Capitolo 7
“Risveglio”
Si fece forza e aprì lentamente gli occhi, mettendo a fuoco,
poco per volta, la fisionomia di uno dei lampadari del ristorante.
La testa gli martellava ancora con insistenza e faticava a mettere
insieme un pensiero logico, tuttavia una voce lontana gli ripeteva che
non c’era tempo da perdere.
Mu Si tentò di rammentare qualcosa di più
definito. Come mai si trovava disteso sul pavimento e così
frastornato? Ah, sì.
Ricordava che il Nekohanten aveva chiuso i battenti da diversi minuti,
quando il silenzio del locale era stato spezzato dallo squillo del
telefono.
In quel momento si trovava in cucina, circondato da pile di piatti da
lavare, e perciò era materialmente il più vicino
al ricevitore. Sorpreso data l’ora tarda, ma anche fin troppo
lieto di trovare una distrazione al suo sfruttamento disumano, aveva
raggiunto con prontezza il ricevitore e sollevato la cornetta.
La pelle gli tremò una seconda volta, ripensando alla voce
che subito dopo aveva udito all’altro capo del filo.
Non era ancora riuscito a riprendersi del tutto dalla sorpresa e a
chiedere spiegazioni, che la vecchia Cologne gli aveva strappato il
telefono di mano. La sua voce gracchiante gli entrò di
nuovo, non richiesta, nella mente.
“Cosa combini, impiastro?! Mai che tu faccia
qualcosa di giusto!”
L’intervento di Obaba, fin troppo tempestivo, aveva
incrementato i suoi sospetti.
“Ridammi la cornetta, vecchia! Oppure hai
– o dovrei dire: avete – qualcosa da
nascondermi?!”
Mentre parlava, le si era avvicinato con aria intimidatoria.
“Non crederai di poter minacciare proprio me!
Adesso lasciami rispondere a questa chiamata, o sarò
costretta a metterti fuori causa per un po’ di
tempo!”
Pur notando che la vecchia aveva afferrato un secchio pieno
d’acqua, Mu Si non aveva perso un minimo della sua baldanza.
Gli era sembrato, anzi, di essere tornato in Cina, ai bei tempi.
“Noto che la memoria, alla tua età,
gioca dei brutti scherzi… perché ora che sono
guarito dalla maledizione di Jusenkyo non sarà certo
quell’acqua a fermarmi!”
Infatti non era stata l’acqua a fermarlo bensì il
secchio, che lo aveva colpito duramente sulla tempia e di cui tuttora
serbava il dolorosissimo ricordo.
Maledizione! Pensò,
frustrato. Se
la testa smettesse di rimbombare un solo dannato istante!
Provò ad alzarsi in piedi, ma l’equilibrio
raggiunto era troppo precario e stava per ricadere subito a terra. Una
mano lo sorresse prontamente.
“Finalmente ti sei ripreso… Quante volte
dovrò ripetertelo?! Non c’è un secondo
da perdere!”
Nabiki non si era mai sentita più viva.
Ritmiche folate le accarezzavano la pelle mentre saettavano insieme con
grazia melodica di tetto in tetto, come se stessero volando a tempo di
musica.
Va bene, forse stava un
poco riconsiderando
i vantaggi dell’essere un artista marziale e trovarsi in un
certo distretto di Tokyo. Magari era ancora in tempo per farsi dare
qualche lezione da papà. Oppure, molto più
semplicemente, avrebbe potuto ricattare Ranma perché
d’ora in poi la portasse a scuola in groppa sulle sue spalle.
Queste, comunque, rimanevano fantasie. Le spalle alle quali in questo
momento si stava affidando, facendo il possibile nel contempo per non
mollare la presa dalla borsa, erano quelle di un ninja molto meno
virile: tuttavia Nabiki non si sentiva in vena di lamentarsi.
“Più veloce! Più veloce!”
Konatsu tentò di accelerare l’andatura ma, oltre a
non essere altrettanto divertito, le parve in evidente
difficoltà. “Mi perdoni, più di
così non posso. Comunque ci siamo quasi.”
Nabiki si ricompose, sebbene la fretta di raggiungere il Furinkan non
si fosse quietata.
Ranma doveva essere ancora nei pressi della scuola. In quel caso,
sicuramente vi avrebbero trovato anche la disgraziata persona
responsabile di tanti misteri.
Tuttavia lei doveva calmarsi, lasciare che l’adrenalina
fluisse via, o almeno distrarre la propria eccitazione
finché non fossero arrivati: così la mente non
trovò di meglio che riordinare le idee una volta di
più. Dopotutto non era stato per nulla facile, ammise,
comprendere cosa fosse realmente avvenuto la notte scorsa.
Il problema era che per troppo tempo aveva semplicemente dubitato della
sanità mentale del signorino Saotome. Ma fin
dall’inizio Nabiki sapeva che una sola persona aveva i mezzi
necessari per giustificare in altro modo l’apparizione di sua
sorella, e appunto di quella persona non si era mai fidata, nemmeno
quando aveva detto loro che ormai non era rimasto più nulla
da fare per Akane.
Sorrise. La prova era in mano sua, ora. Anzi, le prove. Una manciata di
fotografie scattate in un certo ripostiglio, dove erano conservate le
fiasche con le acque maledette che lo ‘zietto’ si
era fatto spedire dalla Cina.
Quelle fiasche avevano sortito in lei molti sospetti. Perché
Genma Saotome aveva dettato come destinatario l’indirizzo del
Nekohanten, anziché quello di casa Tendo? La cosa in effetti
poteva anche avere un senso, dato che le fiasche erano due: una di
Nannichuan per i ‘soliti noti’, ma pure una di Niannichuan,
la sorgente della ragazza annegata, per Shampoo.
Sennonché, era strana tanta premura da parte di Genma. E
l’amazzone, d’altro canto, si era subito separata
dal resto del gruppo e non era ancora tornata in Giappone. Almeno, non
secondo la versione ufficiale dei fatti.
Fin qui, parlavano gli indizi. Ma adesso che a prendere la parola erano
le prove…
Nabiki sbirciò ancora una volta, attenta a non mollare la
presa da Konatsu, una delle foto incriminanti.
Aveva sospettato che la fiasca di Niannichuan non fosse tale, ma almeno
in questo si era sbagliata: confrontando le immagini con le grafie
cinesi che aveva memorizzato con cura a casa, poteva affermare senza
ombra di dubbio che le scritte sulle targhette delle fiasche recavano
veramente i nomi ‘Nannichuan’ e
‘Niannichuan’.
Con tutto ciò, restava una possibilità che non
aveva esaminato e che ora si manifestava davanti ai propri occhi con
l’evidenza della foto che teneva tra le mani:
un’evidenza superiore perfino alle sue più
ottimistiche aspettative.
Molto semplicemente le fiasche non erano due, ma
tre.
“Ranma?”
Si spostò con cautela, accendendosi di speranza
nell’udire il nome di suo figlio. Un momento più
tardi si rese conto che la voce era rivolta proprio a lei.
“Purtroppo temo di no.” Disse, accennando un
sorriso e mostrandosi alla luce della torcia.
“Oh, signora Nodoka.” La voce del signor Soun
tradiva un filo di delusione ma, le parve, anche un moto di sollievo.
“Vi aspettavamo.” Proferì loro quel
gentile e affabile dottore che aveva incontrato un paio di volte
nell’abitazione del proprio ospite. “Io e il signor
Tendo ne abbiamo discusso, e pensiamo che sia meglio per voi spostarvi
in un luogo più...” Ma la frase restò
sospesa a metà.
Senza chiudere bocca, il dottore si limitò a guardare nella
sua direzione con un’espressione vagamente istupidita, un
po’ come quella di chi aveva appena visto un fantasma. E se
si fosse trattato invece di Ranma? Nodoka smorzò il respiro
e voltò adagio il viso, ma non scorse alcuna nuova presenza
alle proprie spalle.
Niente. Dietro di lei c’era solo la cara Kasumi che
l’aveva raggiunta e si stava affacciando, lasciandosi
illuminare a sua volta dal fascio della torcia del dottore.
Riportò la propria attenzione verso di lui. Immobile in
piedi, inspirava profondamente a intervalli regolari: lo stress di
quella notte si stava facendo sentire per tutti, e a lei che era la
moglie di un artista marziale non poteva sfuggire una reazione
così tesa. Anche se non si sarebbe mai aspettata che il
dottor… Tofu, se non errava, fosse una persona tanto
sensibile.
Il signor Soun tossì e prese la parola. “Come
stavamo dicendo… abbiamo motivo di credere che
l’autore della tecnica energetica di qualche minuto fa possa
essere proprio Ranma. In questo caso, non sarebbe prudente trovarsi
sulla sua strada per chi non è addestrato nelle arti
marziali.”
Nodoka annuì. S’inginocchiò e disse ai
due uomini: “Ho piena fiducia nelle vostre
capacità. Mi affido a voi, vi prego di riportarmi mio
figlio.”
Il signor Soun borbottò qualcosa, come imbarazzato, a
proposito di rialzarsi, che non era necessaria tanta
formalità. Curvando lievemente il solo capo
all’insù, Nodoka scorse però la fiera
determinazione dei loro sguardi e ne fu rasserenata. Anche il
portamento del dottore, adesso, era tornato quello di pochi istanti
prima e le trasmetteva un forte sentimento di speranza.
Certo lei non avrebbe voluto farsi da parte, tuttavia sapeva che questa
era la cosa più giusta. Un senso di rimpianto le
riempì, improvviso, il petto, ma aveva tutt’altra
natura.
Genma… come puoi, stanotte, non essere con loro? Si
domandò. Che
ne è del tuo dovere di artista marziale? E soprattutto cosa
ne è della tua responsabilità di padre?!
Non fece in tempo a rialzarsi del tutto, che avvertì dei
rumori provenire da dietro le fronde poco distanti. Si voltò
assieme agli altri nella loro direzione e, mentre gli uomini assumevano
le pose da combattimento, strinse protettivamente a sé una
Kasumi fin troppo silenziosa.
La mole di un panda si fece largo tra il fogliame. Portava qualcosa di
grosso con sé, ma non riusciva a distinguere di cosa si
trattasse. Né le importò più quando
udì una voce maschile intimare con rabbia al padre di
fermarsi.
Il signor Soun si scosse, come interdetto. “Amico
mio…” Esclamò nitidamente, mentre il
panda si rifugiava dietro di lui.
Il dottore, al contrario, avanzò con risolutezza verso la
nuova sagoma che, ansimante, sbucò a sua volta nel largo
spiazzo del cortile. Nodoka staccò istintivamente la presa
da Kasumi e portò entrambe le mani al petto.
Il suo Ranma, il bimbo che aveva cresciuto con amore nei suoi primi
anni di vita e che aveva ritrovato da così poco tempo, ormai
divenuto un uomo forte e impavido, adesso non somigliava ad alcuno dei
due. Non indossava più la camicia, e la canottiera, in buona
parte stracciata, lasciava scorgere solo terra, lividi e tagli. I
capelli gli cadevano disordinatamente sulla fronte, la bocca digrignava
frenetica come schiumando rabbia e pareva che ogni muscolo volesse
imitarla nel suo gesto.
“Ranma. Respira, riprendi il controllo.” Gli disse
il dottore con voce ferma. Ma il povero ragazzo respirava
già abbondantemente, come a corto d’aria
più per l’agitazione che per la corsa, che pure
doveva aver sostenuto. Si era fermato a pochi passi dal dottore, ed era
come se il suo sguardo attraversasse lui e poi il signor Soun per
posarsi infine su suo marito.
Solo in quell’istante notò che Genma aveva
estratto un cartello.
‘È fuori di sé! Salvatemi,
vuole uccidermi!’
E così era arrivato a questo!
Lurido vigliacco!
Assistere allo stomachevole spettacolo del proprio vecchio che si
faceva scudo con Tendo, prendendosi pure la briga di ostentare
quell’assurda scritta, fece dimenticare a Ranma le ferite che
gli si erano riaperte. Voleva parlare, anzi gridare, ma non aveva
ancora recuperato abbastanza fiato e allora si limitò a
lasciar vagare il proprio sguardo sui presenti, che lo fissavano con le
pupille ristrette dalla paura.
Ancora…!
Com’era possibile?! Quel bastardo aveva rapito Akane,
portandosela via come un sacco di patate, e gli altri addirittura lo
proteggevano! Si diede dell’idiota per aver pensato di poter
comunicare con loro, ora vedevano lui come il
mostro. Era a questo che papà mirava fin
dall’inizio?!
Maledetto! Se è così non ti
perdonerò mai! MAI!
Udiva il battito affrettato e assordante del proprio cuore, ma non
voleva saperne di perdere un solo istante di più:
accennò a scansare da sé l’ostacolo che
lo separava da Soun e quel dannato per chiudere a
quest’ultimo ogni via di fuga, ma Tofu fu più
rapido a schivare il movimento delle sue braccia per poi saltare di
lato e pararsi davanti a lui, un’altra volta, le loro facce a
pochi centimetri di distanza, con aria di sfida.
Non anche lui! Almeno Tofu avrebbe dovuto capire! Le labbra del dottore
si muovevano, ma a Ranma le parole giungevano come ovattate, mentre
l’intera sua attenzione era catturata dal sangue che
avvertiva ribollirgli nelle vene e implorarlo di non trattenersi oltre.
“Ranma!” Si sentì gridare, e per un
momento provò un moto di soggezione. Quel tono
così severo, che era sicuro di non aver mai udito uscire
dalla bocca del mite dottore, lo costrinse ad alzare gli occhi e
incontrare i suoi, che si accorse di aver finora accuratamente evitato:
ciò quietò per qualche secondo i suoi istinti,
risvegliò il rispetto che gli aveva sempre portato e lo
convinse a concedergli un’occasione.
Allentò la presa del braccio sinistro, aprì la
mano e la portò all’altezza del petto, come per
accompagnare le sue parole.
“L’ha”, Ranma stesso non riconobbe la
propria voce rauca, “rapita.”
Tofu non si mosse.
“L’ha rapita.” Ripeté Ranma.
“Sto dicendo il vero! Akane è
qui!”
I vetri delle lenti rimanevano puntati verso di lui, leggermente opachi.
La mano smise di vagare a mezz’aria e afferrò
bruscamente la veste dell’interlocutore.
“Dannazione, non capite quello che ho detto? Avete Akane
sotto il vostro naso, perché diavolo non volete
credermi?!”
Tofu assecondò lo strattone, senza vacillare.
“Innanzitutto devi calmarti.” Gli disse.
“E dopo…”
“Non dopo! ORA!” Ruggì Ranma. E mentre
lasciava violentemente la presa, l’altra mano, ancora chiusa
a pugno, colpì il petto di Tofu.
O così aveva creduto. In realtà dovette
constatare di aver soltanto smosso una manciata di aria, avvertendo
contemporaneamente una presenza alle proprie spalle. Deciso a non
perdere il vantaggio della prima mossa, Ranma si buttò per
terra raggomitolandosi su se stesso: avvertì
l’attacco dell’altro, che cercava di raggiungerlo
con le braccia, e allora fece presa sui palmi sbucciati e, senza
guardare, scagliò un calcio all’indietro.
Sentì di aver toccato qualcosa e, allo stesso tempo, un
mugolio sommesso confermò la sua impressione. Sicuro che il
colpo fosse andato a segno, Ranma si rialzò e si
voltò, ma fu preso in contropiede da un doppio affondo di
Tofu.
No, maledizione! Inarcò
disperatamente il busto per scansare le sue mani, ma una di quelle
riuscì a toccargli la spalla: avvertì ogni
terminazione nervosa in preda allo spasmo, come se si fosse ustionato,
ma la fitta scomparve subito insieme a ogni altra sensazione e,
provando a muovere il braccio destro, scoprì che i muscoli
non solo avevano smesso di tormentarlo ma non rispondevano
più ad alcun proprio comando.
Si ritrasse di qualche altro passo, sostenendo il peso morto con
l’altra mano. Incrociando di nuovo lo sguardo di Tofu,
s’avvide che questi ansimava più di lui.
“Ranma, non costringermi a proseguire.” Gli disse,
ma la voce era spezzata e il sudore colava abbondante dalle sue tempie.
“Mi basterà toccarti… un altro paio di
punti di pressione… per immobilizzarti del tutto. Sempre che
tu riesca una seconda volta… a evitare che ti stimoli i
nervi giusti per farti perdere i sensi.”
E Ranma ghignò, sentendosi invadere da una rabbia euforica.
La mano spellata che riusciva ancora a percepire gli bruciava in modo
vivido e l’adrenalina non bastava più a fargli
ignorare le parti del corpo già sofferenti e gli altri ricordi dello
scontro di prima, con Ryoga. Quel
maiale c’è andato proprio pesante,
stavolta…! Eppure
sapeva che, in un certo senso, era proprio il dolore a eccitarlo, a
impedirgli di crollare al suolo: a prepararlo per l’ultimo e
decisivo attacco.
“Cosa stai facendo, Ranma?! Torna in te!” Il grido
di Tendo lo svegliò. Abbandonò lo slancio
iniziale e invece intercettò l’iniziativa del
capopalestra, che stava avanzando verso di lui permettendogli di
scorgere il proprio vecchio che si stava rimettendo in fuga.
“Signor Tendo, non lo…!” Tofu non
proseguì, del resto avrebbe dovuto impegnare tutte le forze
residue per contenere la caduta di Tendo, che Ranma era riuscito ad
afferrare con il solo braccio rimasto a disposizione per scagliarlo
alle sue spalle. E ora papà era senza protezione!
Aveva impartito a Konatsu una chiara direttiva, ma capì che
non ce ne sarebbe stato bisogno. Il ninja era troppo sensibile per non
comprendere da solo quale fosse la priorità in questo
momento.
“Maledetto!” Il grido squarciò
l’aria. “Come hai potuto? COME HAI
POTUTO?!”
Il panda estrasse un nuovo cartello, di cui Nabiki non
riuscì a leggere il contenuto, ma Ranma glielo
strappò di mano e tornò a picchiarlo.
Dopo alcuni, troppi secondi, Konatsu apparve dal nulla alle sue spalle
e lo trattenne per entrambe le braccia.
“Mi perdoni, signorino Ranma!”
Lui non sembrò nemmeno accorgersene, salvo per il fatto che
si dimenava come un ossesso, colpendo l’aria a più
riprese come se centrasse ogni volta la mascella o lo stomaco di Genma.
“Tu lo sapevi!” Disse singhiozzando. “Lo
hai sempre saputo e hai fatto di tutto per nasconderlo a me e agli
altri e farmi fare la figura del pazzo! Di’ la
verità! Volevi farmi diventare pazzo?! EH?!
RISPONDI!”
Nabiki raggiunse il sacco che, steso per lungo a terra, lasciava
intravedere la sagoma di una persona immobile. Non
ha neanche considerato l’idea di liberarla… che
abbia capito tutto? No, non è così. Ranma non ha
combattuto per salvare mia sorella. Ha combattuto solo per ammazzare di
botte suo padre.
Il pensiero, così crudo e cinico, la fece trasalire. Era
troppo anche per lei e pregò di essersi sbagliata. Anche
sulle altre cose.
“Fermati subito”, scongiurò una voce
maschile, “o non farai che dimostrarci di essere quel pazzo
che sostieni di non essere diventato!” Nabiki alzò
il volto. Papà era venuto a dare man forte al kunoichi
maschio, ma la persona con lui non era il dottor Tofu, che poco
più distante non si era ancora rialzato e si stringeva il
petto esibendo una smorfia di dolore.
“Ranma.” Il tono pacato di Kasumi zittì
tutti i presenti, e per un momento credette che avrebbe potuto quel che
gli altri non erano riusciti a fare. Ma la realtà era
diversa dalle favole, e Ranma non smise di dibattersi.
La mano tuttavia aveva finalmente cessato di tremarle e così
tirò con forza la cerniera: proprio perché questa
era la realtà, stava solo a lei fermare tanta follia.
La signora Nodoka, l’unica che le stava prestando attenzione
come stranita, si fece sfuggire un urlo di sorpresa. Tutti si
voltarono, e questa volta anche Ranma si calmò.
“Akane! Figlia mia!” Esclamò
papà, mentre gli altri non erano nemmeno in grado di fargli
eco. Del resto, nemmeno Nabiki riuscì a dire qualcosa.
Il sacco era finalmente aperto e il corpo della sorellina giaceva tra
le proprie braccia, poteva avvertire il suo calore assieme ai capelli
arruffati e alla tipica espressione serena del sonno. L’ha
anche anestetizzata… Si
sentì travolgere a sua volta dalla rabbia ma, distogliendo
la vista e puntando casualmente gli occhi sulle nocche insanguinate di
Ranma, considerò che Genma Saotome non si era difeso nemmeno
una volta dall’attacco del figlio.
“Akane!” Nabiki sobbalzò nel vedere suo
padre a pochi palmi dal suo naso, il volto inondato dalle lacrime che
però lasciava scorgere il primo accenno di un sorriso da
così tanto tempo.
E ora tocca proprio a me…
Nessun rimpianto. Nabiki sapeva benissimo quel che andava fatto, anche
se sperava in un pubblico molto meno numeroso.
Prese la borsa ed estrasse il thermos. Nessuno comprese il significato
di quel gesto.
“No!”
Ranma…?
Quasi nessuno.
“Noooo!”
Mi dispiace…
L’acqua calda bagnò le gote della ragazza svenuta.
I suoi lineamenti mutarono, i capelli crebbero in lunghezza.
Come per magia, Akane era scomparsa. Tutto ciò che Nabiki
poteva scorgere era soltanto il viso dormiente di Ukyo Kuonji.