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Autore: AbdullallaH    02/12/2010    1 recensioni
♪♫ Ogni rosa ha le sue spine, proprio come ogni notte ha la sua alba, proprio come ogni cowboy canta la sua triste, triste canzone... ♫♪
Katherine, detta Kate. Sedici anni, un'adolescente come tante. Chiacchiera, sorride, si innamora, studia, diventa triste. Così triste che a volte, l'unica cosa che la fa stare bene non è la cioccolata, bensì una lametta...
-E' la storia di un periodo della mia vita, iperbolicamente riportata su un foglio di Word-
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Every rose has its thorn
1.

 
Lo aveva rifatto. Per l’ennesima volta. Si era ripromessa che non avrebbe più permesso a se stessa di perdere ancora una volta il controllo. E non c’era riuscita. Di nuovo, non c’era riuscita.
Senza nemmeno rendersene conto, aveva preso di nuovo quella dannatissima lametta e aveva lasciato che scorresse sul suo braccio, in profondità, ma non abbastanza da farla morire dissanguata. Perché non aveva intenzione di morire. Voleva vivere e stava provando con tutte le sue forze a farcela, ad andare oltre. Tentava di sopravvivere, giorno per giorno. Anche se sopravvivere non bastava e lei lo sapeva. Kate aveva bisogno di vivere.
E mentre aspettava un buon motivo per farlo, il sangue colava sul braccio sinistro e qualche goccia cadeva sul pavimento del bagno, silenziosa. Un fiume di lacrime inondò i suoi occhi e inziò a scorrere lento, inesorabile.
Il mondo si fermò per qualche istante, fino a che Kate non decise di prendere la pezza che usava sempre e tamponare il sangue dai due tagli che si era appena inflitta. Fece parecchia pressione, fino a che il liquido rosso non smise di uscire e inondare quel pezzo di stoffa che tanto, troppo tempo fa, era bianco. Poi lo passò sulle piastrelle del pavimento che aveva macchiato, si alzò e appurò di non essersi sporcata i vestiti. Fissò il suo riflesso nello specchio e vide due splendidi occhi blu, che le stavano chiedendo pietà e le promettevano, ancora una volta, che quella sarebbe stata l’ultima, che i tagli che in quel momento erano freschi sul suo braccio sarebbero stati gli ultimi di una lunga serie, ma pur sempre gli ultimi. Vide due occhi blu gonfi di pianto, ma pur sempre bellissimi.
Controllò ancora una volta che le ferite avessero smesso di sanguinare e abbassò la manica blu della maglia, quella che aveva comprato una settimana prima dopo essersi resa conto che i colori chiari non nascondevano affatto le sue cicatrici. Prese il suo inseparabile fazzoletto inzuppato di sangue vecchio e nuovo, lo piegò in quattro, nascose in mezzo la lametta, l’arma di quello che le sembrava un omicidio, un delitto per cui avrebbe dovuto pagare caro. Dopodiché, ripose il tutto in una bustina di plastica verde smeraldo e uscì da bagno, per dirigersi in camera sua. Aprì meccanicamente l’armadio e senza nemmeno pensare nascose a dovere la busta verde nelle tasche di un vecchio cappotto che era ancora lì appeso da tempo. Era suo, di quando era più piccola. Un bel cappotto rosa confetto, di quelli invernali e super-imbottiti, che ti fanno sentire ingombrante solo a vederlo. Aveva due stelline ricamate sulla destra, d’oro, e un bottone era stato colorato di nero, anni prima. Aveva sempre odiato quel cappotto da bambina.
Da bambina, appunto.
 
Tornò in bagno sospirando e sentendosi uno schifo. La casa era deserta, non aveva nemmeno il bisogno di chiudersi a chiave. Era sola.
“Ormai quel ch’è fatto, è fatto” pensò, pentita. Si spogliò, togliendosi delicatamente la maglia e infilandosi il pigiama. Prese l’acqua ossigenata e si disinfettò la ferita.
Decise di bendarla. Giusto perché il giorno dopo avrebbe avuto educazione fisica e per una volta voleva sentirsi normale e potersi permettere anche lei di indossare una t-shirt, che le lasciasse scoperte le braccia. Cercò le garze come una disperata e quando finalmente le trovò, fece fatica a fasciarsi il braccio con l’aiuto di una sola mano.
Dopo qualche tentativo, l’impresa era compiuta.
Tornò in salotto e poggiò lo zaino sul divano. Un semplice e anonimo Eastpack viola. Inziò a svuotarlo dei libri che non le sarebbero serviti e a infilare quelli delle materie del giorno successivo. La Divina Commedia, il libro di inglese e quello di biologia, i fogli e le matite da disegno.
Il cellulare improvvisamente prese a vibrare.
« Tesoro, sei ancora sveglia? », domandò sua madre immediatamente.
« Stavo finendo di preparare la cartella, poi sarei andata a letto ».
« D’accordo. Tutto a posto? »
« Certo mamma, che dovrebbe succedere? Non preoccuparti. Serata tranquilla in ospedale? »
« Un paio d’interventi d’urgenza, ma niente che mi possa tenere lontana dal letto ancora a lungo. Spero, almeno. In un paio d’ore può succedere di tutto! Scusa piccola, devo scappare. Ti mando un messaggio se non dovessi riuscire a tornare a casa, ok? »
« Okay mamma. Buon lavoro! »
« Buonanotte Kate. Ti voglio bene »
« Anche io », la salutò sorridendo.
Spense il cellulare e lo appoggiò al comodino, pronto per essere usato a mo’ di sveglia. Si mise nel letto e si coprì con il piumone fino al collo, lasciando il braccio sano fuori da quella sorta di nido in cui si sentiva al sicuro e protetta.
Prima di spegnere la luce, alzò la manica destra e fissò per qualche istante tutte le cicatrici che ormai erano bianche, quelle ancora rosse tutt’intorno e i due nuovi tagli.
Sospirò ancora una volta. Poi spense la luce, chiuse gli occhi e si abbandonò al mondo dei sogni.
  
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