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Autore: ballerinaclassica    13/11/2010    17 recensioni
«Dio, ma l'avete visto quello?»
«Ti piace? Io credo ci sia di meglio»
«Nah, non credo. Andiamo, ma hai visto che fisico? Ha un culo che-»
«A proposito di culi... Guardate quella lì.»
«Insomma, la volete smettere di parlare di culi?!»
«E perché dovremmo?»
«Lascialo perdere, Francis, lui è soltanto invidioso.»
«E che cosa te lo fa pensare, di grazia?»
«Il fatto che tu non abbia un bel culo. E non fare quella faccia. Fidati, è così, l'ho guardato tutto il tempo proprio per accertarmene.»
«Sei un idiota! Sei un cretino! Ti meriti di scivolare! Ma che sto dicendo?! Ti meriti di cadere giù dal palco! Sei un deficiente! E smettila di ridere! E voi che cosa diamine avete da guardare?! Aiutatemi, aiutatemi che lo ammazzo! Stupido! Maiale!»
[ USUK, GerIta, Spamano, PrUngheria, Franada e molto di più♥ ]
Genere: Comico, Commedia, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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[471] Matthew Williams;

«Credevi che mi fossi dimenticato di te? Anzi, di noi?»
Matthew alzò il mento con uno scatto e lasciò perdere le sue mezze punte color carne, sfilacciate e lise; davanti a lui c'era Francis in piedi, e teneva una mano appoggiata su un fianco, il sopracciglio sollevato e l'espressione tipica di chi la sa molto lunga. Aveva un abbigliamento sportivo, e ciononostante emanava profumo di fiori e cannella che fece chiudere gli occhi a Matthew ed inspirare a fondo, perché era quasi assuefante.
«A dire la verità... Sì.»
Lui e Francis avevano un appuntamento quella sera, una specie di appuntamento che poteva definirsi meglio come... Un'uscita a cena tra amici. Matthew non ne era mai stato troppo convinto (del fatto che fosse una semplice uscita tra amici e non qualcosa in più) e infatti non aveva nemmeno speso tempo con Alfred per giustificarsi, e comunque Alfred era troppo preso da se stesso e dalle nuove tecniche che escogitava per infastidire Arthur per preoccuparsi di suo fratello. Il fatto era che aveva passato tutta la vita a giustificarsi con lui, quindi era normale che ormai gliene fosse completamente passata la voglia. Secondo la visione amorevole e forse anche un poco campanilistica di una madre divorziata, Alfred era il figlio perfetto, quello che non passava i pomeriggi davanti ai videogiochi, ma preferiva leggere un libro seduto sulla veranda, quello che non perdeva tempo a rompersi le ossa in sport come il football (che per quanto la riguardava, poteva essere uno sport da signori, ma a giocarlo erano spesso e volentieri gli animali), ma preferiva una mazza da hockey e un paio di pattini per il ghiaccio. Secondo l'opinione di Matthew, sicuramente meno cieca e molto più generale, sua madre aveva fatto un gran confusione addirittura tra i suoi stessi figli, dato che Alfred aveva sempre il video games di ultima generazione, prima ancora che uscisse in commercio a volte e sempre Alfred era il quaterback della squadra di football al liceo.
Alfred e Matthew erano stati abbastanza fortunati da potersi vedere soltanto tre volte l'anno negli ultimi tre anni (uno ballava a New York e l'altro a Toronto), e la cosa risultava abbastanza positiva per entrambi, dato che l'uno credeva che l'altro fosse una specie di eremita franco-canadese che passava le sue giornate ad intagliare il legno e a piazzare tende nel bel mezzo della foresta, mentre l'altro credeva di avere un fratello egocentrico, indisciplinato e forse anche un po' stupido che sapeva orientarsi solo e soltanto nella jungla newyorchese, che giudicava addirittura un paradiso (col rombo della metropolitana che ti stordisce, la puzza di fritto che ti arriva in faccia ogni qual volta entri in qualche locale, le persone che camminano velocemente e non si scusano se ti urtano per sbaglio e infine i taxi che, se non attraversi la strada con la velocità di un ghepardo nel bel mezzo di un inseguimento, cominciano a strimpellare col clacson rischiando di fracassarti un timpano).
Era quindi evidente che fossero due fratelli un po' singolari, e forse un po' troppo diversi tra loro, tanto che, se qualcuno li avesse visti con un sacchetto di carta in testa, avrebbe faticato a crederli tali.
Il guaio infatti (forse soltanto per Matthew) era la somiglianza. Ogni volta che si faceva la barba aveva la strana abitudine di guardarsi negli occhi, piuttosto che seguire il movimento del rasoio, per il semplice fatto che gli veniva più naturale fissare quell'unica differenza che c'era tra lui e Alfred, invece che notare quanto i loro lineamenti fossero simili. Matthew aveva gli occhi blu, di una sfumatura tendente al viola, che gli attribuiva un'aria dolce e anche abbastanza ingenua (il che era veramente nella sua natura) e che se ne stavano dietro un paio di occhiali con la montatura ovale. Gli occhi di Alfred erano tutt'altro e ogni qual volta venissero descritti, lui pregava di usare la terminologia più adeguata, ossia un “azzurro-blu tendente al verde acqua, come il colore del cielo limpido che si staglia dietro la Statua della Libertà illuminata dal sole di mezzogiorno”. Anche riguardo a questo Matthew aveva un'opinione discordante e molto meno ridondante, secondo cui gli occhi di Alfred erano semplicemente di “quell'azzurro che attribuiva alla sua faccia un'aria ancora più arrogante e scapestrata”. Ma questi erano soltanto pareri, sia chiaro.
La verità stava nel fatto che probabilmente, al momento della nascita di ciascuno dei due, qualcosa era andato storto. Tanto per cominciare, loro madre, nel partorire il primogenito, Alfred, aveva avuto delle serie complicanze in sala parto. Il bambino era in una posizione irregolare, l'angolazione era strana e il cordone ombelicale gli avvolgeva il collo – per quanto la cosa fosse stupida e di poco conto, Matthew la tenne per sempre a mente dal giorno in cui gliela raccontarono, giustificando la stupidità di suo fratello col fatto che probabilmente da piccolo aveva subito (il suo cervello in particolare) una grave carenza di ossigeno. Lui invece era nato in auto, mentre la signora Williams, in preda alle contrazioni, si faceva beffe di tutti i limiti di velocità e andava spedita verso l'ospedale, Alfred, seduto sul sedile posteriore della macchina, non aveva ancora idea del futuro di ostetrica che lo stava aspettando. Ovviamente la strana vicenda della nascita di Matthew finì ben presto nel dimenticatoio, dando spazio ad una serie di altre strambe versioni secondo cui il bambino era nato ai confini del Canada, nella vecchia tana di un'orsa dal collare, o in una tenda di Apache (poco importava se a quel tempo, da circa duecento anni, non ci fosse più la benché minima traccia di tende degli Apache negli interi Stati Uniti d'America).
Alle sei e trenta di quella sera, Matthew se ne stava seduto sul pavimento, e ancora una volta nella sua vita stava pensando a suo fratello. Evidentemente Francis scorse un lampo di turbamento sulla sua faccia, o più semplicemente reclamò l'attenzione che era sicuro gli spettasse di diritto, e tossì.
«Allora ci vediamo tra un paio d'ore?», chiese.
«Certo. A dopo.»
«Non farmi aspettare», aggiunse Francis con un sorriso.
Se ne andò accendendosi una sigaretta e reggendola tra l'indice e il medio della mano sinistra, lanciandosi una tracolla sulla spalla e scuotendo la testa e i capelli. Indossava una tuta blu notte, di quelle strette da un elastico sui fianchi che cadono larghe sui piedi, e copriva un paio di scarpette nere. Lanciò un'ultima occhiata a Matthew e sorrise.
In un certo senso era una persona gentile, che Matthew paragonava a una specie di druido onnipresente che conosce a memoria la storia della Rivoluzione Francese e che non transige sulle abitudini alimentari, l'accento parigino di chi deve parlare inglese controvoglia e i modi di fare gentili e riverenti. Ovviamente sapeva essere anche scorbutico (con Arthur), poco accondiscendente (con Arthur) e anche parecchio sboccato (sempre con Arthur), ma Matthew non ci badava, anzi, lo trovava addirittura buffo, ora che ci pensava e continuava a fissare la porta dietro la quale Francis era sparito appena un secondo prima.
E in quell'attimo di silenzio e concentrazione, fu addirittura sicuro di sentire una voce familiare che sussurrava «Dio mio, ho un modo di uscire di scena assolutamente sublime!».



[619] Arthur Kirkland;

Arthur era chino da almeno tre ore su un vecchio pezzo di carta che avrebbe potuto essere identificato come spazzatura. Infatti si era ormai strappato lungo le pieghe, e esattamente al centro c'era una grossa e circolare macchia di caffè risalente a quel pomeriggio stesso. Sopra c'era scritto da cima a fondo con una calligrafia piccola e singolare, con parecchie cancellature e altrettanti giri di parole inutili. Arthur l'esaminava da cima a fondo, cercando di capirne il significato intrinseco che ovviamente non esisteva e senza avere ancora la benché minima idea di come rispondere al misterioso mittente (sempre ammesso che non fosse soltanto uno scherzo di cattivo gusto). Era una specie di lettera scritta all'ultimo minuto e ingenuamente lasciata scivolare sotto la porta della sua stanza, una lettera che era contemporaneamente stupida, sgrammaticata, imbarazzante, strana, poco pragmatica e piena di affettuosità e insensatezze fino alla nausea. Insomma, quel genere di lettera che qualunque Kirkland avrebbe preferito dimenticare (o non aver mai ricevuto), ma che, a causa dell'intelligenza acuta e alla macabra tendenza all'autolesionismo, teneva a mente come se fosse stata imparata a memoria. Una di quelle lettere talmente strane da meritare il privilegio di essere riportate per intero:

Caro Arthur,
forse “caro” non è la parola giusta, dato che non ho mai avuto l'impressione che tra noi ci fosse un'amicizia di sorta o qualcosa che andasse oltre il tuo strano attaccamento alle buone maniere...
Caro conoscente Arthur, che va decisamente meglio,
sono appena tornato in camera dopo un interminabile pomeriggio passato ad allenarmi e poi a fissare una ragazzina vestita di rosa che lancia sorrisi a destra e a manca, e adesso mi sento una persona molto cinica, il che sarebbe un atteggiamento molto alla te, ma ormai non ci faccio più caso, la tua presenza deleteria mi sconvolge e mi logora dall'interno, credo che tu abbia un virus e che io me lo sia beccato, in barba alle mie potentissime difese immunitarie.
Probabilmente ti starai chiedendo chi ti abbia scritto questa lettera, ma visto che sei convinto di sapere tutto e di conoscere anche il segreto del Santo Graal, la strada che porta al Nirvana e mille altre cose, capiscilo da solo.
In questo momento il compito che io decido di assumermi, dato che ho sempre un compito da assumermi, è quello di dedicarmi un po' a me stesso (cosa che non faccio mai) e riordinare un po' le mie idee lontano da tutte le distrazioni. Nel frattempo il telefono della camera sta squillando, ma almeno questo non mi infastidisce. Adoro quel vecchio telefono. In realtà adoro questo albergo intero, è come vivere in un'altra epoca, è un posto che sa di vecchio e questo un po' mi conforta, un po' mi ricorda la tua presenza costantemente (sai, per lo storia che è un posto che sa di vecchio).
Vorrei proprio vedere la tua faccia mentre leggi, perché credo sia la solita, esilarante faccia che hai ogni volta che vedi in giro la mia. Aggrotti le sopracciglia, quelle enormi sopracciglia che sembrano disegnate con un pennarello spesso almeno quanto un dito, e cominci a contrarre la mascella per darti un'aria da duro. Fidati, sembrano soltanto tentativi mal riusciti di arrotolare la lingua, cosa che io so fare benissimo. E so anche muovere le orecchie, per la cronaca.
Ad ogni modo, il motivo per cui ti scrivo è molto semplice, ma allo stesso tempo va al di là del motivo imprescindibile per cui non voglio dirtelo in faccia.
Tu mi piaci.
Purtroppo non mi piaci come mi piace il burro di arachidi o come mi piaceva il mio primo cane. Si chiamava Alban, ed era un bel cane da caccia con le zampe grosse e le orecchie penzoloni. Una volta ha vomitato sulla moquette del salotto, che da quel giorno ha una grossa macchia scolorita che a mio parere ha la forma di un hamburger. Purtroppo non mi piaci nemmeno come mi piacerebbe un amico che mi va a genio, dato che tu non sei un amico che mi va a genio, anzi, sei esattamente l'opposto. Facciamo l'assurdo esempio che l'amico che mi va a genio beva soltanto Coca Cola classica, quella che esiste da mille anni o giù di lì. Ecco, tu invece sei più un tipo da Coca Cola dietetica, e questo a me non va a genio per niente. Visto che però sei all'antica, e potresti non aver capito questo esempio, te ne farò un altro. L'amico che mi va a genio è difensore nella squadra di football migliore del New England. Mentre lui gioca, tu non guardi nemmeno la partita, perché stai giocando a golf. Capisci? Con me non si gioca a golf, il golf è roba da borghesi, da gente che beve Coca Cola dietetica...
Tuttavia potrei anche sbagliarmi, dato che ti conosco come si conoscono due persone che si incontrano in metropolitana e hanno soltanto il tempo di dirsi quanto fosse grande l'ultimo topo che hanno visto alla Stazione Centrale. Per questo motivo (e ovviamente per il motivo che ho citato sopra) voglio darti un'altra possibilità. Qualcuno potrebbe leggere in questa frase una sorta di velato, come si dice, “scarica barile”, nel senso che tu mi piaci e sono io a doverti dare un'altra chance, ma non è così, fidati. Voglio veramente che tu mi descriva quel topo che hai visto alla Stazione Centrale, voglio veramente avere una reale conversazione con te.
La verità è che mi stavo facendo la doccia, e un'assurda serie di coincidenze mi ha fatto capire che in qualche modo tu dovevi sapere quanto ti scrivo adesso (sempre che non lo sapessi già, dato che sai tutto). Il telefono squillava e produceva quel suono fantastico che solo lui sa emettere, alla tv c'era la pubblicità di una nuova catena di Fast Food, le signore delle pulizie mi avevano portato un rotolo di carta igienica nuovo di zecca, il che mi aveva messo di buon umore appena entrato in camera.
Ovviamente non mi aspetto che il tuo cuore si accenda di gioia leggendo, anzi, sono convinto che l'unica cosa che si accenderà dopo la lettura di questa lettera sarà il tuo piccolo e subdolo io da psicanalista freudiano [in realtà l'aggettivo “freudiano” era stato cancellato e corretto svariate volte, e nessuna delle versioni era scritta nella maniera giusta], nonché le capacità alla Holmes. Qui si chiama “CSI”, ma ho preferito citare un vecchio classico, una cosa che fosse più adatta alla tua veneranda età.
A dire il vero, prima o poi dovrai dirmi quanti anni hai. Quanti anni hai veramente, perché non ci credo che ne hai ventitré. Forse ne avevi ventitré una decina di anni fa. Ma comunque per me l'età non conta, sappilo, anzi, mi piacciono le persone mature e tu hai un qualcosa di paterno... Anzi, più che di paterno io direi di materno.
Ah, queste gocce che vedi sulle parole che ti scrivo... No, non sono lacrime, non ti illudere. Non ti schifare nemmeno, quando ti dirò che si tratta di sudore, perché ti ho scritto appena un minuto fa che sono appena uscito dalla doccia. Ad ogni modo, è sudore. Fa caldo, e io non posso farci niente, non riesco ancora a controllare i cambiamento climatici con la forza del pensiero, ma ci sto lavorando.
E ci tengo ad avvisarti anche (oltre alla questione sudore) che non mi aspetto nemmeno che tu ti metta a esplorare i più reconditi angoli del tuo cuore per me, per noi o per te stesso. Io so già che riuscirò nella mia impresa, ne sono sicuro quanto sono sicuro che alla fine Starbucks non chiuderà mai, anzi, vi surclasserà tutti.
Bene, adesso dovrei proprio smettere di scrivere, perché sta per terminare il foglio che ho a disposizione e perché la mia scialba carriera di aspirante amanuenso sta togliendo tempo a quella decisamente più promettente di ballerino.
Vorrei solo dirti, alla fine di tutto, e adesso che sai quello che dovevi sapere e che (questo lo so io) probabilmente non avresti mai voluto sapere (come al solito i miei tentativi di onniscenza sono ridicoli, ma tu più di tutti dovresti essermi grato, in questo giorno) che secondo la mia (quasi sempre giusta) opinione, tu dovresti prendere in considerazione quanto ho appena scritto. Non puoi tirarti indietro, e non puoi fare nemmeno l'eroe e salvarti dal guaio (di eroe ce n'è soltanto uno e, mi spiace, non sei tu), non sei nemmeno Gesù se è per questo. Anche di Gesù ce n'è soltanto uno, fortunatamente, e anche Gesù, sempre fortunatamente, non è te. Sfortunatamente però non è nemmeno me. Sono gentile, vero? Con questa frase puoi almeno depennare un nome dall'elenco dei sospettati per la tua lista di ipotetici ammiratori segreti.
Adesso puoi anche buttar via questa carta straccia, oppure rimuginarci sopra cercando di capire chi sia io – a quel punto sarò più che certo di interessarti, e tu sarai più che sicuro riguardo la mia identità. Quindi, da zoppo a zoppo, per favore, cerchiamo di non mentirci e apri gli occhi (magari da' una sistemata anche alle sopracciglia, così ci vedi meglio).
Con affetto.


Non c'era nessuno in quel maledettissimo albergo che fosse mai stato tanto abile con lui a parole, Arthur dovette ammettere che si sentiva quasi superato. Aveva letto frasi che non si aspettava minimamente, da nessuno, e si era accorto di qualche indizio lasciato qua e là con distrazione (forse) quasi come se si fosse trattato di nebbiolina. Svariati riferimenti agli Stati Uniti, una eccessiva dose di egocentrismo puro e alcuni errori grammaticali. Tuttavia continuava comunque a dubitare che l'autore di quella malefica missiva potesse essere Alfred, sia perché non era totalmente sicuro che una persona del genere potesse avere una vita sentimentale più complicata della vita sentimentale di un comodino, sia perché aveva riscontrato nella sua lettera una capacità lessicale disarmante, che poteva appartenere soltanto ad un attento conoscitore della lingua inglese. Sfortunatamente per Arthur, però, gli attenti conoscitori della lingua inglese, in quell'albergo, in quel momento, si limitavano all'esiguo numero di due, uno dei quali, purtroppo, era egli stesso. Arthur si sentì un po' come quando la maestra di danza, da bambino, lo rimproverava di pulirsi le scarpette prima di entrare in sala. Non sapeva chi ci fosse lì dentro, ma in cuor suo era più che certo che ci fosse qualcuno per cui valesse la pena di pulirsi le scarpette, e quindi eseguiva l'ordine.
Stessa cosa valeva per quella lettera. Non sapeva chi fosse l'autore, ma in un certo senso immaginava che valesse la pena scoprirlo.
Sembrava interminabile, scritta in maniera fittissima e con una calligrafia che gli ricordava vagamente quella di un bambino delle elementari, solo che riprodotta in scala più piccola, faticava un po' a leggerla a quell'ora, l'orologio segnava lei sei e trenta, e fuori era quasi buio. Era chino di lato, verso l'abat-jour, il foglio era poggiato sulle ginocchia piegate, e lui se ne stava sdraiato a letto, strizzando gli occhi e avvicinandosi, di tanto in tanto, la lettera alla faccia come per assicurarsi che ci fosse veramente scritto quello che lui aveva appena letto.
Il fatto era che non si aspettava che quel maledetto sconosciuto fosse veramente tanto abile. Per quanto ne sapeva, lì dentro, soltanto Francis poteva essere capace di acrobazie verbali tanto prodigiose (in campo amoroso) ma al tempo stesso dubitava seriamente che Francis fosse il tipo da dichiararsi tramite una lettera.
I suoi dubbi quindi, per quanto la cosa potesse sembrargli assurda, incredibile, stupida e contemporaneamente fantastica, ricadevano sempre sulla stessa, americana persona.




I fatti parlano da sé, si dice, ma a volte nessuno di noi è in grado di interpretarli. Spesso parlano una lingua tanto più volgare, quanto più ci interessano personalmente, a volte sembrano schiaffarci in faccia la realtà con una certa violenza. Ma che i fatti parlino da sé si dice soltanto, magari qua e là c'è qualcuno che nemmeno se ne accorge. A volte gli intrecci sono troppo complicati da capire, a volte siamo noi stessi a renderli tali. I fatti, ad ogni modo, spesso derivano da un miscuglio complessivo (e anche un po' profano) di azioni.
E infine, il numero di cose che i fatti dicono è direttamente proporzionale al numero di conseguenze che noi ne vogliamo dedurre.

La Fille Mal Gardée, i fatti parlano da sé.





[559] Antonio Fernandez Carriedo;

«Che cosa vedi lì dentro, Antonio?»
«Tulle, tantissimo tulle.»
«Non intendevo sullo schermo, intendevo dire dentro lo schermo.»
«Ah... Che ne so. Plasma?»
Francis sbuffò, e si passò una mano sulle tempie, come se si trovasse nell'atrio di un asilo e stesse chiedendo ad uno dei bambini che colore fosse il fiorellino giallo che c'era disegnato sul muro. Il bambino rispose “blu”.
«Una visione profonda, devi avere una visione profonda! Io vedo una ragazza che si impegna con tutta se stessa e sprizza energia. La vedi la sua energia? Io la vedo.»
«Io vedo solo che è fuori tempo.»
Il bambino fece un secondo tentativo, e disse “rosso”.
Francis si diede un'occhiata intorno, e poi calciò Antonio all'altezza delle reni.
«Ehi, ma si può sapere che ti prende?!»
«Smettila di abbrutirti, d'accordo? Smettila. Non è da te. Non puoi abbrutirti di colpo, non è un tuo diritto farlo.»
A quel punto, raccogliendo l'onere che gli era appena stato affidato (che Antonio avrebbe quasi sicuramente preferito descrivere come una zavorra) si alzò in piedi e guardò Francis negli occhi. Aveva voglia di dargli un pugno, ma non si trattava di quel genere di pugni che nei libri e nei film si davano al nemico, era più un pugno da “migliore amico”, uno di quei pugni che ti faceva capire per sempre che qualcosa si era rotto, dentro, e che lui era giù di morale.
Effettivamente se si metteva a pensare sul serio alla sua vita nell'ultima settimana e la tramutava un po' in un film riusciva quasi a vederci una lunga serie di personaggi principali, un po' come quei telefilm che rifilavano ogni santissimo giorno dall'America, in cui lui era un liceale con problemi esistenziali, Francis era una specie di agile soubrette tramontata, Gilbert era l'amico popolare che lo avrebbe quasi sicuramente accusato, durante queste sue riflessioni, di avere un cervello imperniato di fantasia, che doveva mettere i piedi per terra e agire, un po' come faceva lui (ovviamente Gilbert, nel suo film, continuava ad essere malmenato da una donna, e questo giusto perché Antonio voleva la sua piccola vendetta personale). E infine c'era Lovino, la ragazza carina e riservata che si soffia sempre il naso in classe.
«Senti», cominciò a fatica, come se ciò che stesse per dire risvegliasse in lui il tormento di una vita, «non sono in vena, dico davvero.»
«Dal mio illustre punto di vista, sappi che sono sicuro che invece sarai in vena, dammi soltanto un minuto.»
A quel punto Francis estrasse dalla tasca il suo telefono cellulare e cominciò a picchiettare le dite sulla tastiera con la stessa calma che potevano avere quelle signore che sanno di dover aspettare almeno due ore quando sono in fila dalla parrucchiera. Nel frattempo, Antonio attendeva impaziente cosa stesse per dirgli – lui aveva l'assurda tendenza a fidarsi meccanicamente delle persone, come se in lui ci fosse una specie di cromosoma benefico che gli impediva di provare sentimenti come l'odio o l'indifferenza.
«Ecco, guarda.»
Detto ciò Francis gli piazzò il cellulare a due centimetri dalla faccia e Antonio impiegò un paio di secondi, che usò per sbattere ripetutamente le palpebre, prima di mettere a fuoco quello che c'era scritto sul display. La delusione amorosa aveva causato una mancanza d'espressione sul suo volto (e anche i seri dubbi sulle potenzialità di Francis, a dir la verità) che lo faceva sembrare come uno di quei passanti che per ammazzare il tempo mentre camminano leggono quegli opuscoli inutili che distribuiscono per strada o, sebbene fosse abbastanza triste come cosa, i necrologi.
«E allora?», chiese infine, dopo una veloce ma attenta analisi.
«Allora? Vorresti dirmi che non ti interessa?»
«Che cosa dovrebbe interessarmi? Non si capisce nemmeno cosa ci sia scritto.»
Francis roteò gli occhi con aria piuttosto teatrale (era un attore nato, aveva anche la strana abitudine di parlare con un tono di voce basso e di gesticolare muovendo soltanto le dita).
«Stavo parlando con Feliciano», spiegò, come se adesso stesse parlando con un ritardato mentale, «e in questo messaggio, scritto in tre diverse lingue per ragioni a me ignote, lui mi spiega che Lovino resterà con te, dato che lui e Ludwig devono uscire.»
Antonio respirò adagio e osservò il sorriso di Francis. In quel momento gli sembrò la cosa più bella che potesse guardare, e quindi concentrò la sua attenzione su quel particolare per quasi un minuto. Quando riprese coscienza di se stesso e di quello che stava accadendo, sapeva già che cosa avrebbe fatto dopo.
«Ah, non so come tu lo abbia convinto. Ah, tu fai i miracoli! Ti devo un favore, d'accordo? Ricordamelo però, odio dovere i favori alla gente. Sei un amico Francis, ti devo un favore!», cominciò a dire.
Raccolse velocemente la sua borsa, salutò Francis con la mano e corse a farci una doccia.
Ovviamente non seppe mai che fu Lovino stesso a chiedere a Francis di poter fare da tramite tra lui ed Antonio, ma questa era un'altra storia. Si sa, i fatti derivano da un miscuglio complessivo (e un po' profano) di azioni.




Nel frattempo Lili eseguì la sua ultima diagonale di pas de basque, e si fermò, salendo sulle punte e guardando tutta la giuria dall'alto. Con la fine della sua variazione finiva anche il mondo che si era creata attorno, quello di una storia piena di inganni, intrighi e intrecci, una storia fittissima, in cui le dichiarazioni non erano mai esistite, in cui gli equivoci erano all'ordine del giorno e in cui, nonostante tutto, c'era il lieto fine.









L'ultima parte si riferisce alla trama della “Fille mal Gardée” (la Figlia Mal Custodita). =) Ho deciso di incentrare questo capitolo più sui protagonisti (che, ahimé, sono soltanto tre per questioni di lunghezza) che non sulla danza. In un certo senso credo sia meglio così, oppure alternare, per non risultare noiosa e ripetitiva, giusto?
Ad ogni modo, la variazione che avevo scelto per Lili era un'altra, per la precisione questa qui Swanilda, tratta da Coppelia. Ho cambiato proprio alla fine, mentre scrivevo e mi rendevo conto che anche con la trama ci stava meglio la seconda scelta! (E poi è la mia variazione femminile preferita, quindi...!)
Nel prossimo capitolo però toccherà a un personaggio piuttosto importante, quindi vorrei di nuovo portare l'attenzione sul balletto. Si tratta di questo Flames de Paris (purtroppo non trovo un video decente, chiedo scusa D:), che secondo me è praticamente perfetto, vista la trama. :P Secondo voi di chi si tratta? :P
Infine, grazie a chiunque abbia recensito, letto o soltanto dato un'occhiata al titolo! =)






A presto, baci! <3

   
 
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