La dea Hel e
l’umana Jàrnsa non si erano mai incontrate prima.
Hel conosceva il marito di
Jàrnsa, Baldrir, soltanto di vista, ma nonostante
ciò aveva avuto modo di
sentire l’uomo parlare con affetto della moglie che aveva
lasciato a casa e che
avrebbe voluto riabbracciare quanto prima, ed era certa che questa
ricambiasse
appieno i sentimenti del marito.
Basta
guardarla negli occhi: questa è
sicuramente una persona dotata di grande sensibilità.
La
divinità
aveva prontamente aiutato l’umana a riparare il danno
provocato in casa sua da
Surtr e dalla detenzione che questo le aveva imposto. Subito dopo, la
coppia
umana-divina aveva compiuto un giro di perlustrazione per rendersi
conto di
quale fosse la situazione: la maggior parte del villaggio non era stata
danneggiata ma alcuni abitanti erano scappati, altri stavano ancora
chiusi in
casa, temendo un ritorno dei giganti, che sembravano nel frattempo
essersi
defilati, forse per riorganizzarsi altrove e lanciare così
un contrattacco.
Regnava tutt’attorno un’atmosfera irreale,
conferita dalla quasi totale
mancanza di transito sulle strade. Alcuni contadini avevano lasciato
gli attrezzi
del proprio lavoro lungo la strada; animali da cortile si rincorrevano
liberamente lungo i sentieri che fino a un giorno prima erano percorsi
dagli
abitanti, carri carichi di fieno disposti trasversalmente sbarravano il
passaggio; molti ancora erano i segni di tante occupazioni lasciate a
metà. I
guerrieri che si erano prontamente attivati per respingere
l’orda nemica non
erano quasi mai stati attaccati: i giganti avevano compiuto numerose
azioni di
disturbo, evidentemente con lo scopo di disorganizzare le truppe
piuttosto che
di combatterle direttamente. Regnava in effetti il caos: le
difficoltà di
comunicazione in tali circostanze erano sotto gli occhi di tutti.
La sorpresa
e la paura per l’attacco non durarono tuttavia per molto
tempo ancora: la gente
doveva lavorare per darsi di che vivere e, alla fine, una certa
normalità fu
ristabilita dalla gente stessa. Ritrovando un poco di fiducia nella
situazione,
Jàrnsa e Hel si diressero al porto da cui erano salpati gli
uomini alla volta
dell’Islanda e presso il quale avrebbero dovuto fare ritorno.
Hel aveva
garantito a Jàrnsa che Baldrir e gli altri avevano deciso di
tornare e, salvo
gravi imprevisti, non ci sarebbero volute più di due
settimane perché facessero
il proprio ritorno. Da allora Jàrnsa passò ore e
ore a scrutare l’orizzonte in
attesa della sagoma del drakkar del
marito. Ogni tanto Hel le teneva compagnia, sedendosi al suo fianco,
senza
quasi mai dire nulla. Riteneva che, in certi frangenti, più
che dire tante
parole importasse mostrare la propria partecipazione allo stato
d’animo altrui
con una presenza anche fisica. Quando non accompagnava
Jàrnsa, la dea compiva
delle perlustrazioni silenziose, travestita da mendicante, per rendersi
conto personalmente
di come evolvesse la situazione. Aveva appurato che diversi giganti di Jötunheimr, gli jotnar,
alle dipendenze di re Þrymr, si erano accampati a circa una
trentina di mil di distanza, in
attesa dei rinforzi da parte di Surtr e dei suoi fratelli, i Múspellsmegir. Pareva che,
durante tale
attesa, non avessero nulla di meglio da fare che darsi agli ozi e agli
eccessi,
non perdendo occasione di manifestare una volgarità
inaudita. Hel si era
affrettata a riferire quanto visto alle truppe che difendevano il
villaggio di
Jàrnsa, che non persero l’occasione per motivare
con successo la popolazione,
facendo leva sul ben diverso approccio alla vita di
quest’ultima rispetto ai
giganti.
Questa
continua alternanza di ricognizioni presso l’accampamento
nemico e di compagnia
a Jàrnsa continuarono, per Hel, fin quando finalmente non
arrivò quanto tutti
aspettavano.
Quel giorno
Jàrnsa si era svegliata presto, poco prima
dell’alba, per dirigersi al porto.
Sentiva che era la volta buona: aveva invocato gli dèi
perché la sua sofferta
attesa finisse.
L’attesa
è una micidiale forma di
sofferenza. Non è violenta come un pugno né come
un colpo di spada: è più
subdola, molto più sottile. Si trascina per un tempo che
pare non avere fine, è
una tortura lenta e logorante. L’animo è lacerato
dallo stridente contrasto tra
ciò che si aspetta e la realtà del presente, in
cui l’oggetto dell’attesa
manca. A tratti sembra che il proprio desiderio verrà
appagato quasi
all’istante, altre volte si perde la speranza di riuscirci e
si guarda con
malinconia a quel vuoto che si ostina a perdurare, afflitti dalla
propria
impotenza, consci di non essere veramente artefici della propria
fortuna.
Così
pensava
Jàrnsa, che pure non aveva smesso un attimo di aspettare,
dal momento in cui,
ormai numerosi giorni prima, la sagoma della nave su cui viaggiava il
marito
era scomparsa all’orizzonte, perdendosi nella sconcertante
grandezza del mare.
Si rendeva conto che non avere nulla da aspettare significasse non
avere nulla
per cui soffrire, ma capiva altrettanto bene che non avere nulla per
cui
soffrire volesse dire essere entità puramente materiali,
come le piante o le
rocce; un animo sensibile come il suo era ben lungi dal poter esistere
senza
nulla o nessuno per cui, all’occorrenza, soffrire.
Hel non sapeva di questa riflessione di Jàrnsa, tuttavia fu come se gliel’avesse letta negli occhi quando, quella mattina, la vide uscire. Si sentiva un po’ strana a pensarci, ma la verità è che era diventata amica di una mortale: mortale come le anime di cui ella era regina a Helheimr. La seguì a breve distanza, senza mostrarsi: non voleva disturbarla, a quell’ora. Entrambe giunsero al porto presso cui erano state tante volte; ci volle poco perché Jàrnsa notasse quella sagoma scura all’orizzonte, seguita poi da tante altre simili, i drakkar degli einherjar di Odino, di cui ancora non poteva sapere nulla. Non era certa che su una di quelle navi ci fosse Baldrir, ma subito il suo cuore batté più forte.