L’ultimo anno è stato pieno di rabbia. Rabbia vera. Potente.
Dolorosa.
Ken e io ci guardavamo scuotendo la testa e chiedendoci cosa
diavolo potesse capitare ancora. Che senso avesse, soprattutto, sforzarsi
di arrivare a quindici anni, se della magia di un incontro lontanissimo non
restavano che mutismi finanche imbarazzanti.
È strano che sia proprio io a rammaricarmene, io che in
questa storia sono arrivato quando forse si era già conclusa. Eppure,
probabilmente, è anche la distanza a darti la lucidità per parlare, perché più
sei coinvolto, meno comprendi la situazione. Forse capire non serve a niente,
oppure ti aiuta a dire la cosa giusta, quando la nave sta colando a picco.
Probabilmente entra in gioco quel che ho già ricordato: il fatto, cioè, sia
amico di tetsu come di haido, dunque li conosca abbastanza per sapere che il
loro destino è racchiuso in un filo doloroso, invisibile ed eterno. Vorrebbero
spezzarlo, ma non potranno mai, resteranno l’uno sempre presente all’altro, in
un gioco di rimandi distruttivi.
L’odio è l’espressione estrema dell’amore, credo. Un
desiderio frustrato che esplode e travolge la tua razionalità. In un’altra vita
– ne sono sicuro – haido era la geisha di un samurai chiamato Ogawa. E non è per
ridere o per promuovere fanservice alternativi: è una chimica che percepisce
solo chi li conosce e sa leggere attraverso i gesti più superficiali. Ma c’era
odio, poi, tra loro? No. Non credo. Le interviste per l’Asashi, in un modo o
nell’altro, erano sincere, come erano sincere le lacrime del Budokan, anche se
le ragioni erano tutte diverse.
Penso che quelle di Ken, in un certo senso, fossero le
migliori: perché erano quelle di uno che dice giustamente: ‘Come cazzo siamo
arrivati a questo punto, se siamo sopravvissuti a tutto?’ Non lo so. Vorrei
trovare una risposta, ma non la possiedo.
Anche per me Niji al Budokan resta quella del ventitre
dicembre del novantasette, il mio primo concerto con i Laruku (io, che non
figuravo neppure tra i componenti), tre ragazzi dati per finiti che registrano
il sold out in quattro minuti. Ecco: l’Iride era quello. Il concerto
dell’haido più ferito e più appassionato, più fragile e più arrabbiato. Il
concerto del ‘Senza le vostre voci, non avremmo mai ritrovato la nostra.’
E poi giù a piangere in camerino, senza il minimo ritegno, perché ovunque ci
sono ancora cosplayer di Sakura, ma quello vero non tornerà più. Momenti
tristissimi e momenti gloriosi, perché tanto intensi da ricordarti cosa è
davvero la vita.
Eppure…
Il duemilaquattro somiglia nel mio ricordo a una specie di
prolungata apnea; si avvertiva una sorta di tacita insofferenza, ma non era
nulla che si palesasse con particolare evidenza.
Dopo il tour solista di fine inverno, la voce di haido ebbe
il crollo definitivo, era rauca in modo persino imbarazzante. tetsu, di quando
in quando, gli allungava stoccate sarcastiche, criminalizzando le immancabili
sigarette. Lo faceva con un sorriso strano, però: come se volesse ripararsi da
brutte risposte e dunque giocare con allusioni dall’ambiguità studiata.
haido – trentacinque anni, marito e padre – prova senz’altro
irritazione nel vedersi ripreso come se avesse vent’anni di meno, ma nicchia.
Tace, è un altro sorriso tirato, un’altra sigaretta. A volte un affondo più
gelido e consistente.
‘Non si lamenta nessuno, se ci sono io al microfono.’
Sa qual è il nervo scoperto di Tetsuya. Sa che è un vocalist
discreto, ma non avrà mai il suo carisma; è meglio che Ogawa se lo ricordi.
Pensandoci bene anche i loro look cambiano. Quello di haido è
rock e aggressivo. Quello di Tetsuya sempre colorato, ma più glamour e
raffinato, è lo stile di un uomo che trasuda sicurezza. La loro opposizione
cresce prima ancora di trasformarsi in un dato scenico rilevante. È una tregua
armata, che rispetta la logica della menzogna di comodo; come le luci si
accendono, tutti sono amici di tutti, perché è così che vuole la Sony, anche se
non ci crede più davvero nessuno.
Nelle pause, haido parlotta al cellulare con suo figlio,
scrive, disegna caricature, fuma in silenzio. È raro vederlo dalle parti di
Tetsuya. È difficile persino dire se sia paura o insofferenza. tetsu è cordiale
e rilassatissimo in apparenza. In sostanza sembra accogliere a propria volta una
strategia di elusione. Se parlano, adottano frasi e sorrisi di circostanza, ma
haido – che abbraccia tutti – non tocca tetsu. E tetsu sembra d’accordo. In
albergo, suite separate per tutti.
haido, poi, bussa da me o da Ken per fare due chiacchiere.
Ogawa non ha bisogno di nessuno.
E non viene mai nominato.
Kitamura regola i toni della keyboard di Hajime, mentre
preparo le basi, e tra una sigaretta e l’altra mi fa capire che siamo vicini
all’esplosione: la tensione è troppa perché non degeneri. Non ha idea di quel
che accadrà, però, perché tetsu non ha perso le staffe in pubblico neppure per
l’arresto di Sakura. haido sarebbe il primo a sperimentare l’ira di Ogawa.
A ben vedere, però, forse haido non aspetta altro.
Era molto difficile spiegare cosa stesse accadendo, perché le
provocazioni più pericolose non sono mai plateali. Potrei dire fossero piuttosto
certi discorsi, montati ad arte per irrigidire o creare imbarazzi. Ad esempio
haido parlava molto di Anis, dei suoi nuovi compagni di squadra, dell’esperienza
inglese e di quella americana, quasi a suggerire che, in fin dei conti, il vero
musicista era chi rischiava e si spingeva oltre il Giappone, non chi si
accontentava di scrivere il motivetto pop della stagione.
Non si direbbe, ma anche haido può diventare caustico e
cattivo. È troppo onesto, tuttavia, perché non si vulneri da solo con una simile
platealità.
Ogawa evitava commenti, accordava il suo basso e limava la
falce della vendetta. Probabilmente è in tale ottica che, complice la mediazione
di Ken, chiese di essere supportato da Sakura per l’ennesimo lavoro solista. Per
quel che mi riguarda, rimasi abbastanza sorpreso, perché Ogawa non aveva mai
nominato Yasunori in nostra presenza, quasi davvero non fosse mai esistito, ma è
nulla in confronto all’espressione che si dipinse sul viso di haido quando lo
seppe.
In qualunque altro contesto suppongo che ne sarebbe stato
felice – Hideto sognava ancora i tempi di Blurry Eyes, a volte – ma visto
lo stato del rapporto, temo che abbia creduto quello di Tetsuya fosse un
tentativo di sabotaggio. Ogawa poteva parlare a Sakura dell’haido peggiore, in
fondo; di quello che per cinque anni l’aveva rinnegato ed era poi andato avanti
per la propria strada.
Ma tetsu era molto più sottile, la sua vendetta era
pacificarsi piuttosto con Yacchan, non demonizzare Takarai. Chiudere i conti con
il passato e basta. Era anche il modo migliore per lasciare Hideto fuori dalla
porta.
haido lo capì? Temo di sì: a partire da quel momento, nei
fatti, l’ostilità non giocò più con gli sguardi.
Arrivarono le parole.
Anche pesanti.
Non era mai capitato – non da quando erano diventati i Laruku
– che tetsu cestinasse intere pagine di liriche di haido, invece lo fece.
All’improvviso non c’era più accordo su niente. All’improvviso sembrava
impossibile che li avessimo trovati una volta a piangere sul divano mentre si
commuovevano per uno stupido cane tedesco.
Un giorno di tarda primavera – si parlava addirittura di
sospendere il lancio di Awake – alle quattro del mattino, haido prese i
pochi effetti personali e lasciò lo studio sbattendo la porta.
‘Trovati un altro vocalist, Ogawa. Che abbia una voce
migliore e ti obbedisca come un cagnolino. Anzi, specchiati, così vai sul sicuro.’
Niente male per un album che doveva parlare di pace, no?
tetsu non è il tipo da mollare l’osso. Gli andò dietro.
Continuarono a litigare in una Tokyo deserta e squallida come sono tutte le
metropoli all’alba. Ken e io li seguimmo, per tamponare quella che aveva tutta
l’aria di un’emergenza – prima che arrivassero alle mani senz’altro, perché a
quel punto non ci sarebbe stato più niente da fare.
Vedemmo haido spingere tetsu e poi allontanarsi dal
marciapiede senza guardare la strada. Ogawa allungò il braccio e lo riafferrò un
attimo prima un grosso camion lo investisse in pieno. Mi tremavano le ginocchia.
Non riuscivo a dire niente. Tetsuya era pallido come un morto.
‘Hai perso una buona occasione, Ogawa. Mi dispiace,’
gli disse invece Hideto.
tetsu gli diede uno schiaffo tremendo, prima di sibilargli un
‘Vattene’ più feroce ancora. E poi rientrare solo nello studio. Solo e
sconfitto come doveva sentirsi in quel momento, anche se, a ben vedere, la
realtà era molto più complicata.
Quello era il punto più basso della parabola; non potevamo
colare più a picco di quanto non fosse capitato.
Il giorno dopo, nondimeno, haido gli chiese scusa. Tetsuya
accolse il pentimento senza infierire e senza fare storie. Riprendemmo a
lavorare come se nulla fosse accaduto, perché avevamo tutti una gran voglia di
dimenticare.
Il duemilacinque fu un anno strano, e un anno disgraziato.
Quelle del Budokan, almeno, furono pure e semplici lacrime di sollievo.
Giravamo il PV di Link e Ken si ruppe un piede.
D’accordo. Tanto la chitarra si suona con le mani.
Poi mi ammalai io. Un’influenza come non ne avevo mai avute
in tutta la mia vita. Slittò qualche data, ma non era la fine del mondo.
Mancava poco meno di un mese al tour, e toccò a haido.
‘È luglio! Spiegami come puoi ammalarti anche a luglio!’
fu tutto quel che gli disse Ogawa. Se conosco haido, poco ma sicuro, ci ha
pianto dal dispiacere per una settimana abbondante.
La verità è che eravamo a pezzi, tutti quanti. Avevamo
lavorato troppo e male, soprattutto. Senza la minima complicità, il gioco
diventava un calvario che spezzava davvero le ossa. Anche tetsu se ne accorse,
perché non venne risparmiato da una jattura che pagò con una significativa
gastroenterite. Mi era già capitato di affrontare tour carichi di tensione e
qualche malumore; mai, tuttavia, di vedere quel che capitò per l’Awake.
haido, che sul palco aveva sempre cercato Tetsuya almeno una
volta, non si avvicinò mai al suo angolo, ma seguitò a recitare unicamente se
stesso.
Era HYDE, non hyde: al di là delle ragioni grafiche, era un
intero universo capovolto.
Infine l’ultimo giorno.
Al Budokan, proprio là dove si sono reincarnati.
haido passeggia per il palco deserto. Una sigaretta accesa,
l’aria assente. Pensa a quanto gli tremavano le ginocchia quel ventitre
dicembre, ma ricorda di sicuro anche il braccio di tetsu, protettivo contro le
sue spalle. La sua voce tranquilla, mentre gli assicura che è bravo, carino
carino – anche se sembra un deportato. Ma non glielo dice – e che andrà tutto
alla perfezione.
Non si fida più di lui?
haido ricorda e quasi non riesce a respirare, perché sembra
impossibile che sia accaduto proprio quello, proprio a loro due: di
odiarsi, non parlarsi e trovarsi poi rinchiusi tra mura di impenetrabile
silenzio.
Dall’altro lato del palco, un ragazzo che conosce bene misura
i propri passi e forse sta pensando la stessa cosa. Guarda il Budokan, lo vede
come quella sera di dicembre e di emozioni amare, e non lo riconosce.
Non si riconosce, soprattutto.
All’improvviso non gli importa più di avere torto o ragione,
perché sa pure che quella non è una guerra. È qualcosa di peggio. È il
tradimento sottile e cattivo di tutti i sogni che ha costruito.
tetsu raggiunge haido al centro del palco. Sono vicini come
mille altre volte. Come in mille altre prove. Non gli dice di spegnere la
sigaretta. Non fa neppure il leader, a ben vedere. Nel punto zero della loro
storia, tornano piuttosto indietro all’autunno del millenovecentonovanta, quando
il sogno cominciò davvero.
‘Almeno per questa sera facciamo una tregua,’ gli
dice.
haido pensa che gli abbia letto nel pensiero e annuisce. Gli
perdona anche il polpo alla coreana, già che c’è; in fin dei conti non faceva
neppure particolarmente schifo. E poi chissà, forse è stato tetsu a coprirlo,
mentre dormiva in aereo, il che vuol dire che la realtà è daltonica come i suoi
occhi.
Piena di grigio e di amarezza.
Tregua.
Non durerà per sempre, però.
haido apre le braccia e canta Niji come otto anni fa,
davanti allo stesso pubblico che grida e non capisce tutto quel che implica una
bella canzone. Sa che piangerà come al solito, perché ogni nota è un rimpianto.
Sa che piangerà pure tetsu, e forse questa emozione è l’unico
filo che li lega ancora.