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Autore: Soffiotta    24/12/2010    19 recensioni
Questa è la storia di Alex e Monique.
Lei, orfana che vive con la nonna.
E lui, ragazzo che frequenta “l’alta società della scuola”.
Due ragazzi che vivono ai giorni nostri.
Fin qui tutto normale. O no?
Alex e Monique non si conoscono, se non di vista. Il loro primo incontro avverrà in un luogo caratteristico: l’ospedale.
Perché?
Beh, perché Monique tre volte la settimana accompagna la nonna a fare la dialisi.
Ma Alex, lui per un incidente finisce in coma.
E chi l’ha detto che gli incidenti portano solo danni?
Potrebbero portare… amore?
Ma prima di arrivare al tanto agognato amore Alex e Monique dovranno superare parecchie avversità.
Una fra tante i loro caratteri.
Benvenuti nel mondo di Alex e Monique.
DAL PROLOGO
Tutti. Tutti siamo destinati ad arrivare al capolinea.
La nostra vita è un treno che non si ferma per niente e nessuno.
Ma possiamo controllare le fermate, e decidere chi far salire sul nostro vagone. O chi far scendere.
Solo così, possiamo ingannare il tempo, tenendo vicino a noi le persone che amiamo. Quelle che veramente sono essenziali per noi.
La vita, sì la vita, in realtà è solo un viaggio.
E io, Monique, vi racconterò il mio, di viaggio.
 
Genere: Comico, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1- 23 MAGGIO






 





 
I miei occhi corrono velocemente sulla vetrata fredda dell’ospedale. La pioggia cade senza sosta e rende la sala d’attesa ancora più cupa del solito.
Mi stringo nel giaccone invernale, alla ricerca di un po’ di calore. Purtroppo in questa stanzetta i termosifoni sono spenti, l’ospedale non ha molti soldi.
Ma ormai ci ho quasi fatto l’abitudine a questo freddo e a questa stanza. Ogni martedì, giovedì e sabato entro qua dentro e ci rimango per tutto il pomeriggio. Un inferno, praticamente.
La processione settimanale all’ospedale è iniziata precisamente due anni e sei mesi fa. Quando i medici hanno comunicato a mia nonna che soffriva di insufficienza renale. Da allora, tre volte alla settimana, la dialisi l’attende.
Adoro mia nonna, ma quando la guardo nei suoi occhi vispi, che né la vecchiaia, né la malattia hanno spento, ho paura.
Ho paura di perderla da un momento all’altro. Ho paura di rimanere per l’ennesima volta sola.
Lei fa finta di niente, mi ripete in continuazione che si sente come quando aveva vent’anni. Ma più di tanto non si può negare l’evidenza. Non si può negare il suo respiro affannato per ogni piccolo sforzo.
Infondo non dovrei avere tutta questa paura, voglio dire, si sa che le persone anziane prima o poi ci lasciano, è il normale ciclo della vita. Bisogna farsene una ragione.
Ma io non posso perdere la mia unica, cara nonna.
Perché io, Monique, 17 anni appena, sono orfana. E mia nonna è l’unico appiglio a cui posso ancora aggrapparmi. L’unico.
Nemmeno la mia migliore amica potrà mai capirmi fino infondo, per quanto possa volermi bene.
Andiamo, lei quel maledetto 23 maggio non c’era. Lei i genitori ce li ha ancora.
Il ricordo di quel giorno mi passa velocemente davanti agli occhi, accompagnato da una fitta al cuore che ormai è legata al ricordo della mia famiglia.
Quel 23 maggio tutto era perfetto. Papà aveva chiesto al suo datore di lavoro il sabato libero. Permesso dato.
Ci portò al lago. Disse che sarebbe stato tutto magnifico, tutto perfetto. E infatti fu tutto così, ma solo fino ad un certo punto.
Partimmo al mattino presto. Papà, mamma, io e Gabriele. Gabriele, mio fratello. Ai miei occhi la persona migliore che fosse mai esistita.
Di solito tra sorella e fratello, soprattutto se il fratello è più grande (come nel nostro caso), non c’è per niente amore fraterno. Ma fra noi no. Noi eravamo diversi. Gabriele mi aiutava in tutto, e mi trattava come se fossi stata una gemma preziosa, da curare e da proteggere, da tutto e da tutti.
Quel mattino ricordo ancora che io e Gabriele eravamo seduti sui sedili posteriori della nuova macchina di papà, impegnati a pianificare il programma della giornata.
Mamma e papà davanti. A ogni semaforo rosso si davano un bacio. Si amavano, oh quanto si amavano. Eravamo il ritratto della famiglia felice. Sembrava tutto perfetto. Sembrava…
Passammo la giornata a ridere come non mai. All’ora di pranzo papà preparò la carne alla brace. Buona come solo lui la sapeva fare. Poi mamma stese gli asciugamani sulla riva del lago. Sento ancora le sue parole:”Sembriamo due mozzarelle! Dobbiamo assolutamente abbronzarci!”. E così facemmo. Prendemmo tanto di quel sole che le spalle diventarono rossissime. Papà e Gabriele invece andarono a pesca. Un sano momento padre-figlio.
Poi arrivarono le sei di sera. L’ora per ritirare tutto sulla macchina, e, a malincuore, tornare a casa.
Feci per raccogliere l’asciugamano da terra ma mamma mi fermò.
Ero stranita. Mi aveva appena detto che dovevamo ritirare e tornare a casa. E anche papà e Gabriele stavano facendo lo stesso.
Poi mamma si avvicinò a papà e dolcemente gli sussurrò qualcosa. Non capii bene tutto, riuscii a captare solo un “credo che sia il momento adatto per dirglielo”.
Mi preoccupai di quella affermazione, ma subito cambiai idea. Papà sorrideva, mamma pure. Doveva essere per forza qualcosa di bello.
“Monique, Gabriele” iniziò mia madre con il suo bellissimo sorriso “io e vostro padre vorremmo dirvi una cosa”
“Dai mamma non farci preoccupare” disse Gabriele. Io non ero preoccupata, no, i miei erano felici, ma ero curiosa. Molto curiosa.
A quel punto iniziò papà a parlare “Be’, sapete che tutti gli anni facciamo questa gita al lago, giusto?”
Io e Gabriele annuimmo nello stesso istante.
Poi mio padre prese un respiro e ci diede la notizia “Be, diciamo che il prossimo anno non saremo più in quattro ma in cinque” in quel momento tutto mi fu chiaro.
Mamma, mamma era incinta!
Saltai in piedi dalla gioia, e con me Gabriele. Ci fiondammo sui nostri genitori per abbracciarli.
Continuavamo a ripetere all’incirca tutti le stesse cose, ovvero quanto eravamo contenti e quanto tutto era stupendo.
Mamma disse che era incinta di due mesi.
A quel punto nulla poteva andare storto. Era la giornata ideale. Il sogno di ogni adolescente, stare in una famiglia dove esistono solo sorrisi.
Ma purtroppo ben presto arrivarono anche le lacrime.
Ritirammo tutto e salimmo in macchina ancora tutti elettrizzati per la bellissima notizia.
Con la macchina ci dirigemmo verso la strada principale quando ad un certo punto mamma si accorse di aver dimenticato un asciugamano in riva al lago.
Fece per scendere, ma l’anticipai. Non volevo che facesse alcun tipo di sforzo. Lei in grembo aveva una vita, un nuovo cuoricino che già batteva ritmicamente.
Papà, mamma e Gabriele mi aspettarono in macchina, con il motore acceso. L’asciugamano era veramente vicino. Ad andare e tornare non ci avrei messo nemmeno due minuti. Raggiunsi l’asciugamano, che era ancora caldo per l’effetto dei raggi del sole del giorno che stava terminando.
Lo afferrai e mi girai verso la macchina. Mi aspettavano. Sorridevano. E io sorridevo a loro.
Poi successe tutto all’improvviso.
Un camion proveniente dalla strada principale sbandò. La sua velocità era elevatissima.
Ebbi la “fortuna” di assistere a tutta la scena.
Il camion si schiantò a tutta velocità contro la nostra macchina, facendola andare a sbattere contro un muro. Lì dove si accartocciò, come una lattina vuota.
Peccato che la macchina non era vuota.
Lì dentro c’era la ragione per cui vivevo. C’era la mia famiglia.
Il camion continuò la sua corsa fermandosi qualche metro più in là anch’esso contro un muro di cemento.
In quell’attimo non seppi cosa fare.
Volevo correre, ma avevo le gambe immobilizzate.
Volevo urlare, ma avevo la gola completamente secca.
Volevo piangere, ma forse ero troppo impegnata a fissare la lamiera accartocciata per poterlo fare.
Poi realizzai che non potevo rimanere lì, ferma.
Iniziai a correre, diretta verso l’ammasso di lamiera che una volta era la nostra macchina.
Arrivata lì davanti mi si parò davanti uno spettacolo raccapricciante.
Mamma, papà e Gabriele.
Completamente ricoperti di sangue.
Attraverso l’apertura dove fino a poco tempo prima si trovavano i finestrini allungai le mani verso mia madre, che giaceva sotto l’enorme quantità vermiglia.
Gli toccai il collo, per sentire il battito. Proprio come mi avevano insegnato al corso di pronto soccorso.
Niente. Il suo cuore si era già spento. Così come quello del suo piccolo che portava nel grembo.
Avrei voluto piangere. Buttarmi a terra e gridare “perché a me?”.
Ma non potevo. Dovevo aiutare papà e Gabriele.
Con fatica mi allungai verso papà, le cui mani tenevano ancora stretto il volante. Papà, guidatore provetto. Le mie dita toccarono il suo collo, così come avevano fatto con la mamma.
Niente. Quel camion impazzito si era portato via anche la vita di mio padre.
Cercai con tutte le mie forze di trattenere le lacrime che pungevano gli occhi per uscire.
Guardai all’indietro. Sul sedile posteriore giaceva Gabriele. Con i suoi capelli biondi che in quel momento erano terribilmente macchiati di sangue.
Valutai il modo di poter spostarmi sul sedile posteriore. La macchina era veramente molto accartocciata. Fuori dall’auto vidi la gente che iniziava ad arrivare di corsa per venire in soccorso.
Venite, venite. Tanto ormai non c’era più nulla da fare. Mi avevano tolto i genitori. Coloro che con tanto amore mi avevano dato la vita.
Impossibilitata di raggiungere Gabriele lo fissai con gli occhi ormai pieni di lacrime.
Sentivo le voci della gente fuori che parlavano al telefono e davano informazioni sull’accaduto.
“L’ambulanza arriverà a momenti” disse un uomo sulla cinquantina.
Dietro di me arrivarono diverse persone che cercarono di farmi allontanare dalla macchina, dicendo che era pericoloso.
Ma io non volevo. Gabriele forse era ancora vivo. Io non potevo abbandonarlo proprio adesso. Quando più ne aveva bisogno.
Le lacrime iniziarono a scendere. Calde e veloci. Solcavano il mio viso lasciando piccole tracce.
Alle lacrime si mischiarono i singhiozzi, sempre più incontrollabili, sempre più forti.
Mi isolai dal mondo. Non sentivo più niente. Né la gente fuori che urlava. Né le sirene in lontananza.
Ero concentrata solo sul viso di Gabriele.
“Monique” disse ad un certo punto una voce. Era Gabriele. Il mio Gabriele.
“Oh Gabri, ti prego resisti. Non mi lasciare adesso. Ti prego. Io ti voglio bene!”
Implorai. Anche se sapevo che non sarebbe servito a niente.
“Monique” mi ridisse Gabriele “Ricordati che ti voglio bene, e che sei la persona migliore che conosco.”
Con queste parole chiuse definitivamente gli occhi.
Già, Gabriele non aprì mai più gli occhi. Gabriele morì pochi minuti dopo quelle ultime dolci parole. O almeno così mi comunicarono i medici che lo soccorsero.
 
Io di quel maledetto 23 maggio ricordo nitidamente una cosa.
Che un camionista, ubriaco, mi ha portato via le cose più importanti per me.
Mamma, papà, Gabriele e il piccolo fratellino o sorellina che ancora riposava nel grembo della mamma.
Fisso la vetrata dell’ospedale. Ha cessato di piovere.
Guardo l’orologio. Bene, a minuti la nonna avrà finito.
 
 
 
   
 
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