Prologo
Tia Lube osservò con molta
circospezione villa Brenn, disabitata da anni. La vernice rossa che li ricopriva
era stata in parte rovinata dal tempo e dalle forti
piogge
estive che non di rado
allagavano il crocevia. La villa si componeva di tre piani, più uno scantinato,
ed era circondata da un giardino poco curato.
- La rimetteremo noi in
sesto – disse la signora Paula Lube trafficando con le chiavi per aprire il
cancelletto.
La villa era rimasta vuota
per anni. La famiglia che l’abitava era scomparsa a poco a poco, fino alla
sparizione dell’ultima proprietaria. Da allora nessuno aveva rivendicato il
possesso della casa, almeno fino a quando un loro lontano parente aveva venduto
ai suoi genitori la proprietà. Come fossero entrati in contatto, Tia non lo
sapeva, ma avrebbe voluto che non fosse mai
successo.
La villa la
inquietava.
Era grande, bianca, con
gli infissi rosso sangue e fin troppe stanze da mettere a posto. Ed era stata la
dimora di una famiglia scomparsa.
La signora Lube riuscì
finalmente ad aprire il cancello e fece strada verso l’ingresso, dove, dopo
altrettanti tentativi di aprire, spalancarono il portone rosso.
- Siamo i primi ad entrare
qui da quasi dieci anni, Tia! Non ti elettrizza la cosa? – esclamò sua
madre.
- Moltissimo… - rispose
sua figlia inarcando un sopracciglio.
- Su, sii più serena. Fra
un paio di giorni arriveranno papà e le tue sorelle, la casa deve essere più
ordinata.
- Anche se Olly oggi deve
andare alla festa di compleanno della sua amica e papà è occupato all’agenzia,
almeno Alice poteva venire ad aiutarci!
- E che aiuto può dare una
bambina di dieci anni, Tia?
- Un
po’…
Paula Lube mise le mani
sulle spalle di sua figlia.
- Tia, non fare del nostro
trasferimento una cosa tragica. Questa casa è bellissima, il giardino è enorme,
il paese è tranquillo, papà verrà trasferito qui e io aprirò un negozietto qua
vicino. E’ tutto a posto, per una volta. Tu ti farai nuovi amici. Ora ti
dispiacerebbe andare a dare un’occhiata nel giardino? Sinceramente non so dove
inizia e dove finisce.
Tia sospirò. Come al
solito sua madre cercava di farla sentire in colpa, come se fosse la causa di
tutto ciò che capitava nella sua famiglia. Non faceva altro che pretendere
ancora, non si accontentava mai. E non riusciva a capire che lei odiava quel
posto.
-
Vado.
-
Bene.
Nemmeno un “grazie”. Tia
uscì di casa molto irritata e arrivò al cancelletto d’ingresso. Si voltò per
avere una visione d’insieme.
“Dunque…” pensò. “Davanti
c’è quello che una volta poteva definirsi un praticello. Circondato da cespugli.
A destra c’è un grosso albero. Una magnolia, di fronte all’ingresso. E un abete,
e un melograno. Morto, probabilmente. Marcio. A sinistra c’è un altro melograno
e un… non – so – cosa peloso. E anche un altro non – so – cosa strano. E lì in
mezzo una specie di sentiero che va dietro. Ma non vedo nulla da
qui…”
Tia si fece strada tra
l’erba alta e raggiunse il melograno di sinistra. Lungo il sentiero c’erano
delle betulle dalle chiome colorate di rosso, e le foglie formavano un tappeto
sul quale i passi di Tia erano silenziosi. Dietro una betulla più alta delle
altre c’era uno spiazzo pavimentato con piastrelle di pietra e sormontato da un
gazebo bianco sporco, intorno al quale era cresciuta molta edera. Tia si
avvicinò e si mise a sedere nel gazebo.
Era fantastico. Sembrava
uscito dal castello delle fiabe! Eppure…
C’era qualcosa.
Qualcosa che non andava,
in quel gazebo.
Tia si alzò e guardò più
attentamente.
Poi la
vide.
C’era un paio di occhiali
dalla montatura antiquata posato a terra. Prima non lo aveva
notato.
Si abbassò e stava per
prenderli quando vide qualcosa in una fessura fra le pietre che pavimentavano il
gazebo. Un luccichio sinistro. Come il riflesso di una lama.
O di un
occhio.
Scosse la testa e posò gli
occhiali su un sedile di marmo, appoggiandosi imprudentemente ad una dei quattro
portacandele murati alle colonnette che pensava servissero a contenere torce per
illuminare il gazebo. Il portacandele cedette e si ruppe, facendo cadere Tia
proprio nel centro del pavimento. Dove c’era quella fessura.
La pietra sotto di lei
fece tlack.
Poi anche le
altre.
E Tia rotolò per delle
scale a chiocciola di pietra.