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Autore: MrYamok    29/10/2010    1 recensioni
Maka vive in un mondo come il nostro, e, ogni mattina, scruta dalla finestra della sua camera per accertarsi che un grande pianoforte a coda nero sia sempre nello stesso posto.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blair, Franken Stein, Maka Albarn, Soul Eater Evans, Spirit Albarn
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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WARMTH


Ero salita sull'autobus con lo zaino davanti alla faccia, cercando in tutti modi di non far vedere la mia faccia, come uno scudo medievale. 
Ma come ero passata, lui non aveva neanche mosso gli occhi. 
Avevo rallentato un poco provando a scrutarlo, ma inghiottendo un boccone di saliva, accumulata dal panico, ero continuata ad andare avanti. 
Mi sono seduta due posti dietro di lui e sono rimasta con lo sguardo assorto e la bocca mezza aperta. 
Mi rivedo i suoi occhi nei miei per un istante e ricomincio ad avere caldo. 
Mi accorgo che una signora mi guarda preoccupata -Signorina si sente male?- dice con una voce adorabile da vecchietta. 
-No, stia tranquilla.- esprimo il mio sorriso più forzato. 
Mi rimetto composta e faccio finta di niente, poi allungo una mano verso lo zaino. 
Il buon metodo per distrarmi è uno solo: leggere un libro. 
Quindi tiro fuori un piccolo tomo di astrofisica e mi ci incomincio ad immergere. 
Piano piano il calore dell'autobus mi avvolge e, lentamente, mi rilasso. 
Sbircio il pianista davanti a me: ha la testa poggiata contro il vetro, forse sta dormendo, anche se il pianoforte nei suoi auricolari continua a suonare, come un bisbiglio. 
Una mano mi tocca la spalla. Mi volto di scatto e mi lascio sfuggire un gridolino. 
-Che c'è?-Blair mi guarda stupita. 
-Niente.- 
-Ancora a leggere quei libri noiosi?- mi chiede accennando al tomo di astrofisica. 
-È interessante.-scrollo le spalle. 
-Non dovresti farti vedere sempre con un libro in mano, sai poi la gente ti...- 
-Sì, lo so.- taglio corto secca. 
Non sono proprio quella che si definisce “una ragazza alla moda” come lo erano molte mie compagne con la puzza sotto il naso. 
La maggior parte del mio tempo lo passo nel giardino della scuola, su una panchina isolata, a leggere libri. Non sono molto socievole. 
Perlomeno con le mie compagne, che ogni giorno mi guardano dall'alto in basso e fanno una smorfia come se fossi un sacchetto di spazzatura. 
Solo Blair parla e scherza con me. Blair mi si avvicina con aria sospetta e sussurra -Hai visto il tipo là davanti?- 
-Huh, chi?- faccio finta di non sapere. 
-Quello con i capelli bianchi.- 
Il mio debole cuoricino ha un tuffo -S-Sì e allora?- 
-È un tipo strano, eh?- 
-Dici?- biascico un po' distratta. 
-È da due settimane che è arrivato qui, ma non ha ancora parlato con nessuno.- 
Guardo il libro davanti a me, sono tentata di metterci la testa dentro e sparire, fuggire in quel mondo senza rumore che odorava di inchiostro appena stampato. 
Quel mondo, invece, era così noioso. 


-Ciao, Maka...- la voce sgradevole delle mie compagne mi raggiunge come un calcio negli stinchi. 
Le ignoro e tiro avanti. Avanti Maka, avanti, non voltarti, non ne vale la pena. 
Una di loro mi guarda impettita e bisbiglia con le altre, ridacchiando. 
A malapena mi trattengo dal tirarle un libro con la rivestitura di metallo in fronte. 
Mi siedo. La lezione comincia. Il professor Stein entra, con il suo solito passo scoordinato. 
I suoi occhiali riflettono la luce dei neon sopra di lui, rendendolo inafferrabile. 
Apre il registro -Tutti presenti?- 
Quasi a farlo apposta, la porta si apre. Si ferma sulla soglia e fissa il professore, come sapesse già cosa doversi sentir dire. 
Il professor Stein lo guarda stupito, ma chiede con voce calma -Evans, dov'eri finito?- 
Il suddetto Evans resta un attimo in silenzio quasi non avesse afferrato la domanda -Mi scusi professore.- e si siede lentamente, in un banco isolato. Come al solito. 
La sua voce è suadente, penso, sembra qualcosa di profondo e struggente, come un violoncello, proveniente da un posto nascosto e silenzioso, come il mio mondo dei libri. 
Quel mio mondo è una landa ampia e vuota, e nei miei sogni quei libri che ci vivono sono polverosi, e la polvere è come neve finché... il suono di un pianoforte rompe  il silenzio delle mie notti. Ogni mattina scruto quella finestra: controllo che il pianoforte sia sempre al suo posto. 
Il professor Stein poggia il gessetto, si siede e sospira. 
-Questi sono i compiti per la prossima volta.-, si alza ed esce. 
Suona la campana. Tutti si alzano. 
Evans si alza. Lo seguo con lo sguardo finché non si allontana e scompare, senza essere notato. 
Non vedo Blair, sembra essersi dissolta. 
Esco dalla classe con il mio libro in mano e, evitando gli sguardi delle mie compagne, mi dirigo furtivamente verso il giardino. 
Di solito mi siedo sempre su quella panchina fra gli alberi e mi tuffo nel mio mondo, per poi tornare fuori non appena ricominciano le lezioni. Oggi la panchina è occupata. 
Lui è già lì che mi aspetta. Proprio così, è uscito in anticipo per precedermi e aspettarmi il quel fatidico posto. Forse per chiarire per stamattina. 
Faccio un passo indietro. Magari oggi non lo leggo il libro, posso sempre farlo domani. Come non mai, l'adrenalina traspira dai miei capelli, che tremano eccitati. 
Mi avrà davvero sentito? 
Non mi accorgo nemmeno che invece di allontanarmi mi sono avvicinata, e ciò mi stupisce, sono a due metri da lui, immobile, con il libro premuto contro il petto. Lo stringo e mi sembra chiedere pietà, stropicciandosi sotto le mie braccia secche. Mi sento paralizzata. 
Ha gli occhi chiusi, come se stesse assaporando qualcosa. 
Non sembra essersi nemmeno accorto che io sia lì. 
Piano piano la tensione mi scende come una corda che si allenta, e allora mi scappa un commento -Ma questo qui ignora tutti e tutto?- dico tra me e me sbuffando. 
Mi avvicino. Resto titubante a sedermi, come ad aspettare che mi noti. Lentamente, mi siedo vicino a lui. Il libro sulle ginocchia: lo guardo intensamente. 
Con disinvoltura lo apro e comincio a leggere con l'aria più indifferente possibile. 
-Astrofisica?- 
La sua voce produce una vibrazione che manda il mio debole cuoricino sull'orlo di una crisi. 
Mi volto senza sapere cosa dire, ma lui ancora non ha aperto gli occhi. 
Sento lo stomaco pressato, qualcosa risale per la mia gola, e senza pensarci vomito un incomprensibile -Scusa.- 
Si toglie le cuffie e mi guarda. Ha gli occhi rossi. 
-Come?- chiede. 
-Sì insomma... Per stamattina intendo...- 
Rimane in silenzio. Si rimette un auricolare. Richiude gli occhi. 
Il bisbiglio delle note del pianoforte ricomincia. 
Rimango interdetta, come se quel silenzio mi avesse dato una risposta, ma non ne fossi soddisfatta. 
-Perchè ti sei girato?- dico tutto d'un fiato 
-Perchè volevo. Non c'è un motivo preciso.- risponde inaspettatamente pronto. 
Si è voltato per caso?, penso scettica. 
-Ho visto... tu suoni il pianoforte, vero?- 
Che cavolo di domanda è? Certo che suona il pianoforte, lo vedi sempre. 
-Mi hai visto?- 
-No... cioè...Io... è che ti sento quando suoni... siamo vicini di casa.- 
-Davvero...- sembra dire sarcastico 
Si alza in piedi e fa per andarsene. 
-Ehi... aspetta! Dove...- 
-Perchè parli con me?- 
Rimango un momento esitante -Io...- 
-Non dovresti farti vedere con me, la gente penserà male di te...- 
-Non mi importa di cosa pensa la gente.- rispondo pacata. 
-Dovresti.- continua lui grave -Se non lo fai la gente ti esilierà.- 
-L'hanno già fatto.- rispondo seccata -E poi perchè dovrebbero pensar male di te?- 
Evans guarda in alto e sospira piano -Perchè sono strano.- 
Scoppio a ridere come una scema, fino a che Evans mi guarda storto, allora mi calmo. 
-E secondo te la gente pensa male di te, solo perchè tu ti definisci strano?- 
Evans continua a guardarmi, abbasso lo sguardo a terra un po' imbarazzata per il mio comportamento. 
-Ti piace come suono?- 
-Come?- chiedo sorpresa. 
-Ti piace il mio modo di suonare?- 
Lo rivedo chino su quel pianoforte nero come l'inchiostro, mentre le sue dita scivolano sui tasti bianchi e neri. 
-Sì..- mormoro. 
-Vieni oggi pomeriggio al cimitero di St. Creek alle cinque. Ti aspetto là.- 


Al cimitero di St. Creek non c'era quasi nessuno. Era lontano più o meno cinque chilometri da casa mia, eppure non lo avevo mai notato. Ero venuta lì in autobus ed ero scesa all'ultima fermata. 
L'autista era sceso e mi aveva guardato con apprensione -Vai a visitare qualcuno, piccola?- 
-In realtà... ecco ho una specie di appuntamento.- 
-Il tuo ragazzo ha davvero buon gusto, allora.- aveva detto sarcastico, sorridendo. 
I cancelli del cimitero erano alti e appuntiti, come quelli che si vedono nei film dell'orrore; ero rabbrividita. 
L'interno del cimitero era un paesaggio monotono: colline piene di lapidi e croci, alcuni alberi spuntavano a stento da quel paradiso di lapidi. 
Mi ero aggirata per il viottolo che attraversa il cimitero. 
Dei passi sulla ghiaia mi fanno girare -Evans...- 
Una signora mi guarda stupita e mi passa acanto. È vestita di nero. 
Vicino a lei passano sei o sette persone. Deve esserci un funerale, immagino. 
Le seguo, e le loro figure nere mi portano sulla cima di una collinetta. 
Allora vedo delle sedie allineate, un albero davanti ad esse ed una bara in attesa di essere sepolta. Vicino alla bara c'è un piccolo piedistallo rosso, ed un pianoforte a coda nero sopra. 
I familiari del defunto si siedono. Io mi avvicino in silenzio e mi siedo nell'ultima sedia nell'angolo. 
Non c'è nessun altro. Il prete del funerale, comincia a recitare parole di tristezza e dispiacere per la morte del familiare. 
Io invece odio i preti. Odio anche la religione in generale. Secondo la mia opinione, erano persone che si facevano seguire sfruttando il concetto della morte. 
Penso sia inutile, vivere nell'attesa che la morte arrivi. 
D'altronde, quando siamo vivi non siamo morti, e quando moriamo non siamo più vivi. In entrambi i casi la morte non ci appartiene, quindi è inutile piangere per essa. 
Forse l'unico che dovrebbe piangere sarebbe il defunto, ma ho come la sensazione che in qualche modo le parole del prete non lo raggiungano. La sua anima non riesce a sentire. 
Il prete si ferma. Tutti si voltano da una parte. Cerco anch'io di vedere cosa succede e allungo la testa. 
Evans sembra comparire dal nulla. Si avvicina al pianoforte e si siede. 
Apre la tastiera con delicatezza e indugia sui tasti. I suoi capelli pendono su di essi come un salice piangente. Alza le mani e le appoggia sulla tastiera. 
Nello stesso momento il mio cuore sobbalza, e mi pare che la sua sagoma brilli di una luce propria. 
In realtà il tramonto dietro di lui lo avvolge e nel frattempo, le sue mani continuano a muoversi. 
Sento di aver già sentito questa melodia. Evans si piega da un lato, poi da un altro, infine guarda in alto come stesse sognando. 
Un volantino vicino a me svolazza. Lo guardo e noto che in fondo c'è scritto qualcosa. 
Chopin – Nocturne Op.9 No.3, Soul Eater Evans. 


Quando il sole è tramontato è già tutto finito. La gente si sta allontanando insieme al prete. 
Il pianista di quel funerale si alza in piedi e da una scrollata al suo smoking. 
-Soul...- 
-Così adesso sai il mio nome.- dice con estrema tranquillità. 
-Eh?- 
-Ti ho invitata qui per questo.- 
Rimango con la bocca mezza aperta, senza sapere bene cosa rispondergli. 
-Non mi dirai che avevi pensato ad un qualcosa di romantico?- 
Soul scoppia in una risata di gusto, io, invece, sono un po' imbronciata. 
-Comunque sei stato magnifico.- dico acida. 
-Quindi ti piaccio?- 
-Ho detto che mi piace come suoni!- sbotto, arrossendo. 
-Comunque sia- si scosta i capelli bianchi dalla fronte -Non importa quanto tu sia bravo a suonare. 
Ciò che conta è per chi stai suonando. 
Lo guardo stupita, colta alla sprovvista -Beh...io non è che mi intenda molto di queste cose...- 
Lui si volta verso di me -D'altronde- sorride -Non pensi anche tu che ognuno, anche le anime dei morti, meritino un po' di sollievo nell'andarsene?- 
Improvvisamente quel sorriso mi sembra estremamente affascinante, la sua voce sembra una maledetta calamita. E io sono l'altro magnete. 
Mi volto dall'altra parte -Che stupidaggini.- borbotto -E poi mi hai fatto venire qui per niente.- 
-Sarebbe stato meglio se ti avessi suonato ad una festa di matrimonio, eh?- dice ridacchiando -Ma in quel momento non suonavo per due sposi, nemmeno per i familiari lì presenti e nemmeno per me stesso. Suonavo per colui che era in quella tomba. D'altronde anche loro meritano un po' di felicità in mezzo a tutta quella tristezza.- 
Mi volto di nuovo verso di lui, sono sul punto di dire qualcosa, magari di carino, e invece -Andiamo. Si sta facendo tardi.- 
Ci dirigiamo verso la fermata dell'autobus. Durante il ritorno una stanchezza tremenda mi salta addosso, e non mi accorgo nemmeno di addormentarmi sulla sua spalla. 
Chi se ne importa, mi dico, e dormo come un sasso.
   
 
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