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Autore: Elos    29/09/2010    4 recensioni
Luca sapeva che Annalisa - l'adorabile, infiorata, morbida e dorata signora Annalisa - aveva fatto a sua figlia un certo discorso sulle rose che sbocciano solo un paio di settimane prima. Le aveva detto che era un bocciolo. Un bozzolo. Che da lei sarebbe uscita una farfalla, una bellissima, radiosa, raggiante farfalla.
Il termine radiosa non aveva nulla a che vedere con Andrea: Andrea non irradiava un bel niente - di certo non irradiava luce. Qualche volta faceva piovere musica. Parecchie volte faceva sgocciolare sarcasmo. [...]
Andrea non era un bozzolo, Andrea non era un bocciolo. Andrea era fiorita anni prima, ma quel che ne era uscito fuori era stato uno stelo viola di belladonna e asfodelo.

Andrea non riesce a sfuggire a sua madre, Luca non riesce a sfuggire ad Andrea. Sullo sfondo delle prove di un saggio di fine anno, una storia sui mille modi e più per guardarsi crescere.
Prima Classificata al concorso [Originali] Ragazze al pianoforte indetto da Harriet.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2. il viaggio della madre
Yann Tiersen



Il Liceo Scientifico Statale Guglielmo Marconi si gloriava di una lunga tradizione di ex allievi usciti dalle sue aule spoglie di cartongesso e vetri macchiati solo per assurgere agli alti e sacri sogli del mondo della musica.
Assurgere agli alti e sacri sogli era parte del formulario della professoressa Bellucci. Luca non aveva niente contro la Bellucci - che era una brava donna molto affettuosa, tutto sommato - ma c'erano volte in cui la ascoltava parlare e si domandava da dove le tirasse fuori, certe cose, da quale buco nero spalancato nel suo cranio uscissero, come facesse a partorirle. Alti e sacri sogli era solo la punta dell'iceberg: a precederlo c'era stato un sacerdoti dei melodiosi altari che ancora, a ripensarci, lo faceva sudare freddo, e prima ancora...
Comunque.
Il Liceo Scientifico Statale Guglielmo Marconi non si gloriava di una lunga tradizione di musicisti per merito proprio: i fondi della scuola erano a malapena sufficienti a sovvenzionare l'affitto di una palestra per cinque ore alla settimana ad una squadra di basket guidata da un malpagato e irritabile allenatore sulla cinquantina, e l'ultimo corso di inglese tenuto nelle sue aule si era concluso ingloriosamente e anzitempo quando il denaro per pagare gli insegnanti di madrelingua era finito a metà dell'anno scolastico. Il Guglielmo Marconi si beava invece, per così dire, di gloria riflessa: perché a quindici metri dai suoi portoni di alluminio, centimetro più, centimetro meno, si alzavano quelli in costosissimo legno di quercia del Conservatorio della città.
Vedere i due edifici l'uno vicino all'altro faceva un po' tristezza; il liceo aveva, così, precisamente l'aspetto d'un fratellino dimesso al quale qualcuno si fosse dimenticato di pettinare i capelli prima di mandarlo a scuola.
Quindici metri erano quindici metri, però: tanto pochi che gli studenti potevano uscire dalle porte del Marconi e infilarsi in quelle del Conservatorio senza neanche bisogno di attraversare la strada, dritti da una scuola all'altra come fossero lo stesso edificio. Il Marconi era pieno di gente che cantava, gente che suonava, gente che bacchettava con le matite sul bordo dei tavoli come fossero leggii e gente che studiava spartiti ad alta voce. Il Marconi aveva un pianoforte in prestito dal Conservatorio in un grosso sgabuzzino vuoto che tutti chiamavano nobilmente la sala prove - anche se era piena di ragni e il pavimento aveva uno strato di polvere alto due dita a fare da moquette. Il Marconi organizzava alla fine di ogni anno scolastico il concerto del MusicaMente e il Conservatorio consentiva con signorile condiscendenza che le belle poltroncine della sua aula grande venissero sfruttate per ospitare l'orda degli studenti e del parentado in massa.

In novembre Luca aveva stabilito che il MusicaMente di quell'anno sarebbe stato il suo momento di gloria. Nel MusicaMente sarebbe stato fico: più fico di sempre, più fico di chiunque altro, fico per una volta nella sua carriera scolastica in una maniera assoluta, totalitaria, appariscente.
Luca suonava il violino da quando aveva cinque anni: un qualche lontano e mai visto zio di tredicesimo grado gliene aveva messo in mano uno di plastica come regalo per il suo compleanno - archetto arancione a disegni di mostriciattoli incorporato nella scatola - e lui aveva scoperto che era la sua seconda pelle, quella. Grattava sulle corde e veniva fuori il suo sangue: nei sussulti gonfi della cassa di risonanza, un graffio alla volta, si apriva il suo respiro, gli si spalancavano i polmoni, il cuore, tutto. Suonava come tenesse in mano le proprie viscere, certe volte era sgradevole, certe volte sfibrante, ma ogni singola volta gli dava euforia.
A sette anni i suoi genitori gli avevano comprato un violino vero, di legno, bellissimo. Gli era sembrato di reggere lo specchio di Alice tra le dita. A otto anni l'avevano iscritto al Conservatorio. A dieci aveva una borsa di studio e suonava dalla mattina alla sera con brevi pause per mangiare, dormire, andare a scuola.
A dodici anni aveva scoperto le ragazze.
Le ragazze erano come il violino: tenevano in mano le sue viscere. Suonava ancora, ma baciava anche: scopriva che gusto aveva la bocca di un'altra persona sulla sua, che profumo aveva quel punto proprio dietro le orecchie, tra i capelli, che gli era sempre piaciuto farsi grattare, che sensazione dava tenere un qualcosa che non fosse il violino tra le mani, averne cura, maltrattarlo. Come il violino, le ragazze potevano amarlo. A differenza del violino, però, potevano anche respingerlo. Era strano, era un mondo nuovo.
A tredici anni aveva scoperto Andrea.
Andrea non era una ragazza, Andrea era una ragazza. Andrea non era un violino. Andrea grattava e graffiava come un archetto sulle corde, ma sapeva essere liquida, musica. Andrea saliva le scale ripide del suo pianoforte e lui le buttava giù funi fatte di crine, perché potesse arrampicarcisi e andare altrove.
Ad Andrea i suoi genitori non avevano chiesto se volesse davvero suonare. Nessuno si era informato sui suoi gusti: il flauto, la batteria? Il calcio? La danza? Sua madre le aveva messo un pianoforte sotto le dita quand'era ancora troppo piccola per arrivare alla tastiera senza l'aiuto di un grosso cuscino, e tutto sommato le era andata anche bene, di lusso: perché le era piaciuto. Era finita al Conservatorio prima ancora di entrare alle elementari.
Andrea non era come Luca, non aveva uno strumento tutto suo del quale andare gelosa: Andrea prendeva i pianoforti che le venivano dati e li persuadeva a fare quel che diceva lei, quando lo diceva lei, come lo diceva lei.
Andrea gli piaceva da sempre. Longilinea e asciutta ovunque, sui fianchi e sul seno e sulla vita e sulle gambe, soprattutto sulle gambe, lunghe e magre come stecchi, bianca di pelle e scura di capelli, portava la treccia per non avere le ciocche sugli occhi quando pigiava sui tasti. Aveva pupille sottili e iridi bagnate d'ambra. Quando indossava i jeans era bellissima: quelli a vita bassa, stretti, con le camice annodate sull'ombelico, gli facevano venir voglia di passarle una mano sul ventre e infilarla sotto la stoffa per sentire se era liscia come sembrava. Quando suonava era più che bellissima: era assorta e sicura e femmina e androgina e impalpabile. Era il modo in cui era più Andrea, quello.
Per Luca Andrea era stata una scoperta come il violino, come le ragazze. L'aveva conosciuta un po' alla volta: prima aveva conosciuto l'eloquio contorto e il distacco neutro che servivano a tenere lontani tutti, tranne quelli che erano furbi abbastanza per andarle vicini tenendosi sottovento, scivolando tra una trincea e l'altra senza farsi scoraggiare da quel fuoco di fila di parole intoccabili; più tardi il sarcasmo, perché Andrea era come un pungitopo, e poi tutte le bacche rosse di cose bellissime che c'erano dietro; e infine aveva incontrato Annalisa, che era parte di Andrea come neanche il pianoforte riusciva ad essere, Annalisa e i suoi discorsi sulle farfalle e le rose e su come sarebbe sbocciata, la sua bambina, come sarebbe stata una donna adorabile.
Le gonne di Andrea erano il guscio osseo di Annalisa: una sua secrezione, un suo prodotto. Andrea riusciva ad essere sé stessa solo otto ore alla volta, le otto ore in cui era a scuola e poi nella sala prove. Entrava prima che la campanella suonasse, si cambiava in bagno, tornava in classe e poi di nuovo si cambiava prima di uscire per tornare a casa. Luca ci aveva fatto l'abitudine.
Ed eccola lì, Annalisa, che gli offriva il vassoio di ceramica della torta e gli chiedeva:
- Un'altra fetta...? -
Aveva un sorriso spettacolare, Annalisa. Sulla torta c'era un ghirigoro di fragole e panna che sembrava disegnato con il pennello, tutto strati compatti di granelli di zucchero rosa e crema gialla, ricca, spumosa.
- Grazie, sì. -
- Annie, ne vuoi un'altra anche tu? -
Andrea aveva finito la prima svogliatamente, e adesso scarabocchiava con la punta della forchetta sull'impasto rimasto nel piattino: sotto lo sguardo penetrante di sua madre si bloccò e scosse la testa, poggiando la posata sul tavolo - con le punte verso il basso, per non sporcare la tovaglia.
- No, grazie. -
- Ne dovresti proprio mangiare un'altra fetta, tesoro, invece. - Insisté delicatamente Annalisa. - Sei così magra... non vuoi che il vestito per il saggio ti stia bene, amore? -
Luca vide chiaramente la bocca di Andrea piegarsi in una breve torsione che durò solo un attimo, un momento, prima che lei alzasse il piatto e, senza una parola, lo allungasse verso la madre per farselo riempire.
Il signor Stefano Maisano - Annalisa era Annalisa, ma Stefano era il signor Stefano Maisano - sollevò la testa, guardò la figlia, non disse niente e tornò ad occuparsi del proprio dolce. Luca gli aveva sentito dire forse quindici parole in totale nel corso di quei cinque anni di conoscenza: quindici parole in cinque anni, per una media di tre parole l'anno, generalmente monosillabiche, , no, ah. Andrea adorava suo padre - che adorava Andrea. Luca non era mai riuscito mai davvero a capire né l'uno né l'altra, e forse era questa la ragione per la quale tra di loro comunicavano tanto bene.
Annalisa, rifletté Luca osservando Andrea mangiare svogliatamente la sua seconda fetta di dolce, avrebbe potuto far ingozzare la figlia di una, due, dieci torte, una pasticceria intera compresa di cornetti e tramezzini, senza che quel vestito riuscisse a starle anche solo un grammo meglio.
Non era Andrea, quel vestito. Era molto semplice. Chopin non era Andrea. Il vestito rosa a fiorellini non era Andrea.
Andrea sarebbe andata al MusicaMente indossando i panni di qualcun altro.

In novembre Luca aveva stabilito che il MusicaMente di quell'anno sarebbe stato il suo momento di gloria. Nel MusicaMente sarebbe stato fico: più fico di sempre, più fico di chiunque altro, fico per una volta nella sua carriera scolastica in maniera assoluta, totalitaria, appariscente.
Suonava il violino sin da quando era bambino, gli sembrava di non aver fatto altro che suonare per tutta la vita, e la cosa lo rendeva indicibilmente felice: ma il violino gli piaceva quanto gli piacevano le ragazze, e quanto gli piaceva sentirsi al posto giusto al momento giusto. Se fosse stato un chitarrista sarebbe stato tutto più semplice. Se avesse suonato la batteria, se avesse cantato, sarebbe stato in. A posto. Alla moda. Moderno. Fico. Le sonate di Corelli non reggevano agli occhi di tutti il paragone con i Radiohead, doloroso ma vero. Suonare il violino era ah, forte, suonare la chitarra era oh, wow, mi fai sentire qualcosa?, e la seconda reazione era infinitamente più lusinghiera.
Alla fine del MusicaMente gli avrebbero chiesto tutti oh, wow, mi fai sentire qualcosa? Sarebbe stato al centro del palco. Sotto gli occhi di tutti. Sarebbe piaciuto alle ragazze. Avrebbe fatto invidia ai ragazzi.
La preparazione per l'evento che avrebbe fatto di lui un fico aveva richiesto otto mesi. Aveva dovuto scegliere una canzone adatta, intanto - dopo settimane e settimane a tormentarsi dietro ad infiniti ripensamenti. Aveva dovuto cercarsi una cantante, un batterista, un bassista, un - ugh - un chitarrista: questa parte non era stata poi tanto difficile, perché c'era mezzo Marconi in cerca di un gruppo per il saggio, e la cantante dopotutto era carina. Non gli piaceva come gli piaceva Andrea, ma era carina. L'aveva baciata prima della terza giornata di prove e dopo la terza giornata di prove, erano usciti per un po' e si erano separati senza rancore. Era stato piacevole baciarla, e lei adesso stava con un ragazzo molto alto del quale lui non sapeva assolutamente niente e che veniva ad assistere alle prove, ogni tanto. C'erano stati pomeriggi interi trascorsi a suonare e notti passate a dannarsi su quel che non veniva, e poi accordarsi per provare insieme, studiare tenendo sott'occhio gli spartiti come avesse paura che le note potessero cambiare se le avesse perse di vista, e di nuovo provare, provare, provare. Era stato un anno pieno. Il MusicaMente, aveva pensato ogni volta che era stato sul punto di cedere, esausto, sarebbe stato il suo fugace, piccolo, esaltante attimo di celebrità.

Posò l'archetto e Andrea emise un suono di gola vibrante, basso, piacevolmente soddisfatto.
- Ti viene bene. -
- Potrei suonarlo ad occhi chiusi. - Esclamò Luca, senza neanche provare a nascondere quanto fosse lusingato dal complimento. - Bendato. Con le orecchie piene di cera e la mano sinistra legata dietro la schiena. -
- Non che io desideri sminuirti, ma permettimi di dubitarne. -
Andrea afferrò lo spartito e ne seguì le righe con le dita, contando senza voce. Se ne stava sdraiata sul letto con niente più che il pigiama leggero, e Luca doveva usarsi violenza per non abbassare gli occhi e guardarle le gambe, la linea bianca delle caviglie esili che diventavano ginocchia aguzze e poi cosce lisce, sottili, appena sotto l'orlo di pizzo. Anche quello era un pigiama che gridava Annalisa! con ciascuno dei suoi piccoli, graziosi centimetri di tessuto traforato, ma c'era il seno che si abbozzava appena al di sotto del lino e la pelle sembrava rosa, lì dietro, non bianca come sempre. Nella luce della lampada da tavolo gli occhi di Andrea erano più miele che oro, scuriti, i capelli sciolti ad onde giù per il cuscino.
- Eramaan Viimeinen, allora. - Osservò lei, meditabonda.
- Non ti piace? -
- Mi piace molto. - Ne canticchiò a mezza voce un pezzetto. - Per sostituire il flautista come avete fatto? -
- Suono io, con il violino. -
- Oh. -
Di nuovo silenzio, mentre lei picchiettava con un'unghia contro il bordo dello spartito. Aveva un'espressione assorta, distratta, che ad un altro avrebbe fatto pensare che non stesse nemmeno guardando quel che teneva in mano: ma Luca la conosceva da cinque anni, cinque anni passati a guardare le sue caviglie, le sue gambe, la sua pancia liscia e gli occhi d'oro e il viso di Andrea, e così gli sembrava adesso di poter interpretare i suoi pensieri come fosse stato dentro la sua testa.
- Andrea? -
- Dimmi. -
- Devi proprio portare Chopin? Voglio dire, hai detto che non ti piace... -
Lei lo interruppe, quietamente:
- Non ho mai detto che non mi piaccia. -
- Hai detto che non è, uh, travolgente...? -
- Coinvolgente. -
- Coinvolgente, sì. Hai detto che non è coinvolgente, e tu lo sai che è noiosissimo. Si stravaccheranno sulle sedie, Andrea. Si ricorderanno di te solo questo, Chopin e un pezzo al pianoforte che li ha fatti stravaccare sulle sedie. - Esitò per un attimo, prima d'aggiungere più piano: - E' l'ultimo anno. -
Andrea non lo guardava. Fissava ancora lo spartito che teneva in mano, e si limitò ad assentire quieta:
- Lo so. -
- E non vuoi che sia... bello? Che finisca in gloria? Andrea, non è Annalisa che... -
- Manca un foglio. -
Il brusco cambio di discorso lo lasciò spaesato. Guardò prima lei, poi gli spartiti che teneva in mano e che stava agitando al suo indirizzo, e infine le chiese:
- Come? -
- Manca un pezzo. L'hai perso? -
Non ne voglio parlare, non ne voglio parlare. Gli stava dicendo. Non ne parliamo.
Per un attimo Andrea ebbe la tentazione di forzarla, di portare avanti il discorso, di spingerla e tirarla e spronarla: ma invece si chinò e cominciò a frugare nella borsa.
- No. - Le rispose. - Dev'essere rimasto in mezzo ai quaderni. -






Note della storia: Questo racconto in quattro capitoli partecipa al concorso Ragazze al pianoforte indetto da Harriet.
Il bando richiedeva di scrivere una storia che ruotasse attorno ad un personaggio femminile, ad un pianoforte e ad una tra le citazioni, canzoni e video proposti come prompt da Harriet. Io ho scelto la stupenda Runs in the family, di Amanda Palmer (per il testo, qui).
Un enorme grazie a LaureDeTroyes e a Salice, le mie eterne e infinitamente pazienti beta.

Note del capitolo: Il titolo di questo capitolo, Il viaggio della madre, è la traduzione del titolo di una composizione di Guillaume Yann Tiersen, il meraviglioso compositore e musicista francese autore - tra le altre cose - di quel capolavoro che è la colonna sonora de Il favoloso mondo di Amélie. Il brano, Mother's journey, lo potete trovare qui. Arcangelo Corelli è un celeberrimo violinista barocco italiano, autore, per l'appunto, di diverse sonate. I Radiohead (ma serve davvero che lo dica? xD) sono un ben noto gruppo inglese.
Per quanto riguarda Eramaan Viimeinen potete trovare qui il video. E' una canzone dei Nigthwish con delle meravigliose parti per violino.

Grazie a tutti quelli che si sono fermati a commentare! Mi ha fatto infinitamente piacere! That's all Folks!
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