Interludio ~ Perdersi
;; I make the path ;;
{ I’m walking down the line that divides me somewhere in my mind
On the border line of the edge and where I walk alone }
Si
diceva che a Sottomondo non vi fosse mai stato un cappellaio abile quanto Tarrant Hightopp, e certo doveva
essere vero, se neppure le gocce rosse che tossiva in certi momenti riuscivano
a fargli interrompere il suo lavoro.
Lo
Stregatto soleva miagolare che c’era stato un
tempo in cui al Cappellaio Matto – così lo chiamavano tutti
– non era importato molto dei cappelli, e in cui tutto ciò che
faceva durante il giorno era stare seduto insieme al Leprotto ed al Ghiro a
bere tè dal suo servizio di tazze sbeccate e senza fondo. Il Cappellaio
rideva di questo, poiché non ricordava nulla del genere: sapeva soltanto
che il suo posto era sempre stato il castello della buona Regina Bianca,
là dove Mirana gli affidava di tanto in tanto
il compito di cucire un copricapo per lei o per un altro ospite della sua corte
– compito cui il Cappellaio stava adempiendo anche in questo preciso
momento, volteggiando qua e là tra stoffe e nastri e spilli e aghi con
l’eccitazione e lo zelo di un bambino. Perché il suo nuovo cliente
era un personaggio tutto particolare, oh sì che lo era, e il Cappellaio
era stato a lungo molto curioso di conoscerlo, sin da quando Mirana gli aveva parlato per la prima volta di quel
forestiero il cui corpo imbottito di paglia si era accasciato una mattina
appena fuori dei suoi cancelli.
Un
uomo di paglia, capito? Il Cappellaio
Matto doveva conoscerlo.
L’occasione
era arrivata ed oggi il Cappellaio, tutto contento, prendeva misure e tagliava
tessuti e soppesava colori e intanto non perdeva mai di vista il suo ospite,
che attendeva in piedi in un angolo della stanza guardandosi intorno con i suoi
occhi dipinti e dondolando le braccia lungo i fianchi. Lo aveva invitato a
sedersi, ma lo Spaventapasseri – così si faceva chiamare –
aveva sorriso e aveva detto che non ce n’era bisogno, che lui non era mai
stanco. Il Cappellaio aveva reputato poco saggio chiedergli perché
allora si fosse lasciato cadere davanti alla corte della Regina Bianca,
adducendo quello stupido dubbio che gli era sorto alla propria consueta follia,
e aveva ripreso a lavorare tossendo ogni tanto le gocce rosse che si facevano
sempre più frequenti.
Non
avrebbe saputo dire da quanto tempo gli succedesse di tossire rosso. Nessuno
avrebbe potuto stabilirlo, in realtà; il Tempo a Sottomondo era fermo da
– beh, più o meno da sempre. Qualcuno ancora si ostinava a dire
che gli orologi ticchettavano prima del Giorno Gioiglorioso,
ma doveva trattarsi di una sciocca credenza popolare, perché persino il
Giorno Gioiglorioso – nessuno si ricordava
più quando fosse stato, e il Cappellaio Matto meno di tutti.
Lo
Spaventapasseri sembrava molto curioso del lavoro del Cappellaio. Continuava a
chiedergli spiegazioni ogni volta che lo vedeva preparare un particolare
attrezzo o girare una qualche manovella. Di certo era qualcuno cui piaceva
apprendere; lo Stregatto non gli aveva mai fatto
tante domande mentre lo guardava all’opera: lui si limitava a fluttuargli
intorno e a miagolargli all’orecchio che gli sarebbe tanto piaciuto
provare ancora una volta il suo
cappello – anche se il Cappellaio non riusciva a ricordare quando potesse
esser stata l’altra volta. Lo
Spaventapasseri invece era interessato a tutto ciò che vedeva.
«
Dimmi, Cappellaio, le mie domande ti annoiano? »
Il
Cappellaio si voltò infilando alcuni spilli nel cuscinetto che aveva al
polso e scosse la testa, sorpreso. « Certo che no, Spaventapasseri. Cosa
te lo fa pensare? »
Lo
Spaventapasseri, in piedi nel suo angolino, fece un sorriso strano e le labbra
posticce distesero il viso increspato. « Devi perdonarmi, ma da quando ho
un cervello ho sempre cercato di riempirlo con più cose possibili. So
che questo può essere logorante per la persona che tenta di rispondermi.
Un Leone mio vecchio amico una volta mi disse che, se non avessi smesso subito
di chiedergli notizie della sua foresta, sarebbe diventato erbivoro e si
sarebbe dedicato espressamente alla mia paglia. »
Il
Cappellaio guardò lo Spaventapasseri con un interesse proporzionale a
quello che da lui gli veniva rivolto. « Che cosa vuol dire, ‘da
quando ho un cervello’? Non ne hai forse sempre avuto uno? »
«
Oh, no » e il sorriso dello Spaventapasseri di colpo divenne triste.
« Io sono fatto di paglia, Cappellaio. Tanto, tantissimo tempo fa il mio
compito era quello di stare in un campo a spaventare i corvi con la mia sola
presenza – ma ero così stupido che persino i corvi si accorsero che
non c’era nulla da temere da parte mia. Allora mi dissi che sarei
diventato intelligente, che un giorno avrei avuto un cervello al posto della
paglia che mi riempiva la testa; e quando all’incrocio è arrivata
la persona che per prima mi ha accettato così com’ero, senza
indugi l’ho seguita sul lungo sentiero dorato per andare a procurarmi
ciò che mi mancava. »
Il
Cappellaio Matto non era sicuro delle proprie impressioni, ma gli sembrava che
anche la voce dello Spaventapasseri si fosse riempita di tristezza quando il
suo discorso si era spostato sulla sconosciuta ‘persona’. Non era
famoso per la sua attenzione ai dettagli – gli unici che davvero notasse
erano i dettagli dei suoi cappelli; ma ugualmente qualcosa lo spinse ad
abbassare lo sguardo, esitante, mentre arrotolava di nuovo il nastro con cui
aveva misurato l’ultimo lembo di tessuto che gli serviva – e poi si
chinava subito dopo scosso dai soliti colpi di tosse rossa.
«
Cappellaio, stai male? »
Lo
Spaventapasseri aveva alzato il capo e lo guardava con sincera preoccupazione,
ma il Cappellaio scosse con impeto il suo e si raddrizzò.
«
Benissimo, sto benissimo. » Guardò dritto dentro gli occhi azzurri
dell’uomo di paglia e cercò di figurarsi il cervello oltre la tela
del viso. « Ma se hai ottenuto ciò che volevi, allora come sei
arrivato qui, Spaventapasseri? »
Quella
era l’unica cosa che neppure Mirana sembrava
sapere. Quando si era ritrovata lo Spaventapasseri fuori dal castello,
naturalmente il suo animo buono e sensibile le aveva suggerito di prestargli
aiuto offrendogli ospitalità, ma era stata anche tanto delicata da non
chiedergli nulla. Il Cappellaio non era una persona delicata; non c’erano
freni ad impedirgli di porre domande scomode o difficili – in fondo i
matti non si fanno mai di questi problemi.
Lo
Spaventapasseri rimase per un po’ in silenzio e guardò il cielo al
di là della finestra aperta. Era di un grigio slavato e compatto, quasi
bianco, che non lasciava trasparire né il sole né le nuvole
– a Sottomondo non si vedevano più né l’uno né
le altre, da chissà quanto tempo, forse da sempre. Alla fine il
fantoccio parlò di nuovo, anche se nel suo tono non c’era
più traccia dell’allegria che aveva animato le sue domande poco
prima.
«
Sono andato a cercarla, ma ho smarrito la strada. Temo sia impossibile poter
arrivare a piedi dall’altra parte dell’arcobaleno. »
Il
Cappellaio Matto rimase a contemplarlo senza dire niente, chiedendosi quanta
saggezza fosse racchiusa in quel cervello che lo Spaventapasseri si portava
adesso dentro la testa, e se quell’uomo di paglia fosse in grado allora
di rispondere a qualsiasi domanda e di risolvere qualsiasi enigma – perché un corvo assomiglia a una
scrivania? Non l’aveva mai saputo. Avrebbe potuto chiederglielo;
avrebbe potuto…
Tossì
di nuovo, e le gocce rosse che si ritrovò sul palmo della mano lo
riscossero e lo riportarono con la mente al suo lavoro ormai pressoché
completo.
«
Ho quasi finito, Spaventapasseri » disse già dal di sopra delle
ultime modifiche al cappello destinato al suo nuovo fragile conoscente.
«
Davvero? » Lo Spaventapasseri tornò allegro e festoso;
batté le mani rese tali dai guanti grezzi e saltellò sul posto.
« La signora Mirana mi aveva detto che saresti
stato veloce. »
Quando
il Cappellaio aveva accettato di creare un nuovo cappello per lo
Spaventapasseri venuto da chissà quale regno lontano, aveva pensato ad
un lavoro uguale a qualsiasi altro. Adesso che conosceva la storia dello
Spaventapasseri, con una minuscola parte della propria mente – quella che era un pochino normale, quella che
non lasciava mai emergere: quella che
aveva scelto di dimenticare – si rendeva conto che forse il nuovo
cappello gli serviva a mantenere in buono stato il cervello che gli era stato
donato. Forse, per lo Spaventapasseri raggiungere l’altra parte
dell’arcobaleno era tanto importante che lui non voleva correre il
rischio di perdere per strada il suo proposito. Forse, lo Spaventapasseri non
era come lui, non era disposto a rinunciare tanto facilmente ai ricordi in nome
di un posto tranquillo come la Corte della Regina Bianca o di un bel lavoro
come quello del fare cappelli.
Il
Cappellaio aveva dimenticato se il Tempo fosse mai trascorso, e il Giorno Gioiglorioso, e le tazze da tè sbeccate e senza
fondo di cui parlava lo Stregatto. E aveva
dimenticato anche una persona –
non ricordava, ovviamente, come si chiamasse o che viso avesse. Invece lo
Spaventapasseri forse, semplicemente, non
voleva dimenticare.
«
Spaventapasseri, tu mi sapresti dire perché un corvo assomiglia a una
scrivania? »
Il
fantoccio di paglia lo guardò con aria mortificata. « Mi dispiace,
Cappellaio… Da quando lei se n’è andata, non ricordo
più come si fa a pensare. »
Oh,
era per questo allora che faceva così tante domande? Il Cappellaio Matto
credeva di capire, ma non ne era sicuro. Si limitò ad avvicinarsi e ad
iniziare a scucire in silenzio i punti che tenevano il vecchio cappello logoro
dello Spaventapasseri unito al sacco che gli reggeva su il cervello.
E
quando anche l’ultimo punto saltò e il Cappellaio si
ritrovò a stringere tra le dita i lembi della testa dello
Spaventapasseri, ebbe un sussulto al vedere che quel cervello di cui tanto
aveva congetturato e immaginato si rivelava esser diventato un ammasso di
paglia muffita e frantumata.
«
Spaventapasseri… Il tuo… »
«
Lo so. » Poco più in basso, gli occhi del fantoccio erano ancora
di quell’azzurro luminoso, ma così da vicino sembravano un
po’ meno vivi e un po’ più dipinti. « Te l’ho
detto, Cappellaio. È per questo che devo ritrovarla. Senza di lei, tutto
quello che ho avuto si è guastato e io sono tornato ad essere lo stesso
pupazzo stupido di una volta. »
Il
Cappellaio guardò costernato il cappello nuovo pronto sul tavolo accanto
a sé. Era stato un lavoro inutile; non sarebbe più servito a
mantenere caldi e sicuri i pensieri e i ricordi della persona speciale dello
Spaventapasseri – ma era pur sempre il suo compito, ed ogni compito
andava portato a termine. Così il Cappellaio prese su il suo lavoro e
ricucì insieme con silenziosa solerzia la stoffa e la tela, richiudendo il
vuoto sopra il cervello andato a male di quel povero uomo non umano che anche
adesso si teneva dolorosamente stretto il suo bisogno di rivederla.
Forse
un tempo il Cappellaio Matto era stato come lui; chissà, magari lo Stregatto se lo ricordava.
Lo
Spaventapasseri saggiò con le dita impagliate il nuovo copricapo e
sorrise. « Ti ringrazio, Cappellaio. Sei davvero bravo come dice la
signora Mirana. »
«
Non ringraziarmi; è bello fare il mio mestiere » gli sorrise in
risposta, salvo poi portarsi le mani alla bocca e tentare di sopprimere un
ulteriore scoppio di tosse che come sempre gli macchiò i palmi di rosso.
Lo Spaventapasseri sobbalzò e fece come per aiutarlo a sollevarsi, ma il
Cappellaio glielo impedì schermendosi e riprendendo il discorso in
fretta – per non rischiare di dimenticare anche quello. « Perdonami, Spaventapasseri, ho ancora
un’ultima domanda. Quella persona che dicevi… »
L’uomo
di paglia annuì, in attesa.
«
Ti ricordi almeno il suo nome? »
Questa
volta il sorriso dello Spaventapasseri fu più allegro che mai, e per un
attimo al Cappellaio sembrò di poter vedere nella stanza un po’ di
quella cosa che doveva essere il sole.
«
Certo che me lo ricordo. Non potrei mai dimenticare Dorothy. »
Poco
più tardi, mentre lo guardava dalla porta aperta allontanarsi lungo il
corridoio deserto del castello, dondolandosi sulle sue lunghe gambe prive di
ossa, il Cappellaio tossì ancora, più forte, e si
rammaricò di non essere uguale allo Spaventapasseri.
Il
Tempo – sì, era il Tempo
ad uccidere tutto: i ricordi, i cervelli, forse persino gli indovinelli. Quelli
troppo difficili, quelli per cui non si sarebbe mai trovata una risposta. Come
quello del corvo e della scrivania, che forse
lui aveva posto a qualcun altro prima del Giorno Gioiglorioso,
e che sicuramente mai nessuno aveva
saputo risolvere.
Eppure,
nonostante tutto, nonostante la sua testa stesse marcendo, lo Spaventapasseri
ancora ricordava, e continuava a cercare quella sua persona e a sperare di
raggiungerla dall’altra parte dell’arcobaleno.
E
il Cappellaio che invece stava lì a tossire gocce rosse – forse
stava sputando il suo cuore, che era ugualmente marcito da quando il tempo lo
aveva fatto dimenticare di Alice.
Credits e annotazioni
- Il sottotitolo corrisponde alla
battuta “Lo decido io il percorso” che Alice rivolge a Bayard in Alice in
Wonderland;
- I versi iniziali sono tratti da Boulevard of Broken Dreams dei Green Day;
- Il nome Tarrant
Hightopp è quello che Tim Burton ha dato alla
sua versione del Cappellaio Matto, dunque non è mia invenzione.
Note
(ulteriori) dell’autrice
Questo capitolo è il più
cupo dei tre, e onestamente è stato più facile da scrivere
rispetto al primo. Forse perché Alice
in Wonderland mi ispira davvero molta inquietudine, e così l’immagine
di un Cappellaio Matto malato nel corpo e nella mente mi ha ossessionata a
lungo, specie se messa in relazione con la figura disperata eppure così
terribilmente positiva del mio amato Spaventapasseri. Sì, perché,
se non si fosse capito, lo Spaventapasseri è il mio grande amore. <3
x’D
Forse questo è il capitolo che preferisco, ma naturalmente
non mi dispiacerebbe un giudizio da parte dei lettori ^^
Ringrazio, a proposito, Carolillina per
aver inserito la storia tra le preferite, e PaytonSawyer che l’ha
inserita tra le seguite. Spero che anche questo episodio sia di vostro
gradimento.
Aya ~