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Autore: My Pride    29/01/2011    3 recensioni
Igni natura renovatur integra, salve spiritus ignis: flamma cerei te video doce mihi intellegere vis ignis.
Lux et lex, lux et veritas. Post tenebras lux in luce tua videmus lucem, in lumine tuo videbimus lumen”
«É questa la vera natura dell’alchimia del fuoco»

«Se le ho affidato la mia schiena e quelle ricerche è perché credevo in lei, Maggiore. Credevo nei suoi sogni, in un futuro dove tutti avrebbero potuto vivere felicemente. Ho continuato a crederci anche se siamo dovuti arrivare a questo»
[ Roy/Ed, Accenni HyuRoy e Royai ]
[ Partecipante al contest «My beloved one» indetto da DallasEfp ]
[ Spoiler del volume quindici, del Gaiden Blue e del Character Guide Book ]
[ Seconda classificata e vincitrice del Premio Giuria al «Queen Contest» indetto da Himechan84 ]
Genere: Guerra, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Edward Elric, Maes Hughes, Riza Hawkeye, Roy Mustang, Un po' tutti | Coppie: Roy/Ed
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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- Questa storia fa parte della serie 'Tra i bagliori del fuoco'
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Please, take me out of here_2
In mia difesa, cosa c’è da dire?
Tutti gli errori che abbiamo fatto devono essere affrontati oggi.
Non è facile ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
 

02. CUT #01 › ISHVAR AREA, 1908
SOMEWHERE IN GUNJA DISTRICT
 
    «Eravamo lì al fronte da non più di pochi giorni», cominciai, senza voler incrociare in nessun modo lo sguardo di Edward. Sentivo che, se l
avessi fatto, non sarei riuscito ad andare avanti, come se potessi turbarlo a tal punto da cambiare l’opinione che aveva di me. Era una paura stupida e infondata, ma si era insidiata nella mia mente e non aveva la benché minima intenzione di lasciarmi in pace. «Durante la notte, il silenzio era così assordante che riuscivo a sentire distintamente il pulsare del sangue nelle orecchie, ed era una sensazione tutt’altro che gradevole, sebbene la preferissi di gran lunga alle continue esplosioni che più e più volte mi ronzavano ancora nei timpani anche ad ore di distanza. Sulle labbra, certe volte, mi sembrava persino di avvertire ancora il sapore appiccicoso del grasso umano che bruciava, e il puzzo di cadaveri e cenere che permeava l’aria diveniva asfissiante man mano che il tempo passava.
    «Era la quarta sera o quinta sera, credo, e mi trovavo seduto sulle macerie di una delle tante case diroccate, non molto lontano dall’accampamento provvisorio che avevamo allestito nel distretto di Gunja, conquistato quel pomeriggio stesso
». Mi grattai una tempia con fare pensoso, aggrottando un po’ la fronte per sforzarmi di rammentare ogni particolare. «Tutto taceva, questo lo ricordo bene, e quella quiete così irreale rendeva quella tregua ancor più ansiosa. L’attacco sarebbe ricominciato alle prime luci dell’alba, non appena il sole avrebbe iniziato a far capolino oltre le dune di sabbia, e da dove mi trovavo mi sembrava che tutti, nessuno escluso, si stessero preparando all’offensiva sin da quel momento. E forse era proprio per quel motivo che mi ero allontanato per cercare la solitudine, così da avere qualche momento per ripensare a quello che, in quei pochi miseri giorni in cui mi ero ritrovato al fronte, avevo fatto».
    Mi fermai per riprendere fiato, attendendo che Acciaio recepisse tutto ciò che avevo detto fino a quel momento. In realtà non avrei voluto per niente ricordare quei giorni angoscianti, giorni in cui tutto quello che avevo fatto era stato bruciare qualsiasi persona vedessi ancora in vita, che si trattasse di guerriglieri, donne, anziani o bambini. Ma, man mano che ne parlavo con lui, mi sembrava di rivedermi ancora lì seduto, con la testa fra le mani e le palpebre abbassate, mentre dinanzi agli occhi mi scorrevano tutte le vite che avevo spento con un semplice schiocco di dita.
    «Non sapevo perché mi comportassi così, al principio», ripresi, sentendo soltanto gli occhi di Edward fissi su di me, come se aspettasse il termine del mio racconto per poter dire qualcosa. E non lo feci attendere molto, ricominciando non appena mi sentii io stesso pronto a farlo. «Ero consapevole del fatto che ciò che stavamo facendo era sbagliato, lo sapevo allora come lo so tutt’oggi, però c’erano comunque quei momenti in cui desideravo di farla finita da solo o disertare, così da porre fine a tutto», ebbi il coraggio di gettargli un’occhiata, sollevando le labbra in un falso sorriso prima di continuare. «Ma non fraintendermi, Ed, non cercavo affatto un modo per espiare le mie colpe, in quel modo. Non cercavo nemmeno commiserazione per me stesso.
So fin troppo bene che tutte le parole di questo mondo non sarebbero servite in mia difesa, date le numerose vite che ho continuato a spegnere. Se avessi provato a giustificare quel massacro o a tentare di rendere quei miei gesti confacenti ad un qualche bene superiore, sarei stato soltanto un ipocrita, ne sono consapevole. Sapevamo tutti che quella in cui ci eravamo ritrovati era una carneficina e non una guerra.
    «Ogni qual volta mi guardavo le mani - aye, Ed, quelle stesse mani che stai fissando adesso», soggiunsi, essendomi accorto dell’occhiata che mi aveva gettato di sfuggita. Si affrettò a distogliere lo sguardo, come un bambino beccato dal padre a fare una marachella.
    «Scusa, continua», bofonchiò, adagiando la schiena contro il divano prima di farmi un rapido cenno, come se volesse spronarmi a parlare ancora.
    Potevo ben capire il suo lieve ed impercettibile disagio, sebbene sapesse benissimo che parlarne era difficile anche per me. Non gli dissi dunque nulla, riprendendo semplicemente come se quella che stavano affrontando fosse una piacevole conversazione dinanzi ad una tazza di the. «Mi guardavo le mani, dicevo
», ricominciai, abbassando lo sguardo sui palmi aperti, «e non vedevo più le mani di un ragazzino sognatore che sperava di poter rendere il mondo un posto migliore. Vedevo solo le mani di un assassino. Nonostante non mi trovassi mai al centro di un conflitto a fuoco e non fossi obbligato ad utilizzare la mia pistola, mi sembrava sempre che le mie mani fossero sporche di sangue. E forse, metaforicamente, era davvero così.
    Sollevai lo sguardo verso il soffitto, fissando intensamente la piccola macchia di umidità che c
era tra lo scaffale dei libri e la finestra allangolo della stanza, pensoso. «Sai, una volta Riza mi disse che aveva deciso di adempiere al proprio dovere utilizzando un’arma da fuoco perché, diversamente da quelle bianche, quest’ultima non lascia la sensazione d’aver ucciso il nemico con le proprie mani [1]. Anche se in quel modo sapeva di mentire a se stessa, era la strada che aveva deciso di percorrere a differenza di me. Potendo usufruire del potere del fuoco, l’arma che utilizzavo ero io stesso.
    «E ogni volta che mi ritrovavo a fare i conti con quella consapevolezza, mi guardavo le mani, fissando con disappunto - nay, forse sarebbe più giusto dire con orrore - i guanti ormai logori e consumati che indossavo. Non puoi immaginare quante volte avessi l’impulso di toglierli e di gettarli via disgustato
», confessai, storcendo il naso in una smorfia, «ma la ragione prevaleva sempre su quel mio malsano desiderio. Se l’avessi fatto, non avrei avuto con me nessun’arma abbastanza rapida per poter affrontare un eventuale nemico che si fosse presentato. Ma anche liberarmene non sarebbe servito a lavar via le colpe di cui mi ero così rapidamente macchiato, quindi sarebbe stato pressoché inutile. Quando avevo indossato la divisa, avevo ben immaginato a cosa sarei andato incontro, e persino uno dei tanti alchimisti lì presenti, Zolf J. Kimblee, non aveva mancato di ricordarmelo».
    «Kimblee», ripeté Edward, masticando quel nome come se non gli piacesse per niente. Lo conosceva, aye, ma non sapevo in quali occasioni l’avesse incontrato. Mi aveva vagamente raccontato di Briggs, di quando si era ritrovato nel Nord e aveva scoperto esserci anche lui e qualche cosa sporadica di quanto era successo, ma nulla più.
    Abbozzai una specie di sorriso, traendo un altro lungo sospiro prima di ritrovarmi a volgere lo sguardo verso la finestra. Aveva cominciato a piovere, e le gocce picchiettavano insistentemente contro il vetro come dita frettolose di visitatori improvvisi che cercavano riparo. «Lui era il male minore, credimi», ironizzai, concentrato sul ticchettio ritmico della pioggia. «Ma avercelo intorno era la cosa peggiore che potesse mai capitarti, sul campo di battaglia. Si divertiva a far esplodere la gente, quel folle», soggiunsi con disprezzo, sentendo un epiteto ben poco cordiale rivolto al suo indirizzo da parte di Edward. «Non posso, però, dire di essere stato migliore di lui, ad Ishvar. O uccidevi o venivi ucciso, e io non avevo intenzione di morire, anche se mi portavo dietro un sentore di morte che si avvertiva sui miei abiti. Persino sui miei guanti. Odoravano di fumo e sangue, esattamente come l’aria che respiravo. Prima di partire per la guerra li avevo lavati con del sapone, ma avevo cominciato a non avvertirne più il buon profumo già dopo i primi due giorni. Era stato invece sostituito da quel tanfo insopportabile, e mi sembrava persino di poterlo avvertire sul palato, di poterlo assaporare come se fosse stata una pietanza disgustosa.
    «Ed era stato proprio per riflettere su tutto quello che era accaduto in quei pochi giorni che mi ero allontanato, sebbene sapessi che fosse una stronzata. Ero difatti così assorto nei miei pensieri che ci avevo messo non poco ad accorgermi dell’avvicinarsi di un’altra persona. Avevo drizzato immediatamente il capo e mi ero portato una mano all’altezza del cuore, unendo pollice e medio prima di scattare rapidamente in piedi per fronteggiare quel mio inaspettato avversario; ciò che vidi, però, mi lasciò di stucco. Non era un nemico, bensì Maes, e stava imitando con due dita la forma di una pistola, puntandomela contro. “Bang”, mi disse, abbozzando persino un sorriso sarcastico. “Se fossi stato un nemico, tu saresti già morto”.
    «Non sai quanto ebbi davvero la voglia di abbrustolirlo, quell’idiota». A quel mio stesso dire sorrisi, il primo sorriso sincero di tutta la serata, probabilmente. Ricordare Maes mi aveva sempre messo di buon umore, in un modo o nell’altro, e spesso e volentieri non nascondevo che quello scemo mi mancasse tremendamente. Erano passati così tanti anni dalla sua morte che, a volte, stentavo persino a credere che fosse accaduto davvero. Ma non era il momento di pensarci, ora come ora. «Mi rilassai con una certa difficoltà e lo fissai con nervosismo, non prima d’aver abbandonato la posizione d’attacco che avevo assunto e aver abbassato le braccia. “Ti rendi conto che hai rischiato d’essere arrostito sul serio, razza d’idiota?” gli tenni presente, ma lui si limitò semplicemente a fare spallucce, come se la certezza di quel pericolo non l’avesse sfiorato nemmeno per un attimo.
    «Si sedette al mio fianco, sistemandosi di poco gli occhiali sul naso. “Starsene qui da soli è pericoloso. Lo sai, vero?” mi ricordò, fissandomi con attenzione e grattandosi una ferita che aveva sulla tempia, nascosta da un piccolo cerotto. “Potrebbe sbucare qualcuno all’improvviso e accopparti sul serio, amico mio”.
    «Quella sua premura mi fece stranamente sorridere, ma invece di continuare a guardarlo volsi lo sguardo altrove, facendo vagare distrattamente gli occhi fra quelle rovine desolate e oltre, su verso il cielo cupo. “Se siamo fortunati, abbiamo ancora un occhio di falco a vegliare su di noi”, replicai, ed ero più che certo che quelle mie parole non fossero solo una speranza, bensì una certezza.
    «Con mia sorpresa, però, Maes scosse il capo. “Tu prima o poi dovrai spiegarmi in che rapporti sei, con quella ragazza. Sembrava conoscerti molto bene”, mi disse, e quasi mi sembrò che il suo fosse un fare vagamente sospettoso».
    «Vorrei saperlo anch’io in che rapporti sei con il Tenente Hawkeye, ad esser sincero», mi fece quasi il verso Edward, interrompendo il flusso dei miei pensieri e anche il mio racconto, facendomi tornare alla realtà. Sarebbe stato stupido dirlo, probabilmente, ma mi ero quasi dimenticato che stavo raccontando quella storia proprio perché era stato lui a chiedermi di farlo. A quanto sembrava mi ero immerso un po’ troppo nei ricordi del passato.
    Sbattei le palpebre, abbassando  lo sguardo su di lui prima di abbozzare un altro mezzo sorriso. «Adesso non mi dirai che sei geloso, voglio sperare», lo presi in giro, sporgendomi per abbandonare il libro sul tavolino dinanzi a me e scivolare un po’ verso di lui sul divano, vedendolo aggrottare la fronte.
    Distolse lo sguardo e incrociò le braccia al petto, sbuffando. «Tsk, e perché mai dovrei essere geloso», ribatté, ma qualcosa, nella sfumatura che aveva assunto la sua voce, faceva ben intendere che fosse esattamente così. «Non ho alcun motivo di esserlo, la mia era una costatazione dettata semplicemente dalla curiosità».
    Curiosità, certo. Se la sua era solo curiosità, io a diciassette anni ero ancora vergine. E il mio era puro sarcasmo, se non si fosse capito. «Ti parlerò in modo approfondito anche di ciò che mi lega a Riza, se mi vorrai ascoltare», gli promisi ironicamente. «Ma per il momento non è molto importante ai fini della storia», soggiunsi, giacché quella, in fin dei conti, era la pura e semplice verità.
    «Continua, allora», mi disse subito, insistendo nel non guardarmi. Ce ne sarebbe voluto, di tempo, prima che quella sua stramba convinzione che ci fosse stato del tenero fra me e Riza crollasse.
    Non gli diedi più tanto peso, riprendendo da dove mi ero interrotto. «Tutto ciò che mi limitai a dire a Maes fu “Se vorrà che te ne parli, allora lo farò”, liquidando in quattro e quattr’otto quella faccenda.
    «Lui non era però sembrato accontentarsi, tanto che lo sentii dire “Deve trattarsi di un legame molto serio, allora, se la metti così”.
    «Non gli risposi, provando in qualche modo a cambiare discorso. “Riguardo ai tuoi di rapporti, invece?” gli chiesi, fissandolo con attenzione. In altri momenti avrei trovato quelle argomentazioni di poco conto, futili chiacchiere da salotto per distrarsi un po’, ma lì, al confine fra la vita e la morte, risultavano un ottimo modo per non impazzire. Ritrovarsi a fare i conti con una realtà come quella mettevano a dura prova, ogni singolo giorno, la mentalità di un essere umano
». Mi strinsi un po nelle spalle, forse a disagio, cominciando a sentire l’aria abbastanza soffocante. Fortunatamente, però, la presenza di Acciaio accanto a me riusciva in qualche modo a tranquillizzarmi. «Ho sentito dire che quando una persona si ritrova nel bel mezzo di continue esplosioni e proiettili che piovono da tutte le parti, la sua psiche va in stato di shock e il corpo rimane paralizzato [2], e posso confermarti con assoluta certezza che è davvero così, Ed.
    «In quanto soldati eravamo costretti ad obbedire a qualsiasi ordine e a commettere quelle brutalità, ma non erano stati pochi coloro che si erano rifiutati di farlo, venendo spediti a Central City per aver disobbedito agli ordini. Anche il Maggiore Armstrong l’aveva fatto. E, Dio, quante volte mi ero ritrovato ad accarezzare a mia volta quella stessa e identica idea», sospirai, scuotendo il capo prima di alzare ancora una volta lo sguardo verso il soffitto. Quella, almeno per il momento, era una conversazione che avrei voluto in qualche modo evitare. Mi sentivo già abbastanza a disagio a confessargli tutto ciò che avevo fatto ad Ishvar. «Dicevamo di quel discorso che avevo messo su, comunque», mi affrettai ben presto ad aggiungere, sperando così di distrarmi a mia volta. «Aveva fatto passare degli attimi interminabili, ma alla fine Maes si era deciso a rispondermi. Non mi disse ciò che mi aspettavo, ma solo “Mi è arrivata questa” e lo vidi infilarsi una mano nella tasca interna del soprabito logoro che indossava, cacciandone una busta tenuta alla bell’e meglio.
    «Ci avevo messo un po’ a capire di cosa si trattasse e, forse, mi ero ritrovato ad incupirmi mentre osservavo quel che mi mostrava. “Un’altra lettera della tua donna?” gli chiesi però, e mi stupii per il fatto che, stranamente, non si fosse lasciato andare ad uno dei suoi soliti gridolini di giubilo.
    «Vidi fiorire sulle sue labbra appena un piccolo sorriso, ma scomparve immediatamente per dar vita ad una lieve smorfia. “Già”, asserì mesto, riabbassando la lettera per posarla sulle proprie cosce. Mi accigliai. “Beh, che fai? Non la apri?” gli domandai, ma lui scosse semplicemente il capo. “Nay, non stavolta”, ribatté, guardando intensamente la lettera prima di sistemarsi appena gli occhiali sul naso “perché sono sicuro che non resisterei qui un giorno di più, se lo facessi”, soggiunse, e mi scoccò subito dopo una rapida occhiata. “Potremmo morire in qualsiasi momento, e saperla a Central da sola mi terrorizza”.
    «Un po’ lo capivo, in fin dei conti. La prospettiva di lasciare da sola la donna che amava l’aveva sempre spaventato, ed era specialmente per quel motivo che continuava a combattere. E forse fu proprio per quello che mi sentii in dovere di rassicurarlo in qualche modo. “Non parlare così, stupido. Glacier attende il tuo ritorno, giusto?” gli dissi, battendogli una mano sulla spalla. “Anche se questo non è lo splendido futuro che avevamo immaginato, dobbiamo andare avanti e far sì che lo diventi. E poi non è per niente carino far aspettare troppo a lungo una donna, sai?”
    «L’avevo detto per provare a sdrammatizzare e alleggerire così la tensione che si era creata fra noi, e in parte ci riuscii. Mi regalò un nuovo sorriso stiracchiato. “Sei sempre stato un sognatore”, ribatté, riabbassando lo sguardo sulla lettera che aveva abbandonato. “Dici che dovrei aprirla, allora?”
    «Per tutta risposta, mi allungai per afferrarla e strappargliela praticamente dalle mani, rigirandomela fra le dita. “Se non lo farai tu, lo farò io”.
    «“Ma nemmeno per sogno!” s’infuriò subito, sporgendosi per recuperarla. E mentre lottavamo scherzosamente per quel pezzo di carta così prezioso per lui, non potei fare a meno di sorridere, forse con una punta di tristezza. E ancor più quando finalmente recuperò la lettera, borbottando qualcosa fra sé e sé. Dopo un po’ di tentennamenti e un monologo, si decise infine ad aprirla con mani tremanti, quasi stesse maneggiando un ordigno che sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro; baciò la lettera prima di spiegarla, come se per lui fosse ormai diventato un rituale di buon auspicio, e mi ritrovai ad assistere ad una serie di gridolini insensati degni di una tredicenne alla prima cotta quando vedemmo ciò che quella lettera conteneva. Una fotografia di Glacier, accomodata su una sedia di legno, con un gatto acciambellato sulle cosce. Indossava un semplice vestito chiaro ed uno scialle a fasciarle le spalle, ma risultava incantevole, ancor più con quel bel sorriso dipinto sulle labbra.
    «Vedere Hughes così felice mi faceva sentire... strano, come se in qualche modo fossi geloso di lui. Non saprei spiegarti il perché, Ed, era un qualcosa che non riuscivo a comprendere nemmeno io e che forse non avrei mai compreso, neanche adesso. Forse la sua felicità, per quanto mi facesse sorridere, mi ricordava dolorosamente che a casa ad aspettarmi non c
era nessuno. Sarei potuto morire da un giorno all’altro e forse nemmeno mia zia sarebbe stata avvertita della mia dipartita, dato che erano in pochi a sapere del nostro legame di sangue».
    A quel pensiero, scossi immediatamente il capo, non volendo pensarci. Dopo la morte di mio padre, zia Chris era sempre stata particolarmente apprensiva nei miei confronti, e non era stata nemmeno molto entusiasta della mia idea di iscrivermi all
’accademia militare, quando l’aveva saputo. Aveva ceduto solo perché, a suo dire, la mia tenacia le aveva ricordato mio padre e aveva capito che nulla sarebbe riuscito a smuovermi da quell’obiettivo che mi ero prefissato.
    «Comunque sia, ci misi un po’ a far smuovere Maes da lì, ad esser sincero», ripresi, tornando sui miei passi. «Sembrava che fosse ormai sulle nuvole, dato il modo in cui continuava a baciare quella lettera; ci sarebbe mancato poco che si mettesse a piroettare fra quelle rovine, conoscendolo. Fui io stesso ad accompagnarlo nella sua tenda e a lasciarlo lì, non prima di avergli dato qualche consiglio ed essermi rassicurato io stesso in qualche modo. Non mi sarei dato pace se gli fosse successo qualcosa, e non solo perché era per me un amico fin troppo prezioso. Probabilmente era stato per un po’ persino il fratello che non avevo mai avuto.
    «Rientrai nella mia tenda con quei pensieri e mi adagiai in terra, per poter riposare anch’io. Mi addormentai così, seduto su quel terreno freddo e con la testa fra le mani, sognando un mondo diverso da quello che, io e mille altri, stavamo fronteggiando».




[1] Citazione tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo sessantuno: “L’Eroe di Ishvar”.

[2] Citazione tratta dal manga.
Volume nove, capitolo trentaquattro: “Sulle tracce di un compagno d’armi”.



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