Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |       
Autore: ross_ana    13/10/2010    3 recensioni
-Imma, lo vuoi un bicchiere di vino?
-Naturalmente! Che domande fai?
Si mise a ridere mentre abbracciava Marco. Io le passai subito un bicchiere pieno e poi brindai.
Come al solito, si abbassò sulle ginocchia e piegò il collo di lato.
-Sei così medievale quando fai i brindisi...
Lei e Marco, ancora abbracciati, ricominciarono a ridere, e insieme cominciarono a darmi dello stupido. Che poi cosa c'era di tanto stupido in ciò che avevo detto?

Seconda classificata al Flash Multifandom Contest, indetto da Only_Me e Lilyblack. Vincitrice del premio giuria Lily, e del premio Fungirl Lily.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic Image and video hosting by TinyPic Image and video hosting by TinyPic


Storia classificatasi seconda al Flash Multifandom Contest, indetto da Only_Me e Lilyblack. Vincitrice del Premio Giuria Lily, e vincitrice del Premio Fungirl Lily.

Dedicata a Morgana che l'ha letta in anteprima, e dedicata a Valaus che ieri mi ha ascoltato pazientemente <3
Buona lettura :)


NICK AUTORE: ross_ana@ sul forum, ross_ana su EFP
TITOLO: Morte di una ragazza giovane
FANDOM: originale
PERSONAGGI: Imma, Dodo
PAIRING: nessuno
GENERE: Malinconico, Triste, Sentimentale
RATING: verde
AVVERTIMENTI: nessuno
PROMPT SCELTO: blu
INTRODUZIONE: Sono due capitoli, doppio POV, il prossimo arriverà settimana prossima!
NdA:La protagonista di questa storia prende il nome da una canzone, mentre il suo soprannome deriva da un'altra canzone, Quest'ultima vi consiglio di ascoltarla alla fine della lettura.Ogni riferimento a cose o persone realmente esistite è puramente casuale :P





Imma POV

Attraversai le porte scorrevoli dell'entrata dell'ospedale e mi fermai sul primo gradino della scalinata per prendere un sospiro.
Dovevo ancora recepire il significato delle parole del medico, dovevo ancora realizzare la verità che mi aveva appena confessato.
Respirai una volta, un'altra ancora.
Poi cominciai ad assimilare il peso di quelle parole, e con movimenti frenetici scossi la borsa per trovare le chiavi dell'auto. Sentii il bisogno di muovermi, di correre, di scappare, di fuggire.
Arrivai all'auto tutta trafelata, con i capelli che erano scappati dalla coda in cui li avevo costretti, e con mano tremante tolsi l'allarme. Buttai la borsa sul sedile del passeggero e sbattei lo sportello.
Non mi concessi nemmeno un secondo per pensare, ma infilai la chiave nel quadro, accesi il motore e accelerai.
Superai le macchine che ostacolavano la mia corsa, attraversai i semafori con il rosso, la lancetta del contachilometri continuava a salire e a me non importava dei limiti che stavo infrangendo: avevo bisogno di correre, avevo bisogno di bloccare i pensieri che stavano affollando sempre più prepotentemente la mia mente. Avevo bisogno di urlare, di sfogarmi. E allora mentre lasciavo la città alle mie spalle lo feci: urlai e mi disperai. Con tutto il fiato che avevo in gola gridai in faccia al mondo, e non riuscii ad impedire alle lacrime di rigare le mie guance.
La strada continuava a scorrere veloce davanti ai miei occhi, nessuna macchina andava troppo veloce da non essere superata. E non importava se il sorpasso avveniva in curva, non volevo staccare il piede dall'acceleratore. Perché a vent'anni non si può morire, a vent'anni non si può dire addio alla vita che è appena cominciata.
E allora perché continuavo a correre?
Perché avevo bisogno di decidere io quando morire, avevo bisogno di sentirmi potente, avevo bisogno di darmi una possibilità, una speranza.
E mentre facevo questi pensieri, il ricordo prepotente di pochi minuti prima rimbalzò forte al centro della mia mente.

-Buonasera, dottore.
-Buonasera, signorina. Venga, si accomodi, le devo parlare.
-C'è qualcosa che non va?
Mi guardai intorno mentre lo chiesi, perché la presenza di altri uomini in camice bianco oltre al mio ortopedico mi metteva un po' d'ansia.
-Le presento il dottor Ferrara, un neurologo, e il dottor Piccetti, un radiologo.
Guardai timida le loro mani tese, e con soggezione le strinsi, chiedendomi come mai avessero quelle espressioni così rigide.
-Dottor Gilera... come mai... come mai questi signori sono qui?
Il dottor Gilera, il mio ortopedico da quando avevo dodici anni, si avvicinò con passo lento e strascicato e poggiò le sue mani grandi sulle mie spalle. Abbandonò il suo tono colloquiale e strinse la presa delle sue dita.
-Imma... forse è meglio se ti siedi, ragazza.
Il terrore crebbe prepotente in me, e continuando a guardarlo fisso negli occhi mi lasciai spingere verso la poltroncina davanti la sua scrivania.
-Dottore, la prego. Mi dica che sta succedendo. Per favore.
Ma non sentii -o non feci attenzione- alle parole che disse. La mia memoria ed il mio cervello furono in grado di recepire solo poche frasi che, come lame affilate di un'antica macchina da guerra, andarono a perforare ogni centimetro di pelle scoperta costringendomi a trattenere il respiro e a chiudere gli occhi dal dolore.
Il dottor Ferrara, il neurologo, mi strinse una mano e aspettò che alzassi lo sguardo su di lui prima di cominciare a spiegarmi ciò che l'ortopedico aveva taciuto. E il mondo sembrò crollarmi addosso con ancora più forza distruttiva, costringendomi ad alzarmi e ad allontanarmi di scatto.
Con un balzo fui alla porta, e prima ancora che provassero a fermarmi, uscii dallo studio e me la chiusi alle spalle.
Una signora con i capelli ricci teneva in braccio una bambina vestita di blu.
Aveva il braccio ingessato, ma sul visino uno sguardo allegro e spensierato.
Non appena mi vide mi sorrise, e con gli occhi che scintillavano di gioia ed entusiasmo mi porse un biscotto che teneva nella mano destra.
Il tempo sembrò fermarsi, i suoi movimenti sembrarono cristallizzarsi come in una fotografia, e il mio cervello si svuotò di ogni informazione recepita.
Ricambiai il sorriso con uno strano stato di stordimento e con passo lento e cadenzato mi trascinai verso l'uscita dell'ospedale, non facendo caso ai corridoi che imboccavo e alle persone che incontravo.
Solo quando i vetri scorrevoli della porta esterna si aprirono e un vento gelido mi colpì in pieno viso risvegliando tutti i miei sensi, la consapevolezza di ciò che era appena successo mi piombò addosso come un uragano. E scappai verso l'auto, - blu come il vestito di quella bambina, blu come i miei occhi, blu come il cielo notturno di quella serata autunnale, blu come l'oceano di dolore, e paura, e tristezza che minacciava di sopraffarmi, - dall'altra parte della strada, cercando di essere più veloce delle brutte notizie, cercando di essere più rapida della morte che mi inseguiva con il fiato sul collo.

Mi costrinsi a deviare il binario dei pensieri, e tornai con la mente al presente.
Quando fermai la macchina, ero parcheggiata al lato di un marciapiede, segno che avevo abbandonato la superstrada e che ero entrata in qualche paesino di provincia.
Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano, e mi accorsi che la cassetta della posta che si intravedeva dal finestrino mi era troppo familiare, e il cancello blu - come la mia auto - alla sua destra era come l'avevo visto l'ultima volta: un po' scrostato e cigolante.
Ero arrivata a casa di Dodo, il mio migliore amico, e nemmeno me n'ero accorta.
Tirai su con il naso e mi asciugai, in maniera poco elegante, con la manica della felpa. Poi con un sospiro profondo aprii lo sportello della macchina e senza nemmeno mettere l'allarme andai a suonare al citofono.
-Chi è?
Riconobbi la voce di Laura, la sorellina di Dodo.
-Sono Imma, Laurè.
Si sentì uno scatto, e il cancello si aprì. Anche il portone d'ingresso era stato aperto perciò entrai senza indugiare oltre e sulle scale incontrai la piccola che subito mi corse incontro e mi abbracciò.
-Kamala! Che bello che sei venuta!
-Ancora quel soprannome? Mi chiamo Imma.
-E che importa? Dodo ha scritto quella canzone per te, perciò tu sei Kamala, ormai.
Mi sforzai di ridere, e la seguii in casa.
Salutai suo padre e suo fratello e mi accomodai sul divano.
Mancavo in quella casa da qualche mese, ma con i corsi all'università e i weekend passati a lavorare, non avevo trovato il tempo di andare fuori città. Dodo veniva a trovarmi il sabato sera, oppure in settimana mi dava un passaggio a lezione.
-Come mai sei da queste parti?
-Sono venuta a trovare Dodo. Gli devo parlare.
Mi chiesi distrattamente come riuscivo ad essere così fredda, così razionale.
Dentro sentivo l'urgente bisogno di rompere qualcosa, di continuare ad urlare, di prendere a pugni qualcuno... eppure continuavo a fissare Laura, Giulio e Fabio con un lieve sorriso sulle labbra, e rispondevo alle loro domande con un distacco spaventoso.
-Ma lui è in sala prove, adesso. Lo sai che sono impegnati con la registrazione delle ultime canzoni. Tra nove mesi esce il nuovo cd.
E il muro di finta calma che mi ero costruita intorno crollò miseramente, perché avevo dimenticato che Dodo in quei giorni trascorreva più di tredici ore insieme al gruppo in sala prove. Non avevo pensato al fatto che erano ancora le otto, e che ne avrebbe avuto ancora per molto insieme agli altri.
Questo bastò a farmi crollare, e prima che potessi rendermi conto di cosa stessi facendo, mi ritrovai a piangere convulsamente nelle braccia del padre del mio migliore amico, stringendo i pugni sul suo petto che caldo accoglieva le mie lacrime.
Dopo pochi secondi di panico, la sua voce autoritaria risuonò forte nel soggiorno.
-Giulio, telefona tuo fratello. Digli di venire immediatamente a casa.
E chiusi gli occhi, immergendomi in una sorta di bolla protettiva che mi spense il cervello. Smisi di piangere, di pensare, di guardare, di sentire.
Chiusi gli occhi e aspettai senza muovermi che qualcosa intorno a me cambiasse. Perché non poteva essere vero che la persona che mi stava consolando fosse un estraneo e non mio padre. O mia madre. O mia sorella.
Schiusi le palpebre quando una mano ghiacciata si posò sulla mia guancia. Vidi confusamente il viso preoccupato di Dodo che mi guardava da vicino, e con ritrovata lucidità aprii gli occhi, fissando il mio sguardo nel suo e trasmettendogli il mio assoluto bisogno di restare sola con lui.
Spostò la mano dal mio viso a dietro la mia schiena, l'altra la mise sotto le ginocchia e con uno scatto fulmineo mi prese in braccio dirigendosi verso la sua stanza.
Mentre cercavo di rifugiarmi nell'incavo del suo collo, vidi Carlo e Marco, il bassista e il batterista del gruppo, guardarmi con espressioni confuse e tristi. Probabilmente era la prima volta che mi vedevano in quelle condizioni.
Dodo mi fece sistemare sul suo letto e si sedette accanto a me.
Mi strinse una mano nella sua e mi guardò preoccupato.
-Cosa è successo?
E le parole uscirono dalle mie labbra prima che potessi mitigarne il senso.
-Sto morendo.
Il suo sguardo si scurì improvvisamente e la sua espressione si indurì impercettibilmente.
-Che significa?
E il fiume in piena che avevo cercato di trattenere e di contenere ruppe gli argini ed esplose in quelle quattro mura che tante volte ci avevano visto dormire insieme.
-Significa che sto per morire. Significa che ho un tumore e mi rimangono sei mesi di vita.
Dodo non si mosse, non sbatté le ciglia, non respirò per qualche secondo.
E io aspettai una sua mossa prima di trasformare i miei singhiozzi in un pianto disperato. Quando mi strinse tra le sue braccia mi lasciai andare completamente alla paura che mi stava sopraffacendo.
Cosa avrei fatto?
Come mi sarei comportata?
Avrei dovuto dirlo ai miei genitori?
Avrei potuto dirlo ai miei amici?
E loro come avrebbero reagito?
Avrebbero cominciato a compatirmi e trattarmi con pena?
E i miei genitori... loro avrebbero cercato di riallacciare i rapporti con me visto che mi restava poco da vivere, o avrebbero continuato a ignorarmi fino al giorno del mio funerale?
E io sarei stata in grado di gestire il dolore?
Sarei stata capace di non farmi sopraffare dal terrore di morire? Dalla paura di perdere tutto? Dalla paura di finire di vivere ancora prima di aver cominciato a farlo?
Lasciai che tutte queste domande senza risposta si trasformassero in lacrime, e nella presa forte delle sue braccia che tante volte mi avevano stretto, mi abbandonai a me stessa, piangendo e disperandomi per quella fine prematura che mi avrebbe uccisa presto.
Non so quanti minuti scorsero indisturbati, ma restammo in quella posizione senza spostarci di un millimetro per un tempo che mi parve infinito. Poi la voce di Dodo ruppe il silenzio, ed io mi scostai dal suo petto per guardarlo negli occhi, anche se i miei erano appannati di lacrime.
-S...sei sicura? Non c'è un modo per... non ti puoi... non... operazione?
Capii la sua domanda, capii il suo bisogno di trovare una soluzione a quella che sembrava la fine del mondo, la fine del mio mondo, e scossi la testa.
La scossi con rassegnazione, con afflizione, e aspettai che l'idea della mia morte si facesse largo nella sua mente. Nella mente della persona che per me era stato amico, fratello, padre. La persona che mi aveva regalato un sogno in cui credere e un desiderio in cui sperare.
Quando vidi una lacrima ribelle sfuggire al suo controllo, i miei muscoli si sciolsero e le mie mani andarono svelte ad asciugare i miei occhi. Quando il primo singhiozzo gli scosse le spalle mi ritrovai a spostarmi di lato e portargli, dolcemente, la testa sul mio petto. E quando cominciò a piangere gli accarezzai il viso con cura, con dolcezza, con estrema lentezza. Perché sentirlo piangere mi riempiva il cuore di un sentimento potente che mi faceva sentire forte.
Perché se c'era qualcuno che piangeva per me, allora forse non ero poi tanto sola come mi sentivo.
Se c'era qualcuno che piangeva per me, allora forse non ero stata tanto tremenda nella mia vita.
Se c'era qualcuno che piangeva per me, allora forse sarei andata in Paradiso.
Strinsi con più forza il suo corpo al mio, come a cercare un appiglio stabile a cui aggrapparmi, come ad identificare le sue spalle con una via di salvezza, una via di fuga.
Dopo quelle che parvero ore, -io avevo smesso di accarezzarlo, e lui di piangere-, Dodo sfuggì alla gabbia in cui le mie braccia l'avevano costretto, e si alzò dal letto.
Poi scostò il piumone ed il lenzuolo insieme, e prendendomi in braccio mi mise sotto le coperte, accoccolandosi accanto a me.
La sua voce, bassa e roca dopo il pianto, ruppe il silenzio proprio quando le mie palpebre, stanche, si stavano abbandonando al sonno.
-Veglierò su di te finché ce ne sarà bisogno. E tu veglierai su di me come hai sempre fatto.
Fulminea si materializzò davanti ai miei occhi l'immagine di me in forma d'angelo che seguiva tutti i suoi passi, e sapendo che quella era la cosa migliore che potessi augurarmi, chiusi gli occhi sapendo che era quello l'addio che avrei voluto dare al mondo e alla mia vita.




A mercoledì prossimo, con il Dodo POV :)
Un bacio immensissimo :)
   
 
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: ross_ana