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Autore: Chia_aihC    29/10/2010    0 recensioni
E' sopra di voi, vi unisce, v'incatena l'uno all'altro, forse solo per quel breve istante in cui vi siete sfiorati sull'autobus o camminando per strada o anche incrociando gli sguardi da una vettura all'altra, in un incrocio. Vi girate attorno, senza riconoscervi, senza percepire il legame che s'insinua tra voi. E se, anche solo per un breve istante, ne cogliete l'esistenza, subito passa.
E' Uroboro, vi unisce, vi trascina verso una fine, una qualsiasi, quella giusta per voi.
Uroboro osserva il dimenarsi dell'esistenza, concentrandosi stavolta su quattro personaggi: un uomo che mente persino a sé stesso, una giovane donna innamorata di qualcosa che non esiste, un'anziana indipendente, un giovane che ha perso il senso della sua fin troppo ammirata logicità. Uroboro li osserva tutti, ne conserva le memoria, ne assimila il percorso e l'intrecciarsi distante delle loro vicende slegate, ne assapora il lento processo che porta all'auto - distruzione.
Uroboro è lì, per loro, per noi.
E' la nostra antenna di ricezione, la nostra capsula di memoria.
E aspetta.
Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3. Nel bar

 

Alzo il volto dal tavolo. Sterile plexiglass sotto le mie mani in un altrettanto poco asettico fast food. Impersonale.

Quasi quanto lo potevamo essere noi due. Impersonali.

Alzo lo sguardo per cercare il suo. O forse solo perché sono stanco di osservare le mie dita troppo ossute tormentare quel pezzo di pane chimico che è il mio pranzo.

Sì, è solo per noia che la guardo.

È così bella.

I capelli rossi racchiusi in una coda morbida che le finisce mollemente sulla spalla, alcuni ciuffi ribelli che s'attorcigliano sul collo bianco, tonico.

Otto anni fa le prendevo quelle piccole ciocche tra le dita e giravo i suoi riccioli in modo che la luce del sole riflessa ne infuocasse i contorni.

Era bella, al mare. Incedeva così sinuosa tra le file di ombrelloni piantati senza criterio alcuno, lei così sicura sulla sabbia come sul cemento. Si voltava appena verso di me se m'attardavo a raggiungerla, un lieve sorriso a scoprirne i denti bianchi e a nasconderle un paio di lentiggini. Il sole irradiava il suo splendore, il mare spariva tra le onde dei suoi capelli fulvi. Non c'era null'altro che i suoi fianchi stretti e l'aureola del suo sorriso.

«Hai intenzione di continuare a fissarmi ancora a lungo?»

A essere sinceri non la sto proprio fissando. Non la guardo da molto tempo ormai. Non c'è più niente da vedere.

Ma sono solo un ballista che mente persino a se stesso.

Sposto lo sguardo fuori, verso la strada, verso la città. Piove.

Ne sono felice.

Lei odia la pioggia e questo è un motivo più che sufficiente per farmela apprezzare.

I suoi capelli lei amava poggiarli sul mio petto, metteva la testa proprio sull'addome e con una mano si prendeva la chioma e l'adagiava fin sotto il mio mento, una coperta rossa e riccia che io scorrevo e arricciavo tra le mani con finta distrazione. In realtà percepivo ogni particolare, compreso il contrasto tra la mia pelle olivastra e il pallore di quella di lei.

Le sue mani ora sono tutte unte, brillano sotto la luce dei neon con quel brillio tipico dell'olio fritto. Se le mette in bocca, leccandosi attentamente la punta delle dita. Così invece di essere unte ora sono sbavate.

Ottima mossa.

I ciuffi crespi dei capelli la irritano, ne sono ben consapevole: continua a tormentarsi nel tentativo di appiattire i propri ricci. Che razza di idiota.

In effetti non capisco proprio che cosa faccio qui.

Oggi.

Dopo otto anni di cui cinque che posso ascrivere sotto il segno della perfezione, due sotto la casella incubo e l’ultimo sotto indifferenza totale.

Quel giorno alzò lo sguardo verso di me, così intenso, nocciola scurito dalle ombre della colonna cui era poggiata con grazia indolente. Appena emerse nel sole della sera, quello sguardo bruno divenne ambra liquida. Bastò quello a farmi andare verso di lei, a chiederle una sigaretta, nemmeno fossi un adolescente in pieno boom ormonale incapace di rapportarsi con una donna, incapace di essere completamente sincero.

«Hai per caso una sigaretta?» quando quel che avresti voluto dirle era: «Sei così bella che non so quale santo m’impedisca di strapparti i pantaloni qui ora e di scoparti contro il marmo.»

E ancora:

«Vedo che t’interessa la letteratura classica. Non ho potuto non notare il titolo del libro che hai in mano.» quando quello che stavi guardando in realtà era il suo seno ben valorizzato dal maglioncino leggero, primaverile e tutto quello che desideravi sapere non erano affatto i suoi interessi, i suoi studi, nemmeno il suo nome poteva in qualche modo influire sull’unico obiettivo che t’eri prefissato: portartela a letto, vedere in quali e quanti modi potevi sconvolgere il bel volto sereno e perfettamente a suo agio! Tutto quello che desideravi era annullarne la postura aggraziata, come di una donna adagiata sul mondo, sempre perfetta. Tutto quello che desideravo, mentre mi fumavo con calma la sua sigaretta, era averla mia.

Nella sua perfetta follia, lei aveva capito tutto. Subito.

In un momento di pausa, mentre cercavo di riempirlo aspirando avidamente dalla sigaretta nel tentativo di trovare un’altra domanda, un qualsiasi pretesto che giustificasse la mia presenza lì, lei disse:

«Comunque la risposta alla tua domanda è sì.» e sorrise.

Così, semplicemente. Non le dissi più niente, il suo sguardo non era fraintendibile. Con un unico, dannatamente fluido movimento, si scostò dalla colonna cui era appoggiata e si diresse a passo lento verso la biblioteca universitaria e da lì nel piccolo bagno nascosto, quello riservato al personale. La seguii. Non era un’alternativa. Era l’unica possibilità.

Facemmo sesso. Fu come non aver mai fatto del sesso prima, come se mi avessero sempre ingannato, svendendomi una cosa falsa.

Fu un’illusione pensare anche solo per un istante che quella storia sarebbe finita così. Lo capii subito dopo, lo capii quando la vidi chinarsi con grazia per rivestirsi, i capelli rossi, scompigliati, le nascondevano il viso. Piccole ombre scure ai lati delle guance, la linea così perfetta della mandibola. Quando mi ripropose il suo sguardo la bacai.

Erano secoli forse che non baciavo una donna dopo esserci andato a letto. Di solito mi alzavo, mi rivestivo, me ne andavo. Alla più fortunata concedevo di ammirarmi la schiena mentre dormivo. Con lei fu naturale baciarla.

E così per cinque anni.

«La lavatrice si è rotta...di nuovo. Non credi sia il caso di cambiarlo o preferisci ancora insistere che puoi aggiustarla in qualche modo?»

La sua voce atona mi riporta alla realtà. Una lieve incrinatura di sarcasmo, un pizzico di crudeltà per svilire le mie doti da idraulico mancato, un accenno, lieve come sempre, di superiorità per aver capito sin da subito quale fosse la soluzione ideale! Lei aveva sempre quella dannata, fottutissima soluzione ideale pronta sulla lingua. Aveva sempre dannatamente ragione! È frustrante sapere che qualsiasi cosa farai lei avrà SEMPRE ragione! Qualche volta, mentre mangiavamo assieme, anche senza una frase particolare, anche senza parlare, io glielo vedevo nella curva della spalla, nel modo in cui sporgeva la sua bianca, perfetta clavicola, che lei sapeva di aver ragione. E m’immaginavo, me lo figuravo proprio limpidamente cosa sarebbe successo se così, improvvisamente, io avesso afferrato il coltello e gliel’avessi premuto contro la giugulare, se l’avessi costretta a inginocchiarsi per terra, tenendola ferma per i capelli. M’immaginavo quel suo bel viso altezzoso sfigurato, la smorfia, le lacrime. Sapevo che anche così lei sarebbe stata bellissima, il mio quadro di dolore perfettamente adagiato nella situazione. La guardavo mentre lavava i piatti, osservavo la linea dritta della spina dorsale e il lieve movimento delle spalle e dei fianchi. E pensavo a quanto sarebbe stato perfetto agguantare lo strofinaccio che avevo proprio davanti a me e passarglielo rapidamente attorno al collo. E stringere. Forte.

Non avrebbe nemmeno gridato, la sua lingua sarebbe uscita dalla bocca aperta, i suoi occhi scuri si sarebbero allargati fino quasi a ingoiare l’intera faccia. E io...io allora...

«Sei distratto! Ti stai sporcando tutto!» mi sgrida lei.

La guardo con indolenza e faccio come mi dice, più per forza d’inerzia che perché le sto prestando reale attenzione.

La mia mente ha vagato anche troppo a lungo. Sento il mio cazzo premere contro la cerniera lampo dei pantaloni. La cosa assurda è che non è lei ad eccitarmi, non più. È qualcos’altro, ma anche ammettendolo, non cambierebbe nulla!

È successo così con tutte le donne con cui sono stato. Passavo un po’ di tempo, anche un bel po’ di tempo con loro, sfogando la mia voglia insaziabie e sentendomi appagato sempre. E poi basta.

Poi più nulla.

Sia ben chiaro, da quelle parti tutto funzionava come al solito, ha sempre funzionato bene e persino adesso, a cinquant’anni, io posso dirmi più che sessualmente attivo! È solo che...diventava vuoto, mera meccanica, puramente sangue pompato, carburante messo in moto per un bisogno fisiologico che alzava la mia leva e faceva il suo lavoro. Basta.

Certo, io l’aiutavo con fantasie che non intendo certo andare in giro a raccontare a qualcuno, ma il senso di vuoto che mi pervadeva subito dopo era...agghiacciante!

Con lei è stata la stessa cosa.

Dopo cinque anni.

Sono stati anche troppi!

Perché sono ancora qui a guardare questo panino unto e a fingere che mi piaccia? Perché in un modo strano, inquietante anche, lei mi sta tenendo ancorato qui. Anche senza saperlo forse è riuscita a tenermi avvinto! Lei riesce senza volerlo a suscitare in me delle immagini così forti, così vere che a volte ho paura di non essere più in grado di farle smettere.

Sarà stato in quel momento...

Insomma! Non sono certo uno stupido, anche se mia madre me l’ha sempre detto che tendo a lasciar correre le cose e a soppesarle solo troppo tardi. Forse dovevo capirlo che lei era pazza quando una notte, sette anni fa, tornando verso l’albergo ubriachi marci, lei si è spinta verso il bordo dell’argine, guardando giù come incantata.

«Sei io, diciamo, scivolassi qui, ora. Tu correresti giù con me?» aveva detto, senza guardarmi.

«Se io cadessi con gli occhi chiusi all’indietro verso quelle rocce  sotto di noi, quelle rocce piene di pezzi di vetro rotti, di bottiglie taglienti, tu cosa faresti? Mi salveresti? Ti butteresti con me?» aveva detto, guardando dritto nei miei occhi.

Io non so cosa vide. Ma qualcosa vide. E rise, rise così forte buttando la testa all’indietro, i capelli vestiti di neri per la notte. E io vidi il suo bel collo trafitto da una lama di vetro, e il sangue intrecciarsi come un filo di perle tra i boccoli scuri. E mi eccitai.

Sono certo che lei vide questo. Sono certo che di questo rise, godendone. E si sbilanciò apposta verso il baratro sotto di lei. Qualcosa in me scattò, qualcosa mi permise di correre e sostenerla, prima di vederla volteggiare nell’aria verso il mare sottostante.

«Hai esitato.» disse raggiante, dopo che fu tra le mie braccia in salvo.

«Sapevo avresti esistato. Sapevo che saresti venuto a prendermi. Sapevo che non hai ancora abbastanza palle per questo.» disse.

E io non la capii.

Poi l’eccitazione nei suoi confronti calò di colpo. Solitamente le donne arrivavano a un punto di intolleranza nei miei confronti così forte che mi lasciavano sempre, lei invece non voleva andarsene. Avevo persino smesso di andare a letto con lei.

Oh ero stato bravissimo. Avevo iniziato ad avere rapporti sempre più brevi, tutti incentrati sul raggiungimento del mio piacere personale. Poi li avevo lentamente dilazionati nel tempo fino a non fare più sesso con lei per due mesi interi. Ma niente! Rimaneva lì, pronta, sempre sorridente.

Lei lo sapeva, cazzo. Sapeva perfettamente cosa fare, aveva capito tutto persino prima di me! Lei lo sapeva già da quella dannata volta in cui le chiesi una sigaretta.

Così, quando fui io ad andare da lei, schifato ormai dalla sua presenza nella mia vita, pronto a lasciarla per andare a cercare altrove il mio personale piacere, lei era pronta.

Aprii la porta di casa, silenzioso.

«Ti stavo aspettando.» mi aveva detto, nella penombra della sala.

Non avevo bisogno di accendere la luce per vederlo. Brillava sinistro, acciaio perfettamente lucidato e limato nella sua mano. Tagliente. Lei ci affettava la carne di solito. Anche in quel momento aveva intenzione di affettare della carne, la sua.

Se lo puntava alla gola, la testa ben alzata, lo sguardo fiero fisso su di me, il brillio dei suoi occhi scuri, i capelli pronti a raccogliere il sangue.

Aveva scelto il coltello, avrebbe potuto scegliere qualsiasi altra cosa, più efficace magari. Una pistola sarebbe stata l’ideale. Il coltello glielo potevo togliere facilmente ma con la pistola sarebbe stata un’altra storia! No, lei sapeva benissimo cosa voleva e come ottenerlo.

«Avanti, fallo.» mi disse. «Prova a lasciarmi, ora.» disse.

Il coltello premette lievemente contro il collo, un rivolo di sangue cominciò a scendere verso la sua generosa scollatura.

Puttana!

Si era messa una sottoveste bianca con delle semplici spalline. In pratica era nuda. E il sangue le arrivò fino all’incavo del collo, tra le clavicole e scese lento verso i seni, posandosi come una goccia di rubino tra di loro.

Bastarda!

«Avanti ora. Dimmi che vuoi lasciarmi. Dimmelo e io mi ucciderò qui e tutto questo tu non lo vedrai mai più.»

«Sei una...»

«Coraggio, dillo!» disse, la voce più alta ora, il coltello che le apriva di più la ferita sul collo, la mia erezione più che visibile nei pantaloni.

«Non ne troverai mai più  un’altra disposta come me.» disse.

Puttana! Troia, incredibile troia!

Mi sentivo in trappola. Una parte di me voleva fuggire, scappare, lasciarla lì. Una parte di me voleva ancora credere che non era così pazza da lasciarsi morire per questo. Ma l’altra parte, l’altra sapeva perfettamente che si sarebbe uccisa di sicuro, che lo avrebbe fatto e che non si sarebbe limitata a lasciarmi sulla coscienza la sua morte, ma che aveva preparato qualsiasi altra diavoleria per rovinarmi. Lei poteva farlo, aveva tutte le prove, tutti i mezzi per buttarmi sul lastrico. E di certo non si trattava solo della mia piccola passione per certe fantasie! Ed era pazza, completamente pazza.

«Non permetterò a nessuno di portarti via da me, lo fermerò con tutti i mezzi e dopo averlo fermato lo distruggerò. Sappi che non lo permetterò nemmeno a te.» mi aveva detto una volta, ma nemmeno allora io avevo dato peso alle sue parole perché era ubriaca.

Era doppiamente troia. Perché avrei fatto qualsiasi cosa, in quel momento, per prenderle di mano il coltello, puntarglielo in mezzo ai seni, premere dolcemente fino a far stillare una piccola goccia di sangue, una perla in più sulla collana che lei si era creata. E lei lo sapeva, era esattamente quello che voleva! Oh sì, le avrei preso il coltello e sul suo corpo le avrei disegnato arabeschi. E poi...poi...

«Coraggio.» disse, ridendo, incurante del sangue su di sè. «Fammi vedere cosa puoi fare. Fammi vedere quante poche palle hai, quanto potere ho io su di te!» disse, inginocchiandosi davanti a me, porgendomi la lama, aprendo le gambe.

Maledetta danna stronza.

Lasciai scorrere la mia pazzia in lei, inondandola. E fu come la prima volta. E la feci piangere. E mentre piangeva lei ripeteva “sei mio, mio solo mio”.

E la puttana filmò tutto.

 

 

 

 

***

Eccoci al terzo personaggio.

Il nostro uomo di cinquant’anni, sadico frustrato, ha iniziato a vivere la sua “passione”. Spero che v’incuriosisca scoprire di lui altre verità che tiene ben celate, sempre sperando che non vengano alla luce.

Arrivederci nel prossimo capitolo!

 

@brin: spero aver soddisfatto anche con lui le tue aspettative ^_^

  
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