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Autore: Slits    19/02/2011    2 recensioni
« Era un misantropo e per assurdo, come ogni misantropo, sembrava conoscere il mondo meglio di chiunque altro. »
Cinque mesi dopo aver dato l’ultimo esame, uno psicologo si ritrova a far tirocinio in una clinica divenuta famosa per aver dato asilo ad un misantropo. Un assassino, a detta dei protocolli.
Ad ogni seduta rivivranno le tracce di un passato che non può più aspettare, mentre la storia mostrerà l’innocenza di una persona che, per una volta, non è l’assassino.
Prima classificata al The Nightmare Hospital Contest indetto da LoLLy_DeAdGirL e vincitrice Premio Giuria.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sanji
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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2. Secondo appuntamento.


Il sole sorgeva dietro la clinica quando Victor si tirò su a sedere. Si era premunito di una lattina di caffè freddo e di un giornale. Aveva passato la notte in bianco, rimuginando sul fascicolo di Regū. Aveva tenuto gli occhi incollati ai venti prestampati nella speranza di scovare qualche chiave di lettura fra i pesanti silenzi e le lunghe boccate di nicotina.
Durante l’intera seduta, Sanji si era nascosto dietro il vetro inzaccherato della finestra e non aveva aperto bocca. L’eco delle voci che salivano dalla piazzetta dell’ospedale in quell’ora aveva parlato per lui.
Non appena si fu alzato, lo psicologo aprì la porta, immacolata, e tornò alla finestra. I passi degli infermieri di tanto in tanto davano vita a quell’arteria morta che era il corridoio della clinica. Victor girò intorno al divanetto e si passò entrambe le mani sugli occhi. Rimase in piedi in silenzio ad ascoltare le grida dei pazienti, che andavano e venivano con il tintinnio delle siringhe, lo stridere dei carrelli ed i passi dei medici. Si attardò quanto più possibile.
Si lavò le mani e la faccia nel lavello della penisola cucina finché non sentì più le dita sotto l’acqua fredda. Quando uscì in corridoio, Sanji era già poggiato alla macchinetta del caffè. Aveva premuta alle labbra una sigaretta spenta. Victor la osservò per una discreta manciata di secondi – riconoscendola come la seconda del giorno prima – e si chiuse la porta alle spalle. Vecchi neon si allungavano sopra di loro. Infermieri camminavano impettiti con la testa dritta senza guardare alcunché. Lo psicologo abbassò lo sguardo e vide che gli occhi del biondo non andavano oltre la punta del proprio naso. Fu soltanto in quell’attimo che realizzò che il ragazzo, a dispetto di tutto, era uscito allo scoperto per lui.
Un secondo dopo Sanji fece dietrofront ed imboccò la porta della propria stanza. Il numero di camera spiccava come una macchia sgradevole, un parassita tondo e spigoloso.
Victor considerò la possibilità di attardarsi ancora, ma restare lì, fermo, a tentare di captare di pensieri dell’uomo oltre quella parete, era come essere divorato da un’ansia cieca. Si girò e cominciò a percorrere a grandi falcate il corridoio. Mano a mano che si avvicinava, il parassita si ingrandiva sempre più. Sentì il fumo della sigaretta che si intrufolava da sotto la porta e sporcava un’aria che già sapeva di vecchio e stantio. Nel riflesso in vernice del numero di stanza lo psicologo riconobbe per un attimo il proprio profilo. Quasi non si stupì di specchiarsi nella figura anacronistica del parassita.
L’umidità annacquava i volti di carta ingiallita di santi e madonne. Oltre la finestra si intravedeva la macchia marrone del giardino dell’ospedale. Le pareti umide puzzavano di muffa. Lo psicologo si poggiò con le spalle alla porta della camera, un buon pretesto per non dover guardare ancora al parassita. Scrutò le coperte, come se sperasse ancora di trovarle sfatte, a spiegazione della follia del proprio paziente. Le trovò tirate, inamidate e tese.
Seduto in poltrona Sanji Regū lo fissava sotto il neon. Il fumo di una sigaretta ormai spenta saliva al soffitto in volute azzurrognole. Victor cercò un posto dove sedersi, ma trovò soltanto sedie ricolme di vecchi libri e vestiti troppo larghi.
- Mi dica, Victor, lei ha mai avuto un ideale? – sentì la voce del biondo inerpicarsi su per il silenzio della camera. Non sembrava avere particolari pretese se non scivolare fuori dalle labbra con un po’ di fumo. Gli parve quasi stanca.
- Quando ero uno studente riuscire a conciliare il pranzo con la cena mi sembrava un obiettivo abbastanza nobile. -
Sanji era vicino alla finestra, guardava oltre il vetro e contava i mozziconi sul davanzale. Nonostante tutto, a Victor sembrò non riuscire a cogliere la sfumatura di ironia nelle sue parole.
- Non ho mai avuto un ideale. – aggiunse, schiarendosi la voce – Costava tempo ed impegno che sapevo di non avere. -
Il biondo si poggiò al vetro e fece sentire il rumore del braccialetto rintoccare contro la lastra.
- Il tempo, quando hai qualcosa per cui valga la pena uccidere, solitamente è l’ultimo dei problemi. –

- Quindi ha ucciso, Mr Regū. -
Trafalgar Law aveva chiuso un vecchio libretto la cui copertina sembrava uscita da un’altra epoca.
Parlarono in corridoio, mentre le telecamere riprendevano scorci di camere che, come al solito, sembravano vuote. Gli infermieri passeggiavano in silenzio, lasciando una scia che sapeva di alcol e disinfettante.
Dopo qualche istante, Sanji alzò lo sguardo allo sporco canale di neon e cavi della luce sopra di loro.
- Lei non è di certo qui per discolparmi, signor Trafalgar. Mentire non avrebbe senso. -
- Indubbiamente. – concordò lo psicologo.
- E neanche per aiutarmi. Non conosco un solo psicologo che anteponga il bene del paziente al profitto personale. -
- Ha una concezione disincantata del mondo. -
- Sono un misantropo, non ho alcuna considerazione del mondo. -
Lo psicologo sorrise ed inclinò la testa. Si poggiò al distributore di caffè, ammaccato ai lati dal calci dei pazienti, pronto ad ascoltare ancora una volta la ragione di un pazzo, come i protocolli imponevano.


Si chiuse la porta alle spalle. La stanza era spoglia e maleodorante. Vestiti e trattati di cucina e navigazione pendevano dalle sedie come una seconda pelle. Sanji vuotò la tracolla in un colpo solo. Alcune monete tintinnarono a terra, ma senza riflettere nulla. Non c’era luce in quella camera.
Si lasciò cadere a peso morto sul letto, solido e spesso come un muro. Sentì passi lenti che si avvicinavano. Qualcuno bussò.
- Sparisci, Guerric. – si limitò a dire.
- Se ci tieni tanto, allora scendi e vai a dirglielo. Anche se per farlo dovresti aprire a tua madre. -
Sanji indicò il pomello sbrecciato al lato della porta. Intuì il sorriso della donna, mentre la serratura scattava ed un filo di luce scivolava a terra. Quello era il loro modo di comunicare. Clarissa Regū entrò nella stanza.
Il pavimento era pieno di vestiti inzaccherati ai polsi dallo sporco che si era formato in giorni e giorni di ricercata incuria. La donna spinse una sedia ai piedi del letto e vi si mise a sedere, contando secondo dopo secondo. Si fermò dopo qualche istante. Il petto premeva contro la spalliera in legno.
- Vedi, è l’aroma di chiuso e stagnante che dà il tocco di classe in più a questa stanza. Per non parlare delle macchie grigie alle pareti. Fumo di Londra? -
- Mozzicone di sigaretta. -
- Incantevole. -
Quando si mise a sedere, Clarissa si era fermata a contemplare lo spettacolo indecoroso attorno a sé. Sanji seguì il suo sguardo fino ad una finestra visibile a stento. La donna sedeva davanti al letto, osservando quello sputo di mondo senza trovare niente da dire. Dopo qualche istante sollevò lo sguardo verso il figlio.
Aveva occhi chiari e vivaci, incavati in un viso di bambola. A tratti ricordava una bambina di altri tempi, invecchiata forse troppo in fretta.
- Oltre alla chiamata della scuola, Guerric si è dimenticato di ricordarti anche quella della biblioteca. -
Sanji alzò lo sguardo ed impartì alla donna un ordine muto a continuare. Un debole sorriso increspò le labbra di Clarissa.
- Erano intenzionati a rinnovarti l’abbonamento con qualche agevolazione in più, considerato che metà delle loro sezioni puzza del tabacco delle tue sigarette e l’altra ha l’inconfondibile firma della tua colonia. -
Per nascondere l’ansia che lo divorava Sanji fece per accendersi una sigaretta. Con una mano attese per qualche istante. Il gas dell’accendino perforò l’aria ed impregnò la camera. La donna guardò con apprensione i sottili fili di fumo levarsi verso il soffitto, ma non disse niente. Poi una prima boccata invase la stanza.
- Dunque? -
- Ti aspettano per ultimare alcune pratiche. Il resto gliel'ho dato io stamattina. -
L’altro non rispose. Un paio di volute azzurrognole salirono alte e si impigliarono in un nido di ragnatele sopra il letto. Clarissa scambiò un’occhiata complice e sorrise. Fu allora che la vide.
Sua madre lo guardava in silenzio, gli occhi tondi e delicati. Gli stessi che lo seguivano giorno e notte mentre aspettava con pazienza una breccia che le permettesse di stringere ancora una volta la mano a suo figlio. Più di una volta il ragazzo fu tentato di approfittare di un attimo di debolezza per avvicinarla, ma resistette. L’eco del proprio disprezzo per l’umanità era una forza che travalicava perfino l’affetto. Prese allora l’abitudine di godere in silenzio della sua compagnia, all’ombra di quel ricordo che ancora gli infondeva sicurezza. Si sedeva sulla penisola cucina e la osservava per ore. E nella foschia delle proprie nevrosi spesso rivedeva il bambino, il pazzo che stava diventando, e si chiedeva se anche lui, un giorno o l’altro, sarebbe stato capace di amare come un tempo. Provare semplicemente ancora qualcosa.
- Grazie. -
Quel sussurro rispose per entrambi. No, probabilmente no.



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A
ggiornamento lampo in vista dell'orribile, orribile ed orripilante settimana che mi si prospetta davanti. Abbastanza compiti in classe da poter campare di rendita fino agli esami ed il tocco di classe in più della terza prova che, effettivamente, non guasta mai. Tanto perchè le mazzate agli alunni è sempre meglio darle con stile.
Per farla breve, la sola volta in vita mia in cui ho concluso una storia è probabile che finirò col lasciarla ugualmente incompiuta. Ma, ei! Non guardatemi male! Sono morta, non è una scusa sufficientemente buona?
Cosa? No?
Va be', almeno concedetemi di averci provato.

Inutile dire quanto possa ringraziare chiunque abbia preferito, seguito o dio soltanto sa cosa questa storia. Grazie.
Ed un ringraziamento ancora più sentito alle due povere martiri che si sono immolate volendomi lasciare una recensione. La risposta è alla terza stella a destra sotto la suddetta.
   
 
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