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Autore: ballerinaclassica    23/12/2010    3 recensioni
Le note a fondo pagina sono esteticamente poco piacevoli, le virgole stanno diventando troppe e il mio psicologo vuole questo maledetto diario completo e pieno di affettuosità da dar la nausea entro il prossimo anno.
Mi sento in trappola, e dire che stavo cercando di smettere di bere!
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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15 Aprile 2010, cucina


A volte, se devo essere sincero, trovo che tornare a casa stremato per il troppo lavoro sia una magra consolazione. Sei sollevato, la giornata è appena finita e sai di aver adempito ai tuoi doveri, che a fine mese sarai pagato e scoprirai con piacere che hai almeno una trentina di dollari di mancia a disposizione per andare a comprare qualcosa come un videogioco.
Stamattina mi sono svegliato con questi pensieri positivi, ho sorriso mentre mi radevo e poi ho portato Puck a fare una passeggiata.
I newyorchesi bisogna averli davanti in carne e ossa per capirli, e possibilmente fermi, dato che hanno la strana abitudine di correre costantemente con il caffè in mano – e quando ti urtano rischi un'ustione di quinto grado. E stamattina, essendo di buon umore, ne ho osservati un paio.
C'era un uomo piuttosto grasso che stava in piedi accanto a me mentre compravo la colazione e Puck mi guardava in silenzio, e augurandosi che mi dessi una mossa (lui era legato fuori). L'uomo mi guardava e non faceva assolutamente niente per nasconderlo, non ho la più pallida idea di che cosa volesse da me, ma all'inizio ho pensato che il motivo fosse la canzone che cantavo mentre sono entrato. Era un vecchio brano di Iggy Pop che avevo sentito durante qualche pubblicità e al quale sono stato costretto a cambiare le parole, perché non ne ricordo quasi nessuna. Ad ogni modo, l'uomo grasso mi guardava, e a un certo punto l'ho guardato anche io, subito dopo aver pagato la colazione, e lui ha distolto lo sguardo, quasi come se lo avessi all'improvviso messo in imbarazzo. Una volta fuori, Puck ha cominciato a scodinzolare, vicino a lui c'era una ragazza. Aveva i capelli rossi e non doveva essere americana, dato che quando le ho chiesto se le piacesse il mio cane lei ha sorriso ed è andata via. Mentre camminava continuava a voltarsi indietro e a guardarci, io con il sacchetto della colazione in mano e Puck seduto per terra, che abbaiava.

Questi due incontri mi hanno ricordato qualcosa che successe circa un anno e quattro mesi fa, quando ero appena laureato e nutrivo le migliori speranze del mondo, illudendomi di trovare al più presto un lavoro prestigioso. Purtroppo però erano già due mesi che non venivo contattato da nessuno, e in cuor mio credevo che sarei rimasto disoccupato a vita (come effettivamente succede tutt'ora). L'unica a consolarmi sembrò essere Brett, che ogni giorno telefonava e chiedeva informazioni, aggiungendo poi che tutti erano così presi dal mio curriculum brillante che volevano rileggerlo di nuovo prima di avere il piacere di conoscermi di persona. Non sono mai stato così stupido da credere a quello che mi racconta Brett, quando avevo nove anni le ho anche scritto un elenco di prove secondo le quali, a mio parere, Babbo Natale non esistesse.
Un giorno, comunque, la fatidica telefonata arrivò. Avevo avuto lavoro come supplente in un liceo che si trovava lungo l'Ottantesima Strada, non seppero dirmi altro, solo che l'edificio era rosso e che stava vicino a “quella vecchia casa che era andata a fuoco durante la seconda guerra mondiale, quella con la scala antincendio tutta storta e i graffiti sopra”. Trovare il liceo fu un'impresa ardua, naturalmente.
Quando finalmente ci riuscii, non ero più in me dalla gioia. Era la prima volta che lavoravo e che mi sentivo utile dopo la morte di Matthew, alla quale era seguito un periodo di crisi mistica e di numerose difficoltà negli studi che avevo superato soltanto dopo l'inizio delle sedute.
Ad ogni modo, entrai in quella scuola e andai nell'ufficio del direttore con dieci minuti di anticipo, per fare una bella impressione, ma lui sembrò invece infastidito, dato che si ritrovò a dover interrompere bruscamente una telefonata. Io però non avevo nessuna fretta, anzi, mi sarebbe piaciuto rimanere in quell'ufficio in silenzio mentre lui parlava al telefono per poter leggere quello che c'era scritto su tutte le targhe. Inoltre c'era un buon profumo di pulito e il condizionatore era acceso e sentivo l'aria fresca direttamente sulla nuca.
Mi consegnò il programma da svolgere in tre settimane, facendomi capire che il mio compito, più che altro, era quello di evitare che la classe degenerasse durante l'assenza per malattia del loro vero professore di chimica.
- Ed è libero di scegliere se interrogare o meno, al suo ritorno il professor Collins si occuperà dei voti e delle valutazioni vere e proprie – disse.
Non mi sembrava un problema, anzi, a dirla tutta in quel momento credevo di avere il mondo in mano. Per quanto ogni volta, durante l'università, mi ripetessi che il mio destino non doveva essere quello di professore, quel giorno mi sentii Dio. In realtà mi affascinava il potere che avrei potuto esercitare, per quanto il ragionamento possa sfiorare l'assurdo.
Fare il professore a mio parere implica sapere molte cose, ma contemporaneamente anche non essere in grado di saperne altre, e per questo motivo non mi piace insegnare, né mi è mai piaciuto. Sono consapevole del fatto che al di là della fisica nucleare, di un'infarinatura di geografia astronomica e delle conoscenze che ho cercato di ricevere da solo dalla lettura di qualche filosofo (la maggior parte del buon vecchio Soren K. e di quel simpaticone di Kafka) c'è ancora molto da imparare. Ad esempio non ho mai saputo quale sia la capitale dell'Eritrea. A dire il vero non sono nemmeno sicuro di conoscere i miei polli abbastanza bene. Per spiegarmi, riguardo la chimica inorganica so talmente tante cose che potrei mettere da parte il mio racconto e cominciare a parlare di lunghezza d'onda, orbitali, calcoli stechiometrici o entropia, ma non lo farò (con vostro grande rammarico!), nonostante ciò ho la sensazione di essere una specie di giocoliere che tiene una palla sulla fronte, con sopra un candelabro, con sopra un vassoio di cristallo, con sopra un set di tazze in porcellana piene di tè alla vaniglia. Da un momento all'altro un quindicenne che ha appena studiato la liquefazione dei gas potrebbe venirmi a fare una domanda alla quale non so rispondere, mentre lui, invece, sa esattamente di che cosa si tratti, e io verserei tutto il contenuto delle tazzine e farei cadere tutto il resto. Per questo non ho mai voluto fare il professore, perché il tè alla vaniglia mi piace veramente molto e preferirei non sprecarne nemmeno una goccia.
Quando entrai per la prima volta nell'aula pensai di essere nudo o di avere qualche bottone dei pantaloni aperto, come minimo, ma dopo un'occhiata furtiva mi accorsi che non era assolutamente così.

A questo punto dovrei sacrificare il mio pranzo caldo e mettermi a scrivere un paio di paragrafi riguardanti il mio aspetto fisico, dato che non vorrei mai restare un anonimo scrittore in erba che ha avuto problemi con l'alcool e vanta migliaia di aneddoti divertenti, carini o almeno in parte misteriosi sulla sua famiglia e su lui stesso. (Non che io abbia voglia di descrivere il mio aspetto fisico, sia chiaro, anche perché sono una persona – quasi – perfettamente nella norma, ma ho l'intenzione non solo di farvi capire che faccia abbia, ma anche di dare a questo racconto semi-diaristico una precisa indicazione spazio-temporale. Sono nella mia cucina, alle tre del pomeriggio, seduto a tavola e rinuncio a mangiare un pasto adeguatamente caldo pur di aggiungere qualcosa a questa pagina).
Cercherò di dare una visione più esauriente possibile di me, occupando soltanto un paio di paragrafi e senza usare troppi capoversi (io odio i capoversi).
Se dovessi partire dai capelli, comincerei col dire che non ho dei capelli particolari, eccetto forse il loro colore, ma che ho dei capelli del tutto nella norma, che crescono lentamente e che il barbiere (il buon vecchio Marcus) taglia con un'inefficienza disarmante, tuttavia non ho il coraggio di abbandonare la sua adorabile bottega. Sono di un colore rossiccio, tendente al biondo, un colore che, se fossi alto un metro e novanta, mi farebbe sembrare un idiota. Fortunatamente (forse) non sono alto un metro e novanta, e nemmeno un metro e ottanta, quindi i capelli potrebbero passare anche inosservati, in una folla numerosa. Le origini scozzesi della mia famiglia purtroppo non ci perdonano per aver lasciato la Terra Madre più o meno una cinquantina di anni fa, e credo che ci perseguiteranno per almeno altre dieci o undici generazioni. Forse la calamità degli antenati infuriati si è abbattuta su di me tramite le mani di Marcus, che ogni volta riesce a storpiarmi la linea sulla nuca che di regola dovrebbe essere dritta e parallela alle spalle.
Una volta ho cercato di spiegargli di fare attenzione, ma lui non sembra ascoltarmi, e quindi è andato avanti imperterrito e per la sua strada. Dietro di noi c'era un signore che aspettava il suo turno, era molto silenzioso, ma continuava a sorridere come se guardare Marcus che mi piegava la testa da una parte all'altra a suo piacimento e senza la minima preoccupazione di essere violento o meno fosse la cosa più divertente del mondo. Ma forse lo era per davvero.
Il colore rosso dei capelli ho la fortuna di condividerlo con molti membri della mia famiglia, i quali sembrano andarne fieri o (nel caso delle ragazze soprattutto) vergognarsene da morire. Una volta Bessie è veramente “morta” per un'osservazione sui suoi capelli da parte di una di quelle zie vecchie e con l'alito puzzolente, quelle un po' cretine e che sbagliano sempre i nomi dei nipoti. Se non sbaglio era la sia Margareth, la sorella del padre di Montag, cioè la sorella di mio nonno.
Io avevo circa cinque anni e Bessie tredici, eravamo educatamente seduti sul divano del salotto, e qualcuno tra i numerosi fratelli invece se ne stava (per questioni di spazio) a gambe incrociate sul pavimento ai nostri piedi. Insomma, eravamo tutti lì a fissare il parentado schierato in casa nostra e a un certo punto questa zia con l'alito puzzolente se ne uscì chiedendo a Bessie perché mai alla sua età tingesse i capelli in quel modo. Bessie ebbe la tipica reazione che hanno tutte le ragazze a un complimento mancato, una specie di crisi cardiaco-respiratoria di circa mezzo minuto e poi di nuovo un atteggiamento di semi-normalità tradito soltanto ogni tanto da qualche occhiataccia alla zia Margareth o alle punte dei suoi stessi capelli che arrivavano oltre la spalla.
Bessie non ha avuto la brillante idea di cambiare colore di capelli come ha fatto Carla, sono ancora rossi e luccicanti, lunghi, lisci e appariscenti. Se devo essere sincero, penso che Bessie non sia quel genere di persona alla quale i capelli rossi donano (nemmeno io credo di esserlo, ma differentemente da lei nessuno fa mai troppo caso ai miei capelli). Lei è molto alta, quasi come lo era Montag, e quindi quando cammina per strada a me dà quasi l'idea di un semaforo. Una volta ho provato a accennarle di questa mia impressione e a cercato di uccidermi con la forza del pensiero. L'unico risultato che ottenne fu un mio acuto attacco di tosse, ma la cosa sembrò soddisfarla comunque.
Anche Michael, Oliver, Andrew e Carla hanno (o hanno avuto) i capelli rossi, sebbene Carla si sia liberata in fretta di quel tocco scozzese con una buona tintura biondo cenere.
A Michael i capelli rossi danno un'aria vissuta, che abbinata al tartan delle occasioni speciali lo fa sembrare meraviglioso agli occhi di Brett (che se ne tornerebbe volentieri a Eyemouth, in Scozia, se un esercito di figli - e di nipoti - non la tenesse ancora inchiodata negli Stati Uniti alla ricerca di affetto filiale e tanta, tantissima affettuosità, così tanta da dare il voltastomaco). A Oliver danno un'aria un po' stralunata, dato che sembra non avere mai tempo per pettinarli (ho anche la vaga impressione che nella sua massa di capelli nasconda anche un'edizione tascabile di Wordsworth) perché è sempre molto impegnato a pensare agli scempi che scrivono i suoi alunni sui compiti in classe (Shelley si starà rivoltando nella tomba adesso, dice sempre). Andrew sembra fiero quanto Michael della sua capigliatura, probabilmente perché Andrew più di tutti gli altri desidera farsi notare.
Una volta stavo camminando con lui lungo Broadway e a un certo punto, arrivati all'altezza del giornalaio da cui ci fermiamo praticamente ogni mattina, Andrew si è bloccato sul marciapiede con lo sguardo rivolto al lato opposto della strada. Ahimé, riuscii subito a notare il cosiddetto sguardo da giovane scout che riesce ad accendere un fuoco da campo usando i bastoncini, altrimenti definito “sguardo Eureka”. Ad Andrew bastò attraversare la strada affinché fosse notato anche lui dal ragazzo che aveva puntato, i suoi capelli col sole bruciavano alla stessa maniera di un solido incandescente del quale non mi metterò a spiegare le proprietà chimico-fisiche, sebbene so che ci sia gente curiosa di conoscerle. Il “gayometro” di Andrew, abbinato ai capelli rossi e alla sua faccia tosta, ha un effetto strabiliantemente immediato, e probabilmente dovrei smettere di parlare della sua omosessualità come se si trattasse di una voglia a forma di Texas che ha sul palmo della mano, ma non riesco a farne a meno (e dubito che ci riuscirò, quindi penso di voler continuare a non avere peli sulla lingua).
Ad ogni modo, dopo i capelli, i Pattinson possono vantare una larga scelta di occhi blu notte, che a detta di mia madre altro non è che il meraviglioso colore del mare all'altezza dell'orizzonte. Io continuerò a chiamarli “occhi blu notte” e basta.
Secondo il mio parere, gli occhi più belli di tutta la famiglia sono quelli di Claire, sono profondi e le danno un aspetto intelligente, nonostante abbia la strana e forse un po' odiosa abitudine di sbattere continuamente le palpebre e far così fluttuare le sue lunghe ciglia biondastre. Una volta Claire, quando poteva avere poco più che cinque o sei anni, seduta sulle ginocchia dello zio Seymour, cominciò a sbattere le palpebre, e mentre sbatteva le palpebre spiegava al vecchio Seymour (allora poco più che trentenne) che cosa dovesse fare per conquistare la signorina che lavorava alle poste e cominciò ad elencare gli orari della signorina e i giorni in cui lavorava, quelli in cui pranzava velocemente e quelli in cui preferiva andare a mangiare qualcosa di caldo. Non so per quale strano motivo Claire avesse tutte quelle informazioni a sua disposizione, da servire su un piatto d'argento, ma in famiglia siamo abituati, chi più chi meno, alle assurdità più disparate, come la passione sfrenata che Matthew aveva per il giallo, tanto da dipingere le pareti della camera che divideva con Michael di quel colore e comprare mobili affini.
Mi spiace dover essere poco gentile e galante con le altre signore della famiglia, ma credo di dover ammettere che al nostro fratello maggiore spetta il secondo posto in quanto a “miglior paio di occhi blu notte firmati famiglia Pattinson”. Gli occhi blu notte di Michael riescono a esprimere in una maniera incredibile il maggior numero di emozioni possibile come se l'incertezza, la malinconia, il sentimentalismo, l'affetto, la paura, la tristezza e la felicità siano le cose più normali del mondo e possano coesistere con tanta facilità quanta ne può esprimere un quaterback che ha appena fatto Touch Down a tre minuti dalla fine della partita. Quel furbacchione di Nicholas Sparks cerca sempre di descrivere nelle sue opere gli occhi del nostro Michael, ovviamente senza riuscirci... Con questo vorrei specificare che io non leggo Nicholas Sparks, ma mi è capitato un paio di volte di leggere la trama dei suoi libri abbandonati sul comodino di Andrew. Lui è un romanticone.
Ho un crampo alla mano, credo di essermi addentrato fin troppo nella mia descrizione fisica senza venirne a capo. Per ora le uniche cose di cui vi ho messo a conoscenza sono capelli rossicci e gli occhi blu notte.
Potrei passare ai vestiti, ma è un tasto delicato e che vorrei riserbare per ultimo.
Okay, il naso.
Non posso descrivere chiaramente la totalità dei nasi Pattinson, perché non c'è un naso che somigli ad un altro nella nostra famiglia. Diciamo che alcuni derivano dal nasino di Montag, altri da quello di Brett, che non è altrettanto piccolo (e poi c'è quello di David, che è un po' storto da un lato a causa di una mazza da baseball contro la quale è andato a sbattere. Esatto. Non è stata la mazza da baseball a colpirlo, ma lui a colpire lei. Stava uscendo di casa, e Oliver si stava allenando per la sua primissima partita con la squadra della sua scuola. Aveva la mazza da baseball a mezz'aria, immobile, e David era terribilmente in ritardo – a casa nostra nessun è mai in ritardo, ma sono tutti terribilmente in ritardo – e a un certo punto se ne va a sbattere contro la mazza da baseball di Oliver mentre stava correndo verso la porta. A dispetto di quello che diceva Montag – che non era nulla di grave, David era un ragazzone, che cosa poteva mai succedere? - il setto nasale era andato completamente). Chiusa questa piccola parentesi vorrei scusarmi con tutti i lettori (dubito che ce ne saranno, ma ho bisogno di qualcuno al quale rivolgermi prima di sentirmi troppo solo... E no, Puck sta dormendo e non voglio svegliarlo, altrimenti sarebbe perfettamente normale rivolgermi a lui) per aver abusato della vostra pazienza, in cambio ho da offrirvi questo asterisco fatto col cuore: * Spero che lo accettiate come segno della mia gratitudine, oltretutto.
Continuando con questo benedetto naso, devo dire che ne sono abbastanza soddisfatto. Qualche volta ho letto su una rivista per donne (stessa coincidenza che vale per i libri di Sparks) che deve esserci una certa distanza tra il naso e gli occhi e tra il naso e la bocca. Ecco, io l'ho misurata e c'era, checché voi ne diciate, quella distanza c'era. È un naso discreto, molto simile a quello di Montag, a quanto ho potuto notare dalle foto, l'unica differenza in quanto a larghezza, lunghezza e contorni tra i nostri nasi sta in una leggera curvatura all'insù del mio, che mi aiuterà ad introdurre il tratto morfologico che segue.
I denti.
Solitamente i denti non sono una parte del corpo degna di nota, dato che a nessuno salterebbe mai di descrivere i propri denti come se si trattasse di qualcosa di speciale, tanto meno io. Ma dovete sapere, semmai un giorno io dovessi incontrarvi sull'autobus, che ad eccezione di un orecchio che sporge leggermente più dell'altro non c'è nulla di sproporzionato nel mio viso, a meno che io non sorrida. La verità è che non ho mai capito per quale assurdo motivo io sia l'unico esemplare di Pattinson che vanti gli incisivi più grandi del mondo, dritti, ma comunque grandi. Brett mi dice che un suo prozio trasferitosi in Australia durante la guerra aveva dei denti grandissimi e una mascella quadrata che gli dava un'aria da duro. Io non ho una mascella quadrata, né un'aria da duro, ma solo dei denti grandissimi.
Una volta Bessie mi disse che ho un sorriso disarmante e adorabile. Non ci credo, una donna che si crede mukta, il saggio illuminato, colui che vede Dio, e poi manda le cartoline di Natale con le foto della sua famiglia non è una fonte attendibile.
Nella speranza che abbiate colto aspetto e dimensione (l'avete colta, oh, se l'avete colta!) dei miei denti, passerei a descrivere quello che per la famiglia Pattinson è un elemento imprescindibile, i vestiti.
Brett ha sempre avuto la straordinaria dote di riuscire a vestire più che dignitosamente ognuno dei suoi pargoli, più precisamente di vestirli in un vecchio negozio dall'aria rispettabilissima che si trova lungo Greenwich Street. Era ed è tuttora un negozio praticamente minuscolo, ma tutto quello che c'era lì dentro assecondava alla perfezione i gusti di Brett, tanto da diventare cliente abituale negli anni compresi tra il 1979 e il 1999.
Brett non ha mai trascurato nessuno dei suoi figli, ma all'età di tredici anni ognuno di noi (più per evitare un esaurimento nervoso a nostra madre che per altro) ha cominciato a ricevere una paghetta fissa che dovevamo usare responsabilmente e cioè per comprare abiti quanto più simili a quelli scelti da Brett in persona.
Ovviamente qualche strappo alla regola fu d'onere per ognuno, e cominciò con la giacca di pelle alla Top Gun di Michael, per continuare con la cravatta color zafferano di Matthew, il vestito di tulle rosa che aveva scelto Bessie per il suo primo ballo scolastico di fine anno, la cintura di borchie di Carla, la maglietta attillata e color oro che Andrew sfoggiava con un certo orgoglio.
Alla fine però ognuno sceglieva per suo conto degli abiti meravigliosi, ma a nessuno riuscivano ad adattarsi mai perfettamente addosso. Le giacche di David erano sempre troppo strette sulle spalle, il mio doppio-petto era troppo lungo, Claire doveva riempire di ovatta le sue scarpe col tacco, Matthew, per quanto fosse fortunato nel trovare vestiti della sua taglia, dimenticava di abbottonarsi completamente i pantaloni suscitando risatine tra le ragazze che lo vedevano in piedi nella metropolitana. La verità è che nessuno si prendeva mai la briga di misurare, come invece Brett ci aveva costretto a fare, ciò che comprava. Oliver scappava via dal negozio con il suo abito nuovo di zecca addosso e i segni del gesso sul risvolto dei pantaloni.
Mi piacerebbe tanto descrivere anche il modo in cui ero vestito io la mattina del mio primo giorno lavorativo (il racconto del primo giorno lavorativo è ormai concluso, la mia era soltanto una specie di paternale mal riuscita sul lavoro di professore), ma ho seriamente un crampo alla mano, seriamente. Torno tra cinque minuti.

   
 
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