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Autore: itsmemarss    05/01/2011    1 recensioni
Leah ha ventanni. E' giovane, spiritosa, carina. Ma ha un problema: non riesce a innamorarsi. Qualunque ragazzo con cui stia, dopo un po' la molla, ma lei non riesce a versare nemmeno una lacrima. E ormai si è abituata alla cosa. Ma tutto cambierà quando deciderà di tornarsene a casa, a New York, e mettere da parte il passato. Chissà che non incontri qualcuno che le faccia cambiare aria...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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02


Qualche decina di minuti dopo, mi trovavo davanti alla facciata in mattoni rossi di una casa. Quella casa, per l’esattezza, che si trovava tra la 79esima passante per Amsterdam e Columbus Avenue. A diversi isolati dall’Upper East Side, dove viveva mia madre. Una cosa – certamente – positiva.
L’architettura era quella tipica dei vecchi palazzi newyorkesi, risalenti ai primi anni del Novecento.
Dovevano essere poco più di sei piani, ma mi bastava il fatto, che per guardare la mia finestra, il mio naso dovesse puntare dritto verso le nuvole.
Premetti il tasto del citofono sotto il nome Wakefield e, senza nemmeno che ci fosse bisogno di parlare, il portone si aprì. Evidentemente non aspettava che me.
Subito dopo il portone, oltre un atrio dal pavimento decorato a mosaici, c’era l’ascensore. Doveva risalire anch’esso alla costruzione originaria e non aveva subito molti restauri da allora.
Consisteva, infatti, in una specie di porta pacchi gigante con le sole inferriate nere a evitare di cadere nel cunicolo dei cavi.
Pigiai il sesto piano e le porte cominciarono a chiudersi, quando sentii la voce di qualcuno.
<< Aspetta! Aspetta… >> intuii quello che stava succedendo e misi una mano davanti al sensore.
La proprietaria della voce arrivò poco dopo, tutta trafelata. Sembrava quasi che avesse appena corso una maratona.
<< Grazie, davvero >> mi disse con il fiatone. Si appoggiò alla parete alla mia sinistra e gettò a terra la borsa. Nel frattempo le porte si richiusero e l’ascensore cominciò a salire. Tra le grate, però, scorsi un’altra figura, questa volta maschile. << E’ il mio ex. Stavo correndo per quello. Devi vedere come ha cercato di seguirmi… fin dal posto dove lavoro io. Quell’uomo. E’ una piattola vivente >> continuò la ragazza, forse notando la mia occhiata perplessa.
<< Ne so qualcosa >> mormorai.
<< Anche tu problemi con gli ex? >> mi chiese e annuii. Ridemmo entrambe, ognuna con un’immagine in testa. La mia rappresentava Matt, vestito come se fosse appena uscito dal letto, che correva per fermare l’aereo e veniva placcato da due uomini in abiti scuri. Dovevo ammettere, che non l’aveva presa poi così bene.
<< Comunque io sono Poppy >> disse lei, porgendomi la mano. Gli occhi azzurri che mi fissavano curiosi, i capelli legati in una coda alta. Portava un vestito a fiori e degli stivaletti di cuoio. Doveva avere la mia età.
<< Leah, piacere >> risposi di rimando, ricambiando la stretta.
Quando l’ascensore si fermò al sesto, scendemmo entrambe. Prima lei, poi io.
<< Ti sei appena trasferita, per caso? >> annuii. << Beh, io sono nella 308, se vuoi venire a spettegolare di uomini ultra appiccicosi >> prese qualcosa dalla borsa e aprì la porta. << Alla prossima allora! >>, con un ultimo cenno della mano, scomparì dietro la porta.
Fu solo in quel momento, quando sentii un leggero colpo di tosse, che notai che c’era qualcuno  appoggiato alla parete fuori dall’ascensore.
Era un ragazzo, le mani in tasca, la camicia bianca fuori dai pantaloni e con le maniche arrotolate sopra i gomiti. I jeans erano più larghi di una taglia. Appena incrociai il suo sguardo, mi fece un mezzo sorriso.
<< Prescott? >> chiese, facendomi cenno con il mento. Una leggera barba cresceva incolta lungo il suo profilo. Non gli dava, però, un’aria trasandata ma piuttosto… sexy. Frenai sul nascere le mie fantasie mentali per quello sconosciuto. Annuii e si staccò dal muro, porgendomi la mano.
<< Sono Ian, il proprietario dell’appartamento che vorrebbe affittare >> si presentò il ragazzo. Aveva i capelli neri, leggermente spettinati, che gli ricadevano sulla fronte. Gli occhi erano invece erano tutto il contrario di quella zazzera bohémien, di un grigio tanto chiaro da sembrare finto. Innaturale. Forse usava delle lenti a contatto…
<< Leah, piacere di conoscerla >> risposi, stringendogli la mano.
<< Il piacere è tutto mio. Se ora mi vuole seguire… >> disse, dandomi le spalle e cominciando a camminare lungo il corridoio dal pavimento coperto di moquet rossa.
 
* * *
 
Ian si fermò davanti all’ultima porta del piano. Sopra al legno, al centro, era inciso il numero 304.
Dalla tasca posteriore dei jeans, tirò fuori una chiave dorata. Nessun fronzolo. La girò nella serratura e la porta si aprì senza fare rumore, mostrando un piccolo ma accogliente appartamento tipicamente newyorkese, dove i muri crescevano più in altezza che in larghezza.
Dietro la porta, vi era un piccolo tavolino con un portaoggetti. Sulla parete alcuni quadretti, riprendenti barche a vela, e un appendiabiti.
Subito dopo l’ingresso si apriva un piccolo soggiorno dalle pareti giallo chiaro. Il pavimento era fatto di parquet, liscio e venato. Al centro del soffitto, vi era un lucernario.
<< Si apre sul terrazzo. Non è molto grande, ma ci si può mangiare durante l’estate >> suggerì Ian.
Non era ancora stato ammobiliato, ma presto sarebbero arrivati i camion dei traslochi con la poca roba che non avevo comprato in comune con Matt. Ecco, l’unica cosa negativa del rapporto con lui, era stato che avevamo dovuto prendere i mobili con una cassa comune. Così ora lui si ritrovava con mezzo soggiorno ed io con qualche sedia dell’Ikea.
Sempre nel salotto era presente la cucina, sistemata ad angolo. C’era il cucinotto con forno, il lavandino e sopra due piccole dispense, microonde e un frigo bianco con qualche calamita. Notai con terrore che non era presente la lavastoviglie: mi sarei dovuta arrangiare.
<< E’ un po’ piccola, ma c’è tutto >> intervenne Ian, mostrandomi come si apriva il tavolo, a ridosso della parete.
Il bagno, alla destra della cucina, era di media grandezza con le piastrelle bianche e qualche mosaico. C’era sia la doccia, che la vasca e un piccolo lavandino si trovava accanto al water.
Per ultima, ma non meno importante, c’era la mia stanza. Tre delle quattro pareti erano state dipinte di rosa antico, mentre l’ultima aveva i mattoni a vista, proprio dove avevo in mente di mettere la tastiera del letto. Non rimasi delusa dalla grandezza visto, che sembrava essere la stanza più grande della casa.
<< Ottimo. La prendo >> dissi infine a Ian e, dopo aver concordato sul prezzo, ci stringemmo la mano e tornammo in soggiorno. Domani avrei dovuto firmare delle carte.
Ian doveva aver notato la mia espressione completamente rapita, mentre davo un’ultima occhiata all’appartamento, il luccichio nei miei occhi, perché le parole che seguirono il movimento delle sue labbra riassumettero in poco i miei pensieri.
<< Beh, benvenuta nella sua nuova casa, Prescott >> esclamò, dandomi una pacca sulla schiena. << Se dovessi avere dei problemi, basta che bussi alla mia porta. Abito nell’appartamento qui accanto, il 305. Bene, ora la lascio. Devo sbrigare delle cose. Può tenere la chiave >> detto questo, Ian se ne andò, chiudendo la porta dietro di sé.
 
* * *
 
Una mezz’oretta dopo, mi trovavo già in strada, a farmi largo tra la folla di persone.
Non potevo ancora crederci: finalmente avrei vissuto in una casa tutta mia…
Ero talmente elettrizzata da non sentire più le gambe. O forse era a causa del venticello gelido che si era alzato, subito dopo il tramonto. Erano appena le sette di sera, ma io ero vestita come fosse pieno Luglio.
Mi affrettai a prendere un taxi e a tornare a casa. Mamma doveva essere già tornata e Lu’ poteva saperle tenere testa quanto voleva, ma ero certa che in questo caso sarebbe stato ancora più arduo.
In casa mia, mia madre dettava legge e c’erano due regole alle quali teneva più delle altre.
Uno: mai dimenticarsi di dire dove si era.
E due: essere sempre puntuali per la cena.
Guardai l’orologio. Erano le sette e un quarto. Avevo appena trasgredito anche alla seconda.
 
* * *
 
Arrivai a cena innoltrata, mentre tutti quanti erano già a tavola. I piatti vuoti, le facce ansiose.
Mamma mi venne incontro, lo sguardo contrariato. << Che cosa ti è saltato in mente? Uscire così, senza avvisare, e poi tornare a quest’ora… insomma, non è così che ho cresciuto mia figlia >> disse lei, mettendosi le mani sui fianchi e assumendo la tipica aria da ‘mamma infuriata’.
<< Ti prego mamma, non fare scenate. In fondo, stavolta, non ci sono nemmeno ospiti. Solo tu, papà e… >> intravidi una testa bionda, spuntare da dietro la spalla di Lucinda << Hunter! >> urlai, prima di gettarmi a braccia aperte su mio fratello.
Aveva due anni meno di me, eppure era più alto di una spanna e mezzo. Chissà cosa metteva nel latte la vecchia Lu’. Forse qualche strana polvere messicana…
<< Hei, Lee. Mi. Stai. Soffocando >> bofonchiò Hunter, da sotto la stoffa della mia maglietta.
Lo lasciai andare, ma solo per osservarlo meglio. Anche il viso era cresciuto. Il naso si era fatto più appuntito, il mento più squadrato e aveva perso anche l’ultima ciccia attorno agli zigomi.
Eppure, dall’ultima volta che lo aveva visto, dovevano essere passati… cavolo, due anni. Erano una vita, soprattutto considerando il fatto, che entrambi non avevamo passato più di cinque minuti l’uno lontano dall’altro, fin dalla nascita. In fondo, lui era il suo fratellino e non bastava aver raggiunto la maggiore età, per farglielo dimenticare.
<< Cavolo, sei un uomo ora… Huntie >> ammisi, sorridendo e spettinandogli i capelli.
<< Eddai, non chiamarmi così >> disse lui, sistemandosi la zazzera disordinata che aveva in testa.
<< Ma se l’ho sempre fatto, quando eri piccolo >> lo punzecchiai.
<< Infatti, ma ora sono cresciuto e non sono più un bambino >> rispose lui, la faccia seria.
<< E va bene, ho capito >> sospirai, arrendendomi.
Intanto mamma se n’era rimasta in disparte, ignorata da tutti. Povera mamma.
<< Allora? Insomma, in questa casa non mi ascolta più nessuno. Diamine Leah. Non vuol dire che anche se non viviamo più sotto lo stesso tetto, puoi permetterti di fare come ti pare. In Europa sarà tutta un’altra storia, ma fino a prova contraria questa casa non è mica un albergo! >> sbottò lei, dandomi le spalle e andando verso la cucina. Quando la porta si chiuse dietro di lei, nella stanza scese un silenzio di tomba.
<< L’hai fatta grossa stavolta, Lee… >> mormorò mio fratello, trattenendo una risata.
Sospirai. Hunter, per quanto mi desse fastidio ammetterlo, aveva ragione. Insomma, pensavo che mia madre fosse una persona abbastanza superficiale, che se la prendeva per tutto, che adorava qualsiasi cosa che io odiassi… ma questo non mi dava di certo il diritto di prenderla in giro.
In fondo era mia madre, mi aveva cresciuto, mi aveva educato – e per fortuna non avevo preso da lei – e mi aveva voluto bene. Non si meritava tutto questo.
Così decisi di andarle dietro.
<< Hei, Lee. Aspetta. Non azzardarti a usarmi come- >> la voce di Hunter si spezzò dietro il legno duro della porta della cucina.
 
* * *
 
<< Mamma? >> provai a dire, avvicinandomi a lei. Se ne stava appoggiata al lavandino, le mani sul bordo, la testa bassa. In quel momento mi sentii davvero in colpa. Per anni avevo riso delle sue tradizioni, della sua mentalità all’antica, che mi ricordava tanto gli anni ’50. Eppure, mai una volta che mia madre avesse detto qualcosa. Stavolta, però, era diverso. Avevo passato il segno.
<< Non capisco perché tu debba sempre essere così… così… >> cominciò lei.
<< Diversa? >> tentai io. << Categoricamente fuori posto nella vita che tu mi hai voluto costruire intorno? >>
<< No. No. Anzi. Non ho mai voluto che tu fossi qualcosa che non volevi, che diventassi una copia di me >> si voltò e mi venne incontro. << Vedi, tesoro, volevo solamente che avessi un modello corretto da seguire. Con delle regole, dei principi… volevo che potessi contare su insegnamenti che io, alla tua età, non sapevo. Sai che tua nonna, beh, non è mai stata molto presente nella mia vita. Non volevo che tu dovessi imparare a vivere… vivendo >> cercò la mia mano. Rimasi per qualche secondo ferma, immobile, a fissare quella mano così sottile, dove un piccolo anello d’oro contornava il suo anulare. Alla fine, gliela strinsi e alzai lo sguardo, incontrando il suo.
<< E per questo ti ringrazio, mamma, ma… è finito tempo fa il periodo in cui avevo bisogno di te. Ora voglio solamente contare su me stessa, voglio provare a farcela da sola. Voglio anche essere capace di sbagliare. Di arrivare in ritardo o di dimenticarmi di dirti dove vado. Voglio essere indipendente e, per quanto tu mi voglia bene, devi lasciarmi scegliere di vivere come voglio >> dissi, riepilogando anni di pensieri mai espressi.
Passarono un paio di minuti, prima che sul suo volto comparisse un tenue sorriso. Annuì, ricambiando la stretta. << Oh, Leah, hai ragione. Perdona la tua stupida mamma per essere stata così appiccicosa e rompiscatole >> disse, abbracciandomi forte. Accolsi quell’abbraccio con un sorriso, inspirando il suo profumo di violette. Non ero mai stata così vicino a mia madre da anni.
<< No, mamma, perdonami te >> biascicai. Sentivo le lacrime pungermi gli occhi, ma le ricacciai indietro. Non volevo rovinare un così bel momento con un bel pianto, seppure di gioia.
<< D’accordo, allora ci perdoniamo a vicenda. Pace fatta? >> chiese mia madre, staccandosi e mostrandomi il mignolino.
<< Pace fatta >> risposi io, mostrando il mio e stringendolo intorno al suo. Era come essere tornati bambini, quando bastava un gesto a far dimenticare ogni dolore.
Ti voglio bene mamma, pensai. Ed era vero.
 
* * *
 
Quella sera, a cena, ridemmo come non facevamo da secoli ormai. E le nostre risate furono condite dal buonissimo arrosto di carne, patate e sugo d’arancia di Lucinda. Mi mancava la sua cucina.
In Europa non avevo fatto altro che mangiare panini e cibo da fastfood. Difficilmente ero riuscita a prepararmi qualcosa di più sano. Anche perché, dovevo ammetterlo, non ero mai stata un mago ai fornelli. Risentire, quindi, il sapore dolce dell’agrume, mischiato a quello più speziato della carne, mi fece sentire finalmente a casa.
Chiacchierai e discussi degli usi e costumi europei insieme a mio padre, un uomo abbastanza taciturno e dall’animo timido. Non avevo mai avuto un rapporto molto stretto con lui: forse perché, quando ancora vivevo stabilmente qui, erano poche le volte in cui rimaneva a casa. Era una delle persone più intelligenti che conoscessi – tre lauree e poliglotta – e non mi meravigliava per niente che fosse poi diventato anche uno dei più importanti insegnanti di letteratura inglese di Harvard e Oxford. Prima della pensione, fino a quasi sei mesi fa, papà viaggiava ininterrottamente tra New York e Londra e viceversa.
Al contrario di mamma, era l’unico appassionato quanto me di viaggi e non disdegnava le culture diverse dalla nostra. Da giovane aveva addirittura visitato l’India e l’Africa, mete ancora sconosciute ai miei occhi, ma cui ben presto avrei rimediato.
Da lui, avevo sempre preso il colore dei miei occhi: azzurri, con una punta di verde.
Da mamma, invece, il colore di capelli: biondo grano. Da piccola mi ripetevano spesso quanto le assomigliassi.
 
* * *
 
Verso le nove, decisi che era il momento di fare le valigie e prendere tutte le poche cose che erano rimaste in quella casa, affacciata direttamente su Central Park.
Svuotai l’armadio, liberai i cassetti della scrivania e del cassettone, staccai i poster e le fotografie. Avrei lasciato solamente pochi oggetti per ricordare ai miei genitori quanto ancora fossi legata a loro. Per il resto, quella stanza, sarebbe diventata un fantasma di me.
Mentre ero piegata sopra a una selva inferocita di calzini spaiati, intenta a giocare a Memory con i miei vestiti, sentii qualcuno bussare alla porta.
Quando mi voltai, riconobbi il viso di Hunter, che mi guardava dall’alto del suo metro e ottantacinque. Naturalmente, trovandomi a terra, mi sembrava ancora di più un gigante.
<< Hei, Lee. Posso entrare? >> mi chiese.
<< Certo Huntie, fai pure >> risposi con un sorriso, tornando poi alle mie calze. Ero indecisa su un paio a righe rosa e un altro paio a righe rosa pallido. In fondo, qual era la differenza?
Non badai all’alzata di occhi di mio fratello, mentre lo chiamavo per l’ennesima volta con quel soprannome stupido e infantile. Eppure io lo trovavo così carino…
<< Te ne stai andando, vero? Insomma, potrai anche avere fregato mamma, forse papà sarà indifferente, ma a me non è sfuggito niente >> cominciò, il tono serio.
Naturale che lo avesse notato: c’era una valigia in mezzo alla stanza! Quando mai l’avrei tirata fuori da sotto il letto, se non per riempirla?
<< Mi trasferirò dall’altra parte di Central Park. Vi basterà prendere un taxi o la metro per venirmi a trovare >> risposi. Lasciai stare i calzini e lanciai entrambe le paia nella valigia.
<< Sì, ma… non sarà più come prima. Insomma, tu ti farai una nuova vita, mentre io sarò ancora qua, con mamma e papà. Soprattutto con mamma, che non farà che tartassarmi ancora di più, senza te cui rompere >> incrociò le braccia, appoggiandosi con la schiena allo stipite.
<< Oh, vedrai che la mamma cambierà prima, o poi >>.
Rimanemmo in silenzio per un po’. Lui a guardarmi tacito dall’alto, io a sistemare le ultime cose. Quando anche l’ennesimo poster fu tolto dalla carta da parati, sospirai e andai verso di lui.
<< Huntie? >> tentai, cercando il suo sguardo.
<< Uhm >> grugnì lui, sentendo nuovamente il suo nomignolo.
<< Rimarrai sempre il mio fratellino preferito, lo sai questo, vero? >> dissi, scompigliandosi i capelli biondi. Mi guardò irritato, ma alla fine notai l’ombra di un sorriso sul suo profilo appuntito.
<< E ora perché non mi aiuti a portare qualche valigia di là? >> chiesi, cominciando ad afferrarne una bella pesante. Hunter sospirò e alzò gli occhi al cielo, prima di prendere le altre due.
Le appoggiammo tutte davanti alla porta, nel piccolo ingresso.
Quella notte dormii in una camera vuota, sotto le coperte che utilizzavo da ragazzina. Non chiudevo gli occhi in quella stanza da secoli. Dopo il diploma, ero subito andata a vivere con Matt ed ero tornata occasionalmente a casa per qualche festa o compleanno. Non mi ero mai fermata più di un giorno.
Era triste pensare di andarmene. In realtà una parte di me era ancora legata profondamente alla mia famiglia, come se non fossi ancora cresciuta del tutto. In fondo… avevo solo ventidue anni.
Scossi la testa, cacciando via quei pensieri. Non ero più una ragazzina, non avevo bisogno della sicurezza costante dei miei genitori, volevo essere indipendente.
E quest’occasione mi avrebbe dato la possibilità di cambiare, di lasciare da parte la sindrome da Peter Pan e crescere davvero.
In fondo, come avevo detto anche al mio fratellino, erano solo pochi metri.
Anzi, ero sicura che, dall’ultimo piano del palazzo, fosse persino possibile notare le finestre del mio appartamento.
Mi addormentai con la voglia di andare a controllare.

   
 
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