. E poi del fumo,
così denso da farmi credere che fosse nebbia. Di per se come incubo non
era niente di che, ma erano le sensazione che quel sogno mi dava che mi turbavano.
Andavo a fuoco. Sapevo di andare a fuoco. Il calore
sulla mia pelle era così vivo da darmi l’impressione che fossi
una falò vivente. E
poi il fumo, la parte peggiore. Cercare di respirare, prendere boccate
d’aria e tentare di aprire i polmoni sempre di più ottenendo fiato in
meno. Era più o meno verso quella parte di sogno che mi svegliavo di
soprassalto. In quel momento però mi sarei riaddormentata più che
volentieri, disposta anche a subirmi lo stesso incubo pur di scappare
da ciò che stavo affrontando: partire dall’Irlanda, da casa mia.
Abbandonare la costa frastagliata, il mare, quell’odore di salsedine
che la mattina mi svegliava. Abbandonare gli amici. Abbandonare
Dublino, per andare verso Maddlemburg, nella Virginia dell’ Ovest. Da
mio zio. Non avevo possibilità, non dopo che mia madre neanche un anno
fa era morta in un incidente stradale. Quella scelta me l’avevano
proposta i miei fratelli maggiori, David e Andrew, dopo che eravamo
rimasti soli e senza un vero adulto che badasse su di noi. Secondo la
Legge, in quanto maggiorenni, loro due avrebbero potuto perfettamente
badare a me, la sorellina più piccola, ovviamente mettendo da parte le
loro ambizioni per il futuro, cosa che ne loro ne io eravamo disposti
ad accettare. Ingoiando il boccone amaro avevo aspettato che finisse
l’estate per fare i bagagli e trasferirmi in America, giusto il tempo
di compiere diciottanni ed essere responsabile solo di me stessa, in
modo da poter tornare a casa. In quel momento, uno dei pochi, desiderai
un padre. Sapevo che era sciocco come desiderio, visto che in tutti i
miei quasi diciassette anni di vita non
ne avevo mai desiderato ne voluto – ne
avuto – uno. Non sapevo
nemmeno che faccia avesse e non mi ero mai preoccupata di chiedere chi
fosse; del canto suo mia madre non era molto loquace su quell’argomento: tutto
cio che sapevo e che quando non avevo nemmeno un anno di vita se n’era
andato, lasciandoci soli. Non che fosse un problema visto che le nostre
risorse economiche erano più che imponenti ma di tanto in tanto
capitava anche a me di desiderarne uno. Colta da un improvvisa
sensazione di vuoto chiusi gli occhi permettendomi per un attimo di
versare qualche lacrima.
Maddlemburg è una piccola e poetica cittadina fondata verso il 1700 da
alcuni coloni inglesi, tra cui gli antenati della mia famiglia, in una
desolata valle in mezzo ai boschi. Nonostante la posizione isolata e le
dodicimila persone che la popolano, la città è sempre stata
caratteristica, per via dei tipici Quartieri Alti distinti dalle
villette inglesi e per il Vittoriano, un quartiere frequentato
soprattutto dai giovani per via delle strade ricche di vita notturna.
Io, per mia sfortuna non avrei abitato in nessuno dei quartieri: la
grande villa inglese di mio zio Johnny, una volta appartenuta ai miei
nonni, si trovava ai margini del fitto bosco che circondava tutta la
città. Non avevo mai capito perché secoli prima avessero deciso di
costruirla nel bel mezzo del nulla, forse per poter permettere
all’architetto di dar sfogo alla sua idea di maestosità: per quel che
mi ricordavo la villa era magnifica e imponente. E quando i miei nonni
avevano deciso di partire per la Florida, più o meno quando mia madre
ci aveva portato via da quella città, mio zio era stato più che felice
di ereditarla. Era facile andare d’accordo con il fratello di mia madre
– era un uomo solare a cui piaceva divertirsi senza imporre troppe
regole – ma da quando aveva divorziato dalla mia adorabile zia Diana e
dalla mia cunetta Kim, i rapporti si erano tesi, almeno da parte mia.
Nella mia testa mi sembrava di vederripetersi lo stesso
errore che, probabilmente, mio padre aveva fatto con me e con mia
madre. Inoltre quella casa me la vedevo decisamente vuota e enorme,
soprattutto ora che avremmo convissuto solo noi due – non contando le
cameriere che lavoravano per la nostra famiglia. Nonostante i miei
dubbi su quella forzata coabitazione, Johnny si era comportato in modo
impeccabile, una volta venuto a sapere del mio arrivo in città.
Sembrava fargli piacere il fatto che avessi messo da parte i vecchi
rancori che nutrivo verso di lui – cosa che, per la cronaca, non avevo del tutto fatto – per
poter passare un po’ di tempo nella vecchia città natale. Mi aveva già
iscritto a una scuola e si era preoccupato di sistemare al meglio la
cameretta che una volta era appartenuta a mia madre. Proprio mentre
l’aereo atterrava, mi dissi, anche se il termine esatto sarebbe mi imposi, che mi sarei
comportata nella maniere più adatta che una sedicenne potesse fare, in
modo da poter passare serenamente i mesi di purgatorio che mi
attendevano a Maddlemburg. Suonava assurdo perfino alle mie orecchie,
ma stranamente, quando vidi Johnny che mi attendeva all’uscita del
check-in, riuscì a rivolgergli un sorriso fugace, prima che lui mi
stringesse in un soffocante abbraccio. Spiazzata, lasciai le braccia
inerti lungo i fianchi, per poi battergli dei colpetti sulla schiena,
imbarazzata.
« Finalmente
sei arrivata » mi
disse allontanandosi un po’ da me, per potermi guardare.
« Sempre
uguale, sempre più bella. »
Era strano ricordarsi perché gli portavo
rancore, quando si comportava in modo così naturale. Guardarlo mi
ricordava l’infanzia, dove mi divertivo a stargli sulle spalle. Sentii
una sorta di calore, e sorridere questa volta venne in modo molto più
naturale.
« Grazie
zio. Anche tu non sei cambiato molto. »
Johnny mi ricordava gli eterni bellocci,
quegli attori delle serie Tv che si divertivano a fare conquiste in
giro, nonostante avessero alle spalle un bel po’ di anni. Ma in questo
caso, lui come loro, poteva permetterselo: nonostante i quarantacinque
anni passati, mio zio era ancora avvenente, con i capelli color
cioccolato, e
un viso dalla pelle abbronzata, che sembrava non avvertire il peso
delle rughe che cominciavano a spuntare.
« I
tuoi fratelli? »mi domandò, togliendomi dalla mano il
grosso trolley che mi stavo trascinando dietro.
« Stanno
bene. »
Chiedendomi della mia famiglia mi ricordai della sua.
« Kim
ela zia stanno bene? » domandai
titubante, nonostante sapessi che le visite tra lui e sua figlia
fossero molto rare.
Strinse le labbra. « Si,
credo di si », mi rispose, dando conferma ai miei
dubbi.
Cercai di mettere a tacere il fastidio dovuto a quella risposta
seguendo Johnny verso l’uscita. Improvvisamente avverti una strana
sensazione, come se qualcuno mi fissasse. Mi fermai, lasciando Johnny
che continuava a camminare, e mi guardai intorno sempre più confusa,
aspettandomi di vedere qualcuno che mi guardava. Niente. L’aeroporto,
nonostante l’orario notturno, era pieno di persone troppo indaffarate
nei loro lavori per fermarsi a guardare proprio me. Eppure ero convinta che mi stessero guardando.
Testardamente socchiusi gli occhi, come per concentrarmi meglio e
ispezionai un ultima volta l’aeroporto, stavolta con occhiate più
attente. Il mio sguardo si incontrò per un attimo con quello di due
occhi grigi magnetici, che mi catturarono come una calamita. Al posto
di voltarmi come una qualsiasi persona normale, rimasi imbambolata a
fissare il proprietario di quegli occhi, che incuriosito quanto me,
ricambiava le attenzioni. Nonostante fosse a una ventina di metri di
me, riuscivo a cogliere ogni particolare del suo corpo. Dio era
…meraviglioso. Degno di sfilare su una passerella di moda a New York.
Giovane, non dimostrava più di diciannove anni, era alto e magro, ma
comunque muscoloso. Mi sembrava di vedere i muscoli delle braccia
contrarsi sotto le maniche della camicia nera, arrotolata fino ai
gomiti. Il viso era dalla classica forma un po’ squadrata, con i
lineamenti dritti e perfetti, dalla bellezza incontestabile. I nostri
occhi si incrociarono per la seconda volta, e dal suo guardo fremente
notai che anche lui mi aveva squadrato e sembrava avesse apprezzato ciò
che gli era davanti. Con il respiro improvvisamente corto, lo continuai
a fissare con occhiate trasversali, sostenendo il suo sguardo, un po’
coperto dai alcuni ciuffi capelli castani, portati in un taglio un po’
lungo.
Tutto accadde tutto molto velocemente. Un attimo prima stavo
perfettamente bene e un attimo dopo ero piegata in due su me stessa,
con la testa che scoppiava. Mi sembrava di avvertire mille e mille
ultrasuoni nella testa, che si sovrapponevano tra loro. Se una parte
del mio cervello non mi avesse ricordato che mi trovavo in un luogo
pubblico mi sarei messa ad urlare, così mi limitai tenermi la testa tra
le mani e a gemere sotto voce. Il rumore continuava ad aumentava sempre
di più, così come tutti i suoni intorno a me. La testa iniziò a
pulsarmi e dolermi sempre di più e cominciai a pensare che da un
momento all’altro potesse esplodere; strinsi la presa della testa,
nella speranza che la pressione facesse cessare un po’ il dolore.
Sentii la voce allarmata di Johnny di fianco a me.
« Lucy,
Lucy. » La
voce era agitata, e non faceva che irritarmi di più. « Stai
bene? »domandò preoccupato.
Se mi fossi trovata in un'altra situazione, gli avrei risposto con una
battuta sarcastica. Un'altra potente fitta si fece sentire nella mia
testa, le orecchie cominciarono a fischiare, come se qualcuno si
divertisse a passare delle forbici su una lavagna. Gemetti un po’ più
forte. Ecco, adesso esplode,
pensai. D’un tratto silenzio. Non c’era più un rumore, a parte il
classico vociare in sottofondo, tipico dei luoghi affollati. Confusa e
spaventa rimasi ancora piegata su me stessa, senza allentare la presa
sulla testa.
« Ehi! » esclamò
Johnny al mio fianco, « che
ti è preso? »
Rimasi in silenzio, senza rispondere alla sua
domanda, e mi rimisi dritta lentamente, con la paura che un altro
movimento brusco potesse causarmi un'altra di quelle strane fitte alla
testa. Mi voltai a guardarlo, con una lentezza che infastidiva perfino
a me, ancora frastornata . Nella mente contai fino a dieci, per darmi il tempo di riordinare le
idee. C’èra un ragazzo bellissimo, laggiù, appoggiato a una colonna, ci
stavamo guardando e poi…
« E
poi? »mi incitò mio zio.
Lo guardai nuovamente scombussolata. Non mi ero resa conti di aver
parlato a voce alta, ma cercai di non badarci.
« Poi… » mormorai
tra me e me massaggiandomi gli occhi, cercando una scusa abbastanza
convincente da spiegare cosa mi era accaduto. « Ho
incominciato a sentire gli ultra suoni come i pipistrelli!” esclamai.
Johnny mi guardò un attimo incredulo poi mi scoppio a ridere in faccia.
Rimasi scioccata a guardarlo, con una vampata di rabbia che si
diffondeva nel corpo.
« Non
sto scherzano… » mugugnai,
cercando di tenere a freno l’ira. Odiavo quando la gente non mi
prendeva sul serio. « Se
questo è il vostro comitato di benvenuto che avete in città, allora
fareste meglio a rimodernarlo. »
La mia battuta non era niente di che, ma
sembrò divertire ancora di più Johnny. La sua risata però aveva un
suono falso, come se cercasse di mascherare qualcosa. Non stava ridendo
perché trovava divertente quello che mi era successo, al contrario
sembrava crederci ma era come se volesse portare il discorso su un
altro argomento.
« Riferirò », disse ancora sogghignante.
Gli lanciai un sorriso tossico, ancora imbronciata, e mi girai verso il
giovane, cercando di capire cosa avesse messo in moto i rumori e tutto
il resto. Dopo un momento di smarrimento, mi voltai a destra e sinistra
con scatti frenetici. Era sparito. Così come la mia rabbia, sostituita
dall’incredulità. Non c’era traccia del tipo misterioso. Ma era
impossibile. Cavolo, era impossibile che in quei secondi di agonia che
mi avevano sopraffatto, una persona potesse sparire. Johnny si accorse
del mio sguardo, che vagava da un angolo all’altro dell’aeroporto.
« Chi
stai cercando? » mi
domandò, stavolta senza traccia di ironia nella voce.
Riposi continuando a cercare nella folla. « Non
stavo scherzando quando ti ho detto che c’era un ragazzo. Ci siamo
guardati per un po’ e poi improvvisamente… Bum! »
Mi sentivo stupida a dare una spiegazione così pietosa , ma ero sicura
di non aver immaginato niente.
« Bum? » chiese
scettico Johnny.
« Gli
ultrasuoni. » Mi
toccai la fronte, come se non fosse abbastanza chiaro.
« Ah,
giusto…»
Dopo un’ altro momento di silenzio
imbarazzante, si decise a farmi domande sull’accaduto.
« Com’era questo ragazzo? » domandò
improvvisamente avido di sapere.
Il mio sguardo si accese. « Era…
bellissimo» affermai. « Alto,
viso stupendo, capelli castano scuro un po’ scompigliati » dissi,
scuotendo un po’ le mani, come per mimare la sua chioma ribelle. « E
due occhi grigi magnetici. » A
ricordo degli sguardi che mi lanciava, tutt’altro che casti, provai
brividi sulle braccia.
Socchiusi un attimo gli occhi e quando li riaprii l’espressione di mio
zio mi sorprese. Non era più divertita, al contrario sembrava tesa e
nervosa.
« Forza,
sbrigati. Dobbiamo andare » disse,
improvvisamente frenetico.
« Perché? »
Non capivo. Un attimo prima se la rideva come un matto, per un argomento
tutt’altro che divertente, e ora sembrava impaziente di andarsene da lì.
« Perché…
perché…» balbettò,
cercando di trovare una scusa abbastanza convincente.
« Perché
sono già le nove di sera, e guidare al buio non è prudente e… » parlava
talmente in fretta che le parole si rincorrevano da sole. « Ci
vogliono quasi due ore per arrivare a Middlemburg e inoltre presumo che
tu sia stanca. » Concluse
la lista delle scuse con aria trionfante, anche se aveva pronunciato
tutto boccheggiando. In effetti ora che me l’aveva fatto notare, ero
stanca. Il viaggio mi aveva spossata parecchio ma mi limitai a
guardarlo con aria dubbiosa, poi, per evitare polemiche mi limitai a
mormorare un « Ok. »
Johnny sembrava quasi correre verso l’uscita, nonostante fosse a pochi
metri da noi. Io,
dietro di lui, cercavo di stare dietro al suo passo veloce con un
espressione in viso basita. Era impossibile che la semplice descrizione
di un ragazzo avesse potuto far scattare così una persona, spaventarla
a tal punto da farla correre verso l’uscita per dirigersi lontano da
lui. Qualcosa mi puzzava.
Durante il viaggio in macchina, non potendo ammirare il panorama dato
l’orario notturno, mandai un messaggino a David e Andrew, tralasciando
certi particolari, e poi mi misi a pensare all’ accaduto nell’aereo.
Non ne venni a capo. Tutto ciò che era successo, non dimostrava niente.
Alla fine, per non vedermi come una pazza, mi dissi che quel mal di
testa improvviso, era solamente causato dallo stress e dalla stanchezza
del viaggio. Avevo bisogno di aria fresca per calmarmi e schiarire un po’ le idee,
così abbassai il finestrino dell’elegante Mercedes Nera e respirai a
fondo, mentre venivo travolta da quel vento che mi riempiva i
polmoni. Sentire l’odore di pini, tigli e al posto del
classica aria salmastra di Dublino, mi scatenò immediatamente una
tempesta emotiva. Prendere una boccata d’aria si rivelò una pessima
idea. Avrei voluto tanto spalancare la porta dell’auto e scendere,
farmela di corsa fino all’aeroporto e tornarmene a casa. Non mi
importava se ora ero su un autostrada buia e silenziosa, nel bel mezzo
del nulla. Sarei
andata anche su un monopattino se fosse stato necessario. Per un
momento titubai, la mano si era poggiata già sull’apri-porta. Di nuovo
le lacrime minacciarono di cadere, e l’ultima cosa che volevo era
piangere, soprattutto in presenza di Johnny. Sprofondai nel sedile,
tirando su con il naso, pensando a quanto fosse stata stupida
quell’idea. Per i rimanenti minuti di viaggio, passai in rassegna tutti
i nomi delle ultime canzoni estive. Quando arrivammo a Maddlemburg
erano già le undici passate. Le strade erano affollate di bancarelle e
gente e così Johnny, per risparmiarsi il classico traffico per
affollamento deviò per stradine e vicoli, che ci fecero risparmiare
tempo. Una volta attraversato Hawley Boulevard, tipica zona residenziale americana, ci
dirigemmo verso il bosco, imboccando una stradina che conduceva verso
il buio più totale. Sentii nascere l’ansia quando, intravidi da lontano
la tenuta degli Anderson. Solo le luci accese mi permisero di vederla
attraverso il fogliame del fitto bosco. Entrammo con la macchina
attraversando il cancello in ferro battuto, fermandoci proprio davanti
agli scalini che conducevano al piccolo portico e di conseguenza alla
porta di casa. Prima di salirli mi presi tempo per osservare quella
costruzione: dai tratti tipici delle costruzioni Tudor, era enorme e
imponente. I mattoni rossi risaltavano nonostante il buio della notte,
mentre da alcune grandi vetrate usciva una luce soffusa. Mi sembrava di
vedere i grossi lampadari pacchiani appesi al soffitto. Respirai
profondamente quando mi trovai “ faccia a faccia” con il portone.
Rimasi impalata, con lo sguardo fisso sul battente, incapace anche solo
di muovere un solo muscolo. In quel momento mi sembrava impossibile
pensare a come ero riuscita a mantenere la calma in aereo o durante il
viaggio in macchina. Ora, tutto mi sembrava assurdo. Mi sembrava di
essere sott’acqua, di avere le orecchie tappate e di non sentire alcun
rumore. Pensare a canzoncine e balle varie per calmarmi non avrebbe
funzionato. Avevo bussato tante volte a quella porta, ma farlo questa
volta sarebbe stato diverso, sarebbe stato come metter piede in un
campo minato, in un territorio straniero e ostile. Sentivo che quello
non era il mio posto. Mi tremarono leggermente le labbra, mentre
tentavo di parlare, senza emettere alcun verso. Sobbalzai violentemente
quando la porta venne spalancata dall’interno e mi trovai faccia a
faccia con Betty, l’anziana governate. La bolla nella quale mi trovavo
venne improvvisamente bucata; fu come svegliarsi da un sogno. Sbattei
un paio di volte le palpebre per riprendermi.
Dopo un momento di palese sorpresa il viso dell’anziana donna si
distese.
« Signorina
Lucy! » esclamò
con la sua vocetta carica di emozione. « È
arrivata. È così bello riaverla qui con noi. » Balbettai
qualcosa che assomigliavano a ringraziamenti, mentre Betty continuava a
parlare, trascinandomi dentro, con Johnny alle calcagna, e lodandomi
con frasi tipo “ è sempre incantevole” o “ci è tanto mancata” . Troppo
presa a osservare la casa, cercai di ricambiare l’accoglienza da reginetta che mi stava riservando, con
complimenti imbarazzati, seppure sinceri.Ovviamente non
c’erano le cameriere, così dopo che risposi ad alcuni domande sui bei giovanotti che erano diventati i miei
fratelli cercai di lanciare un chiaro segnale sbadigliando. Johnny se ne accorse. « Bene » esordì
sfregandosi le mani « la
tua valigia è in camera, insieme a tutte le altre, che hai fatto
arrivare qualche giorno fa. Direi che dato l’orario sia ora di andare a
dormire. »
« Direi
di sì. »
Buttai giù l’ultimo sorso di succo di frutta che mi era stato offerto,
augurai la buona notte a tutti e mi avviai senza parlare verso le scale.
« Hai
bisogno che ti faccia vedere dov’è la camera? » urlò
Johnny dal piano di sotto, una volta finito il rumore dei miei passi
pesanti sui gradini.
« No » risposi
di rimando. Una volta arrivata in camera, volevo deprimermi in santa
pace, sola e senza disturbi. « Mi
ricordò dov’è. » E come non potrei, dissi a me stessa.
Percorsi il lungo corridoio, fino ad arrivare alla vecchia stanzetta di
mia madre, la più isolata di tutte, quella che dava direttamente sul
retro della casa, verso il bosco. La porta era aperta ma la luce era
chiusa, davanti a me solo il buio. Continuavo a guardare dentro, senza
vedere niente, mentre lacrime silenziose mi bagnavano il viso e l’odore
di violetta, lo stesso odore di cui mia madre profumava, mi inondava.
Il mio stomaco si contorse per il nervosismo. Chiusi gli occhi,
timorosa di guardare, e entrai nella stanza, cercando a tentoni
l’interruttore della luce. Contai mentalmente fino a tre, poi apri
lentamente gli occhi. Mi morsi le labbra, mentre sempre più lacrime
scorrevano lungo il volto. Quella camera l’avevo vista mille volte, e
per altrettante mille volte avevo dormito lì, ma quella era la prima
volte che la vedevo dopo la morte di mia madre.Quasi come se violassi
il suo spazio. mi sentii come uno di quei vermi che strisciando si
insinuavano nei corpi degli animali in putrefazione. Ma stare li tra le
sue cose da una parte mi faceva star bene, mi sentivo bene. Tutto era immobile,
sembrava dirmi che lei non se n’era mai andata. Ma la verità era
un'altra, che io lo volessi si o no. Mi sedetti sul grande letto a due
piazze, asciugando con il dorso della mano, l’acqua che mi bagnava il
viso e mi guardai attorno, con un sorriso triste. Si poteva cogliere da
lontano il gusto raffinato di Wendy Anderson. I mobili erano in stile
classico, color verdino chiaro, che risaltavano con i muri gialli.
L’enorme armadio, che riempiva da solo una parete, aveva le ante
aperte, dentro completamente vuoto. Sentii un nodo alla gola
al pensiero di quando mio zio aveva fatto svuotare gli ultimi vestiti
che mia madre conservava per le visite annuali. Per evitare di andare a
dormire con una dose in più di malinconia e nostalgia, mi concentrai
sulla larga maglietta verde scuro che stavo indossando e poi mi misi
subito a letto. Il
sonno mi colpii come una bomba di cannone. Sentivo pian piano la mentre
svuotarsi e il corpo che si rilassava. Decisi che la cosa migliore era
lasciarsi andare. Fu come cadere in letargo. Quella notte feci un sogno
strano: camminavo per le vie di Maddlemburg e venivo osservata da tutte
le persone che riempivano le stradine. La cosa più inquietante e che
tutti avevano lo stesso colore degli occhi. Quel grigio celestiale mi
accompagnò finche non mi svegliai.
OK di nuovo se siete arrivati alla fine
buon
segno! Questo capitolo è noioso, lungo e non succede niente di che, ma
appunto perché
è il primo capitolo, avevo il
bisogno di introdurre un po’ la storia. Cercherò di modificare i
prossimi in
modo da renderli più interessanti. Se vi è piaciuto fatemi sapere che
non sono
sicura che la cosa possa interessare…
Un bacio,
bubblin_