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Autore: Jolene    14/01/2006    0 recensioni
“Stanotte c’era luna nuova. E’ difficile pescarla quando è così pesante. Ma quando è una falce.. dicono che sia facilissimo tirarla su” “Ma..” boccheggiò Iari sbigottita “Ma non si può pescare la luna” “Oh, si che si può, ragazza. E non dare giudizi su cose che non conosci” ringhiò il pescatore “Mi innervosisce l’aria da ragazzi onniscienti che avete al giorno d’oggi. Credi di sapere tutto?”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’autobus di ritorno era straordinariamente affollato. Capitava solo durante le feste patronali, quando i cittadini scendevano in campagna a festeggiare.

Iari decise di aspettare che scaricasse tutti e poi tornasse indietro. Sarebbe arrivata in ritardo per il secondo giorno di seguito, ma in fondo, cosa importava?

Saltò sulla prima circolare che portava in centro. La gente che ci stava dentro si poteva contare sulle dita di una mano. Un immigrato sedeva sul sedile più vicino. Aveva in mano una fisarmonica, e con gli occhi scorreva le righe di uno spartito poggiato sulle ginocchia.

Poco più in là suo figlio l’osservava con sguardo compunto. Era un bambinetto con la pelle scura e gli occhi grandi. Il suo aspetto era così triste che Iari distolse lo sguardo.

Solo allora si accorse di lui.

Sfogliava un volantino rosso e azzurro, il braccio appoggiato al finestrino. Di tanto in tanto il suo sguardo si soffermava su di un punto. Aggrottava le sopracciglia per un istante. Poi continuava a leggere.

Iari si avvicinò lentamente sulle sue stampelle traballanti. Sperava che lui alzasse lo sguardo, ma era così preso da quella brochure che non si sarebbe accorto di nulla.

“Ciao” disse Iari.

Il ragazzo sembrò preso alla sprovvista. Ripiegò frettolosamente il volantino e lo infilò in cartella. Ma non abbastanza velocemente. Iari riuscì a sbirciare di sfuggita il titolo: ‘ Ammissione alla Scuola Normale ’ prima di sedergli accanto.

“Ciao” disse il ragazzo.

“Così vuoi andare all’università Normale?”

Lui, evidentemente preso con il piede in fallo, non potè nascondere la sorpresa.

“Bè.. io.. era un’idea” ammise.

“Anche io vorrei che mi ci prendessero” esclamò Iari con slancio. Non era vero, chiaramente. L’aveva detto semplicemente per evitare che si sentisse in imbarazzo.

“Oh, fantastico” replicò lui “bè, sai, gli esami sono duri a quanto ho saputo. Non credo che riuscirò a passarli”

Iari annuì. Aveva sentito parlare dei test d’ingresso della Normale. Conosceva una persona che li aveva passati tutti, eppure la memoria la prendeva in giro. E lei non ricordava di chi si trattasse.

Il ragazzo si rigirò la cartella tra le mani. Aprì la cerniera della tasca anteriore e cacciò un pacchetto di Diana blu. Invitò Iari a prenderne una.

“No, grazie”

“Lo so che le Diana fanno schifo, ma sono quelle che costano di meno”

Iari rise. “No, figurati. È che proprio non fumo”

Il ragazzo inspirò una boccata, di gusto.

“Ah, meno male”

Una voluta di fumo gli scivolò giù dalle narici.

“Allora” disse Iari “Non mi hai ancora detto come ti chiami”

Il ragazzo la guardò ed accennò ad un mezzo sorriso. Era strano a vedersi sulle sue labbra. Quasi non sembrava un sorriso, ma una supplica. I suoi occhi sottili si strinsero ancora di più, come esaminando qualcosa di molto dettagliato.

‘Lo so, ci ho girato intorno ’ sembravano dire ‘Cosa faccio, posso dirtelo? Posso stare sicuro? Posso fidarmi di te?’.

Ma poi sobbalzò, colpito da un altro pensiero: ‘In fondo lei mi ha dato fiducia per prima ’

“Elia Fiorani”

L’autobus si fermò di fronte ad un supermercato e poco lontano dal parco. Non era esattamente una zona centrale, ma Iari si ricordò della bottiglia che doveva ricomprare e, temendo che se ne dimenticasse, colse al volo l’occasione.

“Anche tu scendi qui Iari?”

Iari assentì.

“Io abito qui dietro”

“Io devo andare al supermercato”

“Ci vediamo”

“Ciao”

Iari scese giù dalla circolare. Era forse una delle cose più difficili da fare, per un invalido.

S’infilò dritta nel supermercato. Era l’ennesima volta che ci entrava, e sempre per il medesimo motivo. Conosceva a memoria solo una certa ala del supermercato.

Il reparto alcolici era in fondo, nascosto da uno scaffale di omogeneizzati Plasmon. In alto c’erano i drink più pesanti, i primi tre ripiani erano pieni di birre. Sull’ultimo c’era una fila di bottigliette di porto, rum e gin ordinate come soldatini di piombo.

Iari ne prese una e la portò alla cassa.

La proprietaria del negozio era una vecchia con la cuperose ed i capelli color paglia. Il naso, la pelle cadaverica e l’espressione del volto ricordavano quelle di un topino da campagna. Portava degli occhiali piccoli e ovali proprio sulla punta del naso, e suo marito, che era la sua copia al maschile (Tanto che si sarebbero detti fratelli), lavorava nella panetteria di fianco.

Il martedì la panetteria era chiusa, così lui e sua moglie sedevano uno accanto all’altra mormorando parole incomprensibili. Dal modo di gesticolare concitato, lei sembrava molto coinvolta dall’argomento. Suo marito invece continuava ad aggrottare le sopracciglia.

Iari riuscì a cogliere una parte del loro discorso.

“Sì, è venuta proprio stamattina, che coraggio. Non c’è proprio più religione!” esclamò con gli occhi spalancati “ Una chiromante proprio nel nostro quartiere! Sai, io e Mariuccia abbiamo pensato bene di parlarne con sorella Michela. Magari riesce a riportarla sulla buona strana di cristiano. Comunque qua dentro non metterà mai più piede. Per quant’è vero che mantengo le promesse fatte”

La vecchia troncò il discorso vedendo Iari avvicinarsi con la bottiglietta di porto in mano. La squadrò da capo a piedi con disprezzo e passò la bottiglia sul nastro.

“Sono cinque e quaranta” disse scandendo bene ogni lettera.

Era un’impicciona che si atteggiava ad angelo della carità. Non esitava a gettare decine di euro nei cestini della beneficenza in chiesa, di fronte agli occhi della società bene. Per poi lamentarsi degli ‘Sporchi barboni ’ seduti di fronte al suo negozio quando non era a portata d’orecchio.

Inoltre sebbene Iari fosse ancora minorenne, non aveva esitato nemmeno un istante a venderle il Porto. La supremazia del dio denaro.

Iari le porse la dieci. La donna intascò il contante e le diede il resto in spiccioli.

“Arrivederci” disse Iari. Uscì dalle porte girevoli arrancando sulle stampelle senza aspettarsi una risposta. Ma le sembrò di udire una voce mentre scompariva oltre la porta: “Quella ubriacona!”.

 

Per la famiglia Fiorani abitare in un camper sarebbe stata una benedizione. Ed invece erano costretti a vivere in una casa in costruzione da dieci anni. Una casa che così non poteva chiamarsi, che più che altro somigliava ad un campo profughi.

Stava al piano terra di un palazzo, sotto uno scheletro di due piani.

Il comune aveva dato i fondi per la costruzione. L’ingegnere aveva iniziato a mettere su il palazzo, poi era saltato fuori un problema sul terreno instabile e ne era venuto fuori che i lavori dovevano essere ‘Momentaneamente bloccati ’. Et voilà… con abile mossa qualcuno aveva fatto sparire i finanziamenti stanziati dall’amministrazione. Le solite storie di mafia; le conoscevano tutti a menadito. Non che poi il comune non ci fosse invischiato in quelle storie. Tre mesi prima era stato ucciso un assessore che combatteva l’edilizia a scopi lucrosi.

La casa stava in piedi alla buona in mezzo ad una ventina di altre costruzioni simili, messe su con lo sputo. La chiamavano ‘La valle degli scheletri ’. Una collina ampia più o meno un chilometro e quasi del tutto disabitata.

I Fiorani non sarebbero dovuti stare in quel posto. Ma questa era pura ideologia. Secondo il nostro stato ci sarebbero molte cose che non si possono fare, ma che fanno in molti. Forse si avrebbe più rispetto del caro vecchio stato se i suoi rappresentanti dessero per primi il buon esempio. Ma anche questa è ideologia.

Questa casa si svolgeva su un solo piano. Era zeppa di mobili improbabili, roba raccattata nella discarica o cose di cui nessuno sapeva che farsene. Per terra in salotto c’era un tappeto fucsia di pelo sintetico. Le scale non avevano ringhiera, e sui balconi c’era un fragile sostegno di cemento con sopra cocci di bottiglia per scacciare i piccioni.

Leo Fiorani lavorava da vent’anni in una fabbrica fuori città. Era un manovale. Usciva di giorno alle sette, tornava alle nove di sera stremato. Un tempo era stato ricco, suo padre era banchiere. Non aveva mai fatto mancare nulla a lui e suo fratello. Ma suo fratello aveva seguito l’esempio paterno, mentre lui non aveva mai amato studiare. Preso il diploma da idraulico, aveva perso la testa per Orsola ed era andato via. Nemmeno aveva lasciato una lettera.

Certo però che Orsola quei sacrifici li valeva tutti. Si erano conosciuti ad una festa. Lei se ne stava in un angolo fumoso con un mazzo di carte in mano ed un tavolino sulle ginocchia. Aveva i capelli lunghi, scuri, gli occhi sottili. Muoveva le carte con le mani lunghe. Era incantevole quella sua risata genuina. Anche a distanza di anni era rimasta la stessa: una moglie di cui Leo andava molto fiero ma che non poteva mostrare a nessuno. Come dice il detto, c’è chi ci ha il pane e non i denti per mangiare, c’è chi ci ha i denti e non ha il pane.

Ma Orsola andava per la città tutto il giorno, con le sue carte, a leggere il destino della gente. A lei non importava di nulla al mondo. Così aveva vissuto e così sempre avrebbe continuato a vivere.

Era impressionante la somiglianza tra Elia ed Orsola. Solo, si crucciava Leo, non capiva perché fosse così magro. Aveva provato in tutti i modi a rafforzare la sua costituzione così esile, quasi femminea. Tutti sforzi vanificati.

Ma poi c’era Tommaso, che era grande e forte; un ragazzo acuto e intelligente. Il suo pupillo.

E non poteva pensarci che solo l’anno prima se n’era andato di casa con un gruppo di amici a girare l’Italia. In un attimo si era visto sbattere in faccia la costante ammonizione di suo padre: “Vedrai figliolo, tutto quello che tu hai fatto a me ti si ritorcerà contro”.

Tommaso se n’era andato con quegli amici sballati, una compagnia che non gli piaceva per niente. Aveva trovato il portafogli spoglio e un biglietto di congedo sul tavolo.

Ecco cosa ci guadagnava un padre ad ammazzarsi di lavoro. Un biglietto di congedo e il portafogli vuoto. Bella vita di merda.

Quel venerdì pomeriggio Elia era tornato più tardi.

Lampo gli era corso incontro abbaiando ferocemente. Lampo era un bastardino a metà tra un setter e un cocker spaniel che si nutriva dei loro avanzi e cercava di mordere chiunque gli capitasse di fronte. A parte i suoi padroni.

Leo l’aveva visto entrare dalla veranda scansando l’animale, spegnere una cicca sotto il tacco e aprire con un calcio la porta.

“Elia, vieni qua!”

Il ragazzo si avvicinò.

“Fa vedere le sigarette”

Elia gli mise il pacchetto di Diana sotto il naso.

“Elia, spendi tutti i tuoi soldi in queste cagate.. almeno comprale buone. Vedi che non sai nemmeno comprare un pacco di sigarette?”

“Perché allora non me li dai tu i soldi per le Malboro?”

Il padre gli avvolse le mani attorno al mento e gli tirò indietro la testa.

“Non rispondere così a tuo padre”

“Va bene papà”

L’uomo mollò la presa. Elia si rassettò la cartella in spalla e salì le scale senza dire una parola. ‘Stronzo pazzoide ’. Sapeva benissimo di non essere il cocco di papà, come sapeva che per quanti bei voti avrebbe preso a scuola, a lui non sarebbe mai piaciuto. Era un dato di fatto, una certezza che non suscitava in Elia nessuna meraviglia. Ci aveva fatto l’abitudine tanto che nemmeno gli dava più fastidio.

La porta della camera di sua madre era semi- aperta. Ne usciva un pregnante odore di incensi.

Elia l’aprì cautamente. Orsola Fiorani era seduta a gambe incrociate per terra con gli occhi chiusi, avvolta da un fumo grigiastro. La luce era spenta. Ai suoi piedi erano sparse le carte da chiromante. Era raro che la trovasse a casa, e quelle poche volte che si incontravano si comportavano entrambi da estranei.

Entrò in camera e si chiuse la porta alle spalle. Un fulmine lampeggiò proprio sul suo balcone; Elia ne ammirò la bellezza. Mise sull’hi-fi un vecchio nastro americano e, penna alla mano, si accinse al suo saggio sulla rivoluzione francese.

 

Quando Iari si svegliò l’acquazzone era peggiorato. La pioggia era tanto forte che batteva violentemente sulla finestra. Sarebbe stato impossibile anche vedere ad un palmo dalla propria mano. Iari si alzò. Non aveva voglia di dormire ancora, nonostante avesse preso sonno soltanto alle due. Controllò che ora fosse sull’orologio da polso. Le sette meno un quarto. Né presto né tardi. Si arrampicò sul davanzale come faceva da bambina e guardò giù. A malapena si intravedeva l’aiuola di confine, di sotto.

Dei passi si avvicinarono alla stanza. Sua madre allungò il collo oltre lo stipite per controllare se fosse sveglia.

“Ho sentito che ti alzavi, Iari. Che ci fai in piedi così presto?”

“Non ho più sonno”

“Io vado al lavoro. Sono già in ritardo. Ci vediamo alle due”

“Ciao”

Iari aspettò che la porta d’ingresso si fu richiusa. Solo allora si trascinò in cucina con un paio di ciabatte che le calzavano troppo grandi. Vide di sfuggita la sua immagine riflessa nel coperchio di una pentola lasciato ad asciugare sul ripiano. Aveva i capelli sconvolti in una turba, le labbra un po’ più grandi del normale e gli occhi impastati.

Prese due uova dal frigo, accese il gas e ci mise sopra una pentola. Contemporaneamente tagliò un pezzo di burro e ce lo buttò sopra. Quando iniziò a sfrigolare, versò dentro il contenuto della padella e lasciò che friggessero. Poi, visto che l’albume aveva perso la sua trasparenza, fece scivolare le uova nel piatto. Emanavano un ottimo odore. Aprì il frigorifero e buttò l’occhio sulla tasca laterale. C’era una bottiglia di aranciata che aveva fatto sua madre qualche giorno prima. Ne versò metà bicchiere e si mise al suo posto. Una volta, invitando Giovanna a stare per la notte, la mattina dopo le aveva preparato le uova al tegamino. Giovanna, che non amava i mezzi termini, le aveva chiesto come facesse a mangiare quella roba americana di prima mattina.

Invece Iari la trovava un’ottima colazione: sostanziosa e saporita. Inoltre non amava i dolci.

Stava per infilzare le uova con la forchetta, una fetta di pane nell’altra mano, quando il telefono squillò.

Iari strisciò la sedia per terra e corse a rispondere. Carla Giusteni aveva avuto la malaugurata idea di far installare la segreteria telefonica dopo il terzo squillo. In genere non si faceva in tempo ad arrivare in salotto che già era partita la vocetta acuta dell’operatrice telecom. Carla non aveva ancora trovato il tempo e il modo per levare quell’aggeggio infernale.

Questa volta però Iari si precipitò letteralmente. Sollevò la cornetta proprio durante il terzo squillo.

“Pronto?”

“Posso parlare con Iari, sono Luciana Melchiorre”

Il cuore di Iari sobbalzò. Quel cognome le era famigliare.

“Sono io”

“Iari, sono Luciana”

Luciana era la madre di Mirko, una signora semplice e gentile che a Iari era sempre piaciuta. Dopo l’incidente avevano parlato a lungo.

“Volevo dirti che Mirko sta bene. Ricordi, me lo hai chiesto tu?”

“Sì, mi ricordo”

“ L’operazione è andata bene, il collo è di nuovo a posto. Abbiamo parlato proprio oggi con il dottore. Ha detto che la riabilitazione non durerà più di tre settimane. Adesso lo sta seguendo un terapeuta, ma pare che migliori a vista d’occhio”

“Capisco”

“Ma tu Iari come stai?”

“La gamba è sempre uguale, non c’è proprio più niente da fare. Ma ci stò facendo l’abitudine.

Però ti ringrazio molto per avermi chiamata, Luciana”

“Ne avevi più che diritto, tesoro. Salutami tua madre, d’accordo?”

“D’accordo, ciao”

“Ciao”

Iari buttò giù la cornetta con un groppo alla gola. Non riusciva a capire come avesse fatto a reggere quella conversazione. Alla mente le erano venuti tutti quei momenti orribili. Ma non doveva pensarci, non doveva lasciare che l’orrore prendesse il sopravvento su di lei.

Passò il palmo della mano sulla cicatrice sotto il mento.

Si sedette sul sofà e cercò di concentrarsi sul respiro. Inspira- espira. Inspira- espira.

 

Ecco, era strano il suo respiro. Sembrava quello di un animale marino, come se… come se avesse le branchie. Sollevò le palpebre. Non si era mai addormentata in quella posizione bizzarra, così, lateralmente.

L’atmosfera era rarefatta. Davanti a sé c’era il volante. Riprese lentamente coscienza e ricordò i pochi attimi prima che la macchina sbandasse. Capì. Sotto le sue ginocchia c’era Mirko, raggomitolato su se stesso. Si tastò il collo con le mani e sentì una ferita larga proprio alla base del mento. Ritrasse le mani, inorridita. Erano dipinte di rosso.

Sentì la testa che le girava vorticosamente e il sangue che rallentava il suo flusso. ‘No, vedi di stare calma. Ci manca solo che svieni, adesso ’.

Attorno a lei sentiva delle voci agitate. Sollevò il braccio. “Aiuto” sussurrò senza alcuna forza nella voce.

“E’ viva! Proviamo a tirarla fuori!” diceva una voce maschile.

Vide il viso di un uomo affacciarsi su di lei e tenderle le braccia. Lei cercò di farsi più vicina, anche se sentiva la gamba sinistra penderle dal busto come un manichino. Gli diede una mano, si sollevò cercando di non cadere. L’uomo La tirò su dalla portiera aperta.

La stesero sull’erba poco lontano. Accanto a lei ora c’era una donna bruna.

Armeggiò il cellulare nervosamente e se lo mise all’orecchio.

“Sì, un incidente sulla quarantuno. Ci sono due feriti gravi. Sì, un’ambulanza. Noi aspettiamo qui finché non arrivano”.

 

Iari aveva partecipato per tre anni consecutivi al certamen di logica matematica. Non aveva mai vinto nemmeno il più misero dei premi. Il semplice motivo che la spingeva a mettersi in competizione erano le ore che perdeva in classe con la professoressa Marelli. Era molto pesante riuscire a sopportarla di sabato mattina. Così ecco che Iari aveva trascorso le prime tre ore nella sala professori con un test di matematica sotto il naso. L’aveva lasciato quasi tutto in bianco. Che importava?

Alla fine lo consegnò al responsabile. Suonò la campanella. Iari scese giù. Non voleva stare in mezzo a troppa gente, così preferì andare a stendersi sotto uno dei larici vicini all’entrata posteriore.

Mise la borsa sotto la nuca, in modo da poter poggiarvi la testa. Buttò le stampelle accanto a sé e rimase lì per un pezzo con le mani ripiegate sotto la base dei capelli.

Di sopra non si vedevano nuvole, solo uno stormo di rondini, un mare di pois neri e il loro acuto richiamo. Le cadde una foglia sul grembo. Era larga e scura, con una serie di venature che si intrecciavano nel mezzo.

Iari la rigirò tra le mani, cogliendone le sfumature. Tra le altre foglie appese scorrevano lame di luce sottili che la colpivano. Nei punti luminosi quei rilievi sembravano vene umane, reali, viventi. In ombra non si riusciva a vedere nulla oltre al profilo minuto.

La mente di Iari passò in rassegna tutti i soprannomi, nomignoli e dispregiativi che le avevano affibbiato fino a quel momento. Si ritrovò bambina di fronte agli zii. Pupetta. L’espressione di Mirko quando la chiamava Amore. Il pescatore laggiù sul lago. Ragazzina. Giovanna che rideva e le si infossavano gli angoli della bocca. Pazza. Paolo Battistino che la guardava con disprezzo. Puttana. Padre Lucio con le sue cristianissime rigidità. Pecora smarrita. La vecchia pettegola del supermercato. Ubriacona.

No, niente. Niente di tutto questo. Non una ragazzina, non una pazza, non una ubriacona, non una pecora, non una puttana, non una bambola, non un tesoro. Non amore, mai, non per Mirko.

Iari posò la foglia per terra accanto a sé e si girò sul fianco, con il dorso rivolto all’entrata secondaria.

Accanto al cancello vide Elia, in piedi contro il parapetto con una sigaretta mezza consumata in bocca. Provò a salutarlo con la mano, ma lei stava dietro il tronco. Non avrebbe mai potuto vederla, sebbene fossero ad un paio di metri di distanza.

 Si guardava intorno, con aria circospetta. Si muoveva velocemente, con i nervi a fior di pelle.

Iari vide da lontano un ragazzo che gli si avvicinava. Non era molto più alto di Elia, ma aveva la pelle scura ed era ben piantato. Imbracciava una sacca scura con sopra una giacca di cotone pesante. Le sue guance erano spaventosamente incavate, come quelle di una salma.

Sembrava che non si lavasse da settimane. Iari lo vide avvicinarsi ad Elia e mettergli le braccia intorno al collo.

Poteva sentire approssimativamente parti del loro discorso.

“No, Elia, tu lo sai quanto costa quella roba ed io.. bè non posso certo piombare in casa di punto in bianco e chiedere i soldi a papà, così..”

“ Abbiamo già fatto questo discorso, non mi và di passare i guai perché tu devi comprare quella roba. Papà mi tiene d’occhio già da quando mi ha visto. Non ci passo di mezzo, capito?”

“Vaffanculo, Elia, cazzo di fratello sei? Sai che ti dico? Che sei un finocchio! PAPA’ HA RAGIONE DA VENDERE. Ma.. io me ne vado.. quella stronza se n’è andata. Ah, ci mancava solo questa. Questa vita non serve ad un cazzo!”

Le vene del collo gli si erano gonfiate. I suoi occhi sporgevano come se potessero esplodere da un momento all’altro.

“Senti Tommaso..”

“A te serve la vita? A cosa, poi? A prendere la media del nove quando tuo padre ti considera uno sputo nel creato? Oppure sgobbare per trent’anni per diventare uno spocchiosissimo avvocato di merda. A me la vita non serve, non mi serve!”

Il ragazzo si girò verso la strada, semideserta.

“Chi vuole una vita in svendita? Mille lire al chilo! Un bel guadagno, eh, Elia?” urlò a squarciagola.

Quando fu stanco abbastanza di gridare assunse l’aspetto smunto e cadaverico di quando era arrivato. Senza degnare il fratello di un saluto, scomparì dietro la prima curva.

Elia prese a calci il cancello. Era furioso. Ma poi ne ebbe abbastanza, e, forse senza nemmeno volerlo, scoppiò in un pianto silenzioso. Si sedette sul muretto, e strisciava i piedi per terra sollevando polvere. Quasi si vergognava per la propria debolezza.

Iari si alzò. Zoppicò in bilico sulle stampelle fino al parapetto e gli si sedette accanto.

Elia nascose il viso tra le mani. Iari gli prese le mani tra le sue e gli posò le labbra sulle sue labbra di tabacco.

Gli intrecciò le mani con le sue mani e attraverso le sue mani sentì tutto il dolore, attraverso le guance infuocate di pianto la sofferenza, e le lacrime che si facevano sue.

Scivolarono in ginocchio, e non aveva importanza quanto la ghiaia potesse ferire le ginocchia.

Premette forte le labbra sulle sue, le guance una sopra l’altra forte, così forte da mozzare il fiato.

Avvolse le sue braccia attorno alle sue spalle e premette i palmi contro la schiena.

Lui la circondò con le braccia e strinse gli occhi con gli occhi, le labbra contro le labbra, disperatamente, mentre le loro immagini si dissolvevano nella luce del primo pomeriggio.

 

Ormai aveva smesso di piovere. Le nuvole si erano diradate proprio mentre il sole tramontava.

Iari camminava cauta su un tappeto di foglie brune. Il terreno era talmente molle che le stampelle ci affondavano dentro. L’aria era pesante e cupa.

La sedia di Iari, di fronte alla quercia, era ancora gocciolante.

Lei appoggiò una stampella sull’albero accanto a sé e ci passò sopra un largo panno di feltro. Quando ebbe finito, pose un cartone proprio sotto la quercia. Sopra ci mise il quadro, per evitare che il terreno inumidisse la tela.

Lasciò l’altra stampella accanto alla prima e si sedette.

Estrasse il tubetto di porpora dalla borsa e ne versò poco su un piattino di plastica. Con il pennello, mescolò la sostanza ad una piccolissima quantità d’acqua. Ne venne fuori un composto scuro e vivace.

Le stelle avevano già riempito il cielo, quando anche il più piccolo angolo di tela fu colorato.

Le nuvole si erano allontanate piano mentre lo sguardo si Iari si concentrava sui movimenti del mantello. Senza che nemmeno se ne accorgesse, la notte l’avvolse.

Posò il pennello sulle ginocchia, senza preoccuparsi di sporcare il pantalone. Alzò il capo sopra di sé e scorse con gli occhi tutta la cupola del cielo. Erano giorni che non vedeva tante stelle e giorni che non le vedeva tanto scintillanti.

Quando ecco che un rumore la raggiunse da poco lontano, come il rumore di sasso gettato in acqua. Iari voltò la testa a quell’indirizzo. Una figura immobile, le mani strette attorno ad una canna da pesca di legno, la fissava oltre la quercia, dalla piccola radura di ghiaia.

Iari riconobbe il pescatore. Temette che scomparisse di nuovo. Così, mentre raccoglieva le stampelle e si tirava su, continuò a fissarlo.

Ma l’uomo non scomparì come Iari aveva predetto. Al contrario, vedendola avvicinarsi lanciò un fischio.

“Ehi, ragazza! Ti stavo aspettando, sai?”
Iari appoggiò tutto il peso del corpo sulla stampella.

“Andrete via?”

“ Stanotte stessa”

“ Non sarà pericoloso?” chiese Iari, subito mordendosi la lingua. Le sembrò di parlare con la voce di sua madre.

L’uomo si limitò a sollevare le sopracciglia in un’espressione scettica. La sua pelle sembrava così lucida che quasi si confondeva con le ombre pallide della luna.

“ Avete pescato una luna?”

Il pescatore ridacchiò bonariamente.

“ Eh... se è questo che vuoi sapere, nessuno di noi ha mai pescato la luna”

“Mai.. Davvero?”

“Mai”

“Ma allora, allora che senso ha stare qui ad aspettare?”

Il pescatore si fece serio.

“Prima o poi, che importanza ha? E se anche la luna fosse un miraggio, cosa conta? Un miraggio bianco giù in fondo al lago, attorno il buio. Cosa rimarrebbe di noi senza la luna?”

Iari sussultò.

“Voi inseguite qualcosa che non potrete mai avere! La vostra è solo una mezza vita! ”

Il pescatore avvicinò la sua faccia a quella della ragazza.

“ Ecco la sapienza dei ragazzi, il loro giudizio frettoloso. Tu dici che la nostra non è vita ma non hai mai provato a vedere la tua in uno specchio. E la tua, Iari, la stai affogando in quello che bevi quando nessuno ti vede quando senti il tuo spirito divorare l’anima”

Iari si ritrasse e nascose il viso tra le ginocchia. Come faceva quell’uomo a sapere delle sue abitudini?

Ma quando sollevò il viso l’uomo non c’era più. Al suo posto una brezza leggera le scosse i capelli.

Aguzzò lo sguardo verso la sponda opposta, ma dei pescatori di luna non c’era più traccia.

Erano partiti come l’uomo aveva promesso, quella notte stessa. Senza fagotti e senza mantello gli uomini della luna camminavano verso un altro porto. Iari immaginò il loro percorso silenzioso, tra deserti e città, figure evanescenti nella notte.

Mettendo una stampella davanti all’altra s’incamminò verso casa. Ogni tre passi gettava un occhio al quadro. Talvolta temeva che si bagnasse e cercava di sollevare il braccio a cui era appeso. Non le era affatto facile.

Aveva appena finito di risistemare la cinghia che vide un’ombra semi distesa tra gli aghi di pino e la schiena appoggiata alle sbarre del cancello. Iari si avvicinò.

Un ragazzo con i capelli castani un po’ troppo lunghi se ne stava con un braccio penzolante e l’altro appoggiato allo stomaco. Appoggiava stancamente la testa sulla spalla.

Elia.

Iari lo scosse piano con il piede. Sarebbe stato impossibile chinarsi, con quelle zavorre che si trascinava dovunque. Lui si svegliò e si mise lentamente in piedi. Iari aprì il cancello e lo fece entrare. Elia aveva i capelli stravolti, con delle ciocche che gli ricadevano sulle guance. Indossava gli stessi vestiti della mattina, e imbracciava ancora la borsa di scuola.

“Iari, scusami, ma ho avuto un piccolo litigio con mio padre, niente di ché” mentì cercando di assumere un atteggiamento disinvolto. “ Solo che.. solo che non mi andava di restare a casa”

Elia sorrise, e a Iari quel sorriso sembrò pieno di tutte le cose del mondo.

Tutte quelle cose che aveva amato, tutte le cose che le facevano male. Le stesse per cui sua madre aveva bisogno di credere in Dio e quella di Elia in un mazzo di carte Tutte quelle per cui Tommaso non avrebbe smesso di fare un altro tiro, poi un altro e un altro ancora. Quelle cose che stavano spingendo Mirko a smetterla di bere. E tutte quelle cose per cui Iari avrebbe promesso di pescare la luna.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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