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Aprile 2010, cucina
A volte, se devo essere sincero, trovo
che tornare a casa stremato per il troppo lavoro sia una magra
consolazione. Sei sollevato, la giornata è appena finita e
sai di
aver adempito ai tuoi doveri, che a fine mese sarai pagato e
scoprirai con piacere che hai almeno una trentina di dollari di
mancia a disposizione per andare a comprare qualcosa come un
videogioco.
Stamattina mi sono svegliato con questi pensieri
positivi, ho sorriso mentre mi radevo e poi ho portato Puck a fare
una passeggiata.
I newyorchesi bisogna averli davanti in carne e
ossa per capirli, e possibilmente fermi, dato che hanno la strana
abitudine di correre costantemente con il caffè in mano
– e quando
ti urtano rischi un'ustione di quinto grado. E stamattina, essendo di
buon umore, ne ho osservati un paio.
C'era un uomo piuttosto
grasso che stava in piedi accanto a me mentre compravo la colazione e
Puck mi guardava in silenzio, e augurandosi che mi dessi una mossa
(lui era legato fuori). L'uomo mi guardava e non faceva assolutamente
niente per nasconderlo, non ho la più pallida idea di che
cosa
volesse da me, ma all'inizio ho pensato che il motivo fosse la
canzone che cantavo mentre sono entrato. Era un vecchio brano di Iggy
Pop che avevo sentito durante qualche pubblicità e al quale
sono
stato costretto a cambiare le parole, perché non ne ricordo
quasi
nessuna. Ad ogni modo, l'uomo grasso mi guardava, e a un certo punto
l'ho guardato anche io, subito dopo aver pagato la colazione, e lui
ha distolto lo sguardo, quasi come se lo avessi all'improvviso messo
in imbarazzo. Una volta fuori, Puck ha cominciato a scodinzolare,
vicino a lui c'era una ragazza. Aveva i capelli rossi e non doveva
essere americana, dato che quando le ho chiesto se le piacesse il mio
cane lei ha sorriso ed è andata via. Mentre camminava
continuava a
voltarsi indietro e a guardarci, io con il sacchetto della colazione
in mano e Puck seduto per terra, che abbaiava.
Questi due
incontri mi hanno ricordato qualcosa che successe circa un anno e
quattro mesi fa, quando ero appena laureato e nutrivo le migliori
speranze del mondo, illudendomi di trovare al più presto un
lavoro
prestigioso. Purtroppo però erano già due mesi
che non venivo
contattato da nessuno, e in cuor mio credevo che sarei rimasto
disoccupato a vita (come effettivamente succede tutt'ora). L'unica a
consolarmi sembrò essere Brett, che ogni giorno telefonava e
chiedeva informazioni, aggiungendo poi che tutti erano così
presi
dal mio curriculum brillante che volevano rileggerlo di nuovo prima
di avere il piacere di conoscermi di persona. Non sono mai stato
così
stupido da credere a quello che mi racconta Brett, quando avevo nove
anni le ho anche scritto un elenco di prove secondo le quali, a mio
parere, Babbo Natale non esistesse.
Un giorno, comunque, la
fatidica telefonata arrivò. Avevo avuto lavoro come
supplente in un
liceo che si trovava lungo l'Ottantesima Strada, non seppero dirmi
altro, solo che l'edificio era rosso e che stava vicino a
“quella
vecchia casa che era andata a fuoco durante la seconda guerra
mondiale, quella con la scala antincendio tutta storta e i graffiti
sopra”. Trovare il liceo fu un'impresa ardua, naturalmente.
Quando
finalmente ci riuscii, non ero più in me dalla gioia. Era la
prima
volta che lavoravo e che mi sentivo utile dopo la morte di Matthew,
alla quale era seguito un periodo di crisi mistica e di numerose
difficoltà negli studi che avevo superato soltanto dopo
l'inizio
delle sedute.
Ad ogni modo, entrai in quella scuola e andai
nell'ufficio del direttore con dieci minuti di anticipo, per fare una
bella impressione, ma lui sembrò invece infastidito, dato
che si
ritrovò a dover interrompere bruscamente una telefonata. Io
però
non avevo nessuna fretta, anzi, mi sarebbe piaciuto rimanere in
quell'ufficio in silenzio mentre lui parlava al telefono per poter
leggere quello che c'era scritto su tutte le targhe. Inoltre c'era un
buon profumo di pulito e il condizionatore era acceso e sentivo
l'aria fresca direttamente sulla nuca.
Mi consegnò il programma
da svolgere in tre settimane, facendomi capire che il mio compito,
più che altro, era quello di evitare che la classe
degenerasse
durante l'assenza per malattia del loro vero professore di chimica.
-
Ed è libero di scegliere se interrogare o meno, al suo
ritorno il
professor Collins si occuperà dei voti e delle valutazioni
vere e
proprie – disse.
Non mi sembrava un problema, anzi, a dirla
tutta in quel momento credevo di avere il mondo in mano. Per quanto
ogni volta, durante l'università, mi ripetessi che il mio
destino
non doveva essere quello di professore, quel giorno mi sentii Dio. In
realtà mi affascinava il potere che avrei potuto esercitare,
per
quanto il ragionamento possa sfiorare l'assurdo.
Fare il
professore a mio parere implica sapere molte cose, ma
contemporaneamente anche non essere in grado di saperne altre, e per
questo motivo non mi piace insegnare, né mi è mai
piaciuto. Sono
consapevole del fatto che al di là della fisica nucleare, di
un'infarinatura di geografia astronomica e delle conoscenze che ho
cercato di ricevere da solo dalla lettura di qualche filosofo (la
maggior parte del buon vecchio Soren K. e di quel simpaticone di
Kafka) c'è ancora molto da imparare. Ad esempio non ho mai
saputo
quale sia la capitale dell'Eritrea. A dire il vero non sono nemmeno
sicuro di conoscere i miei polli abbastanza bene. Per spiegarmi,
riguardo la chimica inorganica so talmente tante cose che potrei
mettere da parte il mio racconto e cominciare a parlare di lunghezza
d'onda, orbitali, calcoli stechiometrici o entropia, ma non lo
farò
(con vostro grande rammarico!), nonostante ciò ho la
sensazione di
essere una specie di giocoliere che tiene una palla sulla fronte, con
sopra un candelabro, con sopra un vassoio di cristallo, con sopra un
set di tazze in porcellana piene di tè alla vaniglia. Da un
momento
all'altro un quindicenne che ha appena studiato la liquefazione dei
gas potrebbe venirmi a fare una domanda alla quale non so rispondere,
mentre lui, invece, sa esattamente di che cosa si tratti, e io
verserei tutto il contenuto delle tazzine e farei cadere tutto il
resto. Per questo non ho mai voluto fare il professore,
perché il tè
alla vaniglia mi piace veramente molto e preferirei non sprecarne
nemmeno una goccia.
Quando entrai per la prima volta nell'aula
pensai di essere nudo o di avere qualche bottone dei pantaloni
aperto, come minimo, ma dopo un'occhiata furtiva mi accorsi che non
era assolutamente così.
A questo punto dovrei sacrificare il
mio pranzo caldo e mettermi a scrivere un paio di paragrafi
riguardanti il mio aspetto fisico, dato che non vorrei mai restare un
anonimo scrittore in erba che ha avuto problemi con l'alcool e vanta
migliaia di aneddoti divertenti, carini o almeno in parte misteriosi
sulla sua famiglia e su lui stesso. (Non che io abbia voglia di
descrivere il mio aspetto fisico, sia chiaro, anche perché
sono una
persona – quasi – perfettamente nella norma, ma ho
l'intenzione
non solo di farvi capire che faccia abbia, ma anche di dare a questo
racconto semi-diaristico una precisa indicazione spazio-temporale.
Sono nella mia cucina, alle tre del pomeriggio, seduto a tavola e
rinuncio a mangiare un pasto adeguatamente caldo pur di aggiungere
qualcosa a questa pagina).
Cercherò di dare una visione più
esauriente possibile di me, occupando soltanto un paio di paragrafi e
senza usare troppi capoversi (io odio i capoversi).
Se dovessi
partire dai capelli, comincerei col dire che non ho dei capelli
particolari, eccetto forse il loro colore, ma che ho dei capelli del
tutto nella norma, che crescono lentamente e che il barbiere (il buon
vecchio Marcus) taglia con un'inefficienza disarmante, tuttavia non
ho il coraggio di abbandonare la sua adorabile bottega. Sono di un
colore rossiccio, tendente al biondo, un colore che, se fossi alto un
metro e novanta, mi farebbe sembrare un idiota. Fortunatamente
(forse) non sono alto un metro e novanta, e nemmeno un metro e
ottanta, quindi i capelli potrebbero passare anche inosservati, in
una folla numerosa. Le origini scozzesi della mia famiglia purtroppo
non ci perdonano per aver lasciato la Terra Madre più o meno
una
cinquantina di anni fa, e credo che ci perseguiteranno per almeno
altre dieci o undici generazioni. Forse la calamità degli
antenati
infuriati si è abbattuta su di me tramite le mani di Marcus,
che
ogni volta riesce a storpiarmi la linea sulla nuca che di regola
dovrebbe essere dritta e parallela alle spalle.
Una volta ho
cercato di spiegargli di fare attenzione, ma lui non sembra
ascoltarmi, e quindi è andato avanti imperterrito e per la
sua
strada. Dietro di noi c'era un signore che aspettava il suo turno,
era molto silenzioso, ma continuava a sorridere come se guardare
Marcus che mi piegava la testa da una parte all'altra a suo
piacimento e senza la minima preoccupazione di essere violento o meno
fosse la cosa più divertente del mondo. Ma forse lo era per
davvero.
Il colore rosso dei capelli ho la fortuna di condividerlo
con molti membri della mia famiglia, i quali sembrano andarne fieri o
(nel caso delle ragazze soprattutto) vergognarsene da morire. Una
volta Bessie è veramente “morta” per
un'osservazione sui suoi
capelli da parte di una di quelle zie vecchie e con l'alito
puzzolente, quelle un po' cretine e che sbagliano sempre i nomi dei
nipoti. Se non sbaglio era la sia Margareth, la sorella del padre di
Montag, cioè la sorella di mio nonno.
Io avevo circa cinque anni
e Bessie tredici, eravamo educatamente seduti sul divano del salotto,
e qualcuno tra i numerosi fratelli invece se ne stava (per questioni
di spazio) a gambe incrociate sul pavimento ai nostri piedi. Insomma,
eravamo tutti lì a fissare il parentado schierato in casa
nostra e a
un certo punto questa zia con l'alito puzzolente se ne uscì
chiedendo a Bessie perché mai alla sua età
tingesse i capelli in
quel modo. Bessie ebbe la tipica reazione che hanno tutte le ragazze
a un complimento mancato, una specie di crisi cardiaco-respiratoria
di circa mezzo minuto e poi di nuovo un atteggiamento di
semi-normalità tradito soltanto ogni tanto da qualche
occhiataccia
alla zia Margareth o alle punte dei suoi stessi capelli che
arrivavano oltre la spalla.
Bessie non ha avuto la brillante idea
di cambiare colore di capelli come ha fatto Carla, sono ancora rossi
e luccicanti, lunghi, lisci e appariscenti. Se devo essere sincero,
penso che Bessie non sia quel genere di persona alla quale i capelli
rossi donano (nemmeno io credo di esserlo, ma differentemente da lei
nessuno fa mai troppo caso ai miei capelli). Lei è molto
alta, quasi
come lo era Montag, e quindi quando cammina per strada a me
dà quasi
l'idea di un semaforo. Una volta ho provato a accennarle di questa
mia impressione e a cercato di uccidermi con la forza del pensiero.
L'unico risultato che ottenne fu un mio acuto attacco di tosse, ma la
cosa sembrò soddisfarla comunque.
Anche Michael, Oliver, Andrew
e Carla hanno (o hanno avuto) i capelli rossi, sebbene Carla si sia
liberata in fretta di quel tocco scozzese con una buona tintura
biondo cenere.
A Michael i capelli rossi danno un'aria vissuta,
che abbinata al tartan delle occasioni speciali lo fa sembrare
meraviglioso agli occhi di Brett (che se ne tornerebbe volentieri a
Eyemouth, in Scozia, se un esercito di figli - e di nipoti - non la
tenesse ancora inchiodata negli Stati Uniti alla ricerca di affetto
filiale e tanta, tantissima affettuosità, così
tanta da dare il
voltastomaco). A Oliver danno un'aria un po' stralunata, dato che
sembra non avere mai tempo per pettinarli (ho anche la vaga
impressione che nella sua massa di capelli nasconda anche un'edizione
tascabile di Wordsworth) perché è sempre molto
impegnato a pensare
agli scempi che scrivono i suoi alunni sui compiti in classe (Shelley
si starà rivoltando nella tomba adesso, dice sempre). Andrew
sembra
fiero quanto Michael della sua capigliatura, probabilmente
perché
Andrew più di tutti gli altri desidera farsi notare.
Una volta
stavo camminando con lui lungo Broadway e a un certo punto, arrivati
all'altezza del giornalaio da cui ci fermiamo praticamente ogni
mattina, Andrew si è bloccato sul marciapiede con lo sguardo
rivolto
al lato opposto della strada. Ahimé, riuscii subito a notare
il
cosiddetto sguardo da giovane scout che riesce ad accendere un fuoco
da campo usando i bastoncini, altrimenti definito “sguardo
Eureka”.
Ad Andrew bastò attraversare la strada affinché
fosse notato anche
lui dal ragazzo che aveva puntato, i suoi capelli col sole bruciavano
alla stessa maniera di un solido incandescente del quale non mi
metterò a spiegare le proprietà chimico-fisiche,
sebbene so che ci
sia gente curiosa di conoscerle. Il “gayometro” di
Andrew,
abbinato ai capelli rossi e alla sua faccia tosta, ha un effetto
strabiliantemente immediato, e probabilmente dovrei smettere di
parlare della sua omosessualità come se si trattasse di una
voglia a
forma di Texas che ha sul palmo della mano, ma non riesco a farne a
meno (e dubito che ci riuscirò, quindi penso di voler
continuare a
non avere peli sulla lingua).
Ad ogni modo, dopo i capelli, i
Pattinson possono vantare una larga scelta di occhi blu notte, che a
detta di mia madre altro non è che il meraviglioso colore
del mare
all'altezza dell'orizzonte. Io continuerò a chiamarli
“occhi blu
notte” e basta.
Secondo il mio parere, gli occhi più belli di
tutta la famiglia sono quelli di Claire, sono profondi e le danno un
aspetto intelligente, nonostante abbia la strana e forse un po'
odiosa abitudine di sbattere continuamente le palpebre e far
così
fluttuare le sue lunghe ciglia biondastre. Una volta Claire, quando
poteva avere poco più che cinque o sei anni, seduta sulle
ginocchia
dello zio Seymour, cominciò a sbattere le palpebre, e mentre
sbatteva le palpebre spiegava al vecchio Seymour (allora poco
più
che trentenne) che cosa dovesse fare per conquistare la signorina che
lavorava alle poste e cominciò ad elencare gli orari della
signorina
e i giorni in cui lavorava, quelli in cui pranzava velocemente e
quelli in cui preferiva andare a mangiare qualcosa di caldo. Non so
per quale strano motivo Claire avesse tutte quelle informazioni a sua
disposizione, da servire su un piatto d'argento, ma in famiglia siamo
abituati, chi più chi meno, alle assurdità
più disparate, come la
passione sfrenata che Matthew aveva per il giallo, tanto da dipingere
le pareti della camera che divideva con Michael di quel colore e
comprare mobili affini.
Mi spiace dover essere poco gentile e
galante con le altre signore della famiglia, ma credo di dover
ammettere che al nostro fratello maggiore spetta il secondo posto in
quanto a “miglior paio di occhi blu notte firmati famiglia
Pattinson”. Gli occhi blu notte di Michael riescono a
esprimere in
una maniera incredibile il maggior numero di emozioni possibile come
se l'incertezza, la malinconia, il sentimentalismo, l'affetto, la
paura, la tristezza e la felicità siano le cose
più normali del
mondo e possano coesistere con tanta facilità quanta ne
può
esprimere un quaterback che ha appena fatto Touch Down a tre minuti
dalla fine della partita. Quel furbacchione di Nicholas Sparks cerca
sempre di descrivere nelle sue opere gli occhi del
nostro
Michael, ovviamente senza riuscirci... Con questo vorrei specificare
che io non leggo Nicholas Sparks, ma mi è capitato un paio
di volte
di leggere la trama dei suoi libri abbandonati sul comodino di
Andrew. Lui è un romanticone.
Ho un crampo alla mano, credo di
essermi addentrato fin troppo nella mia descrizione fisica senza
venirne a capo. Per ora le uniche cose di cui vi ho messo a
conoscenza sono capelli rossicci e gli occhi blu notte.
Potrei
passare ai vestiti, ma è un tasto delicato e che vorrei
riserbare
per ultimo.
Okay, il naso.
Non posso descrivere chiaramente la
totalità dei nasi Pattinson, perché non
c'è un naso che somigli ad
un altro nella nostra famiglia. Diciamo che alcuni derivano dal
nasino di Montag, altri da quello di Brett, che non è
altrettanto
piccolo (e poi c'è quello di David, che è un po'
storto da un lato
a causa di una mazza da baseball contro la quale è andato a
sbattere. Esatto. Non è stata la mazza da baseball a
colpirlo, ma
lui a colpire lei. Stava uscendo di casa, e Oliver si stava allenando
per la sua primissima partita con la squadra della sua scuola. Aveva
la mazza da baseball a mezz'aria, immobile, e David era terribilmente
in ritardo – a casa nostra nessun è mai in
ritardo, ma sono tutti
terribilmente in ritardo – e a un certo
punto se ne va a
sbattere contro la mazza da baseball di Oliver mentre stava correndo
verso la porta. A dispetto di quello che diceva Montag – che
non
era nulla di grave, David era un ragazzone, che cosa poteva mai
succedere? - il setto nasale era andato completamente). Chiusa questa
piccola parentesi vorrei scusarmi con tutti i lettori (dubito che ce
ne saranno, ma ho bisogno di qualcuno al quale rivolgermi prima di
sentirmi troppo solo... E no, Puck sta dormendo e non voglio
svegliarlo, altrimenti sarebbe perfettamente normale rivolgermi a
lui) per aver abusato della vostra pazienza, in cambio ho da offrirvi
questo asterisco fatto col cuore: * Spero che lo accettiate come
segno della mia gratitudine, oltretutto.
Continuando con questo
benedetto naso, devo dire che ne sono abbastanza soddisfatto. Qualche
volta ho letto su una rivista per donne (stessa coincidenza che vale
per i libri di Sparks) che deve esserci una certa distanza tra il
naso e gli occhi e tra il naso e la bocca. Ecco, io l'ho misurata e
c'era, checché voi ne diciate, quella
distanza c'era. È un
naso discreto, molto simile a quello di Montag, a quanto ho potuto
notare dalle foto, l'unica differenza in quanto a larghezza,
lunghezza e contorni tra i nostri nasi sta in una leggera curvatura
all'insù del mio, che mi aiuterà ad introdurre il
tratto
morfologico che segue.
I denti.
Solitamente i denti non sono
una parte del corpo degna di nota, dato che a nessuno salterebbe mai
di descrivere i propri denti come se si trattasse di qualcosa di
speciale, tanto meno io. Ma dovete sapere, semmai un giorno io
dovessi incontrarvi sull'autobus, che ad eccezione di un orecchio che
sporge leggermente più dell'altro non c'è nulla
di sproporzionato
nel mio viso, a meno che io non sorrida. La verità
è che non ho mai
capito per quale assurdo motivo io sia l'unico esemplare di Pattinson
che vanti gli incisivi più grandi del mondo, dritti, ma
comunque
grandi. Brett mi dice che un suo prozio trasferitosi in Australia
durante la guerra aveva dei denti grandissimi e una mascella quadrata
che gli dava un'aria da duro. Io non ho una mascella quadrata,
né
un'aria da duro, ma solo dei denti grandissimi.
Una volta Bessie
mi disse che ho un sorriso disarmante e adorabile. Non ci credo, una
donna che si crede mukta, il saggio illuminato, colui che vede Dio, e
poi manda le cartoline di Natale con le foto della sua famiglia non
è
una fonte attendibile.
Nella speranza che abbiate colto aspetto e
dimensione (l'avete colta, oh, se l'avete colta!) dei miei denti,
passerei a descrivere quello che per la famiglia Pattinson è
un
elemento imprescindibile, i vestiti.
Brett ha sempre avuto
la straordinaria dote di riuscire a vestire più che
dignitosamente
ognuno dei suoi pargoli, più precisamente di vestirli in un
vecchio
negozio dall'aria rispettabilissima che si trova lungo Greenwich
Street. Era ed è tuttora un negozio praticamente minuscolo,
ma tutto
quello che c'era lì dentro assecondava alla perfezione i
gusti di
Brett, tanto da diventare cliente abituale negli anni compresi tra il
1979 e il 1999.
Brett non ha mai trascurato nessuno dei suoi
figli, ma all'età di tredici anni ognuno di noi
(più per evitare un
esaurimento nervoso a nostra madre che per altro) ha cominciato a
ricevere una paghetta fissa che dovevamo usare responsabilmente e
cioè per comprare abiti quanto più simili a
quelli scelti da Brett
in persona.
Ovviamente qualche strappo alla regola fu d'onere per
ognuno, e cominciò con la giacca di pelle alla Top Gun di
Michael,
per continuare con la cravatta color zafferano di Matthew, il vestito
di tulle rosa che aveva scelto Bessie per il suo primo ballo
scolastico di fine anno, la cintura di borchie di Carla, la maglietta
attillata e color oro che Andrew sfoggiava con un certo
orgoglio.
Alla fine però ognuno sceglieva per suo conto degli
abiti meravigliosi, ma a nessuno riuscivano ad adattarsi mai
perfettamente addosso. Le giacche di David erano sempre troppo
strette sulle spalle, il mio doppio-petto era troppo lungo, Claire
doveva riempire di ovatta le sue scarpe col tacco, Matthew, per
quanto fosse fortunato nel trovare vestiti della sua taglia,
dimenticava di abbottonarsi completamente i pantaloni suscitando
risatine tra le ragazze che lo vedevano in piedi nella metropolitana.
La verità è che nessuno si prendeva mai la briga
di misurare, come
invece Brett ci aveva costretto a fare, ciò che comprava.
Oliver
scappava via dal negozio con il suo abito nuovo di zecca addosso e i
segni del gesso sul risvolto dei pantaloni.
Mi piacerebbe tanto
descrivere anche il modo in cui ero vestito io la mattina del mio
primo giorno lavorativo (il racconto del primo giorno lavorativo
è
ormai concluso, la mia era soltanto una specie di paternale mal
riuscita sul lavoro di professore), ma ho seriamente un crampo alla
mano, seriamente. Torno tra cinque minuti.