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Autore: My Pride    16/02/2011    3 recensioni
Igni natura renovatur integra, salve spiritus ignis: flamma cerei te video doce mihi intellegere vis ignis.
Lux et lex, lux et veritas. Post tenebras lux in luce tua videmus lucem, in lumine tuo videbimus lumen”
«É questa la vera natura dell’alchimia del fuoco»

«Se le ho affidato la mia schiena e quelle ricerche è perché credevo in lei, Maggiore. Credevo nei suoi sogni, in un futuro dove tutti avrebbero potuto vivere felicemente. Ho continuato a crederci anche se siamo dovuti arrivare a questo»
[ Roy/Ed, Accenni HyuRoy e Royai ]
[ Partecipante al contest «My beloved one» indetto da DallasEfp ]
[ Spoiler del volume quindici, del Gaiden Blue e del Character Guide Book ]
[ Seconda classificata e vincitrice del Premio Giuria al «Queen Contest» indetto da Himechan84 ]
Genere: Guerra, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Edward Elric, Maes Hughes, Riza Hawkeye, Roy Mustang, Un po' tutti | Coppie: Roy/Ed
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tra i bagliori del fuoco'
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Please, take me out of here_3
In mia difesa, cosa c’è da dire?
Tutti gli errori che abbiamo fatto devono essere affrontati oggi.
Non è facile ora sapere da dove iniziare mentre il mondo che amiamo si distrugge.
- In my defence, Queen -
 

03. CUT #02 › ISHVAR AREA, 1908
MEMORIES AND FLAMES
 
    Avevo momentaneamente interrotto la mia narrazione per prendere da bere ad entrambi, senza nemmeno controllare che ore si fossero fatte. La mia meta era stata solo la credenza in cucina e il mobile bar nel soggiorno subito dopo, e quando tornai da Edward offrii a lui il primo bicchiere di liquore.
    Allungò una mano per afferrarlo saldamente, facendo appena un piccolo cenno con il capo nella mia direzione. «Grazie», bofonchiò, portandosi il bordo alle labbra per bere un sorso. «Ci voleva proprio».
    «Ci puoi scommettere», ribattei con un sottile velo di sarcasmo, riprendendo posto e bevendo a mia volta un po’ di whisky. Il latte macchiato giaceva ormai abbandonato da tempo sul tavolino, ma, se volevo arrivare alla fine, necessitavo io stesso di qualcosa di molto più forte.
    A dir la verità, avevo ormai imparato a convivere con tutti quegl’orrendi ricordi. Nonostante non ne avessi mai parlato con nessuno, ciò che mi aveva animato per tutti quegl’anni, e che era stato in grado di non farmi cadere vittima come molti altri di quella che veniva chiamata sindrome da shell shock
 [1], era stato in qualche modo l’obiettivo che mi ero prefissato alla fine di quella maledetta guerra, quando avevo puntato lo sguardo su Bradley. Ed ero sempre stato sicuro che, con l’appoggio di Maes, sarei riuscito a realizzare quel nostro sogno e a porre fine a tutte le guerre che logoravano ormai il nostro amato paese. “Voglio vedere sin dove i tuoi immaturi ideali cambieranno il paese che ha costruito King Bradley, colui che non ha paura neanche di Dio [2]”, mi disse poco prima che tornassimo finalmente a casa, e anche adesso che lui non c’era più dovevo andare avanti e fare di tutto per rendere reale quel sogno, non più un’utopica fantasia.
    Bevvi ancora un sorso per farmi coraggio, riprendendo da dove mi ero precedentemente interrotto mentre sentivo lo sguardo di Acciaio su di me, come se mi stesse spronando in silenzio a continuare. «Quella fu l’unica conversazione leggera che potemmo affrontare, lì. Il giorno successivo ricominciammo l’attacco e, più il tempo passava, più il frastuono creato da urla ed esplosioni diventava sempre più intenso. Il caos imperversava, e persino il cielo sopra le nostre teste sembrava essersi tinto del colore del sangue nonostante il tramonto fosse ancora lontano.
    «Non molto distante dalla posizione assegnatami, riuscivo benissimo a distinguere più di un corpo lasciato a marcire su quei viottoli divenuti ormai un campo di battaglia. Quelle vie che, prima dell’inizio di quella guerra, donne e uomini percorrevano per dirigersi al mercato, erano diventate dei cimiteri dove quelle stesse persone erano riverse in terra, con espressioni spaventate e la muta supplica di venir risparmiati dipinta ancora in viso.
    «Urla, sangue, dolore, morte. Ovunque si guardasse, era questo ciò che si leggeva negli occhi dei sopravvissuti. Ed il più delle volte ero io stesso a causare tutta quella sofferenza, senza dar loro nemmeno il tempo di caricare gli Schmidt Rubin
 [3] di cui erano provvisti. Per quanto la cosa mi disgustasse, però, non dovevo lasciarmi condizionare, altrimenti sarei morto al loro posto e sarei stato a mia volta lasciato a marcire fra quelle strade.
    «Quel giorno, in tutto quell’orrore che mi circondava, mi stupivo di come riuscissi a cogliere ogni singolo cambiamento che avveniva intorno a me. Tra il caos composto da spari ed esplosioni, fu proprio il grido allarmato di una donna a richiamarmi, prima che venisse smorzato anch’esso da un altro colpo di fucile. Ebbi appena il tempo di stornare lo sguardo per capire da dove provenisse, poi ciò che vidi fu un volto nascosto da una lunga capigliatura scura e un corpo riverso in una pozza di sangue. Quella donna stringeva a sé un bambino, anch’egli privo di vita, e riuscii persino ad intravedere un orsacchiotto insanguinato spuntare oltre quell’esile spalla».
    A quel punto mi fermai, socchiudendo ancora una volta gli occhi. Ne avevo viste così tante, in quel massacro, che mi sembrava ancora difficile rivivere il tutto fotogramma per fotogramma. Sentii Edward trattenere il fiato, o almeno così mi sembrò, e quando mi ritrovai a scoccargli una rapida occhiata per osservare l’espressione dipinta sul suo viso, lo vidi con la bocca contratta in una piccola smorfia. E, aye, potevo benissimo capirlo.
    «Quella guerra stava andando oltre il limite umano, e la presenza di quegl’innocenti ne era la prova più che tangibile», ripresi, come se farlo potesse in qualche modo aiutarmi a terminare il più in fretta possibile quel mio racconto. «Case che una volta erano state popolate dalle risate dei bambini si erano ridotti a cumuli di macerie; viottoli che collegavano i vari distretti della città erano stati sbarrati da trincee innalzate nel tentativo di difendersi dai nostri attacchi e, ogni qual volta avanzavo, vedevo la popolazione tentare di continuo di opporre resistenza. Ed era proprio in quei momenti che dovevo intervenire io. Quando sembrava che quelli di Ishvar potessero avere in qualche modo la meglio, dovevo prestar soccorso alle truppe con la mia alchimia. Era una scena agghiacciante che si ripeteva di continuo: spianavo la strada ai miei commilitoni e gridavo ordini confusi, affrettando il passo per allontanarmi dalle strade deserte per raggiungere il nuovo punto di raccolta, creando morte e orrore con un semplice schiocco di dita
».
    Fui costretto ad interrompermi un attimo e mi passai una mano sugli occhi, traendo un lungo sospiro mentre stringevo il bicchiere nel palmo dell
altra; arrivati ormai a quel punto, sarebbe stato inutile interrompersi. «Mi sembra ancora di sentire lo scalpiccio dei miei stivali su quel terreno incrostato di sangue, certe volte», ammisi. «Quel risucchio vischioso che producevano ogni qual volta ne pestavo una pozza durante quelle mie folli corse, un suono terribile e disgustoso. Ovunque mi guardassi c’erano polvere e macerie, corpi distesi a terra e privi di vita. In lontananza riecheggiavano i rumori degli spari e delle grida, e spesso e volentieri mi ero ritrovato a pensare di volerla fare finita una volta per tutte. Il pensiero del suicidio era alquanto allettante... sai?» Non continuai, probabilmente a causa del ricordo che si era affacciato nella mia mente.
   
La facilità con cui il corpo umano bruciava, ad ogni mio schiocco di dita, era sempre stata allucinante. Ricordai il primo uomo che mi ero ritrovato ad uccidere con l’alchimia. Il fuoco che attecchiva ai suoi vestiti, la carne che sfrigolava disperdendo nell’aria quell’odore acre e malsano di grasso che bruciava, le sue urla di dolore nel vano tentativo di spegnere le fiamme... si era accasciato a terra in un batter d’occhio, lo rammentavo bene. Si era accasciato con le braccia rannicchiate, come se, in quell’ultimo istante, avesse disperatamente cercato di proteggersi. Mi sembrava ancora di vedere la scena dinanzi ai miei occhi: i suoi bulbi oculari completamente scomparsi, la bocca digrignata che lasciava intravedere le gengive annerite, e la pelle del viso, ormai incartapecorita, che rendeva irriconoscibile la faccia di quell’uomo. Quel giorno avevo vomitato, non potendone proprio fare a meno. Anche se avevo cercato in qualche modo di proteggere me stesso e di preservare la mia sanità mentale dietro falsi ideali, l’orrore che io stesso avevo creato mi aveva scosso profondamente.
    «Carbone cristallizzato. Ecco a cosa somigliavano tutte quelle persone... carbone cristallizzato. Uno spettacolo bello e terrificante al tempo stesso, come le fiamme rese azzurre a causa del fosforo e l'odore putrido di sangue e grasso umano bruciato. E i giorni successivi non furono poi così diversi», continuai ancora una volta per provare in qualche modo a scacciare quei pensieri, rigirandomi distrattamente il bicchiere fra le mani prima di ritrovarmi a bere un altro lungo sorso, lasciando che, per un tempo indeterminato, il picchiettare delle gocce di pioggia fosse l’unica cosa udibile prima di ricominciare. «Avrei voluto che il tempo si fermasse, così da non dover affrontare un nuovo giorno tra polvere, fumo e detriti. Rammentavo ancora i sogni e i progetti che avevo fatto con Hughes durante gli anni dell’Accademia, e mi sembrava quasi impossibile che fosse passato così poco tempo da quando l’avevamo fatto.
    «Sognavamo un futuro migliore, un futuro in cui l’alchimia e l’esercito avrebbero aiutato le persone, ed era proprio per quel motivo che ero andato contro tutti gli insegnamenti del mio maestro e mi ero arruolato, conoscendo Maes. A quel tempo, volevamo solo che il mondo che amavamo entrasse in un’era migliore, ma non era stato così. Quello stesso mondo, ad Ishvar, si stava pian piano sbriciolando, distruggendosi a poco a poco. Ma avrei cercato di fare di tutto per salvarne almeno un frammento, per tentare di rimediare in qualche modo agli errori che stavamo commettendo. E ad ogni sguardo che lanciavo fra quelle tende che sorgevano fra quelle macerie, quel pensiero s’intensificava e diveniva più saldo. Avrei ancora potuto fare qualcosa che non fosse incendiare, con quelle mie mani.
    «Immerso com’ero fra quei miei pensieri, quasi non mi accorsi che mi si era avvicinato qualcuno e, quando mi voltai, ti lascio indovinare chi vidi», dissi, quasi volessi rendere anche Edward partecipe della conversazione, visto che fino a quel momento non avevo fatto altro che parlare da solo, sebbene sapessi che mi aveva ascoltato con attenzione.
    Con lo sguardo puntato su di me, non ci mise più di qualche secondo a rispondere. «Il Tenente Hawkeye?» domandò con fare ovvio, e mi ritrovai ad abbozzare inconsapevolmente un piccolo sorriso. O non era difficile capirlo, o ero io che per lui ero ormai diventato un libro aperto.
    «Non sembrava più la ragazza che avevo conosciuto prima di quella guerra», replicai, continuando prima che Edward potesse farmi una qualsiasi domanda. «Con quel fucile ben in spalla e la faccia sporca di terriccio, gli occhi arrossati dalla sabbia e le palpebre socchiuse che lasciavano scorgere i segni della stanchezza, simbolo che erano probabilmente giorni che non dormiva decentemente, era ben lontana dal ricordo che avevo di lei. I capelli, che a quel tempo portava molto corti, erano arruffati e in disordine, sporchi di terra quasi quanto il viso. Non era più la ragazzina che spiava timidamente i miei progressi, sorreggendosi contro lo stipite della porta dello studio del padre, ma...»
    Avrei anche continuato, se non fosse stata proprio la voce di Edward ad interrompermi e a richiamare la mia attenzione. «Aspetta, cosa significa?» mi domandò, e mi ritrovai ancora una volta a lanciargli una rapida occhiata, abbassando lo sguardo sul bicchiere che ancora reggevo.
    Feci oscillare un po’ il liquore al suo interno, vedendolo lambire il bordo come se trovassi quell’occupazione estremamente interessante. «Berthold Hawkeye», risposi semplicemente. «Il mio maestro e il padre di Riza».
    Acciaio mi fissò con tanto d’occhi. «Il padre del Tenente Hawkeye era il tuo maestro d’alchimia?» mi chiese ancora, forse persino incredulo. E come biasimarlo? Nessuno, eccetto Riza stessa, avrebbe potuto sapere quelle cose. Era solo un
ennesima parte del mio passato che conoscevano davvero in pochi.
    Assaporai un altro piccolo sorso di whisky, forse per scaldarmi o forse per occupare in qualche modo il tempo. «Aye», ammisi infine con fare ovvio, sporgendomi per abbandonare il bicchiere sul tavolino. «Mi ha insegnato tutto quello che so, lasciandomi questo potere distruttivo», continuai, abbassando lo sguardo per fissarmi i palmi delle mani. «Usato nel modo giusto avrebbe potuto aiutare le persone. Ma se non avessi imparato a padroneggiarlo, avrebbe potuto distruggere anche me oltre a tutto ciò che mi circondava. Sembra avere un po’ una vita a sé stante, il fuoco, non credi anche tu?» soggiunsi, ritrovandomi a dar vita ad un sorriso vagamente amaro.
    Il mio maestro l
’aveva ripetuto fino allo stremo: il fuoco era un elemento indomito e per nulla facile da manovrare. Era dinamico, sottile e spirituale; si diceva quasi che avesse il potere di purificare qualunque cosa toccasse, ma per quale scopo l’avevo sempre utilizzato io? Soltanto per uccidere gente innocente, nonostante più volte mi nascondessi dietro la falsa credenza che lo facessi per non morire a mia volta [4].
    Sentii un piccolo suono provenire dalla gola di Edward, come se non avesse capito perché, tutto d’un tratto, avessi cominciato a farneticare in quel modo. «Quindi conoscevi Riza già a quei tempi, giusto?» ritornò su quel discorso, forse anche per richiamarmi in qualche modo all’ordine, così annuii ancora una volta.
    «Abitava in una villetta insieme a suo padre. Ti confesso che quando lui mi aveva preso come allievo, mi ero sentito felice come non lo ero più stato da anni. Imparare l’alchimia da un uomo del suo calibro sarebbe stato il sogno di qualsiasi ragazzino voglioso di conoscere quell’arte, a quei tempi». Mi alzai e passeggiai lì davanti, aggirando il tavolino e infilandomi le mani nelle tasche mentre guardavo altrove, sentendo frattanto gli occhi di Edward su di me. «Al solo pensarci, mi sembra ancora di sentire il brivido d’eccitazione che avevo provato quando avevo messo piede in quella casa.
    «La collezione privata del maestro Hawkeye era davvero formidabile, sono sicuro che sarebbe piaciuto anche a te passare ore ed ore chino sui libri che possedeva. Mettere le mani su quei tomi mi aveva entusiasmato a tal punto, quel primo giorno, che avevo persino saltato la cena, facendo andare il maestro su tutte le furie. La cosa che odiava di più in assoluto era il dover aspettare e i ritardatari. Così, dopo essermi beccato quella sgridata, ero stato spedito a riprendere i miei studi. Mi aveva permesso di mangiare soltanto un boccone di pane».
    «Su questo punto di vista, mi ricorda un po’ la maestra Izumi», ironizzò Edward, e fermai la mia camminata solo per potermi voltare verso di lui e guardarlo in viso.
    Abbozzai un altro sorriso, scuotendo il capo. «Sono certo che sarebbero andati d’accordo, allora, se il maestro fosse ancora in vita», ripresi con sarcasmo. «In realtà avevo quasi temuto che mi cacciasse, dato che diventare suo allievo era un onore che spettava a ben pochi. Anzi, da quel che avevo capito, ero stato il primo, sebbene non ne fossi poi così sicuro. Non volevo peccare di presunzione nel crederlo. Quindi cercai in tutti i modi di essere all’altezza dei suoi insegnamenti, passando l’intera nottata a studiare. Peccato che mi addormentai senza nemmeno rendermene conto», soggiunsi con fare vagamente divertito, perdendomi in quei ricordi di scapestrato sedicenne. «Il viaggio che avevo dovuto compiere per arrivare fin lì era stato lungo e stressante e, non avendo riposato abbastanza, avevo finito per crollare su quei tomi pesanti e polverosi.
    «Forse fu una fortuna l’essermi svegliato prima che il maestro ritornasse. Non avrei voluto che si arrabbiasse di nuovo per due giorni di fila. Anche la pazienza aveva un limite, in fin dei conti. Nonostante lo sguardo assonnato, avevo dunque provato a raddrizzare la schiena, sentendo però qualcosa scivolare via. Abbassato lo sguardo per capire cosa fosse, avevo visto una coperta che non ricordavo di aver preso, anche perché non avrei nemmeno saputo dove trovarla.
    «Mi chinai per recuperarla, e quando alzai lo sguardo mi specchiai in due grandi occhi marroni. Quasi non potei crederci, in effetti. Davanti a me c’era una bambina che non poteva avere più di undici, dodici anni, ma prima ancora che potessi agitarmi per la sua presenza, lei si poggiò un dito sulle labbra, come per impormi silenzio.
    «“Riza Hawkeye”, si presentò, regalandomi appena un sorriso. E, diamine, anche se era soltanto una bambina, quel sorriso mi fece perdere un battito e arrossire».
    Un piccolo colpo di tosse da parte di Edward mi richiamò alla realtà, fermando ancora una volta quella mia traversata. «Adesso sì che avrei ragione ad essere geloso», ironizzò ancora una volta, sollevando un sopracciglio e fissandomi con attenzione.
    Io, d’altro canto, mi limitai semplicemente a scrollare le spalle. «Non puoi essere geloso di una bambina», lo presi in giro. «A quel tempo lei aveva dodici anni e io sedici».
    «Non mi sembra che tu ti sia mai fatto problemi d’età», fu il suo turno di sbeffeggiarmi con fare sarcastico, dando vita ad un’espressione così allusiva che capii immediatamente dove voleva andare a parare. Riza aveva solo quattro anni meno di me, mentre erano ben quattordici quelli che mi separavano da Edward e... aye, beh, effettivamente ci eravamo conosciuti proprio quando lui aveva undici anni.
    Scossi il capo, un po’ divertito. «Non è come può sembrare», precisai. «Mi piaceva, e questo non posso negarlo. Non chiedermi però in che modo mi piacesse, perché non saprei proprio cosa risponderti. Potrei dirti che aveva un bel viso e che quindi era quella sua espressione da bambina a catturarmi, ma non so cosa potresti pensare di me se lo facessi. Più che altro, se ci rifletto adesso, a quei tempi avrei anche potuto vederla come una sorellina.
    «Quando si presentò mi venne subito spontaneo farlo a mia volta, sebbene i miei modi sembrarono insicuri e impacciati. “Roy Mustang, piacere!” farfugliai in preda al panico, scattando in piedi e chinando il capo in segno di saluto prima di abbandonare le braccia lungo i fianchi nel vano tentativo di darmi un’aria composta e ordinata.
    «Forse quel mio modo di fare la divertì, perché la sentii ridere con fare sincero, come solo i bambini di quell’età sanno fare. “Non agitarti”, mi disse allegra, raccogliendo la coperta che avevo fatto nuovamente cadere prima di porgermela con un sorriso. “Ti ho portato questa per non farti prendere freddo”, soggiunse. “Se hai bisogno d’altro, chiedi pure”.
    «Tutta quella sua premura mi scaldava il cuore, forse perché nessuno era stato così gentile con me, se si escludeva mia zia. Così aprii la bocca per ringraziarla, ma quando sentimmo un rumore dal piano di sotto lei mi precedette. Guardandomi seria, aggrottò di poco le sopracciglia. “Non dire a mio padre che sono stata qui, ti prego”, sussurrò, come timorosa che potesse in qualche modo sentirla. “Se sapesse che ti ho disturbato mentre studiavi, si arrabbierebbe”, continuò, rivolgendomi un breve saluto prima di sgattaiolare svelta fuori.
    «In realtà non potevo ancora sapere né capire il vero motivo di quella sua strana paura. Ogni giorno controllava che il padre non fosse nei paraggi e veniva a spiare i miei progressi, portandomi sempre da mangiare e da bere anche fuori orario, pensando lei stessa a coprirmi con qualcosa quando mi addormentavo su quei pesanti volumi d’alchimia dopo una stressante giornata passata a studiare. Le cene con Hawkeye Sensei si svolgevano poi in silenzio, a meno che non avessi qualche dubbio su ciò che imparavo. E se accadeva, eravamo capaci di parlare per ore ed ore, anche fino all’alba. E più i giorni passavano, più lui cominciava a mettermi al corrente delle sue ricerche. Quando compii la maggiore età, mi parlò infine di quel grande segreto che rappresentava tutto ciò che aveva tenuto nascosto nella sua lunga vita: l’alchimia del fuoco. Mi disse che me l’avrebbe insegnata, ma quando tornai da lui dopo essermi arruolato, cominciò a farneticare che non ero ancora pronto e che diventando un cane dell’esercito avrei disonorato me stesso
».
    Guardai la pioggia che continuava a cadere fuori dalla finestra, ravvivandomi i capelli all
indietro. «Quel giorno non lo dimenticherò mai», sussurrai con un groppo in gola, tossendo per schiarirmi la voce. «Lo vidi morire dinanzi ai miei occhi. Già malato da tempo, le sue condizioni si erano aggravate e non aveva resistito oltre. Non avevo potuto fare niente per lui, ma avrei cercato di fare qualcosa per sua figlia. E fu dopo la morte del maestro che capii qual era sempre stato il compito di Riza e quale fosse il suo rapporto con l’alchimia. Per volere di suo padre era stata la custode dell’alchimia del fuoco, e in seguito, per sua stessa decisione, mia guardia del corpo [5]».




[1] Chiamato anche trauma da bombardamento, “scemo di guerra” o più comunemente sindrome da stress post-traumatico, lo shell shock è una malattia che colpiva - e colpisce tuttora - parecchi soldati che sopravvivevano ad una guerra. Ai tempi della prima guerra mondiale questa malattia era quasi del tutto sconosciuta, dunque era difficile capire perché gli ufficiali mostrassero la maggior parte delle volte segni di squilibrio mentale.

[2] Citazione tratta dal manga.
Volume quindici, capitolo sessantuno: “L’Eroe di Ishvar”.

[3] Il modello a cui si accenna è del 1889, ed utilizzava della polvere semi-infume (Polvere nera con il nitrato al posto del salnitro e zolfo maggiormente raffinato) per un diametro di palla da 303, reso di 304 grazie ad un sottile strato di carta impregnato di lubrificante. La lunghezza complessiva è di 131 centimetri, ed è possibile vedere tale arma cliccando qui.

[4] Ho voluto segnare questa frase per spiegare il significato esoterico del fuoco per mio puro capriccio personale e per curiosità. Nell’esoterismo, difatti, esso purifica tutte le cose elevandole ad un livello di perfezione superiore. Giacché è un agente di relazione tra il microcosmo e il macrocosmo, il fuoco racchiude in sé un principio maschile che inciterebbe ad azioni distruttrici se non fosse moderato dagli altri elementi. Il simbolo sui guanti di Roy e sulla schiena di Riza, che si può vedere qui, richiama vagamente il simbolo stesso dell’unione tra quello del fuoco (Un triangolo con una punta in su) e quello dell’acqua (Un triangolo con la punta in giù), ovvero una stella a sei punte, unione stessa tra energia e materia. Le scritte in latino che compongono la parte superiore del simbolo dell’alchimia del fuoco tatuato sulla schiena di Riza, poi, recitano una cosa tipo “La natura del fuoco si rinnova, nella fiamma d’una candela ti vedo insegnarmi a capire la violenza del fuoco”, mentre la parte inferiore recita al principio “Luce e legge, luce e verità”. Sono anni che non faccio latino dunque non sono del tutto certa, ma il succo, in fin dei conti, è quello.

[5] Anche questa frase potrebbe non significare nulla di importante se vista singolarmente, ma in realtà nello stesso nome di Riza viene spiegato cosa voglia intendere Roy con quelle parole. Il nome Riza, infatti, è la versione ungherese di “Thereza”, e il suo significato è “Guardiana”. Non è chiaro se sia una cosa voluta dall’autrice per indicare il fatto che lei sia la custode dell’alchimia del fuoco e al tempo stesso la “guardia del corpo” di Mustang. Così come il cognome di quest’ultimo, poi, anche quello di Riza, ovvero “Occhio di Falco”, è il nome di un veicolo militare, precisamente un portaerei-tattico Airbone Early Warning utilizzato dalla US Navy. Il nome completo è “Grumman E-2 Hawkeye”, e forse è stato scelto proprio per indicare il grado di parentela fra lei e il Generale Grumman, che sembra essere suo nonno materno.



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