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Autore: cabol    02/03/2011    1 recensioni
Il salvataggio di una fanciulla in difficoltà scaraventa due viandanti nel cuore di un sanguinoso mistero.
Perché terrificanti ululati si levano dai boschi?
Perché sono scomparse alcune persone?
Cosa sparge il terrore in una tranquilla campagna?
Quale perversa oscurità sta avvolgendo la rocca di Luna Splendente?
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
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Capitolo 2: il villaggio

Il villaggio di Brightmoon

Dietro una curva del sentiero, come scaturite dalla roccia, apparvero le prime abitazioni di un borgo di case affastellate, le cui mura muscose e decadenti narravano un passato più opulento. Di quando, da mostri o da predoni, esisteva qualcosa da difendere oltre la vita degli abitanti, sempre a rischio in quelle terre ostili. Tra due torri diroccate, i merli delle quali parevano i denti di un anziano, un arco al quale erano appesi i battenti di una porta di remoto e perduto splendore, conduceva al villaggio di Brightmoon. Sulla chiave di volta, era incisa una quartina testimone del culto della salute.
 

Viandante benvenuto

chi in questo loco scende:

sulla sua chioma splende

la luce di Sergaries.


Attraverso il portone malridotto, si accedeva a una strada stretta, tortuosa e in salita, che sboccava in una piazza, realizzata proprio al centro del paese. Portici di eleganza antica la circondavano e un grande pozzo emergeva dai banchi del mercato che la riempiva di voci, suoni e odori. Da quello spazio più aperto si poteva facilmente notare la rocca posta in cima al colle, che dominava l’abitato e la vallata circostante. Poco sotto di essa, circondata da una macchia di cipressi, la possente villa fortificata spiccava sul fianco del colle, in linea retta fra la rocca e il villaggio.

La ragazza e Robert si diressero verso le bancarelle del mercato, mentre sir Raoul rimase a osservare la piazza e il massiccio torrione diroccato che si ergeva in fondo a questa. La loro attenzione fu poi attratta da un uomo alto, dal viso affilato incorniciato da una barba nera spruzzata di grigio, accuratamente curata, vestito con sfarzosa eleganza. Era appena uscito dal torrione, seguito da una coppia di servitori dall’aria avvilita, facendosi largo fra la folla con passo fermo, lanciando occhiate di fuoco ai popolani che non si scansavano in tempo.

La giovane ancella, nel vedere quella figura, impallidì e si affrettò a farsi da parte. Robert si avvicinò con fare protettivo, pur apparendo anch’egli turbato da quell’individuo. I due giovani seguirono ansiosamente i bruschi movimenti e l’incedere arrogante dell’uomo, finché questi sbucò dalla calca poco distante dal punto dove il giovane gentiluomo osservava, sorridendo, la scena. Gli occhi grigi, distanti e gelidi, si soffermarono sugli abiti eleganti e la figura snella di sir Raoul. La bocca, fino allora atteggiata a uno sprezzante sogghigno, si distese in un sorriso freddo ma cortese. Il giovane si esibì in un educato inchino, togliendosi il cappello con un ampio gesto.

«Lord Cardekon, buona giornata».

«E voi chi diamine siete? Mi conoscete?». La voce tagliente e sgarbata del nobiluomo echeggiò nel porticato. La mano di Lucy si strinse sul braccio del giovane maggiordomo.

«Sono sir Raoul Velmont, di Lumbar, sono di passaggio in questi luoghi ma è impossibile per chi abbia trascorso qualche giorno in queste campagne, non conoscere lord Philip Thersil Cardekon. La vostra fama vi precede, milord».

«Siete molto cortese, sir Velmont ma … non siete mai stato nel mio castello? Avete qualcosa di … familiare». Lo sguardo ferino del nobile esaminò minuziosamente l’elegante figura di sir Raoul. Robert osservava la scena con crescente tensione, amplificata dall’evidente turbamento di Lucy.

«Ahimè no, milord. Temo di non aver mai goduto della vostra ospitalità. Ma sono lieto di avervi potuto conoscere di persona, dopo i tanti racconti che celebrano le vostre gesta». Gli occhi del lord si fissarono in quelli del giovane gentiluomo che sorresse disinvoltamente quello sguardo indagatore. Poi lord Cardekon parve perdere interesse nel suo interlocutore.

«Vi ringrazio, sir Velmont ma due giorni or sono il mio castello è stato svaligiato, dunque non sono dell’umore per soffermarmi a chiacchierare».

Sul volto di sir Raoul comparve un’espressione di assoluto rincrescimento. Lucy si accorse che Robert si era rilassato e ora, addirittura, sorrideva.

«Oh, santi Numi! Mi dispiace davvero, milord. Chi può aver osato tanto?».

«Blackwind. Mi ha lasciato una sua lettera, quel farabutto! Ma avrò la sua testa, ve l’assicuro».

«Oh, non ne dubito affatto, milord». Il nobile lanciò uno sguardo perplesso al gentiluomo poi, con un cenno di saluto, proseguì la propria marcia rabbiosa fuori dall’abitato, sempre accompagnato a debita distanza dai suoi servi dal viso mogio. Sir Raoul lo seguì a lungo con lo sguardo. Nei suoi occhi meditabondi era comparsa una strana luce.

Lucy si voltò verso il giovane maggiordomo, sorridendo. Tutto sommato il lord si era davvero meritato di essere derubato. La fama di uomo tirannico e avaro che lo circondava, pareva veramente ben guadagnata. Sebbene avesse frequentato la rocca praticamente da sempre, Lucy si sentiva sempre intimorita dai modi di quel nobile. La collera della sua voce era intrisa della durezza di chi è uso a impiegare la forza per ottenere ragione. Nel vederlo allontanarsi con i suoi servi, l’ancella non seppe trattenere un sospiro di sollievo.

Sir Raoul si voltò verso i due giovani, lanciando loro un sorriso divertito insieme a un cenno di saluto, poi si voltò verso il porticato per entrare in quella che pareva un’osteria.

Era un locale basso e fumoso, dalla volta in laterizio, a botte, probabilmente ricavato dalla ristrutturazione di un precedente edificio che doveva aver conosciuto maggior gloria. Nelle pareti erano rimaste alcune formelle di terracotta che richiamavano alla mente il culto di Sergaries. Sir Raoul si accomodò a un tavolo e ordinò da bere.

L’oste era un tipo socievole, come molti di coloro che esercitavano il suo mestiere, e il giovane gentiluomo non ebbe difficoltà a raccogliere informazioni sugli avvenimenti degli anni passati e sui personaggi influenti di quelle parti. Gli bastò un breve accenno alla magnificenza delle terrecotte e a come il villaggio pareva aver vissuto tempi migliori. Subito l’oste gli raccontò come ai tempi delle sacerdotesse, quelle campagne fossero ricchissime e sicure, protette dalla benevolenza di Sergaries e dalla ricchezza dei signori della rocca. Purtroppo, però, quei tempi erano passati e l’oste dubitava assai che potessero tornare.

Qualcosa si era guastato alla rocca. Dopo la morte dell’ultima signora, la dolce dama Erika, la melanconia pareva aver colpito la terra stessa. I lupi malvagi erano tornati e si diceva che alcuni briganti arrivati dal sud avessero eletto il loro covo da quelle parti. Alcune persone erano misteriosamente scomparse, fra loro anche una sacerdotessa di Sergaries che aveva soggiornato alcuni anni nel villaggio, sperando di poter ripristinare il tempio, su alla rocca.

Pareva che anche il famigerato bandito Blackwind avesse portato le sue operazioni in quei paraggi, svuotando i forzieri di lord Philip Thersil Cardekon che abitava poco distante da Brightmoon.

«Non che non se lo fosse meritato, dal momento che viene definito vecchio avvoltoio anche dai più benevoli». Soggiunse sottovoce, ammiccando con aria complice e strappando un sorriso a sir Raoul.

Inoltre, la dimostrazione della decadenza di quelle terre era nel fatto che l’unica guida spirituale rimasta era un vecchio pazzoide, seguace di Fenesbrand[11], che aveva fama di iettatore.

Per quanto riguardava sir Ernest, l’oste raccontò che era un affascinante cavaliere che riuscì a far breccia nel cuore di Dama Erika. Ma anche che, proprio da quel matrimonio, iniziò la decadenza di quei luoghi. La signora Erika Brightmoon era l’ultima discendente della dinastia di sacerdotesse di Sergaries che avevano retto per tre secoli la rocca di Luna Splendente, portando la parola della Luna Guaritrice fra la gente e facendo del bene ovunque fosse necessario. Si mormorava che tutto ciò avesse provocato l’ira di Engwhir, il Signore dei Disastri, e che fosse stato lui a colpirla. Circa due anni dopo il matrimonio, dama Erika cadde da cavallo battendo la testa contro una pietra. La trovarono morta, così. Pareva fosse stata la sua amica dama Lavinia a trovarla, ormai agonizzante.

Circa un anno dopo, dama Lavinia sposò sir Ernest. Era certamente una donna bellissima ma, a detta dell’oste, interessata solo alle feste e ai divertimenti, che non si occupava mai della gestione della rocca e tantomeno del villaggio. Secondo l’oste, dopo che Sir Ernest si era ammalato, solo suo cognato sir Mordred aveva la capacità e la forza necessarie per proteggere quelle terre. Eppure, nonostante avesse anche abbassato le tasse al villaggio, la gente era sempre più povera e solo i nobili e i mercanti più intraprendenti trovavano di che arricchirsi.

«Certo, se ritrovassero il tesoro della rocca, forse potremmo risollevarci, ma il segreto di quel tesoro si è spento con dama Erika». Anche questa frase fu accompagnata da una strizzata d’occhio ma sir Raoul osservò incuriosito il suo interlocutore. Non aveva mai sentito parlare di un tesoro nascosto e non sapeva cosa pensare delle ultime parole dell’oste.

«Scusate, di quale tesoro state parlando?».

«Ma di quello della rocca, naturalmente. Lo sanno tutti che le sacerdotesse custodivano un favoloso tesoro e si tramandavano il segreto del suo nascondiglio. Ma con la morte di dama Erika, il segreto è andato perduto. E così il benessere e la prosperità di queste terre. Abbiamo dovuto eleggere un borgomastro che si occupi della comunità. È il vecchio Clarence, una gran brava persona, credete a me, poi c’è lo sceriffo Bond, anche lui una gran brava persona e uomo di fiducia di sir Mordred».

«Non lo metto in dubbio … sapete, questi paraggi mi piacciono, non mi dispiacerebbe stabilirmi da queste parti … dove potrei incontrare l’anziano Clarence e lo sceriffo?».

L’oste parve molto contento della prospettiva che un simile gentiluomo venisse ad abitare nei dintorni e non si fece pregare per indirizzarlo dall’anziano Clarence Bellingham, un vecchio soldato ritiratosi più di vent’anni prima per le ferite riportate in guerra. Fino a poco prima aveva fatto il maniscalco ma ormai l’età lo aveva costretto ad assumere un lavorante e a limitarsi a controllare l’attività. I suoi compaesani l’avevano eletto loro rappresentante quasi all’unanimità, in considerazione della sua saggezza. Lo sceriffo aveva la sua sede nella torre del villaggio e, visto che non era a bere all’osteria, doveva essere ancora lì.

Sir Raoul pagò generosamente l’oste e uscì pensieroso dal locale. Giunto nella piazza, non ebbe difficoltà a farsi indicare la bottega di mastro Bellingham e si presentò cerimoniosamente al vecchio guerriero. Questi era un uomo di statura notevole, ancora robusto, dal volto severo, incorniciato da una folta barba grigia; gli occhi erano scuri e malinconici. Vestiva semplicemente, con una tunica e un grembiule da fabbro la cui pulizia lasciava alquanto a desiderare.

Ascoltò la presentazione del gentiluomo, lo squadrò da capo a piedi con aria malevola, sputò per terra e gli si rivolse sgarbatamente.

«Siete venuto a portare altra disgrazia su queste terre, signore? Questo non è luogo per gentiluomini, non più».

Sir Raoul non parve per niente turbato da quell’accoglienza così poco cordiale, sorrise e continuò a parlare.

«Mi giudicate male. Io sono qui per caso: ho salvato Lucy Thornbow cui si era imbizzarrito il cavallo e la sto riaccompagnando alla rocca».

«Lucy? Anche quella ragazza porta sfortuna. Non mi piaceva da bambina e non mi piace ora».

«Non capisco cosa vogliate dire». Gli occhi indagatori del gentiluomo si fissarono in quelli dell’anziano borgomastro. Si guardarono fissi, per un lungo istante, poi gli occhi scuri di Bellingham si abbassarono.

«Poco dopo che Lucy è nata, sono cominciate le nostre disgrazie. Er … la signora Erika è morta, quell’idiota di sir Ernest ha cominciato a bere, sir Mordred ha cominciato a spadroneggiare e quella … dama Lavinia ha cominciato a dare stupide feste immorali, con le quali si è comprata la benevolenza delle oche grasse del paese. Il tesoro della rocca è ormai perduto. Il tempio è andato in rovina. I lupi sono tornati. La gente onesta scompare nel nulla. I ladri svaligiano i castelli. Da quando quella ragazza è qui, un male oscuro si è risvegliato su queste terre … un male che ci porterà alla rovina».

Sir Raoul osservò con attenzione l’anziano soldato. Nella sua voce c’erano rancore e amarezza ma anche una nota falsa che lo mise immediatamente in guardia. Non riusciva a spiegarsi l’irrazionale avversione di quell’uomo nei confronti di una ragazza che non pareva aver avuto altro torto che quello di nascere in prossimità di eventi sventurati. Si chiese se fosse il caso di farglielo capire ma si rese conto che sarebbe stato inutile, finché non avesse compreso le vere ragioni del borgomastro. Allora il gentiluomo cercò di indagare in altre direzioni.

«Mi pare di capire che non vi piace come sir Mordred amministra queste terre».

«Capite quel che vi pare. Io, comunque, non l’ho detto». Ancora un muro.

«Siete la terza persona che mi parla dei lupi. Sono davvero diventati una minaccia?».

«Un lupo non è una minaccia, signore. E nemmeno un branco, in genere. Ma sono scomparse delle persone e qualcuno ha raccontato di aver visto belve demoniache aggirarsi nei boschi. Belve che popolano le leggende. E i ricordi dei vecchi guerrieri». Forse questo poteva essere un argomento di conversazione sul quale l’anziano Bellingham poteva concedere spazio. Sir Raoul cercò di subito di approfittarne.

«Anche di un vecchio guerriero che ha impugnato il martello, dopo aver lasciato la spada?».

«Di un guerriero che ha combattuto a lungo il male e ne ha visto le molteplici forme. E che le sa riconoscere». La voce dell’uomo era diventata cupa, con un fremito angosciato che attirò l’attenzione del gentiluomo.

«Parlate come se aveste una vostra teoria, su questa faccenda dei lupi».

«Ho l’impressione che questi … lupi non colpiscano a caso. Come se un male superiore li guidasse … come se sapessero dove e chi colpire». Parlava in un sussurro, quasi con se stesso.

«Cosa intendete dire?».

«Sono vaneggiamenti di un vecchio, sir Velmont. Lasciate perdere. È già scomparsa troppa gente, negli ultimi anni, potrebbe toccare a voi, se insistete a fare domande in giro».

Il gentiluomo ebbe l’impressione di sentire un’ombra di collera nella voce del borgomastro. Collera o minaccia? Non avrebbe saputo dirlo.

«La gente scomparsa … c’era anche una sacerdotessa, vero?».

«Keira. Una brava donna. Ma ha detto quel che pensava e la sua Dea non l’ha protetta abbastanza».

«E cosa pensava, quella brava donna?».

«Pensava … no, sir Velmont … sono troppo vecchio per queste cose … diciamo che insisteva troppo per parlare con sir Ernest e qualcuno non gradiva la sua insistenza».

«Non vi seguo … chi voleva impedirle di parlare con sir Ernest? Ma poi, mi avevano detto che sir Ernest era malato».

«La sua malattia è nell’anima. I neri umori della melanconia hanno invaso il suo cuore … e nel vino cerca la sua medicina».

«Per la morte di dama Erika?».

«Non credo proprio. Si è risposato dopo un anno appena e non pareva malato. Tutt’altro. È stato dopo. Qualche anno dopo. Ma non è mai stato in grado di governare la rocca. Fin da subito ha affidato tutto a sir Mordred. Che non credo abbia mai governato nulla di più complesso del suo cavallo. Ha ridotto le tasse … ma ci ha anche detto che, d’ora in poi, dovremo provvedere da soli alla manutenzione della strada e delle terre qui intorno. In pratica, o paghiamo molto più di prima o va tutto in malora … e qui sono in pochi a poter pagare».

«Non avete simpatia neppure per sir Ernest, mi pare».

«Ho simpatia per chi mi lascia in pace. Rendetevi simpatico anche voi e lasciatemi lavorare, ora. E, se volete un consiglio sincero, tornatevene a Lumbar o dove vi pare ma lontano da qui».

Il giovane gentiluomo sorrise e salutò il borgomastro. Non avrebbe certamente ricavato altro da lui. Uscì dalla bottega dell’anziano Clarence con molte domande che gli turbinavano nella mente. Il quadro che si era fatto della situazione si andava sempre più complicando. Una ragnatela di misteri si stava intrecciando intorno alla rocca di Luna Splendente. Decise che sarebbe stato opportuno rivolgere qualche altra domanda in giro.

Si aggirò per il mercato, comprando qualche cosa e rivolgendo domande distratte che gli portarono alcune informazioni, cui non sapeva proprio che peso dare. In particolare, un’anziana contadina gli aveva confidato nuovi particolari, con un pizzico di malignità.

Clarence, in gioventù, aveva servito dama Erika, diventando il suo braccio destro, finché lei non aveva perso la testa per sir Ernest. Nulla di strano che non l’avesse in simpatia. Ma, d’altra parte, sir Ernest era bello e forte come un dio ed aveva fatto girare la testa a tutte le donne di Brightmoon.

«E così dama Erika si innamorò del bel guerriero. Ma lui era davvero innamorato di lei?».

«Io credo di sì. Almeno all’inizio sembrava proprio innamorato. Poi si mise a frequentare quei due».

«Volete dire dama Lavinia e suo fratello?».

«Sì, certo. Avreste dovuto vedere come dama Lavinia gli faceva gli occhi dolci. Vivevano da alcuni anni nella villa dei Cipressi Neri, è quella bella villa fortificata che potete vedere anche dalle nostre mura, poco sotto la rocca, circondata da un boschetto di cipressi. L’hanno comprata senza quasi discutere sul prezzo. Devono essere assai ricchi, quei due. Ma dama Lavinia era quasi sempre alla fortezza. E ora passa il tempo fra feste scandalose e preghiere col vecchio Patrick. Secondo me ha da farsi perdonare qualcosa».

«Patrick? E chi sarebbe costui?».

«Un vecchio fanatico, seguace di Fenesbrand, sempre con la faccia scura, sempre a predire disgrazie. Secondo me, porta sfortuna. È arrivato da poco prima della morte di dama Erika e non se n’è più andato».

Tutt’altra versione sir Raoul aveva ricavato da un falegname che riteneva dama Lavinia un angelo disceso dal cielo per fare del bene a quella terra disgraziata. E una donna infelice. Gli raccontò che era molto amica di dama Erika e che era rimasta sconvolta dopo la sua morte. Da allora si era dedicata a far del bene alla povera gente e a sostenere l’amministrazione della rocca, con l’aiuto del fratello. Fu per quella sua frequentazione che finì per cedere alle lusinghe di Sir Ernest che, però, pareva essersi risposato solo per avere un erede. Ma dama Lavinia non seppe darglielo e, per questa ennesima disgrazia, il nobile si ammalò di malinconia. E ormai quella povera donna era prigioniera di quella casa, con un marito inesistente e sempre ubriaco. Per fortuna aveva trovato conforto nella fede, chiamando alla rocca un sacerdote in odore di santità. Inoltre c’era suo fratello, sir Mordred, veramente un uomo in gamba, che aveva preso in mano le redini della rocca, con l’aiuto dello sceriffo e del maggiordomo, il padre di Lucy. Anche lui un tipo in gamba che era stato un valente cacciatore, in gioventù. Una brava persona, a giudizio del falegname, intelligente ed umile. E, soprattutto, un padre esemplare.

Il gentiluomo si rendeva conto di come fosse complessa la situazione. In particolare era perplesso sulla castellana: era una vittima delle circostanze o una scaltra profittatrice? Eppure, a sentire la gente, era proprio la scaltrezza che pareva mancare a quella dama, al contrario di suo fratello. Ormai, era il caso di andare a parlare con lo sceriffo.


 

[11] Dio della guerra, della vittoria e della morte, giudice dell’aldilà

  
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