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Autore: bubblin_    20/09/2010    1 recensioni
"Lo amavo e mio zio aveva torto. Poco importava che lui fosse un vampiro e io un umana. Poco importava che io fossi la Cacciatrice e lui il demone da distruggere. Lo amavo e non c’era altro modo di sfuggire a ciò che provavo per lui. Chiedermi di rinunciare a quella parte di sentimenti era come chiedermi di rinunciare a una parte di me stessa, come chiedermi di tagliarmi a metà. Il solo pensiero mi causava tanto dolore da procurarmi conati di vomito. Non potevo tornare dietro, neanche a volerlo. Ora mai c’era troppo dentro. Ero sua, gli appartenevo, come le stelle appartengono al cielo."
Genere: Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima di tutto i ringraziamenti a
Laudica_2204: grazie per aver trovato il prologo interessante e x aver reputeto la storai degna di essere letta. Questo capitolo lo " dedico" a te!! xD


CAPITOLO UNO – QUESTIONE DI SGUARDI

16 anni dopo…

12 Settembre 2008

Spalancai gli occhi di colpo, sobbalzando involontariamente e scattando in avanti, quasi pronta a scappare. Un uomo stempiato, sulla cinquantina, seduto accanto a me, mi guardò stupito attraverso i suoi occhiali spessi come un fondo di bottiglia. Nonostante fossi imbarazzata lo guardai fisso negli occhi, come a chiedergli che cosa avesse da guardare. Lui a disagio scrollò le spalle e ritornò a leggere “ The Irish Times”. Alzai gli occhi al cielo, infastidita del fatto che la gente si mostrasse sempre così curiosa, poi con un sospiro mi appoggiai allo schienale del sedile, guardando fuori dal finestrino. Nonostante cercassi con tutto il cuore di perdermi nel candore delle nuvole, continuai a pensare all’incubo che mi aveva fatto svegliare di soprassalto. Sempre lo stesso soffocante e monotono incubo. Fuoco e fiamme ovunque. E poi del fumo, così denso da farmi credere che fosse nebbia. Di per se come incubo non era niente di che, ma erano le sensazione che quel sogno mi dava che mi turbavano. Andavo a fuoco. Sapevo di andare a fuoco. Il calore sulla mia pelle era così vivo da darmi l’impressione che fossi una falò vivente. E poi il fumo, la parte peggiore. Cercare di respirare, prendere boccate d’aria e tentare di aprire i polmoni sempre di più ottenendo fiato in meno. Era più o meno verso quella parte di sogno che mi svegliavo di soprassalto. In quel momento però mi sarei riaddormentata più che volentieri, disposta anche a subirmi lo stesso incubo pur di scappare da ciò che stavo affrontando: partire dall’Irlanda, da casa mia. Abbandonare la costa frastagliata, il mare, quell’odore di salsedine che la mattina mi svegliava. Abbandonare gli amici. Abbandonare Dublino, per andare verso Maddlemburg, nella Virginia dell’ Ovest. Da mio zio. Non avevo possibilità, non dopo che mia madre neanche un anno fa era morta in un incidente stradale. Quella scelta me l’avevano proposta i miei fratelli maggiori, David e Andrew, dopo che eravamo rimasti soli e senza un vero adulto che badasse su di noi. Secondo la Legge, in quanto maggiorenni, loro due avrebbero potuto perfettamente badare a me, la sorellina più piccola, ovviamente mettendo da parte le loro ambizioni per il futuro, cosa che ne loro ne io eravamo disposti ad accettare. Ingoiando il boccone amaro avevo aspettato che finisse l’estate per fare i bagagli e trasferirmi in America, giusto il tempo di compiere diciottanni ed essere responsabile solo di me stessa, in modo da poter tornare a casa. In quel momento, uno dei pochi, desiderai un padre. Sapevo che era sciocco come desiderio, visto che in tutti i miei quasi diciassette anni di vita non ne avevo mai desiderato ne voluto – ne avuto – uno. Non sapevo nemmeno che faccia avesse e non mi ero mai preoccupata di chiedere chi fosse; del canto suo mia madre non era molto loquace su quell’argomento: tutto cio che sapevo e che quando non avevo nemmeno un anno di vita se n’era andato, lasciandoci soli. Non che fosse un problema visto che le nostre risorse economiche erano più che imponenti ma di tanto in tanto capitava anche a me di desiderarne uno. Colta da un improvvisa sensazione di vuoto chiusi gli occhi permettendomi per un attimo di versare qualche lacrima.

***


Maddlemburg è una piccola e poetica cittadina fondata verso il 1700 da alcuni coloni inglesi, tra cui gli antenati della mia famiglia, in una desolata valle in mezzo ai boschi. Nonostante la posizione isolata e le dodicimila persone che la popolano, la città è sempre stata caratteristica, per via dei tipici Quartieri Alti distinti dalle villette inglesi e per il Vittoriano, un quartiere frequentato soprattutto dai giovani per via delle strade ricche di vita notturna. Io, per mia sfortuna non avrei abitato in nessuno dei quartieri: la grande villa inglese di mio zio Johnny, una volta appartenuta ai miei nonni, si trovava ai margini del fitto bosco che circondava tutta la città. Non avevo mai capito perché secoli prima avessero deciso di costruirla nel bel mezzo del nulla, forse per poter permettere all’architetto di dar sfogo alla sua idea di maestosità: per quel che mi ricordavo la villa era magnifica e imponente. E quando i miei nonni avevano deciso di partire per la Florida, più o meno quando mia madre ci aveva portato via da quella città, mio zio era stato più che felice di ereditarla. Era facile andare d’accordo con il fratello di mia madre – era un uomo solare a cui piaceva divertirsi senza imporre troppe regole – ma da quando aveva divorziato dalla mia adorabile zia Diana e dalla mia cunetta Kim, i rapporti si erano tesi, almeno da parte mia. Nella mia testa mi sembrava di vederripetersi lo stesso errore che, probabilmente, mio padre aveva fatto con me e con mia madre. Inoltre quella casa me la vedevo decisamente vuota e enorme, soprattutto ora che avremmo convissuto solo noi due – non contando le cameriere che lavoravano per la nostra famiglia. Nonostante i miei dubbi su quella forzata coabitazione, Johnny si era comportato in modo impeccabile, una volta venuto a sapere del mio arrivo in città. Sembrava fargli piacere il fatto che avessi messo da parte i vecchi rancori che nutrivo verso di lui – cosa che, per la cronaca, non avevo del tutto fatto – per poter passare un po’ di tempo nella vecchia città natale. Mi aveva già iscritto a una scuola e si era preoccupato di sistemare al meglio la cameretta che una volta era appartenuta a mia madre. Proprio mentre l’aereo atterrava, mi dissi, anche se il termine esatto sarebbe mi imposi, che mi sarei comportata nella maniere più adatta che una sedicenne potesse fare, in modo da poter passare serenamente i mesi di purgatorio che mi attendevano a Maddlemburg. Suonava assurdo perfino alle mie orecchie, ma stranamente, quando vidi Johnny che mi attendeva all’uscita del check-in, riuscì a rivolgergli un sorriso fugace, prima che lui mi stringesse in un soffocante abbraccio. Spiazzata, lasciai le braccia inerti lungo i fianchi, per poi battergli dei colpetti sulla schiena, imbarazzata.

«
Finalmente sei arrivata » mi disse allontanandosi un po’ da me, per potermi guardare.
«
Sempre uguale, sempre più bella. »
Era strano ricordarsi perché gli portavo rancore, quando si comportava in modo così naturale. Guardarlo mi ricordava l’infanzia, dove mi divertivo a stargli sulle spalle. Sentii una sorta di calore, e sorridere questa volta venne in modo molto più naturale.
«
Grazie zio. Anche tu non sei cambiato molto. »
Johnny mi ricordava gli eterni bellocci, quegli attori delle serie Tv che si divertivano a fare conquiste in giro, nonostante avessero alle spalle un bel po’ di anni. Ma in questo caso, lui come loro, poteva permetterselo: nonostante i quarantacinque anni passati, mio zio era ancora avvenente, con i capelli color cioccolato, e un viso dalla pelle abbronzata, che sembrava non avvertire il peso delle rughe che cominciavano a spuntare.
«
I tuoi fratelli? »mi domandò, togliendomi dalla mano il grosso trolley che mi stavo trascinando dietro.
«
Stanno bene. »
Chiedendomi della mia famiglia mi ricordai della sua.

«
Kim ela zia stanno bene? » domandai titubante, nonostante sapessi che le visite tra lui e sua figlia fossero molto rare.
Strinse le labbra.
« Si, credo di si », mi rispose, dando conferma ai miei dubbi.
Cercai di mettere a tacere il fastidio dovuto a quella risposta seguendo Johnny verso l’uscita. Improvvisamente avverti una strana sensazione, come se qualcuno mi fissasse. Mi fermai, lasciando Johnny che continuava a camminare, e mi guardai intorno sempre più confusa, aspettandomi di vedere qualcuno che mi guardava. Niente. L’aeroporto, nonostante l’orario notturno, era pieno di persone troppo indaffarate nei loro lavori per fermarsi a guardare proprio me. Eppure ero convinta che mi stessero guardando. Testardamente socchiusi gli occhi, come per concentrarmi meglio e ispezionai un ultima volta l’aeroporto, stavolta con occhiate più attente. Il mio sguardo si incontrò per un attimo con quello di due occhi grigi magnetici, che mi catturarono come una calamita. Al posto di voltarmi come una qualsiasi persona normale, rimasi imbambolata a fissare il proprietario di quegli occhi, che incuriosito quanto me, ricambiava le attenzioni. Nonostante fosse a una ventina di metri di me, riuscivo a cogliere ogni particolare del suo corpo. Dio era …meraviglioso. Degno di sfilare su una passerella di moda a New York. Giovane, non dimostrava più di diciannove anni, era alto e magro, ma comunque muscoloso. Mi sembrava di vedere i muscoli delle braccia contrarsi sotto le maniche della camicia nera, arrotolata fino ai gomiti. Il viso era dalla classica forma un po’ squadrata, con i lineamenti dritti e perfetti, dalla bellezza incontestabile. I nostri occhi si incrociarono per la seconda volta, e dal suo guardo fremente notai che anche lui mi aveva squadrato e sembrava avesse apprezzato ciò che gli era davanti. Con il respiro improvvisamente corto, lo continuai a fissare con occhiate trasversali, sostenendo il suo sguardo, un po’ coperto dai alcuni ciuffi capelli castani, portati in un taglio un po’ lungo.
Tutto accadde tutto molto velocemente. Un attimo prima stavo perfettamente bene e un attimo dopo ero piegata in due su me stessa, con la testa che scoppiava. Mi sembrava di avvertire mille e mille ultrasuoni nella testa, che si sovrapponevano tra loro. Se una parte del mio cervello non mi avesse ricordato che mi trovavo in un luogo pubblico mi sarei messa ad urlare, così mi limitai tenermi la testa tra le mani e a gemere sotto voce. Il rumore continuava ad aumentava sempre di più, così come tutti i suoni intorno a me. La testa iniziò a pulsarmi e dolermi sempre di più e cominciai a pensare che da un momento all’altro potesse esplodere; strinsi la presa della testa, nella speranza che la pressione facesse cessare un po’ il dolore. Sentii la voce allarmata di Johnny di fianco a me.

«
Lucy, Lucy. » La voce era agitata, e non faceva che irritarmi di più. « Stai bene? »domandò preoccupato.
Se mi fossi trovata in un'altra situazione, gli avrei risposto con una battuta sarcastica. Un'altra potente fitta si fece sentire nella mia testa, le orecchie cominciarono a fischiare, come se qualcuno si divertisse a passare delle forbici su una lavagna. Gemetti un po’ più forte. Ecco, adesso esplode, pensai. D’un tratto silenzio. Non c’era più un rumore, a parte il classico vociare in sottofondo, tipico dei luoghi affollati. Confusa e spaventa rimasi ancora piegata su me stessa, senza allentare la presa sulla testa.

«
Ehi! » esclamò Johnny al mio fianco, « che ti è preso? »
Rimasi in silenzio, senza rispondere alla sua domanda, e mi rimisi dritta lentamente, con la paura che un altro movimento brusco potesse causarmi un'altra di quelle strane fitte alla testa. Mi voltai a guardarlo, con una lentezza che infastidiva perfino a me, ancora frastornata . Nella mente contai fino a dieci, per darmi il tempo di riordinare le idee. C’èra un ragazzo bellissimo, laggiù, appoggiato a una colonna, ci stavamo guardando e poi…
«
E poi? »mi incitò mio zio.
Lo guardai nuovamente scombussolata. Non mi ero resa conti di aver parlato a voce alta, ma cercai di non badarci.

«
Poi… » mormorai tra me e me massaggiandomi gli occhi, cercando una scusa abbastanza convincente da spiegare cosa mi era accaduto. « Ho incominciato a sentire gli ultra suoni come i pipistrelli!” esclamai.
Johnny mi guardò un attimo incredulo poi mi scoppio a ridere in faccia. Rimasi scioccata a guardarlo, con una vampata di rabbia che si diffondeva nel corpo.
« Non sto scherzano… » mugugnai, cercando di tenere a freno l’ira. Odiavo quando la gente non mi prendeva sul serio. « Se questo è il vostro comitato di benvenuto che avete in città, allora fareste meglio a rimodernarlo. »
La mia battuta non era niente di che, ma sembrò divertire ancora di più Johnny. La sua risata però aveva un suono falso, come se cercasse di mascherare qualcosa. Non stava ridendo perché trovava divertente quello che mi era successo, al contrario sembrava crederci ma era come se volesse portare il discorso su un altro argomento.
«
Riferirò », disse ancora sogghignante.
Gli lanciai un sorriso tossico, ancora imbronciata, e mi girai verso il giovane, cercando di capire cosa avesse messo in moto i rumori e tutto il resto. Dopo un momento di smarrimento, mi voltai a destra e sinistra con scatti frenetici. Era sparito. Così come la mia rabbia, sostituita dall’incredulità. Non c’era traccia del tipo misterioso. Ma era impossibile. Cavolo, era impossibile che in quei secondi di agonia che mi avevano sopraffatto, una persona potesse sparire. Johnny si accorse del mio sguardo, che vagava da un angolo all’altro dell’aeroporto.

«
Chi stai cercando? » mi domandò, stavolta senza traccia di ironia nella voce.
Riposi continuando a cercare nella folla.
« Non stavo scherzando quando ti ho detto che c’era un ragazzo. Ci siamo guardati per un po’ e poi improvvisamente… Bum! »
Mi sentivo stupida a dare una spiegazione così pietosa , ma ero sicura di non aver immaginato niente.

«
Bum? » chiese scettico Johnny.
«
Gli ultrasuoni. » Mi toccai la fronte, come se non fosse abbastanza chiaro.
«
Ah, giusto…»
Dopo un’ altro momento di silenzio imbarazzante, si decise a farmi domande sull’accaduto.
«
Com’era questo ragazzo? » domandò improvvisamente avido di sapere.
Il mio sguardo si accese.
« Era… bellissimo» affermai. « Alto, viso stupendo, capelli castano scuro un po’ scompigliati » dissi, scuotendo un po’ le mani, come per mimare la sua chioma ribelle. « E due occhi grigi magnetici. » A ricordo degli sguardi che mi lanciava, tutt’altro che casti, provai brividi sulle braccia.
Socchiusi un attimo gli occhi e quando li riaprii l’espressione di mio zio mi sorprese. Non era più divertita, al contrario sembrava tesa e nervosa.

«
Forza, sbrigati. Dobbiamo andare » disse, improvvisamente frenetico.
«
Perché? »
Non capivo. Un attimo prima se la rideva come un matto, per un argomento tutt’altro che divertente, e ora sembrava impaziente di andarsene da lì.

«
Perché… perché…» balbettò, cercando di trovare una scusa abbastanza convincente.
« Perché sono già le nove di sera, e guidare al buio non è prudente e… » parlava talmente in fretta che le parole si rincorrevano da sole. « Ci vogliono quasi due ore per arrivare a Middlemburg e inoltre presumo che tu sia stanca. » Concluse la lista delle scuse con aria trionfante, anche se aveva pronunciato tutto boccheggiando. In effetti ora che me l’aveva fatto notare, ero stanca. Il viaggio mi aveva spossata parecchio ma mi limitai a guardarlo con aria dubbiosa, poi, per evitare polemiche mi limitai a mormorare un « Ok. »
Johnny sembrava quasi correre verso l’uscita, nonostante fosse a pochi metri da noi. Io, dietro di lui, cercavo di stare dietro al suo passo veloce con un espressione in viso basita. Era impossibile che la semplice descrizione di un ragazzo avesse potuto far scattare così una persona, spaventarla a tal punto da farla correre verso l’uscita per dirigersi lontano da lui. Qualcosa mi puzzava.
Durante il viaggio in macchina, non potendo ammirare il panorama dato l’orario notturno, mandai un messaggino a David e Andrew, tralasciando certi particolari, e poi mi misi a pensare all’ accaduto nell’aereo. Non ne venni a capo. Tutto ciò che era successo, non dimostrava niente. Alla fine, per non vedermi come una pazza, mi dissi che quel mal di testa improvviso, era solamente causato dallo stress e dalla stanchezza del viaggio. Avevo bisogno di aria fresca per calmarmi e schiarire un po’ le idee, così abbassai il finestrino dell’elegante Mercedes Nera e respirai a fondo, mentre venivo travolta da quel vento che mi riempiva i polmoni. Sentire l’odore di pini, tigli e al posto del classica aria salmastra di Dublino, mi scatenò immediatamente una tempesta emotiva. Prendere una boccata d’aria si rivelò una pessima idea. Avrei voluto tanto spalancare la porta dell’auto e scendere, farmela di corsa fino all’aeroporto e tornarmene a casa. Non mi importava se ora ero su un autostrada buia e silenziosa, nel bel mezzo del nulla. Sarei andata anche su un monopattino se fosse stato necessario. Per un momento titubai, la mano si era poggiata già sull’apri-porta. Di nuovo le lacrime minacciarono di cadere, e l’ultima cosa che volevo era piangere, soprattutto in presenza di Johnny. Sprofondai nel sedile, tirando su con il naso, pensando a quanto fosse stata stupida quell’idea. Per i rimanenti minuti di viaggio, passai in rassegna tutti i nomi delle ultime canzoni estive. Quando arrivammo a Maddlemburg erano già le undici passate. Le strade erano affollate di bancarelle e gente e così Johnny, per risparmiarsi il classico traffico per affollamento deviò per stradine e vicoli, che ci fecero risparmiare tempo. Una volta attraversato Hawley Boulevard,
tipica zona residenziale americana, ci dirigemmo verso il bosco, imboccando una stradina che conduceva verso il buio più totale. Sentii nascere l’ansia quando, intravidi da lontano la tenuta degli Anderson. Solo le luci accese mi permisero di vederla attraverso il fogliame del fitto bosco. Entrammo con la macchina attraversando il cancello in ferro battuto, fermandoci proprio davanti agli scalini che conducevano al piccolo portico e di conseguenza alla porta di casa. Prima di salirli mi presi tempo per osservare quella costruzione: dai tratti tipici delle costruzioni Tudor, era enorme e imponente. I mattoni rossi risaltavano nonostante il buio della notte, mentre da alcune grandi vetrate usciva una luce soffusa. Mi sembrava di vedere i grossi lampadari pacchiani appesi al soffitto. Respirai profondamente quando mi trovai “ faccia a faccia” con il portone. Rimasi impalata, con lo sguardo fisso sul battente, incapace anche solo di muovere un solo muscolo. In quel momento mi sembrava impossibile pensare a come ero riuscita a mantenere la calma in aereo o durante il viaggio in macchina. Ora, tutto mi sembrava assurdo. Mi sembrava di essere sott’acqua, di avere le orecchie tappate e di non sentire alcun rumore. Pensare a canzoncine e balle varie per calmarmi non avrebbe funzionato. Avevo bussato tante volte a quella porta, ma farlo questa volta sarebbe stato diverso, sarebbe stato come metter piede in un campo minato, in un territorio straniero e ostile. Sentivo che quello non era il mio posto. Mi tremarono leggermente le labbra, mentre tentavo di parlare, senza emettere alcun verso. Sobbalzai violentemente quando la porta venne spalancata dall’interno e mi trovai faccia a faccia con Betty, l’anziana governate. La bolla nella quale mi trovavo venne improvvisamente bucata; fu come svegliarsi da un sogno. Sbattei un paio di volte le palpebre per riprendermi.
Dopo un momento di palese sorpresa il viso dell’anziana donna si distese.

«
Signorina Lucy! » esclamò con la sua vocetta carica di emozione. « È arrivata. È così bello riaverla qui con noi. » Balbettai qualcosa che assomigliavano a ringraziamenti, mentre Betty continuava a parlare, trascinandomi dentro, con Johnny alle calcagna, e lodandomi con frasi tipo “ è sempre incantevole” o “ci è tanto mancata” . Troppo presa a osservare la casa, cercai di ricambiare l’accoglienza da reginetta che mi stava riservando, con complimenti imbarazzati, seppure sinceri.Ovviamente non c’erano le cameriere, così dopo che risposi ad alcuni domande sui bei giovanotti che erano diventati i miei fratelli cercai di lanciare un chiaro segnale sbadigliando. Johnny se ne accorse. « Bene » esordì sfregandosi le mani « la tua valigia è in camera, insieme a tutte le altre, che hai fatto arrivare qualche giorno fa. Direi che dato l’orario sia ora di andare a dormire. »
«
Direi di sì. »
Buttai giù l’ultimo sorso di succo di frutta che mi era stato offerto, augurai la buona notte a tutti e mi avviai senza parlare verso le scale.

«
Hai bisogno che ti faccia vedere dov’è la camera? » urlò Johnny dal piano di sotto, una volta finito il rumore dei miei passi pesanti sui gradini.
«
No » risposi di rimando. Una volta arrivata in camera, volevo deprimermi in santa pace, sola e senza disturbi. « Mi ricordò dov’è. » E come non potrei, dissi a me stessa.
Percorsi il lungo corridoio, fino ad arrivare alla vecchia stanzetta di mia madre, la più isolata di tutte, quella che dava direttamente sul retro della casa, verso il bosco. La porta era aperta ma la luce era chiusa, davanti a me solo il buio. Continuavo a guardare dentro, senza vedere niente, mentre lacrime silenziose mi bagnavano il viso e l’odore di violetta, lo stesso odore di cui mia madre profumava, mi inondava. Il mio stomaco si contorse per il nervosismo. Chiusi gli occhi, timorosa di guardare, e entrai nella stanza, cercando a tentoni l’interruttore della luce. Contai mentalmente fino a tre, poi apri lentamente gli occhi. Mi morsi le labbra, mentre sempre più lacrime scorrevano lungo il volto. Quella camera l’avevo vista mille volte, e per altrettante mille volte avevo dormito lì, ma quella era la prima volte che la vedevo dopo la morte di mia madre.Quasi come se violassi il suo spazio. mi sentii come uno di quei vermi che strisciando si insinuavano nei corpi degli animali in putrefazione. Ma stare li tra le sue cose da una parte mi faceva star bene, mi sentivo bene. Tutto era immobile, sembrava dirmi che lei non se n’era mai andata. Ma la verità era un'altra, che io lo volessi si o no. Mi sedetti sul grande letto a due piazze, asciugando con il dorso della mano, l’acqua che mi bagnava il viso e mi guardai attorno, con un sorriso triste. Si poteva cogliere da lontano il gusto raffinato di Wendy Anderson. I mobili erano in stile classico, color verdino chiaro, che risaltavano con i muri gialli. L’enorme armadio, che riempiva da solo una parete, aveva le ante aperte, dentro completamente vuoto. Sentii un nodo alla gola al pensiero di quando mio zio aveva fatto svuotare gli ultimi vestiti che mia madre conservava per le visite annuali. Per evitare di andare a dormire con una dose in più di malinconia e nostalgia, mi concentrai sulla larga maglietta verde scuro che stavo indossando e poi mi misi subito a letto. Il sonno mi colpii come una bomba di cannone. Sentivo pian piano la mentre svuotarsi e il corpo che si rilassava. Decisi che la cosa migliore era lasciarsi andare. Fu come cadere in letargo. Quella notte feci un sogno strano: camminavo per le vie di Maddlemburg e venivo osservata da tutte le persone che riempivano le stradine. La cosa più inquietante e che tutti avevano lo stesso colore degli occhi. Quel grigio celestiale mi accompagnò finche non mi svegliai.





OK di nuovo se siete arrivati alla fine buon segno! Questo capitolo è noioso, lungo e non succede niente di che, ma appunto perché è il primo capitolo, avevo il bisogno di introdurre un po’ la storia. Cercherò di modificare i prossimi in modo da renderli più interessanti. Se vi è piaciuto fatemi sapere che non sono sicura che la cosa possa interessare…

Un bacio,

bubblin_

  
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