Re
e fratello
Il
giovane re guardava la città fuori dalla finestra con un
accenno di sorriso
sulle labbra. Presto sarebbe iniziato il palio e lui lo adorava, gli
piacevano soprattutto
le gare di bandiere e non vedeva l’ora di potersi confrontare
anche quest’anno
con i principi dei regni vicini. Ma soprattutto non vedeva
l’ora di stare in
mezzo al suo popolo di vedere le loro espressioni felici, di sapere che
lo
amavano e che stavano bene. Per lui quella era l’unica cosa
importante. Non
desiderava l’oro, le ricchezze, il potere, o altre cose di
quel genere. Lui
desiderava l’amore del suo popolo, perché sapeva
che un re a cui manca questo
non è un re: è un tiranno. E lui non voleva
essere come suo padre, non voleva
affamare la propria gente per farsi bello agli occhi degli altri
regnati.
Voleva la felicità e la tranquillità, non voleva
le guerre. Per ora la Dea lo
aveva graziato, dando inverni miti alle sue terre e estati tiepide,
Monaldo
ogni sera la pregava perché i raccolti fossero buoni e gli
animali non si
ammalassero. Molti altri regnanti lo prendevano in giro
perché le casse del suo
castello non straripavano d’oro ma a lui non importava,
vedeva i loro popoli,
la fame che pativano, la miseria in cui vivevano e vedeva
l’odio nei loro
occhi. Non avrebbe mai potuto accettare di vedere quell’odio
negli occhi della
sua gente, mai
-Mio
re, cosa fate alla finestra?- Monaldo sobbalzò spaventato e
si voltò verso chi
l’aveva chiamato
-Guardavo
i preparativi per il palio- rispose il giovane re sorridendo al nuovo
arrivato
–quest’anno sarà ancora più
grande, hai visto quante bancarelle che ci sono,
fratello?- l’altro rimase serissimo mentre il giovane gli
saltellava incontro
felice
-Mio
re, non dovreste stare davanti alla finestra, non va bene-
-Perché?-
chiese ingenuamente il re
-Ve
l’ho già spiegato mio re… -
sospirò l’altro
-E
perché continui a chiamarmi “mio re”?-
lo interruppe -Siamo fratelli, perché
non mi chiami con il mio nome?-
-Perché
siete il mio re e sono tenuto al rispetto- gli rispose l’altro
-Ma
sei mio fratello!- si imbronciò il ragazzo e
l’altro sospirò di nuovo inginocchiandosi
davanti a lui
-Voi
siete prima di tutto il re e il fatto che siamo fratelli non conta- gli
spiegò
per la milionesima volta e prima che il giovane potesse ribattere si
rimise in
piedi –ora dovete prepararvi mio re, c’è
un banchetto al quale dovete
presenziare fra meno di mezz’ora e siete ancora in camicia da
notte-
-Va
bene… - borbottò il ragazzo mettendo
però il broncio. Si tolse con un solo gesto
la camicia da notte e la buttò per terra –vado a
farmi il bagno-
-Vi
chiamo le vostre ancelle- disse il fratello mentre usciva dalla stanza
e Monaldo
riuscì appena a trattenersi dal fare strani versi, non gli
piaceva avere delle
ancelle, non gli piaceva che delle ragazze lo toccassero, e poi delle
volte il
suo corpo reagiva in modi strani, che non capiva e che non gli
piacevano. Ma
non poteva rifiutarsi, era normale per un re essere servito in ogni
cosa e suo
fratello si sarebbe molto arrabbiato se avesse mandato via le ragazze.
Argo
teneva molto alle tradizioni e il ragazzo non voleva farlo arrabbiare,
quindi
spesso anche se una cosa non gli piaceva la faceva lo stesso per non
vedere il
fratello arrabbiato con lui. Questo non valeva sulle faccende che
riguardavano
il popolo e il regno, lì suo fratello poteva anche
arrabbiarsi e non parlargli
per settimane ma la cosa importante era che il regno prosperasse.
Monaldo
si lasciò lavare dalle ancelle e per una volta tanto il suo
corpo non gli giocò
strani scherzi, una volta finito le ragazze lo asciugarono e lo
vestirono con
gli abiti che Argo aveva scelto per lui e poi lo pettinarono. Una volta
che fu
pronto ordinò alle ragazze di lasciarlo solo e rimase ad
osservare la propria immagine
riflessa allo specchio. Alle volte, quando si guardava di sfuggita,
quasi non
si riconosceva. Non era mai stato abituato a indossare abiti
così eleganti, a
tenere i capelli così lunghi e a portare la corona in testa.
Essendo il
secondogenito non sarebbe dovuto diventare lui re, quello era il posto
di Argo.
Per questo, sin da piccolo, era sempre stato un po’
trascurato, a lui venivano
dati i vestiti meno belli, quelli meno vistosi, era lui quello che
veniva messo
da parte alle feste e ai banchetti, quello che nessuno notava.
Perché era
piccolo e gracile e alle volte l’avevano persino scambiato
per una ragazza.
Aveva i tratti del viso dolci e gli occhi limpidi e innocenti come
quelli di
ogni ragazzino e di un color azzurro luminoso come i cieli di
primavera, lo
stesso azzurro degli occhi della regina. E poi c’erano i
capelli, quelli che
aveva preso da suo padre, i capelli che prima gli arrivavano solo alle
spalle e
che ora scendevano sinuosi fino alle reni, altro segno della sua
regalità.
Quando ancora era solo il principino
nessuno si sarebbe mai immaginato di vedere il diadema che ora era
sulla sua
fronte: la corona che era stata di suo padre, di suo nonno e di tutti i
suoi
avi. La stessa corona che tutti immaginavano si sarebbe posata sulla
testa di
Argo. Era sempre stato suo fratello l’immagine perfetta del
re. Era alto e con
spalle ampie e un corpo possente, bravo in battaglia, un ottimo
stratega,
vinceva ogni competizione a cui partecipava, cacciava con il falco e
tirava
d’arco senza mai sbagliare, era bravo con i soldi e si
vestiva sempre in
maniera impeccabile. Tanto bello da sembrare un dio, non veniva mai
scambiato
per una ragazza lui. E i suoi capelli sono sempre scesi fino alla
schiena,
brillando dei mille riflessi dell’oro più puro. E
gli occhi! Quegli occhi che
Monaldo aveva sempre ammirato, così pieni di forza,
così fieri e impavidi.
Aveva visto il fratello combattere e soffrire, lo aveva visto ridere e
parlare
con persone molto più grandi di lui. Eppure nessuno sembrava
poter neppure
sfiorare la sua magnificenza, nessuno sembrava in grado di poter
arrivare a
guardare quegli occhi senza dover alzare lo sguardo. Perché
nessuno era tanto
perfetto e regale quanto Argo.
Eppure
era Monaldo che portava la corona e ora Argo era quello che si vestiva
anonimamente,
era lui quello con i capelli corti, non era più il grande
principe che sarebbe
presto diventato re. Era solo Argo, il fratello del re. Monaldo
l’aveva pregato
di non tagliarsi i capelli durante la sua incoronazione ma il fratello
non
l’aveva ascoltato, aveva tagliato quegli splendidi capelli
che il fratellino
gli aveva sempre invidiato, e per quando gli regalasse splendidi
vestiti Argo
andava sempre in giro vestito ai limiti della povertà. Ormai
tutti si
permettevano di guardarlo dall’alto in basso
perché nei suoi occhi era sparita
la fierezza e la forza che lo aveva sempre contraddistinto. E ogni
volta a
Monaldo si stringeva il cuore, non voleva questo per il fratello,
voleva che
fosse felice, che tornasse ad essere quello di prima. Eppure Argo
continuava a
comportarsi come se la sua unica ragione di vita ora fosse servire il
Re, come
se ne fosse diventato il cameriere. Non lo aveva più
chiamato fratello da
giorno dell’incoronazione e non si era più
comportato come tale da allora. E da
quando quella corona si era posata sulla testa di Monaldo il suo cuore
aveva
preso a sanguinare incessantemente, perché gli era stato
donato un regno, un
popolo che lo amava e tante altre cose splendide ma aveva perso i
genitori e
suo fratello non era più suo fratello.